The water is warm 'til you discover how deep

Egon and Sibylla | mattina | 10.04.2021

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    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.
    Le azioni descritte non sono ad ogni modo condonate e sono diretta responsabilità creativa di chi ha realizzato tali contenuti.


    Egon Gibson
    36|Poliziotto|Guarigione

    Non capiva tutte quelle persone che erano su di giri per quella dannata eclissi solare. Insomma, il sole finisce di brillare per un po', che grande evento! La sua vita ha finito di brillare già da un po' ma gli sembra che nessuno abbia deciso di salire su un carro e bere idromele e birra fino a scoppiare per festeggiare. Era a Besaid da ormai due anni e ancora non capiva i comportamenti dei suoi cittadini, quell’entusiasmo esagerato per qualsiasi tradizione che faceva capolino a cadenza annuale. Su un carro non vi era mai salito, di idromele e birra, invece, ne beveva in gran quantità, ma almeno lui era coerente: si ubriacava sempre e non solo in occasione di una cazzo di eclissi solare. I festeggiamenti erano terminati già da un paio di giorni, ma in centrale c’era ancora chi parlava di quanto fosse stato emozionante guardare dalla spiaggia il sole divenire improvvisamente scuro. Un mezzogiorno che sembrava più una mezzanotte. Ok, Egon ammetteva che ci fosse del bello in quel fenomeno quasi surreale, ma da qui a parlarne per giorni e giorni era un po' esagerato. Sarà che lui ormai osservava con disincanto tutto quello che gli accadeva intorno, ma non riusciva a trovare un motivo valido per tutto quell’entusiasmo. In mattinata, non appena aveva attaccato il suo turno da poliziotto annoiato, stanco senza aver fatto nulla e alcolista, aveva sentito due agenti di pattuglia parlarne. Due giovanotti, questo era sicuro, sbarbatelli e negli occhi avevano ancora quel luccichio caratteristico di chi non aveva ancora subìto alcun colpo sinistro dalla vita, con la giovinezza ancora in corpo e il mondo che, secondo loro, aveva ancora qualcosa di salvabile, era ovvio che una stupida eclissi sembrasse un grande evento degno di nota e, dunque, questo li giustificava a rompere i coglioni parlandone per giorni e giorni anche a chi, come Egon, non voleva saperne nulla.
    Il poliziotto non ha nulla contro l’eclissi solare, ce l’ha con la vita in generale. L’eclissi poteva essere anche uno scoiattolo che mangiava una ghianda e dava spettacolo in un parco pieno di bambini entusiasti; Egon ce l’avrebbe avuta con quello scoiattolo. Così come ce l’aveva con qualsiasi cosa e persona che gravitasse nella sua vita. Aveva una rabbia insita in lui con cui aveva imparato a convivere, l’aveva accettata facendola insidiare tra i suoi muscoli, nel suo sangue, negli angoli più danneggiati della sua anima, fino a divenire una cosa sola con essa. Non esisteva alcun pensiero dell’uomo che non contenesse un pizzico di rabbia indirizzata non agli altri ma a se stesso. Si sa che, quando si trova da criticare sempre le azioni altrui, questa insoddisfazione non è altro che il sintomo contorto del non essere contenti di se stesso. Ecco, Egon considerava se stesso un essere immondo, l’unica fonte dei suoi problemi, l’unico uomo con cui era veramente arrabbiato e contro cui avrebbe dovuto sfogare tutta la sua rabbia. Le sue spalle portavano il peso di un senso di colpa che non trovava pace, che non poteva guarire se non autopunendosi con la solitudine. Era solo, Egon, ed era l’unica cosa che gli dava un po' di sollievo dopo i peccati di cui si era macchiato in passato, dopo aver rovinato la vita delle persone che gli erano più vicine. Era una macchia indelebile, un marchio a fuoco che col tempo non si era cicatrizzato ma, anzi, continuava a bruciare. Non era esattamente uno stato d’animo allegro il suo e né, tanto meno, era il genere di persona che irradiava allegria verso le persone circostante. Egon non indossa una maschera che all’esterno lo fa apparire felice mentre dentro di sé è consumato da ogni sentimento più cupo che un essere umano abbia mai provato. Egon è così come appare: un uomo di bell’aspetto ma dal muso più lungo della Trump Tower. «Gibson, ti vuoi muovere a portare quelle scartoffie?» Il tenente Turner fece capolino sulla porta che dava ad un cortile interno della centrale, dove Egon aveva deciso di fumare una sigaretta in santa pace fregandosene altamente del fatto che quel fascicolo più o meno sottile che portava sotto il braccio, doveva essere consegnato con una certa urgenza alla criminologa che, quel giorno, aveva deciso di onorare la centrale di Besaid con la sua presenza. «Agli ordini!» Egon scimmiottò un banale richiamo all’ordine, senza curarsi del fatto che, con quel suo atteggiamento menefreghista, in centrale non erano in molti che tolleravano la sua presenza. Dopotutto era convinzione diffusa che Egon, quel posto, non se l’era guadagnato ma gli era stato assegnato per pura pietà, perché considerato un eroe di guerra che altrimenti, una volta tornato dall’Afghanistan, sarebbe rimasto disoccupato a vita. E non c’era nulla di male…se solo la sua vita fosse stata breve! E invece no, Egon sembrava destinato a vivere ancora per lungo tempo, nonostante lui desiderasse morire ogni mattina non appena apriva gli occhi. Buttò la sigaretta, ormai quasi finita, dentro uno di quei cestini appositi che riempivano la centrale e, poi, tentò di reprimere quel bisogno di ingerire un qualsiasi alcolico, come ormai faceva da troppi anni ad ogni ora del giorno. Solitamente riempiva le bottigliette d’acqua con un qualche alcolico e lo mandava giù come fosse nulla, ma quella mattina non ricordava proprio dove aveva lasciato la sua bottiglina, dopotutto Egon si alzava già ubriaco, è normale che dimentichi dove lascia le cose. Avevo comunque fatto scorta prima di entrare in centrale, bevendo un bicchierino già di prima mattina, come si beve il caffellatte a colazione. L’odore alcolico che emanava era inconfondibile, ma a lui poco importava. Procedeva nella sua vita con un vago senso si rassegnazione, schiavo di quella sensazione che si diffondeva sulla bocca dello stomaco ogni qualvolta il senso di colpa si ripresentava e trovava conforto solo sul fondo di tante, troppe bottiglie di birra, di vino, di vodka o di qualsiasi altro liquido in grado di fargli perdere il senso della ragione facendolo distaccare dalla realtà in cui viveva. Non era particolarmente legato a nessuna persona che popolasse la centrale di polizia, di conseguenza nessuno aveva capito che Egon era un alcolista irrecuperabile, o almeno lui pensava questo sia sul fatto che nessuno lo aveva capito sia sul fatto che fosse irrecuperabile. I suoi occhi spenti e lucidi parlavano chiaro e, prima di andare da quella benedetta criminologa, Egon pensò che fosse il caso di fare un bel respiro, per lasciare che un po' di aria pulita gli entrasse nei polmoni e, magari, ossigenasse il suo corpo che era fatto al 10% di sangue e al 90% di alcool. Nonostante la bella stagione fosse alle porte, il cielo di Besaid era coperto da nuvole che presagivano l’arrivo della pioggia e, se c’era una cosa della città che piaceva ad Egon, era proprio quel meteo che gli ricordava tanto la sua Boston e di cui aveva costantemente nostalgia. A Boston c'era la sua famiglia mentre a Besaid non c'era nessuno. Certo, Bellatrix poteva essere annoverata tra le persone che erano riuscite ad entrare tra le sue simpatie ma il punto era Egon, in realtà, non sapeva ancora come classificarla. Si ritrovava a pensare a lei, qualche volta, sin dal giorno in cui si era occupato del servizio di sicurezza per lei. Se si aprisse la parentesi su Egon e le donne probabilmente non si chiuderebbe più, ciò che è importante sapere è che l'ex soldato sta lontano dalle donne in maniera direttamente proporzionale a quanto sta vicino agli alcolici quindi, se quella donna appare spesso nella sua testa, vuol dire che qualcosa non va. Qualcosa nella sua rigida organizzazione basata sulla totale solitudine non stava funzionando, e chi aveva innescato il corto circuito era Bellatrix. Ma Egon avrebbe preferito tornare in Afghanistan piuttosto che approfondire quello strano sfarfallio all'altezza del petto che arrivava non appena pensava alla donna. Distoglie lo sguardo dalle nuvole grigiastre e si decide a rientrare per far finta di svolgere il suo lavoro. E pensare che il suo turno era iniziato da solo poco più di un’ora. Percorre un corridoio schivando qualche suo collega, prima di giungere a destinazione, con quella divisa che indossa perché deve non perché gli piaccia particolarmente. Non c’è proprio nulla che gli vada a genio, critica tutto. Bussa alla porta ed entra senza attendere risposta, sollevando la mano in cui portava il fascicolo pieno di scartoffie che, per fortuna, non doveva leggere lui. «Ho qui il fascicolo che ha chiesto, penso ci sia tutto quello che le serve.» Si, buongiorno, come sta? Tutto bene? Egon non perdeva tempo con le frasi di circostanza, andava dritto al punto perché tanto non gli importava un bel niente di stare simpatico agli altri, men che meno a quella criminologa che poteva essere bravissima, ma fisicamente era molto più bassa di lui e quasi faticava a prenderla sul serio. Che Egon deve sempre criticare qualcosa è stato già detto? «Ha bisogno di altro?» Domanda poi, giusto per fare la parte del bravo poliziotto non perché volesse veramente dare una mano alla donna che, dall’espressione risoluta che aveva in volto, sembrava sapere alla perfezione cosa avrebbe fatto. Lui, dal canto suo, attese una sua risposta mentre aveva le mani sui fianchi, con la faccia di chi poteva sentirsi dire qualsiasi cosa che tanto non gli avrebbe fatto alcun effetto.

    Edited by behati. - 10/4/2021, 22:02
     
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    (La colonna sonora di Sibylla
    che sclera gentilmente offerta da:
    Labrinth x Euphoria)

    Le veniva ormai quasi meccanico svolgere il proprio lavoro. In realtà era come se non staccasse mai per davvero la spina, lei che per istinto e professione non faceva altro che continuare ad analizzare ogni cosa, ogni aspetto materiale e non di quella vita che si era costruita pezzo dopo pezzo tutto intorno seguendo delle regole ben precise. Ci poneva una minuta attenzione, coglieva particolari laddove magari per altri era appena più difficile scorgere. S'impuntava, testarda, e cercava per trovare l'ago nel pagliaio, proprio lì dove molti altri prima di lei si arrendevano già stanchi. «Okey, dalle analisi e i test psicologici si evince chiaramente quest'enorme lacuna d'autostima e la conseguente ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa possa riempirla. Non è affatto raro che il desiderio di avere i figli accanto può diventare un tentativo inconscio di considerarli una parte del proprio sé incompleto e frammentario.» spiegò Sibylla, facendo il giro della scrivania così da ritrovarsi di fronte alla grande lavagna magnetica. Si voltò quindi a guardare i suoi interlocutori, la detective Hagen - cui la legava un rapporto puramente professionale, nonostante i molteplici casi a cui si erano ritrovate a lavorare insieme -, l'agente Bryne e il magistrato assegnato loro, Mikael, che Sibylla conosceva ormai da diverso tempo e con cui sembrava ritrovarsi sempre piacevolmente a lavorare. Col pennarello stretto fra dito indice e medio, sollevò la mano all'altezza delle foto appese alla lavagna dietro di sé e andò ad indicare per prima quella della donna sospetta e, lasciando che il tappo dell'edding nero strisciasse sulla superficie liscia e bianca, abbassò lentamente il braccio per fermare, improvvisamente, la mano a metà altezza, laddove vi era la foto del piccolo Charlie, secondo Sibylla plausibilmente assassinato dalla sospettata. Eppure, sebbene fosse capace di trarre le proprie deduzioni tramite le informazioni o gli studi a lei forniti, la criminologa mai si permetteva d'esprimere un'opinione vera e propria, in quanto quello non era e mai sarebbe stato il suo compito. La sua figura, più che altro appunto informativa e di sostegno alle indagini, non aveva alcun reale potere decisionale, se non quello di constatare principalmente lo stato mentale degli individui coinvolti e lo studio della scena del crimine, fornendo agli enti competenti il risultato delle proprie ricerche. «Con l’aiuto del bambino la madre corre il rischio di voler riempire le lacune della propria personalità e ciò significa che già in partenza, sempre a livello inconsapevole, va incontro al bambino esigendo qualcosa da lui.» continuò a spiegare, senza mai fermare il modo in cui, gesticolando con le mani, esprimeva i propri concetti anche attraverso il proprio corpo, la propria postura. «Questo è ancora tutto da confermare però, purtroppo sto ancora aspettando il fascicolo con le informazioni della cartella clinica richiesto ieri. Lì ci sono tutti i risultati dei test svolti.» si ritrovò a dire con tono piuttosto serio e contrariato mentre, con le sopracciglia corrucciate, abbassava lo sguardo sull'orologio dal cinturino metallico che aveva attorno al polso. Sospirò appena quando, allontanandosi di nuovo dalla lavagna, lasciò cadere l'edding nero indelebile sulla scrivania che la separava dagli altri. Quando poi qualcuno bussò alla porta di quell'ufficio all'interno del quale si accomodava quando le veniva chiesto lavoro di consulenza in centrale, sollevò lo sguardo giusto in tempo per catturare, prima che la figura di un uomo in divisa, la forma rettangolare del fascicolo che questo, finalmente e con un paio di ore di ritardo, le portava in consegna. Che non fosse esplicitamente lui il problema Sibylla lo sapeva perfettamente, ma la lentissima burocrazia che ormai la donna ben conosceva (motivo per il quale aveva richiesto il fascicolo il giorno prima, consapevole le sarebbe stato recapitato non prima di quel pomeriggio) la faceva innervosire tanto quanto una casuale briciola di pane finita accidentalmente e senza senso sul tessuto scuro e pulitissimo del suo divano. «Ho qui il fascicolo che ha chiesto, penso ci sia tutto quello che le serve.» udì le parole dell'agente e solo allora sollevò le iridi verdi per posarle su di lui: ciò che trovò su quei lineamenti piuttosto spigolosi e nella postura alquanto compiaciuta non le piacque affatto, così, d'impatto e a primo acchito, Sibylla si ritrovò ad inarcare le sopracciglia, un po' stupita dalla figura dell'uomo che, imponendosi in quello che era momentaneamente una sorta di ufficio riservato a Sibylla e alla squadra con il quale stava elaborando le teorie del caso d'omicidio, la guardò con l'aria di chi si crede falsamente superiore. «Alla buon'ora.» sentenziò lei, drizzando la schiena e, dopo aver sciolto la presa delle mani dai propri fianchi, prese ad avanzare in direzione dell'agente per andare a raccattare il fascicolo tanto atteso. Sapeva perfettamente, Sibylla, di non essere sempre vista di buon occhio all'interno della centrale: con alcuni andava d'accordo, con altri un po' meno. Sapeva anche di quanto Deborah, ora in piedi dietro di lei, potesse mal apprezzare i modi un po' schietti e pretenziosi di Sibylla, per questo però non gliene aveva mai fatto una colpa. Ironicamente, la detective le piaceva anche, proprio perché non si risparmiava dall'affrontarla, prendeva le proprie posizioni anche quando queste erano totalmente opposte a quelle di cui si faceva carico Sibylla. Si scontravano ogni tanto, ma tornavano sempre sul piano professionale senza troppi giri di parole o comportamenti immaturi, e quella era una delle qualità che Sibylla più apprezzava, sopratutto sul campo lavorativo. E fu forse la totalità contraria che vide sul viso e nella postura di quell'agente che la spinse a credere esattamente il contrario di lui: maturità? poca. Irresponsabilità? Troppa. Il lavoro, per Sibylla, era qualcosa di terribilmente serio e che qualcuno nelle sue immediate vicinanze facesse di tutto per dimostrare il contrario era assolutamente inaccettabile ed inconcepibile. «Ha bisogno di altro?» le domandò, sposando il peso da un piede all'altro mentre posizionava con noncuranze le mani sui propri fianchi, nella falsissima attesa di una domanda o un simil ordine. Quando gli fu abbastanza vicina da poter posare le dita sul fascicolo così da aprirlo frettolosamente e dare un'occhiata alle informazioni contenute, un odore acre le pervase le narici. Per una sempre sull'attenti e analitica come Sibylla, quello fu il segnale che non avrebbe potuto far finta di aver recepito. Meccanica, sollevò il viso distogliendo lo sguardo dal fascicolo aperto fra le mani, così da posare le iridi verdognole sul viso ritassato dell'uomo ancora in piedi e in attesa di fianco a lei. Sospirò pesantemente, come chi lascia andare via non solo molecole d'ossigeno di troppo trattenute a lungo dentro al petto, ma anche sensazioni spiacevolmente nervose che avrebbero iniziato a camminare sotto la cute e attraverso le pareti di ogni singola venatura del suo corpo. Portò i palmi delle mani a chiudere improvvisamente il fascicolo, tac, appena prima di farlo ricadere con poca eleganza sulla scrivania che aveva di fianco. «D'accordo, tutti fuori. Per cortesia - no, tu no.» si ritrovò a dire inizialmente in direzione di Deborah, Ali e Mikael, voltandosi improvvisamente verso di loro così da dare le spalle all'agente che si era avventurato poco prima sfortunatamente all'interno della stanza e al quale si rivolse con tono inasprito verso la fine della frase. Sollevò in fretta una mano, abbassando lo sguardo senza però voltarsi alle proprie spalle, là dove aveva lasciato l'uomo, in piedi, la cui presenza ora avvertiva farsi stranamente troppo lontana, quindi in procinto di sfuggire forse dalle grinfie di Sibylla prima del tempo. «Stop.» rincarò la dose, voltandosi debolmente nella sua direzione così da lasciare via di fuga ai colleghi mentre si avvicinavano all'uscio per oltrepassarlo. «Detective Hagen, chiuda la porta, per favore. Grazie.» indicò nella sua direzione con tono appena più ammorbidito mentre, ora faccia a faccia con l'agente, si ritrovò sola con lui nella stanza, la puzza d'alcool impossibile da non inspirare a quella distanza ravvicinata.
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    Che fosse più alto di lei, che fosse uomo, che gli importasse poco del lavoro o di quello che Sibylla gli avrebbe detto, poco contava per lei, che a ricomporre fratture o correggere atteggiamenti sbagliati ci prendeva forse sempre troppo gusto. «Qual è il problema, agente... - s'interruppe, leggendo poi il nome sulla divisa. - Gibson?» disse, sollevando lo sguardo su di lui senza alcun timore. «Ti ha lasciato la ragazza? Il ragazzo? Sei depresso?» domandò, corrucciando le sopracciglia in un'espressione falsamente preoccupata. «Oh, forse sono troppo insensibile, magari invece hai qualche serio problema personale.» si ritrovò a dire con tono di voce decisamente più dispiaciuto, così tanto dispiaciuto da risuonare teatrale. Si portò una mano al petto, premendosela contro e lasciando che le spalle si sciogliessero appena in una posizione più tranquilla e pacata. Il tutto durò ovviamente forse tre secondi, perché trascorsi quelli Sibylla tornò ad incrinare diavolmente le sopracciglia e l'espressione facciale si fece decisamente meno amabile e amichevole. «La puzza di alcool ti ha impregnato pure i vestiti, se restassi chiuso in questa stanza per qualche minuto di più impesteresti persino la carta da parati.» commentò inasprita mentre sollevava le braccia per intrecciarle davanti al petto. «Spero non vada avanti da tanto, altrimenti mi chiederei come sia possibile che nessuno ti abbia spedito fuori a calci in culo.» sentenziò ancora, serissima. «Sei un agente di polizia, non la cavia da laboratorio di una distilleria, dov'è la tua dignità professionale?» domandò, retorica, dato che della risposta davvero poco le importava. Sciolse il nodo di braccia che aveva davanti al busto e si smosse appena compiendo qualche passo per allontanarsi da lui e fargli segno di sedersi alla sedia posizionata in prossimità della scrivania. Poi lei fece il giro e, restando in piedi, posò i palmi delle mani aperte sulla superficie del tavolo che ora li divideva. «Allora, agente Gibson, cosa hai intenzione di fare al riguardo? A me non costa proprio niente segnalarti a chi di dovere.» sentenziò, ora con un tono di voce decisamente più calmo e pacato, mentre lo sguardo affilato non perdeva Egon di vista neanche per un secondo.

    AMATECI UGUALE ANCHE DOPO QUESTO BULLISMO, CIA'. :frusta:
     
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    Egon Gibson
    36|Poliziotto|Guarigione

    Nonostante Egon si sentisse addosso responsabilità di un passato che aveva lasciato cicatrici ancora fresche, di fatto non aveva mai affrontato il frutto della sua solitudine. Il poliziotto sapeva quali erano le sue colpe, forse si era fatto carico anche di quelle non sue, ma il punto era che non aveva mai avuto un faccia a faccia con qualcuno o qualcosa che gli desse conferme. Ogni colpa, ogni responsabilità, ogni peso sulle spalle provenivano da una sola voce: la sua. Chiudendosi a riccio e lasciando fuori il resto del mondo, Egon aveva azzerato ogni possibilità di confronto, che fosse essa positiva o negativa. Non aveva ascoltato nessuno che lo sollevasse dalle proprie responsabilità così come non aveva ascoltato nessuno che invece gli aprisse gli occhi e gli dicesse che era ora di svegliarsi e di smetterla di sguazzare in quel mare di autocommiserazione in cui si era infilato senza alcun motivo. Il poliziotto era circondato dalla piena solitudine e non ne era dispiaciuto, tuttavia non si rendeva conto che in tale maniera aveva una visione di se stesso quasi distaccata dalla realtà, non importa che essa fosse troppo positiva o troppo negativa. Alla stessa maniera Egon non percepì come il suo atteggiamento distaccato potesse apparire presuntuoso non appena entrò in quella sala adibita apposta per la criminologa che, al momento, non ricordava ancora come si chiamasse. L’alcool che aveva costantemente in circolo gli impediva di godere di buona memoria, l’unica cosa che riusciva a ricordare erano gli avvenimenti più tristi e dolorosi del suo passato. Se solo avesse fatto entrare qualcuno nel suo guscio di riccio, probabilmente si sarebbe scoperto che dietro quella facciata spigolosa non c’era altro che un uomo provato dal dolore della vita, ma siccome la pietà non ha mai affascinato Egon, preferiva continuare a sfoggiare quella faccia da stronzo alcolizzato, perché così tutto era più facile. «Alla buon'ora.» La criminologa nana si atteggiava a padrona non solo di quell’ufficio ma del mondo intero, ed Egon glielo lasciò fare perché stanco com’era dell’umanità, non aveva alcuna intenzione di iniziare a parlare o discutere con qualsiasi essere umano gli fosse intorno. Sorvolò su quella accoglienza al vetriolo e domandò, più per dovere che per gentilezza, se la squadra capitanata dall’elfo malefico avessi bisogno d’altro, con quelle mani sui fianchi che di certo non lo facevano sembrare più gentile e disponibile o, peggio, dedito al suo lavoro. Non era un profiler, Egon, né aveva una dote particolare che gli permettesse di leggere nel pensiero altrui per fortuna. Già non sopportava le persone, figurarsi se avesse ascoltato anche le loro menti! Probabilmente si sarebbe suicidato e ne sarebbe stato anche felice. Insomma, il punto è che, nonostante non capisse un cazzo di linguaggio del corpo, riuscì ad intuire comunque che qualcosa nella donna in miniatura non andava. Forse le scarpe che indossava avevano fallito nel donarle qualche centimetro di altezza in più, nella mente di Egon si susseguirono tante possibilità e tutte inverosimili. «D'accordo, tutti fuori. Per cortesia - no, tu no.» Quasi era sollevato che fosse terminata quella parentesi grottesca della sua giornata e stava per uscire dall’ufficio come un razzo, finché la nana non gli intimò di rimanere, con una certa autorità…pensava davvero che qualcuno potesse prenderla sul serio bassa com’era? Cosa volesse da lui, poi, non poteva neanche immaginarlo. Era sicuro di non averle mai chiesto soldi in prestito, quindi non c’era il pericolo che dovesse restituirle qualcosa. A quel punto lo sguardo del poliziotto si fece curioso, in realtà la sua espressione sembrava quasi formare un punto interrogativo tanto che non stava capendo quello che stesse passando nella mente della donna. «Per caso mi ha scambiato per qualcuno di sua conoscenza? Ho una faccia molto comune.» Dice tranquillo, non appena l’ultima persona si chiuse la porta alle spalle. Forse la nana pensava fosse un suo ex? Con il cervello femminile non si sa mai cosa aspettarsi, lo stava imparando pian piano, avendo a che fare con Bellatrix che nel giro di due minuti riusciva a dirgli e a proporgli almeno venti cose diverse. Ridacchiò, più per scherno che per sano divertimento, quando la donna iniziò a fare quella scenetta su quale fosse il suo problema. Non ci sarebbe cascato nemmeno lui, che di ironia e sarcasmo ne capiva ben poco. Le sue mani si sciolsero dai fianchi per incrociarsi sul petto. Seppur stesse ridacchiando, Egon si era messo sulla difensiva. Non sapeva dove volesse andare a parare Ludmilla, ma sapeva che quell’atteggiamento non gli stava piacendo. «La puzza di alcool ti ha impregnato pure i vestiti, se restassi chiuso in questa stanza per qualche minuto di più impesteresti persino la carta da parati.» Era indifferente a tutto e tutti il poliziotto, ma comunque non era fatto di pietra gelida e, difatti, quelle parole a bruciapelo lo colpirono più di quanto non volesse ammettere a se stesso. Egon credeva di averla fatta franca, era convinto che nessuno in centrale se ne sarebbe mai accorto e che poteva continuare ad annegare nell’alcool senza che nessuno gli rompesse il cazzo con sermoni vari. E tutto stava filando liscio come l’olio finché non era arrivata Barilla.
    «Ha finito con questo sermone degno di Colombo che ha scoperto l’America rompendo le palle a quelli che già vivevano in quella terra, o vuole continuare ad oltranza?» Era un uomo di poche parole, dopotutto vivendo in piena solitudine non aveva modo di parlare spesso, c’è da dire però che quando apriva bocca riusciva a colpire nel segno. Non era offensivo, più che altro ci teneva che la sua vita privata rimanesse tale e nemmeno Giuditta aveva il diritto di invaderla. «Vuole che le faccia i complimenti perché è l’unica, in due anni, ad aver fatto una scoperta del genere?» Batte le mani una contro l’altra, mimando un breve applauso. Non aveva nulla da perdere e non gli importava che stesse rispondendo male a qualcuno che poteva farlo licenziare da un momento all’altro. Avrebbe cercato un altro lavoro, uno qualsiasi che gli avrebbe permesso di continuare a trascinarsi con rassegnazione in quella vita ormai vuota. «Oh, forse è l’unica ad averlo scoperto perché, mentre gli altri in centrale si concentrano sul proprio lavoro, lei invece deve ficcare il naso nella vita altrui.» Uno yogurt acido sarebbe stato più dolce, ma visto il caratterino che aveva di fronte non poteva comportarsi in maniera più tenera. Sbuffò una risata quando la criminologa lo invitò a sedersi sulla sedia dietro la scrivania. «Sono sotto interrogatorio? Devo chiamare il mio avvocato?» E’ un’ironia amara quella di Egon, non di certo divertente, mentre asseconda la donna solo nella speranza che quel teatrino ridicolo finisca al più presto e lui possa tornare a farsi gli affari suoi fino alla fine del turno. «Allora, agente Gibson, cosa hai intenzione di fare al riguardo? A me non costa proprio niente segnalarti a chi di dovere.» La guardò dritto negli occhi chiedendosi dove diamine appoggiasse tutta quella sicurezza di avere nel proprio palmo di mano la vita di un uomo che non aveva mai visto prima. Cosa aveva intenzione di fare? Un bel niente! Non avrebbe cambiato il suo stile di vita solo perché una Barilla qualsiasi si era resa conto che lui beveva durante gli orari di lavoro. «Mi vuole dire che lei è così dedita al lavoro e non ha mai fatto uno strappo alla regola? Cos’è? Un robot?» Il tono di voce del poliziotto era calmo, nonostante dalle sue labbra non uscissero parole proprio gentili. A questo punto si trovava dinanzi ad un bivio: poteva continuare a rispondere per le rime alle non tanto velate minacce della donna, oppure poteva darle il contentino illudendola che si, avrebbe smesso di bere e bla bla bla, e poi avrebbe fatto comunque come voleva lui. Ticchetta con le dita sulla scrivania, non abbassando lo sguardo da quello di Sibylla nemmeno per un secondo. E’ un dialogo tra testardi, quello. «Non basta che io faccia il mio lavoro senza alcun danno? Ogni giorno vengo qua e svolgo il mio dovere, se per lei non è sufficiente non berrò più una goccia nell’orario di lavoro, contenta?» Aveva preso una via di mezzo, tra il testardo e il contentino. Voleva solo che quell’incontro finisse al più presto, non aveva bisogno di una persona che gli insegnasse come si stava al mondo. Di certo, però, Egon era sgomento. Per la prima volta qualcuno lo stava affrontando a muso duro e gli stava dicendo che quel continuo bere non andava bene. Una voce esterna gli stava sbattendo in faccia la realtà e lui non capiva come sentirsi a riguardo.
     
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    (La colonna sonora di Sibylla
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    Non le piacque affatto. Niente di quello sguardo, quella postura, quelle parole, niente dell’agente Gibson in generale le piacque, e cosa faceva Sibylla con ciò che non le piaceva? Facile: s’impuntava così tanto da far in modo che o cambiassero, o sparissero nel nulla, puff, magicamente via e lontano dai suoi occhi e un po’ dagli occhi di tutti. Qualcuno forse ne avrebbe saputo qualcosa. Se poi si trattava di parti del suo lavoro, bé, davvero impossibile lasciar andare. «Per caso mi ha scambiato per qualcuno di sua conoscenza? Ho una faccia molto comune.» già dalla prima risposta l’agente Gibson si rivelò decisamente inappropriato ed irresponsabilmente irrispettoso. Certo, non una delle sue qualità peggiori, si disse fra sé e sé Sibylla, che ad immaginare l’altra marea dei suoi lati sicuramente più negativi non ci impiegò poi troppo. Immaginarselo al di fuori di quell’ambiente le venne piuttosto facile, dopotutto non si trattava d’altro che di un’anima solitaria, impossibile provare pena per qualcuno che dichiara al mondo a quel mondo d’esser triste senza neanche dover aprire bocca, perché dalla prospettiva della criminologa non vi era poi tanto altro: un uomo solo, triste, incapace di affrontare la vita di petto e così passivo da lasciarsi attraversare da essa senza batter ciglio, con la lingua affogata nell’alcool, la più spregevole delle cure, o forse malattia stessa. Si stupì nel ritrovarsi probabilmente ad essere la sola o quantomeno la prima ad avanzare delle spiegazioni dall’agente, non in quanto essere umano sicuramente pressato da problemi personali, ma come dipendente dello stato, figura importante a livello civile e di sicurezza. «Ha finito con questo sermone degno di Colombo che ha scoperto l’America rompendo le palle a quelli che già vivevano in quella terra, o vuole continuare ad oltranza?» non esitò a risponderle, il ragazzo, che ovviamente deviò la richiesta di Sibylla e restò in piedi a braccia conserte con aria di sfida, occhi che bruciavano dal nervosismo nonostante la nonchalance che voleva invece mostrarle. Era stato preso alla sprovvista e questo Sibylla poteva notarlo con facilità, esperienza di una vita intera passata a leggere le persone. Nonostante questo però, l’agente Gibson non si risparmiò proprio nessun commento e, attaccato, si difese a spada tratta. «Vuole che le faccia i complimenti perché è l’unica, in due anni, ad aver fatto una scoperta del genere? Oh, forse è l’unica ad averlo scoperto perché, mentre gli altri in centrale si concentrano sul proprio lavoro, lei invece deve ficcare il naso nella vita altrui.» continuò allora lui, prendendo ad applaudire con finto entusiasmo. Inarcò le sopracciglia, Sibylla, drizzando la schiena con fare un po’ incredulo e divertito. «Che me ne faccio dei complimenti di un alcolizzato, prego?» rispose, scrollando appena le spalle. «Magari qualcun altro se n’è accorto e sta solamente aspettando che finisci di ammazzarti da solo, ci hai pensato? Perché è questa la fine che farai, presto o tardi.» sentenziò lei di rimando, chinando appena la nuca nella sua direzione. «Mi vuole dire che lei è così dedita al lavoro e non ha mai fatto uno strappo alla regola? Cos’è? Un robot?» domandò ironico ancora lui, mantenendo un tono di voce tranquillo e quasi lineare. «Non si tratta di fare errori, qui non si parla di fare strappi alla regola. Tu hai un problema, ed è serio. Riconoscerlo è il primo passo, provaci ogni tanto.» continuò Sibylla staccando quindi le mani dalla superficie fredda del tavolo che li separava e mimando le virgolette verso la fine della frase. Sicuramente erano due persone completamente differenti, due menti decisamente scostanti, quella di Sibylla ed Egon, e a trovare un punto d’incontro non ci sarebbero mai riusciti neanche a provarci milioni di volte, ripetutamente. Non era un robot, ma effettivamente era stata cresciuta come se lo fosse, le era stato insegnato ad essere dedita al lavoro e non solo per dovere, ma per soddisfazione personale e perché quella era sempre stata la cosa giusta da fare, un impegno cui aveva dedicato la propria vita e di cui mai in tutto quel tempo si era pentita. Non esigeva certamente di ritrovare lo stesso spirito anche in tutti coloro che incontrava sul proprio cammino, ma chi incrociava la sua strada aveva, per lei, l’obbligo di essere alla sua altezza. Alquanto presuntuosa, lo sapeva bene, eppure restava fedele sempre a sé stessa e al proprio credo. «Ciò che fai, bere sul posto di lavoro, è da irresponsabile ed immaturo. Sei una persona irresponsabile e immatura? Vigliacco e debole da non riuscire a darti una controllata?» aggiunse aspra ma con tono di voce pacato. «Non basta che io faccia il mio lavoro senza alcun danno? Ogni giorno vengo qua e svolgo il mio dovere, se per lei non è sufficiente non berrò più una goccia nell’orario di lavoro, contenta?» tagliò corto l’altro allora, quasi a volerle dare un contentino. Una risata piuttosto amara venne via dalle labbra di Sibylla nell’udire le ultime parole del suo interlocutore, trovandolo tutt’altro che interessato a fare esattamente ciò che diceva. «La centrale non è un posto per uno come te, non è un parco giochi. Non mi interessa cosa farai quando uscirai da questa porta, te lo dico chiaramente. Da questo momento hai due opzioni: dare le dimissioni oppure…» e s’interruppe per dargli le spalle e avvicinarsi alla borsa, all’interno della quale infilò una mano per estrarre un biglietto da visita sul quale la scritta Dr.ssa Astrid Nilsen troneggiava fiero nero su bianco, di sotto indirizzo e numero di telefono. Si voltò nuovamente verso Egon e, circumnavigando il tavolo che li separava, gli allungò il pezzettino di carta bianco facendogli cenno con il mento di afferrarlo. «…questa è la tua unica e competente carta di buon’uscita.» aggiunse, seria, mentre scrollava lentamente le spalle e ammorbidiva di poco lo sguardo. «Più gli Alcolisti Anonimi, ovviamente.» disse ancora. Per lei non era alcuno scherzo, alcun gioco, il suo mestiere e la propria indole glielo avrebbe sempre impedito. «Puoi chiamarmi ficcanaso, puoi prendermi per il culo quanto ti pare, puoi continuare a distruggerti il fegato e anche la vita per quanto mi riguarda, ma non lo farai qui dentro, non finché ci metto piede io. Per me non sei nessuno così come io non sono nessuno per te. L’unica differenza è che basta una mia parola al di fuori di quest’ufficio e domani non ti rimane niente, neanche uno spicciolo per affogare la tua vergogna in una bottiglia di scotch.» aggiunse seria, il braccio ancora teso nella sua direzione con il biglietto da visita stretto fra dito indice e medio. Attese che facesse qualcosa, che lo afferrasse o meno avrebbe equiparato una decisione, quella che forse avrebbe ritenuto lui più giusta, poco importava. Sibylla era pronta a mettergli i bastoni fra le ruote in un caso o nell’altro, la mania del controllo le aveva salvato la vita molte volte, forse in quel frangente avrebbe anche salvato quella di Egon Gibson. O sarebbe stato chiedere troppo? Paladina della giustizia, ficcanaso senza alcun limite, Sibylla poneva Egon ad un bivio, senza forzarlo a scegliere, ma costringendolo ad accettare le conseguenze delle sue decisioni, da quel momento in poi. Era finito nel suo mirino e almeno per un po’ di tempo ancora non si sarebbe tolto gli occhi di Sibylla di dosso neanche a pregare Dio per un miracolo. Invischiata un po’ nella polizia, nel governo e anche nell’Università di Besaid, istituzioni di un certo peso, Sibylla aveva ormai da anni imparato a muoversi in quegli ambienti, facendosi non solo un nome, ma anche una rispettabile reputazione soprattutto a livello lavorativo e una fitta ed invidiabile rete di conoscenze. «E comunque sono certa che Colombo ha avuto molta più soddisfazione di me scoprendo l’America, io ho solo un buon olfatto e tu sei stato sfortunato.» aggiunse, critica, sospirando appena mentre tornava ad afferrare fra le mani il fascicolo che l’altro le aveva consegnato solo poco prima.
     
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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [discussione estesa di dipendenze da alcool].
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.
    Le azioni descritte non sono ad ogni modo condonate e sono diretta responsabilità creativa di chi ha realizzato tali contenuti.


    Egon Gibson
    36|Poliziotto|Guarigione

    Quantificare quanto Egon non sopportasse le persone che si facevano gli affari suoi era pressoché impossibile. Uno come lui, che odiava la socialità ed ogni tipo di rapporto amicale, aveva una rigorosa visione dei limiti che si potevano oltrepassare quando si iniziava un’amicizia, una conoscenza o un rapporto di qualsiasi altro genere. Nel suo caso, poi, quei limiti erano invalicabili e segnati da massicce mura che non avevano alcuna intenzione di aprirsi, offrendo uno spiraglio di luce agli altri. Aveva i suoi svariati motivi per essere così, alcuni giustificabili e altri meno, ma rimaneva il fatto che, in soldoni, Egon non sopportava chi si faceva i cazzi suoi. Il ragionamento nella sua testa era semplice: se lui non rompeva le palle agli altri, ficcando il naso nei loro affari, non capiva perché gli altri dovessero ficcare il naso nei suoi. Era una semplice consuetudine non scritta del vivere civile, si meravigliava del fatto che ancora esistesse gente che non la rispettava. Come la nana lì, Sibylla. Nell’ottica di Egon, lui stava solo facendo il suo lavoro e lei aveva dovuto interrompere tutto per quale motivo? Per farsi gli affari suoi. Già dalle prime battute il poliziotto comprese dove la donna volesse andare a parare, per questo prese tempo facendo il finto tonto, mostrandosi anche un po' infastidito, perché no, dopotutto aveva il diritto di rivendicare la sua privacy e la sua libertà a vivere come meglio credeva, a patto che la sua vita non ledesse quella degli altri. Ed Egon, bevendo, non faceva male a nessuno, solo a sé stesso. Su questo doveva convenire la criminologa minuta che si comportò col poliziotto come se, in confronto a lui, fosse alta almeno due metri in più, incurante del fatto che Egon avrebbe potuto spingerla via, se solo avesse voluto. Ma Egon non voleva. Egon non voleva infliggere più dolore, dopo che lo aveva fatto già abbastanza in passato. Egon ormai si lasciava trascinare dagli eventi, dagli insulti, dalle ramanzine, ostentando un atteggiamento rassegnato e passivo, poco gli importava che potesse infastidire le persone come Sibylla. «Magari qualcun altro se n’è accorto e sta solamente aspettando che finisci di ammazzarti da solo, ci hai pensato? Perché è questa la fine che farai, presto o tardi.» La determinazione della donna nel smascherarlo, però, lo infastidì particolarmente tanto dal decidere di risponderle per le rime. Nonostante volesse lasciarsi trascinare dagli eventi, nulla impediva ad Egon di usare la parola per difendersi da quelle accuse che, dopotutto erano vere, ma che nessuno mai aveva voluto rendere concrete affrontando il problema. «Magari è questa la fine che voglio fare, ci hai pensato? E tu saresti la prima ad esserne contenta. ‘Oh, un ubriacone in meno’. Dì la verità.» Lungi dal voler fare la vittima, Egon esternò solo la pura verità ed il pensiero di gran parte delle persone che avevano incrociato il suo cammino. Era convinto che chiunque avrebbe fatto carte false pur di vederlo morto e sapere che il mondo aveva un essere inutile in meno come lui. Probabilmente si sarebbe tolto la vita, se ne avesse avuto il coraggio, ma preferiva farsi del male così, bevendo e augurandosi che il suo fegato prima o poi scoppiasse. «Non si tratta di fare errori, qui non si parla di fare strappi alla regola. Tu hai un problema, ed è serio. Riconoscerlo è il primo passo, provaci ogni tanto.» A quelle parole Egon sfoggiò un sorriso divertito e amaro al contempo, rifiutandosi di rispondere a quella osservazione. Che avesse un problema, lui, lo aveva capito già da un pezzo, e aveva anche capito che a questo problema non ci poteva essere alcuna soluzione se non quella di degradare lentamente dallo status di uomo a quello di essere apatico. Era difficile da spiegare e nessuno lo avrebbe capito, nemmeno la perspicace Sibylla. Se c’era una cosa che Egon aveva imparato, durante quei suoi anni di vita, era che le persone voltavano sempre lo sguardo da un’altra parte quando qualcuno soffriva. Egon stava soffrendo e non capiva perché la criminologa non stesse voltando il suo sguardo da un’altra parte, lasciandolo in pace.
    Continuarono con quel botta e risposta fra due testardi. Entrambi tanto testardi che, se avessero sbattuto la testa contro un muro, probabilmente a rompersi sarebbe stato quest’ultimo, sbriciolandosi in mille mattoncini. Con questa premessa sembrava che né Egon e né Sibylla l’avrebbe spuntata in quella discussione, sembrava che tutto, una volta usciti da quella stanza, fosse destinato a rimanere uguale a prima: Egon con i suoi demoni personali e Sibylla con i suoi, che al poliziotto rimanevano sconosciuti e né moriva dalla voglia di conoscere. Questo almeno finché non vide la criminologa frugare nella sua borsa per tirarne fuori un bigliettino. Era un invito diretto per andare al diavolo? Pensò Egon, mentre Sibylla gli consegnava il pezzo di carta plastificata, che osservò con attenzione prima di prenderlo in mano. Seduto su quel banco, come uno scolaretto qualunque in punizione, Egon scoppiò a ridere non appena capì di cosa si trattava. «Una strizzacervelli? Sul serio? È la soluzione migliore che ti è venuta in mente?» Era divertito dall’ostinazione che stava mostrando Sibylla. Non aveva niente di meglio da fare, quella nana? Magari andare a casa a rilassarsi, magari aveva anche una famiglia o una persona importante al suo fianco, che ne poteva sapere lui! Voleva soltanto che Sibylla lo lasciasse stare e, soprattutto, lasciasse stare quella dottoressa Nilsen che, se solo avesse incontrato Egon, probabilmente sarebbe stata lei ad aver bisogno di uno psicologo, nel giro di un paio di settimane. «Più gli Alcolisti Anonimi, ovviamente.» Continuò a ridere dinanzi a tutte quelle pretese che stava avanzando una perfetta sconosciuta nei suoi confronti. Gli occhi chiari di Egon si animarono con un lampo d’ira, mentre la donna gli diceva come stavano le cose. O quello o il nulla. Sentirsi dinanzi ad un bivio non fece altro che irritarlo ulteriormente e si alzò dal suo posto, non con fare minaccioso, ma visibilmente infastidito, mentre prese quel cartoncino dalle mani di Sibylla. Se lo rigirò tra le dita senza nemmeno guardarvi il numero sopra. Non sapeva cosa farsene. «E se io parlassi con qualcuno dicendo che mi stai ricattando cosa succederebbe? Saresti accusata di abuso di potere? Ringrazia il fatto che non sono una persona così vendicativa. Vedi? Sono un ubriacone buono.» Ironizzò ancora sulla questione, sperando di avere un’ultima via d’uscita che però mise velocemente da parte. Non voleva creare problemi principalmente perché sarebbe stata solo un’enorme fonte di scocciatura per lui, che voleva stare tranquillo senza rottura di coglioni di mezzo. «E comunque sono certa che Colombo ha avuto molta più soddisfazione di me scoprendo l’America, io ho solo un buon olfatto e tu sei stato sfortunato.» Guardò la sua interlocutrice, nonché appena promossa a ruolo di peggiore incubo, non sorridendo più. Quel riso un po' menefreghista era scomparso dal volto di Egon per lasciare spazio solo all’amarezza. «Sfortunato? Questo non è niente, credimi.» Tornò a guardare il pezzo di carta plastificata che citava il nome della dottoressa che, in quel momento, rappresentava la sua unica strada da intraprendere. Un po' gli dispiaceva per questo Astrid, avrebbe incrociato il suo cammino e di certo non ne sarebbe uscita una persona migliore. «E se non ci vado? Come farai a saperlo? Mi hai rifilato una delle tue amichette del liceo per caso?» Sollevò la mano in cui teneva il bigliettino, guardando Sibylla che nel frattempo era tornata sul fascicolo che lui stesso le aveva portato pochi minuti prima. Ah, quindi la discussione terminava così? Con lei che aveva ottenuto ciò che voleva e lui che non doveva fare altro che obbedirle?
     
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    (La colonna sonora di Sibylla
    che sclera gentilmente offerta da:
    Labrinth x Euphoria)

    Se c'era qualcosa che aveva davvero, davvero, compreso dalla vita, dalle persone in generale, era che, se nel momento in cui venivano stuzzicate prendevano a bollire come una pentola a pressione, bè, allora c'era ancora qualcosa che fosse capace di risvegliare in loro quel minimo di senso d'appartenenza, una fetta d'orgoglio che, dura a morire, riusciva a dare vita all'importanza che ognuno avrebbe dovuto dare a sé stesso. E così accade anche con Egon Gibson che, in piedi davanti a lei ancora a braccia conserte, lanciava segnali tutt'altro che simili a quelli della sua corporatura. Se lo starsene lì fiero e a spalle dritte davanti a lei voleva significare che non si sarebbe fatto mettere i piedi in testa, le parole che venivano fuori dalle sue labbra comunicavano ben altro: gli importava, eccome. Gli importava di ciò che Sibylla aveva notato, gli importava dell'immagine che di sé stesso lasciava dentro gli altri, gli importava del modo in cui, in primis, stava trattando la propria persona. Inutile divagare, negare la realtà dei fatti, l'evidente situazione in cui riversava la sua vita, Egon voleva esser visto, guardato, voleva attirare l'attenzione anche se, facendo a quel modo, il mondo avrebbe pensato che, al contrario, avrebbe voluto mimetizzarsi alle pareti senza dare nell'occhio, sparire senza lasciar alcuna traccia di sé. Per occhi attenti come quelli di Sibylla, però, non aveva funzionato, anzi, l'immagine di Egon era spiccata in mezzo a tutte le altre così violentemente da non averle dato neanche il tempo di accorgersi dell'impatto che aveva generato. «Magari è questa la fine che voglio fare, ci hai pensato? E tu saresti la prima ad esserne contenta. ‘Oh, un ubriacone in meno’. Dì la verità.» eccole lì, le parole che confermarono il tutto. Il vittimismo, per alcuni difficile da riconoscere, per Sibylla venne fuori a chiare lettere, un ammasso di segni d'inchiostro nero stampato su un foglio bianchissimo che perfino un non vedente avrebbe potuto leggere. Non era come forse lui si convinceva a credere, nient'affatto. Quelli che di lui se ne fregavano non avrebbero neanche speso le loro energie nel pensare di volerlo vedere morto, no. Quelli che degli altri se ne infischiavano non ci pensavano a come sarebbe stata la vita dopo di loro poiché neanche la morte apportava alcun cambiamento, soprattutto quella di chi non ci si accorge neanche dell'esistenza, anche quando è così inutile da dar fastidio, una mosca che ronza intorno al Led della luce attaccato al soffitto di una stanza asettica, un ufficio dai colori freddi che si vuol fare ben presto a lasciarsi alle spalle. «E allora cosa aspetti? Solo la tua, è la vita che cambia. Ma questo lo sai perfettamente e forse è proprio il motivo che ti frena dal farlo.» sentenziò aspra, mento sollevato nella sua direzione e sopracciglia increspate, le stesse di chi vuole sfidare, le stesse di chi proprio la presa non la vuole mollare. Glielo leggeva in faccia, il dolore, non era cieca e non era stupida, in più la sua particolarità l'aveva sempre aiutata un pochino sopratutto in quello: nel comprendere di cosa e come fossero fatte le persone, le menti con le quali entrava in contatto, persino con gli oggetti che, guastati, sembravano esser da buttare almeno finché qualcuno non raccoglieva la forza di studiarli e ripararli.
    Quando estrasse il biglietto da visita di Astrid dalla borse per porgerlo all'altro, Sibylla seppe perfettamente quale sarebbe stata la sua reazione ma non si lasciò guidare dalla risata di lui verso un tono di voce divertito, anzi. A guardarlo ridere le fece anche pena, un uomo cresciuto e ferito dagli eventi di una vita che forse lo aveva preso a calci non aveva avuto la forza di rialzarsi, rimettersi in sesto, ed era ok anche in quel modo, almeno finché non avesse avuto troppo anche di se stesso. E Sibylla si domandò, silenziosamente, come mai ancora non fosse accaduto. Come ancora non si fosse guardato allo specchio in una mattina come un'altra e si fosse posto la domanda delle domande: ma non sono stanco di scappare? Non sono ancora esausto? Perché ad arrendersi ci voleva molta più forza ed energia che a spingersi su con la schiena e rialzarsi, questo lo sapeva. «Una strizzacervelli? Sul serio? È la soluzione migliore che ti è venuta in mente?» la schernì lui, ritornando a ridere di fronte a quella sua proposta ma ritrovandosi ad afferrare il pezzo di cartoncino che lei aveva allungato nella sua direzione. Si ritrovò solamente ad annuire ed aggiungere che, oltre a quello, avrebbe dovuto prendere parte agli incontri settimanali degli Alcolisti Anonimi, altrimenti si sarebbe presa lei stessa la responsabilità di quelle azioni comunicando ai piani alti in quale stato l'agente si ritrovava a lavorare. Anche a quella spinta, però, Egon non sembrò voler cedere e, di scatto, si sollevò dalla superficie del tavolo sul quale si era poggiato, l'espressione del viso ora torva, punto debole colpito in pieno. «E se io parlassi con qualcuno dicendo che mi stai ricattando cosa succederebbe? Saresti accusata di abuso di potere? Ringrazia il fatto che non sono una persona così vendicativa. Vedi? Sono un ubriacone buono.» si concesse ancora lui, lo sguardo rivolto verso Sibylla che, dal suo lato dell'ufficio e con le braccia che ora andavano a raccogliere nuovamente il fascicolo da lui consegnato riguardo al caso cui stava lavorando, sollevò le iridi verdi sul viso dell'altro inarcando piano un sopracciglio. Lo guardò per qualche istante restando in silenzio, chiedendosi quanto ancora avrebbe voluto continuare con quella farsa decisamente triste agli occhi di lei, che altro non provarono se non pena. «Perché non ci provi? Lì è la porta, se segui il corridoio fino a svoltare a destra, in direzione dell'automatico per il caffè, ci trovi un ufficio sulla cui entrata è appesa una targhetta dorata con su il nome del tuo capo stampato a lettere in rilievo di colore nero.» parlò con tono ora nuovamente pacato mentre indicava la porta con il fascicolo stesso che stringeva ancora fra le dita. «Entri, lo saluti o no, non mi interessa, e gli dici che la Dottoressa, Professoressa Sibylla Nielsen Greseth ti ha beccato ubriaco sul luogo di lavoro, che hai ammesso non fosse la prima volta e che, per aiutarti e offrirti una carta di buon'uscita, ti ha dato il biglietto da visita di un'ottima psicologa specializzata nel suo mestiere e, inoltre, ha ritenuto necessario invitarti ad andare agli incontri degli alcolisti anonimi. Ho dimenticato forse qualcosa?» si avvicinò a lui mentre parlava e, una volta terminata la frase, posò il fascicolo nuovamente sulla scrivania dietro di sé e, a braccia conserte, si fermò proprio davanti ad Egon, lo sguardo rivolto su di lui, le iridi verdi che non avevano proprio alcun timore di soffermarsi in quelle blu accesissime dell'altro, neanche l'enorme differenza della statura le faceva paura. A quel punto nessuno dei due sorrideva, neanche Egon che, fino a quel momento, aveva voluto credere che tutto fosse solo uno scherzo. «E se non ci vado? Come farai a saperlo? Mi hai rifilato una delle tue amichette del liceo per caso?» chiese allora, sollevando la mano con la quale stringeva il biglietto per tenerlo in alto in mezzo a loro due. Ignorò la stupida ed ironica domanda, Sibylla, ritrovandosi a scrollare le spalle consapevole di ciò che stava facendo, consapevole del fatto che sì, era proprio grazie alla propria posizione che poteva fare ciò che stava facendo, poco le interessasse che lui pensasse fosse scorretto, per lei era la cosa giusta da fare e, forse, prima o poi lo avrebbe compreso anche lui. «Sei nel mio mirino, Gibson.» aggiunse solamente scuotendo appena il capo. «E posso assicurarti che ci resterai per un bel po’, che ti piaccia o meno.» disse, tornando a sorridere ora, non di certo in maniera amichevole. Non poteva prevedere cosa avrebbe fatto, non poteva guardare al futuro così come non poteva leggergli nella mente, eppure qualcosa le diceva che, a quel modo, non avrebbe continuato. Il bivio c’era sempre stato, forse mai nessuno l’aveva spinto a raggiungerlo imponendogli di fare una scelta: affondare, cadere dentro se stesso e rimanere schiacciato da tutto quello che lo voleva tenere in basso, oppure sollevarsi, lavorare su se stesso e affrontare qualcosa, qualsiasi cosa questa fosse, che sembrava averlo terrorizzato e continuava imperterrito a farlo.
    Una cosa era certa: Sibylla era tremendamente curiosa di sapere che passo Egon avrebbe compiuto.
     
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