Blood in the Water

Vil x Athena, 2 months ago, Besaid Court

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    Athena Astra Drakos
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    You thought you could go free / But the system is done for
    If you listen real closely / There's a knock at your front door
    We'll never get free / Lamb to the slaughter
    What you gon' do / When there's blood in the water



    Meditabondi, gli occhi di Athena erano fissi sul codice penale aperto dinanzi a sé.
    Il processo era stato sospeso per concedere ai dodici giurati tempo per emettere il loro verdetto e lei, nel silenzio sacro e tombale delle proprie stanze, ascoltava col cuore pesante il vociare dei giornalisti esiliati oltre le mura del suo Tribunale.
    Come se impegnata in una liturgia religiosa, la donna aveva chiuso le porte alle speculazioni, alle domande, al brillio dei flashes ed alla curiosità di estranei cittadini.
    Erano oramai settimane che il processo di Vilhelm Bjerke-Petersen era in corso e forse mai, nella sua carriera, la Giudice Drakos si era ritrovata in una circostanza simile.
    Un processo difficile, crudele e, come pronosticato, dal profilo così alto da catturare quasi interamente l'opinione pubblica di Besaid.
    Non v'era stata testata che non ne avesse parlato, emittente televisiva risparmiata. Come segugi, i reporters avevano seguito lei, i giurati, gli avvocati e persino tentato di strappare dichiarazioni dall'imputato stesso.
    Vilhelm Bjerke-Petersen era stato accusato di aver commesso almeno cinque omicidi, aggravati da cannibalismo, tortura e rapimento delle sue vittime.
    Athena aveva servito nell'esercito per qualche tempo, in gioventù. In sei anni e due missioni all'estero, tribunali militari frequentati ogni giorno e barbarie testimoniate, non aveva mai anche solo intravisto quel genere di orrore in vita propria.
    La procuratrice, politiadvokat del caso, Jannike Østberg, si stava battendo contro la difesa come una leonessa, presentando prove schiaccianti ed argomentazioni decisive alla giuria incaricata d'esaminarle.
    Athena era stata costretta ad ampliarne il numero per via di alcuni membri scoraggiati o ritiratisi da quel terribile compito, delegando infine la responsabilità a dodici individui e se stessa.
    Erik A. Oyen, sfortunato avvocato della difesa, aveva represso le stoccate con maestria invidiabile.
    Talentuoso e capace, Oyen aveva messo in piedi un buon caso dalla sua.
    Athena aveva compreso la sua strategia, completamente volta ad assorbire l'aggressiva tattica di Østberg facendo appello all'instabilità dell'imputato, alla sua particolarità complessa ed identità perduta in abissi fuori dal suo controllo.
    Athena sapeva che nessuno avrebbe potuto salvare Vilhelm Bjerke-Petersen e, aveva compreso, ch'anche Oyen ne era consapevole. Stava solo facendo il possibile per attenuare una sentenza d'imprigionamento inevitabile.
    Le prove non erano circostanziali od indiziarie e lui avrebbe pagato.
    Riscuotere il debito ed a quanto questo ammontasse sarebbe stato il compito di Athena.
    La giudice espirò tesa, appuntando in greco sul suo taccuino sezioni e capitoli del codice penale da riferire durante l'inevitabile sentenza.
    Thyelas, al suo fianco, era divenuta specchio dell'animo agitato della sua creatrice, vagamente schiacciato sotto il peso d'innumerevoli pressioni subite in quelle ultime settimane: la stampa, l'amministrazione cittadina, la polizia affannata a voler chiudere un caso orribile e per cui qualcuno avrebbe dovuto scontare una pena.
    I segni di quella stretta erano particolarmente visibili sul viso della giudice: gli occhi glauchi erano stanchi e determinati, l'espressione severa ed inflessibile.
    Quando riemerse dalle proprie stanze con indosso la toga, Athena sentì tristemente d'avere il destino di quell'uomo nelle sue mani.
    «In piedi!» tuonò l'ufficiale al suo rientro in tribunale. L'intera aula si alzò per rispetto, gli avvocati trepidanti e la giuria già in postazione.
    Athena fece cenno a tutti di sedersi e si accomodò lei stessa alla propria seduta.
    Aveva lo stomaco completamente chiuso e, innegabilmente, il suo animo era contorto come il tronco d'un ulivo.
    Era una tensione che di rado aveva provato in precedenza per un caso.
    I suoi occhi glauchi si volsero all'imputato per un lungo, silente attimo prima che schiudesse le labbra.
    «Dopo aver ascoltato le arringhe conclusive e le ultime testimonianze, invito la giuria ad esprimere il proprio giudizio. Come dichiarate l'imputato Vilhelm Bjerke-Petersen per il rapimento ed omicidio di Ansgar Vik?» domandò Athena, cercando di ignorare i pochi presenti in aula: parenti delle molteplici vittime, pochi privilegiati giornalisti, poliziotti interessati o coinvolti nelle indagini, giuristi ed altri avvocati presenti in tribunali per altri procedimenti.
    Un uomo anziano si alzò con aria grave ed accennò ad Athena con riverenza.
    La giudice rispose con un cenno a sua volta ed attese.
    «Colpevole, Vostro Onore» esalò solido nonostante il suo aspetto fragilissimo.
    Athena annuì, percependo stranamente quella stoccata lei stessa mentre l'intera sala tratteneva il respiro.
    Un paio di persone scoppiarono in lacrime di sollievo e decompressione, altre applaudirono.
    Athena battè severissima il martelletto due volte.
    «Silenzio in aula! Altri rumori non richiesti e chiuderò completamente le porte al pubblico. Venga messo agli atti» minacciò, ben consapevole che quel trucco avrebbe sempre funzionato.
    Silenzio tombale regnò nuovamente nel dominio della giudice mentre gli assistenti continuavano a scrivere i verbali e le guardie giurate tornavano più tranquille.
    «Come dichiarate l'imputato Vilhelm Bjerke-Petersen per il rapimento ed omicidio di Einar Leonardsen?» domandò quindi Athena a seguire.
    «Colpevole, Vostro Onore» continuò l'uomo anziano mentre il resto della giuria annuiva in segno d'assenso.
    Athena accennò col capo, espirando silenziosa prima di voltare la pagina dei propri appunti e proseguire.
    «Come dichiarate l'imputato Vilhelm Bjerke-Petersen per il rapimento ed omicidio di Fridtjof Gunvaldsen?» incalzò la giudice.
    «Colpevole, Vostro Onore» replicò ancora l'uomo, schiarendosi la voce prima di volgere lo sguado a Vilhelm con una sorta di strana pietà, come se quella spada di Damocle si fosse abbattuta con sacralità inevitabile.
    «Come dichiarate l'imputato Vilhelm Bjerke-Petersen per il rapimento ed omicidio di Hjørdis Ruud?» Athena seguì in quella danza necessaria, gli occhi fermi al giurato ed il momento della Verità sempre più vicino.
    L'uomo esitò per un istante che parve secolare e s'apprestò a parlare ancora.
    «Non colpevole, Vostro Onore» la sala si aprì in una eco di sorpresa. I parenti della vittima si sgretolarono dinanzi agli occhi della giudice che accennò col capo mentre alcuni sussurri più o meno evidenti cominciarono ad esprimere il loro aggressivo dissenso al giudizio.
    «Silenzio in aula!» ruggì Athena di nuovo, sovrastando i brusii.
    «Come dichiarate l'imputato Vilhelm Bjerke-Petersen per il rapimento ed omicidio di Kaja Silje?» concluse quieta, cortese verso la giuria. L'ultimo capo di accusa, l'ultima stoccata verso Petersen prima che lei avesse dovuto compiere il suo dovere.
    «Colpevole, Vostro Onore» disse infine l'uomo che chinò il capo una volta come ad accomiatare le proprie parole prima di sedersi.
    Jannike Østberg sembrava una fiera amazzone che reggeva fra le dita lo scalpo gocciolante dell'ennesimo mostro sconfitto sul campo di battaglia mentre Erik Oyen si guardava attorno deciso e sconfitto, riponendo ogni sua speranza in Athena e la sua sentenza.
    La giudice si eresse appena nella propria seduta, rendendosi conto solo allora che ogni occhio era puntato fisso su di lei, ogni orecchio teso ad ascoltare la sua voce.
    Così Athena parlò.
    «Alla luce del giudizio appena emessso e le aggravanti di tortura e cannibalismo, mi rivolgo al capitolo quattordici, sezione settantasette e settantanove del codice penale, capitolo sedici sezione centodue, capitolo venticinque sezione duecentosettantacinque e dichiaro Vilhelm Bjerke-Petersen colpevole dei reati a lui ascritti.» i presenti rimasero in silenzio tombale, osservando Athena stringere appena le dita attorno all'asta del martelletto. «Condanno dunque l'imputato a ventisei anni di reclusione e, a seguito del capitolo dodici, sezione sessantadue del codice penale, ad intraprendere un regolare percorso di valutazione e cura psichiatrica durante il periodo di carcerazione. Alla luce del capitolo tredici, sezione sessantotto inoltre dichiaro che i beni confiscati durante le indagini restino in custodia dello stato. Infine stabilisco ch'egli sia sottoposto a controlli mensili eseguiti da medici specializzati ad analizzare e supportare l'imputato alla gestione della sua particolarità» concluse la giudice con voce chiara mentre le dita della dattilografa danzavano sui suoi strumenti per immortalare ogni parola.
    Il martelletto di Athena si abbatté sul legno della sua scrivania.
    Da quel momento in poi il destino e futuro di Vilhelm Bjerke-Petersen fu scritto, una nuova pagina terminata non da lui ove, probabilmente, la Giustizia aveva trionfato.
    Athena rimase qualche istante ad osservarne i comportamenti, ritrovando nella personalità dell'imputato qualcosa di illeggibile, indecifrabile.
    Si soffermò ad osservarne il viso scavato, i capelli bruni arruffati. Era più o meno della sua stessa età eppure un abisso si apriva fra loro, impossibile da colmare.
    Si domandò cosa il suo animo gli avesse suggerito nel momento in cui aveva mutilato quelle creature.
    Ineffabile sarebbe stato comprendere un atto terribile come quello, eppure Athena non poté che sentirsi vagamente dubbiosa sulla sentenza appena emessa, come se un'oscurità simile non fosse possibile, assurda nel mondo moderno come nel passato, difficile da quantificare e punire di conseguenza.
    Chiuse infine il proprio taccuino, i presenti si alzarono dopo di lei in segno di rispetto e cominciarono a parlare sommessi mentre erano escortati fuori dall'aula.
    Congedò infine i presenti e vide l'imputato sparire dalla sua vista, in attesa d'essere trasferito in prigione da lì ad alcune ore.
    «Blinda queste camere e la sala d'attesa per Petersen, Adrian. Non voglio giornalisti o folli qui dentro» sussurrò infine Athena ad una delle sue guardie giurate, ritirandosi nelle proprie stanze con un immenso peso dissipatosi dalle sue spalle.
     
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    Così verosimile, così vicino a lui, da non essere in grado di marcare una distanza fra loro: ecco come Vilhelm si sentiva nei confronti dell'assassino che aveva visto agire nella sua immaginazione. Che avesse assistito alle azioni del proprio riflesso? Che, per negazione della realtà o per convenienza, così da far pace con le proprie azioni, aveva considerato quell'uomo come un estraneo quando in verità nella sua mente si erano solo riprodotti dei ricordi in cui lui era il solo protagonista? Era davvero lui ad aver ucciso, mutilato, e mangiato gli esseri umani i cui nomi erano stati impressi indelebilmente nella sua mente? "È ora, Petersen." La voce della guardia carceraria oltre le sbarre non l'aveva risvegliato dal sonno, turbato da angoscianti incubi, ma l'aveva spinto ad alzarsi, così da potersi preparare all'ultimo giorno del suo processo. Era stato accusato di aver messo fine alla vita di cinque persone in modalità atroci, eppure il pentimento non ne turbava l'espressione. Si credeva innocente e, allo stesso tempo, era convinto di essere colpevole. Non credeva in nulla di quello che la sua mente gli proponeva da giorni, da quando aveva posato per la prima volta lo sguardo sul cadavere di Ansgar Vik. Poteva riporre fiducia nei suoi stessi pensieri? Si allacciò la cravatta e aspettò di essere raggiunto ai polsi dalle manette, fino ad essere scortato nell'aula di tribunale dove avrebbero confermato ciò che gli investigatori, i giornali, l'opinione pubblica tutta aveva espresso senza ripensamenti: Vilhelm Bjerke-Petersen era colpevole. Forse avrebbe iniziato a crederci anche lui. Il giorno prima si era addormentato come uomo qualsiasi e quello dopo si era risvegliato come un mostruoso assassino.
    Il suo avvocato, Erik A. Oyen, aveva fatto l'impossibile per provare a vincere la causa. Per quanto si fosse svenato per convincere la giuria, la giudice Drakos, e l'opinione pubblica, della non colpevolezza di Vilhelm, aveva trovato di fronte a sé un muro invalicabile e prove schiaccianti. Il fascino che riti antropofagi avevano sull'imputato, la fragilità mentale, l'immedesimazione insalubre con chi aveva messo fine alla vita di tante persone, e le tracce biologiche e resti umani ritrovati proprio in casa di Vilhelm erano mattoni che, uno dopo l'altro, avevano generato una parete che aveva poi rinchiuso l'imputato dietro di essa. Dal canto suo, dopo un breve e necessario scambio con Oyen, Vilhelm aveva mantenuto la conversazione con il suo avvocato entro i limiti del sopportabile: l'innocenza a cui puntava Vilhelm non era considerata nelle regole del gioco giuridico. Mentre sulle spalle e sulla nuca sentiva lo sguardo affascinato dal macabro dei giornalisti, o quello accusatorio dei familiari delle vittime, di fronte a sé vedeva realizzarsi la messa in scena che avrebbe determinato il suo destino. In quelle settimane era tornato in modo più che maniacale agli eventi che lo vedevano protagonista e, sebbene apparentemente altrove rispetto alle testimonianze, o le parole dell'accusa o del proprio avvocato, Vilhelm stava covando in sé una inquietante consapevolezza. Né innocente, né colpevole: Vilhelm non c'entrava nulla con quegli eventi. Era stato incastrato. Un fumo denso aveva avviluppato l'intero palcoscenico facendo emergere al centro Vilhelm come capro espiatorio. L'uomo non sarebbe stato in grado di definire con chiarezza chi, nella cittadina, avesse voluto metterlo in quella posizione. Forse si trattava di un nemico del passato, forse qualcuno a cui aveva fatto un torto senza potersene ricordare, o forse un direttore teatrale particolarmente sadico.
    L'ordine della giudice arrivò a Vilhelm con un leggero ritardo. Vilhelm fu l'ultimo ad alzarsi, incitato da un leggero colpetto che ricevette al gomito da parte del suo avvocato, in piedi al suo fianco, e l'ultimo a sedersi. Perché io? Continuava a chiedersi mentre con lo sguardo indagava la giudice, senza però soffermarsi davvero su nessun dettaglio del viso o dell'espressione. Che fosse un caso che davanti a lui, pronta ad emanare la sentenza finale, ci fosse proprio Athena Drakos e nessun'altra figura con il suo ruolo? Poteva avvertire l’anticipazione di qualsiasi persona presente riempire l'aula, ma non si sentiva parte di quel sentimento: Vilhelm sapeva che sarebbe stato dichiarato colpevole, che avrebbe perso quel processo. Sembrava accogliere ogni "colpevole" come se non fosse rivolto esclusivamente a lui continuando, meditabundo e serio, a fissare un luogo indefinito di fronte a sé come aveva fatto durante tutte le precedenti sessioni. Mentre la giuria pronunciava il proprio giudizi, il pubblico si agitava, alzava la voce, metteva alla prova la pazienza e la rispettabilità della giudice. In quegli stessi istanti pieni di tensione Vilhelm cercava di combattere quella nebbia scura e densa, quell'oscurità che forse solo lui, perché si era bagnato di essa, avrebbe potuto decifrare. Ventisei anni di reclusione... La condanna lo raggiunse ad intervalli irregolari ma scavò dentro di lui la consapevolezza della sconfitta. Non una sconfitta personale ma condivisa: con la giuria, con la giudice, e con l'unità investigativa di Besaid. Al chiudersi del taccuino della giudice corrispose il tonfo ovattato e lontano di una caduta dal cielo, una torre bianca che crollava a terra.
    Fu scortato in un'altra stanza sotto la massima sorveglianza. A circondarlo c'era una acutissima paura che si muoveva in due direzioni: le guardie giurate nutrivano il terrore che Vilhelm potesse fare del male a qualcuno e che qualcuno decidesse che la sentenza appena pronunciata non fosse abbastanza. Vilhelm eseguì gli ordini e si ritrovò ad attendere in silenzio, in completa solitudine, all'interno di una piccola stanza blindata. Essendo stata provata la sua colpevolezza, ora non c'erano più le manette a costringerlo, ma una intricata armatura che assicurasse l'incolumità di coloro che si sarebbero occupati del suo trasferimento. Era immobilizzato in tutte le parti del corpo, arti e gambe, con una maschera anti-morso che gli fermava la mascella, tuttavia registrò l'aprirsi della porta. Se in un primo momento non si concentrò su chi fece ingresso nella stanza (poiché sarebbe stato impossibile per lui girare il capo), si stupì quando si sentì sfilare di dosso la maschera. Doveva esserci stato un ordine silente che non riuscì a raggiungerlo. Solo dopo qualche secondo realizzò di trovarsi in compagnia della giudice. "Eccessivo zelo, giudice Drakos? Vuole accertarsi che non venga scambiato con nessun altro?" Immaginò che il sarcasmo non potesse essere considerato illegale o che potesse contribuire all'aggravarsi della pena, soprattutto dopo aver ricevuto già il massimo dalla sentenza. "O vuole dare un'ultima occhiata al trofeo che ha riposto sotto la sua teca, al posto giusto?" Athena non avrebbe potuto incrociare lo sguardo con quello di Vilhelm, sfuggente e leggermente contrito nell'espressione, che continuava a guardare altrove, vicino al suo viso o dietro di lei, ma senza mai spingersi ad osservarla in modo diretto. "Anche se non potrà vantare di avere l'originale sotto i riflettori, dato che quello che le hanno indicato è un falso."

    Edited by Kagura` - 30/3/2023, 09:58
     
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    I need my golden crown of sorrow
    My bloody sword to swing
    My empty halls to echo with grand self-mythology

    I am no mother
    I am no bride
    I am king




    Con le dita intrecciate le une alle altre dietro la schiena flessuosa, Athena Drakos si guardò attorno nelle sue stanze chiuse in un silenzio soffice e teso.
    Thyelas si era acquattata al suo fianco, acciambellata maestosamente attorno alla sua creatrice come un angelo custode.
    Era finita.
    Per quanto lungo e tortuoso fosse stato il percorso, Giustizia era stata amministrata e, con probabilità, una cesura ai drammi di quelle povere famiglie era finalmente arrivata.
    Athena si domandò, mesta in quell'intima solitudine, cosa sarebbe successo se Telathe avesse avuto una famiglia a piangerla come quelle povere vittime.
    Con ogni probabilità la vita della Giudice Drakos sarebbe stata molto diversa.
    Intimamente si sentì pecorsa da un brivido di profonda vergogna per ciò che era successo anni ed anni prima, correlando la condanna di Petersen con quella che mai era arrivata a sbranarle il destino.
    L'esilio volontario dalla sua Grecia a cui si era sottoposta non era stato che l'inizio di una serie di punizioni che Athena si era inflitta col passare del tempo, sempre meno clementi anno dopo anno.
    Aveva scelto di chiudersi, di impietrirsi in un controllo che l'aveva resa una creatura fredda e solitaria.
    Nel silenzio dei suoi pensieri si disse che con ogni probabilità avrebbe meritato ben di peggio e che, per ironia della sorte, da essere un'assassina era divenuta una paladina d'Ordine e Giustizia.
    La sola mutazione avrebbe fatto ridere il fantasma di Telathe oltre il velo di quella mortalità che l'aveva condannata a soli sedici anni.
    Avrebbe potuto sentire la sua risata schernirla senza pietà nella penombra delle sue stanze, i suoi occhi d'ambra studiarne quella nuova forma di donna irriconoscibile da quella giovane introversa e serena con cui aveva passato la fanciullezza.
    Fuori dalla finestra i suoi occhi chiarissimi osservarono lo sciamare selvaggio dei reporters che si abbattevano come vespe sugli avvocati e parenti delle vittime che si confidavano in brevissime dichiarazioni mentre lei, regina di quei domini, sembrava così lontana da essere intangibile da obiettivi e scomode parole.
    Si domandò cosa stesse passando per la mente di Petersen in quel momento e se il suo dono gli avesse mai dato tregua durante il processo.
    Dopo la condanna, Athena aveva solo lontanamente percepito l'idea di ciò che sarebbe potuto essere il peso che quell'uomo portava sulle spalle, per quanto vili e brutali fossero stati i suoi gesti.
    «Giudice Drakos?» una voce maschile scavò nel silenzio e Thyelas si alzò cauta, riconoscendo all'istante Adrian entrare a passo sicuro e riverente.
    Era stato una delle guardie giurate più capaci con cui Athena avesse avuto a che fare sin dai suoi inizi a Besaid. Thyelas si fermò di fronte a lui, chinando appena il capo piumato per sottrarsi ad un tentativo d'approccio da parte dell'uomo che accennò un sorriso ancora disabituato alla presenza della creatura.
    Integro, gentile, Adrian era divenuto freccia aurea nella faretra della Giudice non più di alcune settimane a seguito del suo insediamento.
    «Dimmi, Adrian» replicò la donna senza però scostarsi dalla finestra, convinta che la sua mestizia sarebbe stata sin troppo leggibile sul volto incrinato d'un dolore che si stava ricucendo velocemente per necessità.
    «L'area è stata messa in sicurezza sino all'arrivo dei veicoli blindati» si accinse quindi a dire l'uomo, allontanandosi solo quando Athena si voltò, maschera di compostezza e severità ritrovata.
    La sua sola presenza parve irrigidirlo appena.
    Adrian chinò dunque il capo con fedeltà sul viso buono e fece per lasciare la stanza.
    «Bene, andrò a far visita a Petersen. Porto Thyelas perciò non preoccuparti di seguirmi» annunciò la giudice che, sotto lo sguardo attonito del compagno, decise di entrare nella gabbia dei leoni.
    Innumerevoli sarebbero state le ragioni: alcune sovrapposte, altre diametralmente opposte.
    Sentiva di doverlo fare, di dover guardare quella creatura oltre l'oscurità, oltre il verdetto.
    Si sfilò la toga e scese negli inferi della sua Corte.
    Nessuna spada lucente della Giustizia fra le dita, nessun elmo d'autorità a difenderla, nessun'egida di punizioni incombenti a farle scudo.
    Espirò e scese, Thyelas ad aprirne la strada.
    Nessun altro prigioniero sostava nell'area sicura ove gli imputati erano scortati per attendere sentenze ed intervalli durante i processi.
    Solo Petersen, cavaliere nero in quella fontana chiara d'asettica modernità sostava seduto ed incatenato ad una scrivania d'una stanza impenetrabile.
    Athena aspettò che Adrian aprisse la porta, accennando col capo ad altri quattro ufficiali posti a guardia dell'uomo in attesa di scontare la sua decennale condanna.
    Thyelas entrò per prima.
    A quella distanza Athena poté osservare Petersen e la sua oscurità, domandandosi se questa l'avrebbe macchiata oppure no. Aveva i capelli bruni arruffati, polsi e caviglie strette in catene d'acciaio, gli occhi tristi e sconfitti ma non necessariamente cattivi.
    Si sedette di fronte a lui, mantenendosi a lecita distanza senza mai abbandonare il suo viso con gli intensi occhi chiari.
    Lui eluse il suo sguardo e Thyelas, quieta, attese al suo fianco come asserzione di potere e presenza, sentimento probabilmente inconscio di Athena.
    «No, professor Petersen.» ammise la giudice. «Benché questo possa sembrarle strano, non sono qui per millantare vittoria. Quel genere di atteggiamenti li lascio alla Polizia» spiegò lei, posando la schiena sulla seduta mentre la maestosa grifone si mosse quasi allo stesso modo.
    Il parallelismo con la giudice parve quasi inquietante.
    «Mi domando cosa l'abbia portato a dubitare il verdetto. Non crede sia finita?» domandò la giudice con una scintilla di vero, profondo interesse nell'ascoltare la sua risposta.
    «Contrariamente a ciò che Lei sta pensando in questo momento» s'accinse a dire, tesa ma vellutata, stoica nella voce calda e compita. «Non ho provato alcun genere di piacere a condannare la Sua vita, nonostante le barbarie commesse» aggiunse imperturbabile e quieta. «Giustizia ha fatto il suo corso ed io spero che possa, in futuro, migliorare anche le Sue condizioni, Professore» esalò infine, convinta del fatto che nessuno in piena facoltà di sé avrebbe mai potuto compiere atrocità come quelle.
    Che tipo di Mostro si fosse nascosto dietro Vilhelm Petersen non le era dato sapere.
    Tuttavia, Athena era sicura che vi fosse un burattinaio, qualcuno di estraneo all'essenza del professore: un'ombra, una tenebra così densa e concentrata da impedirgli di vedere, di discernere la realtà dalla follia.
    Cosa, Vilhelm Bjerke-Petersen credeva fosse ancora irrisolto?
    Credeva d'avere ancora una possibilità d'ottenere ascolto o perdono?
    Poco perspicace in quella delicata analisi, Athena non aveva capito d'essere niente più che dinanzi ad uno specchio: forse avrebbe voluto avere quelle risposte per sé e nessun altro.
    Dopotutto se fosse stato possibile per Petersen sperare di sconfiggere quel drago ancora irredento, probabilmente lo sarebbe stato anche per lei.
    Forse ci sarebbe stato un barlume di Fede ed espiazione per entrambi.
     
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    The night so black
    that the darkness hummed

    Paradossalmente, la presenza di un animale non umano lo aiutò ad abbassare di poco i livelli d'ansia. Di sicuro non in molti avrebbero potuto riconoscersi nelle sue sensazioni, soprattutto se messi sotto esame non da un paio ma da quattro occhi affilati e rapaci. Incrociò lo sguardo del grifone ma continuò a non intercettare quello della Giudice Drakos che sedeva proprio di fronte a lui. Vilhelm dal canto suo non si risparmiò di dimostrare la propria sorpresa, a modo suo, alla Giudice, continuando a mantenere una calma quasi innaturale, forse scaturita da una consapevolezza che non avrebbe potuto facilmente condividere con colei dalla cui mano pendeva una imparziale bilancia. Erano stati falsati i risultati: era sicuro che posare la propria verità su uno dei due piatti non avrebbe potuto scagionarlo. Non in quel momento, non per sua volontà. Pedina di un gioco più ampio, le azioni di Vilhelm avrebbero sempre avuto un valore irrisorio. Dopo aver emesso il proprio rantolo sarcastico, Vilhelm chiuse gli occhi, lasciando che le prime risposte della Giudice lo attraversassero, portandolo ad immaginare i comunicati stampa, le testimonianze della Polizia, i flash che l'avrebbero atteso all'uscita del Tribunale.
    "Finita? Hah. No, no... no, Giudice Drakos... siamo molto lontani dalla fine". Il riso sardonico che accompagnò le parole di Vilhelm, uscite fuori con una certa rapidità, illuminò in maniera sinistra l'intera espressione dell'uomo. Aveva risposto come se la domanda genuina della Giudice avesse potuto insultare non solo la sua condizione, ma l'intelligenza stessa di colei che aveva parlato. Uno strano sapore ferroso gli inondò la bocca, familiare e disgustoso, e un'espressione contrita si disegnò sul volto di Vilhelm: non era facile condurre due conversazioni parallelamente. Stava parlando alla Giudice Drakos, rendendosi conto di non poter essere né visto né compreso, e stava facendo i conti con la sua mente che non si stava dimostrando per niente gentile con lui. Sapere di essere il mostro che aveva tolto la vita a tutte quelle persone e, al tempo stesso, sostenere l'esatto contrario, non si sarebbe rivelato un compito facile, soprattutto quando il sangue di esse gli ballava sulla lingua. "Le sue ipotetiche sensazioni sono del tutto irrilevanti in questo momento, soprattutto se oscurano la sua capacità di vedere, Giudice Drakos." Rispose schiettamente, abbandonando ogni forma di sarcasmo per adottare un tono che sarebbe potuto sembrare addirittura abrasivo. Stava ancora evitando di guardare la Giudice in volto ma la sua espressione si era fatta più cupa, accigliata e in tensione. "La Giustizia ha fatto il suo corso perché voi avete guardato là dove vi si voleva portare. Pensate di aver stanato la preda? Avete solo abboccato all'amo."
    Solo a quel punto si fece avanti, per quanto le costrizioni gli resero ogni movimento ancora più difficile, spostando il busto in direzione della Giudice. Alle sue spalle sentì molti più sguardi di quelli presenti nella stanza puntarsi nel mezzo della sua schiena: non aveva intenzioni violente e non avrebbe sfiorato la Giudice. Voleva solo farsi più vicino a lei, credendo che, parlandole ad una minor distanza, il messaggio non sarebbe stato perso. Aprì i palmi delle mani contro la superficie del tavolo che li divideva e fissò lo sguardo nel suo, riflettendosi nei suoi occhi chiarissimi. "Sono entrato nella testa di chi ha ucciso quelle persone. Sono stato chiamato a farlo. Sono stato svuotato e riempito di qualcos'altro che non sono io." Parlò con una lucidità grave, a tratti inquietante. Per quanto fino a quel momento avesse evitato il più possibile di incrociare lo sguardo della Giudice, ora il suo era fisso su di lei, e la guardava con occhi instancabili e quasi febbricitanti. "Guardi anche lei, Giudice, faccia anche lei il suo ingresso in quelle teste... ma non si accontenti di questo epilogo. Guardi di nuovo, fino allo sfinimento, fino alla follia. Riscriva il corso di cui parlava, risalga la corrente fino a raggiungere l'inizio della lenza... e le mani di chi ha gettato l'esca saranno le stesse che hanno lasciato le loro impronte nella mia testa, le stesse che vi hanno offerto le prove". Vilhelm sentiva il peso di ogni parola, come se ogni sillaba costituisse un fendente in grado di allontanare le grinfie che ne avevano avviluppato come rovi velenosi le camere della mente. Chiedere alla Giudice di crederlo sarebbe stato eccessivo, forse impossibile. In quel momento, Vilhelm la stava implorando di dargli ascolto, di aprire gli occhi per vedere ciò che era elusivo, invisibile, oscuro. "Riesce a vederlo, ora?" Un ultimo stanchissimo sibilo abbandonò le labbra di Vilhelm prima che tornasse a rispettare il silenzio, riprendendo la postura a cui le manette lo costringevano.
    La luce del giorno si avventò su di lui come una punizione dall'alto. Un vociare indistinto e molesto attendeva Vilhelm al di là delle porte del Tribunale, mentre veniva trasportato verso il veicolo blindato, incapace di muoversi sui suoi stessi piedi poiché costretto in ogni movimento da una camicia di forza integrale. Fasciato di bianco e protetto da una squadra di guardie che dovevano assicurarsi che potesse uscire dal Tribunale ed entrare nel veicolo blindato in completa sicurezza, Vilhelm si era accorto della totale assenza di pensieri nella sua testa. Nonostante i continui richiami della Polizia e l'impegno delle guardie giurate, la fame della stampa sembrava essere insaziabile, ma non avrebbero potuto ricavare nessuna dichiarazione dall'imputato: come prima, la sua bocca era stata bloccata una seconda volta. Fra quei volti avrebbe individuato anche quello della detective Hagen? O della professoressa Greseth? Quella massa informe e tutte le loro richieste sembravano lontanissime per Vilhelm che in quel momento di fronte a sé avrebbe potuto delineare con chiarezza lo sguardo glauco e pieno d'acume della Giudice. Tuttavia quell'immagine durò pochissimo, e presto Vilhelm valicò di nuovo il confine del caos, immergendosi in quella melma densa in cui avrebbe imparato a nuotare.
     
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    Nell'osservare attentamente Vilhelm Petersen, Athena Drakos ebbe la stessa impressione di aver posto gli occhi su un peculiare caleidoscopio di tenebra. Vi scorgeva, annidate nelle pagliuzze dei suoi occhi tristi, scintille simmetriche che si confondevano, mutavano al serpeggiare della conversazione fra loro.
    Vi scorse un tormento che non aveva visto in alcuno dei suoi commilitoni, in alcuno dei suoi familiari. Decifrò quella disperazione in un ultimo slancio prima dell'inevitabile rassegnazione che sarebbe seguita alla sentenza ed espirò.
    Il qualche modo, nella tensione del momento, quasi ebbe dimenticato d'essere umana.
    Thyelas sgonfiò appena il maestoso petto piumato allo stesso momento di Athena, le ali piatte contro la schiena leonina.
    Così Vilhelm emise la propria, di sentenza.
    Qualsiasi cosa fosse accaduto durante le indagini ed il suo caso non era stato che l'inizio. Che fosse un gioco, una provocazione, Athena non riuscì a capirlo. Pronunciò quelle parole con una tale robustezza, convinzione da lasciarle intendere ch'egli ne era assolutamente sicuro.
    Dall'alto del suo difficile giudizio, gli occhi scostanti della donna s'incresparono d'una sfumatura di tagliente disaccordo.
    Si limitò a schioccare quieta la lingua contro il palato, lasciando totale libertà all'uomo che aveva dinanzi di esprimere il suo pensiero in toto.
    Petersen, limpido fiume d'impeto e sofferenza, spiegò la sua verità. In qualche modo colpì Athena profondamente, accoltellandone la salda inflessibilità con precisione, come non accadeva da anni.
    Lentamente, Vilhelm si avvicinò a lei, sporgendosi su quel magro confine segnato dal tavolo metallico frapposto ai loro corpi seduti, tesi come corde.
    La giudice scattò come era stata addestrata a fare anni addietro. Un riflesso involontario per cui si pentì amaramente, avendo denudato un timore istintivo che non era riuscita a mascherare.
    Era stata una reazione quasi involontaria di timore e tensione residua che non si perdonò.
    Scosse appena il capo, manifestando un'insofferenza che la grifone invece non specchiò.
    La creatura era balzata ad un passo da Vilhelm, le ali spiegate a proteggere la sua creatrice mentre schioccava il becco con fare aggressivo.
    La sua testa era forse tre volte quella di Athena e, per quanto intimidatoria, sembrò decidere d'indietreggiare restia, felina mentre ubbidiva al comando telepatico della sua tessitrice.
    «Signor Petersen» schiuse dunque le labbra Athena, in un cadenzare gelido e così impassibile da tradire ira controllata. La sola insinuazione che il suo intero procedimento fosse stato fallace, la sua analisi inesatta, fu abbastanza da trasformarla in una statua impietosa ed altera, un automa crudele che, se avesse potuto, avrebbe ferito Petersen con crudeltà in un momento in cui egli era già vulnerabile.
    Riuscì a soprassedere quell'istinto solo la sua inespugnabile etica professionale.
    «Una giuria vi ha dichiarato colpevole. Un intero sistema ha contribuito a fornire esperienza, abilità a servizio di questo caos brutale che ha plagiato la città per settimane» continuò, severa.
    «Io non sono un boia come Lei pensa, sono semplicemente un guardiano. Una protettrice, una garante» spiegò come se stesse parlando ad un muro solido tanto quanto lei.
    «Non mi aspetto che Lei sia riconoscente per ciò che è accaduto oggi.» continuò, mentre la porta massiccia dietro di lei scricchiolava grave al suono dei vari chiavistelli che scattavano.
    «Spero solo che il periodo di riabilitazione la supporti, la aiuti a comprendere i suoi oscuri poteri» Poi si alzò, guardandolo dall'alto come una regina arrogante e vagamente aliena.
    Si sporse il necessario verso di lui mentre alle sue spalle agenti inondavano la stanza, onde cobalto che Thyelas attraversò controcorrente.
    «Io vedo, Professore» dichiarò Athena. «Io vedo la Luce oltre la Tenebra, l'Ordine oltre il Caos. La esorto a fare lo stesso» concluse, scrutandolo un'ultima volta, in piedi, mentre veniva guidato oltre le mura austere della Corte, oltre la Libertà che aveva oramai perduto e che avrebbe ritrovato solo molto più avanti nella sua vita.
    Per un istante, dubbio trafisse l'animo di Athena mentre il suo sguardo si svuotava e quel tumultuoso incontro scemava.
    Si rese conto solo allora di avere le mani tremanti e la coscienza velata da quell'avvertimento: siamo molto lontani dalla fine.
    Si mosse verso Thyelas, tornando nelle proprie stanze inghiottita dal tramonto.
     
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