~ Clara ~
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Jonah accolse i primi raggi di sole nella sua nuova stanza con occhi sgranati e sudore freddo. Aveva cominciato proprio bene quella nuova vita: respiro e battito a mille marciavano al tempo dei suoi pensieri, mentre il suo corpo si metteva seduto con una lentezza innaturale, un copione ormai memorizzato dai primi incubi che aveva avuto tra le braccia di Liss. Ma lei non era più lì a ricordargli cosa fosse reale e cosa no – dopotutto, era proprio sicuro il tempo trascorso insieme lo fosse? “Buongiorno anche a te, Jonah” immaginò Besaid, vecchia e nuova casa, gli dicesse sarcasticamente, aspettandosi probabilmente qualcosa di più dal suo primo giorno lì che la sbornia di una vita appena terminata. “Penso dovrai accontentarti” rispose, come se stesse effettivamente conversando con i tetti delle abitazioni attorno, a malapena scorti attraverso gli sporchi vetri di una stanza chiaramente… vissuta, aveva deciso di definirla così la prima volta che l’aveva vista di persona. Non erano passate neanche 24 ore da allora, da quando aveva portato un paio di valigie praticamente immacolate su per le diverse scale dell’ostello nel quale si era temporaneamente trasferito; le aveva riposte in un angolo mentre dava un’occhiata ai letti a castello spinti contro gli spenti muri, la carta da parati sul punto di divenire coperta per quelli più alti. Fu in quel momento che Jonah effettivamente comprese come mai fosse stato l’unico a prenotare quella camera ad un prezzo stracciato – e lui che pensava di essere un genio nella pianificazione dei viaggi. Menomale che in passato era Liss ad occuparsene – anzi, no, meglio riformulare escludendo dolceamari ricordi. Era veramente una fortuna nessun altro avesse prenotato assieme a lui, così poteva godersi quella piccola… tetra… scomoda… accogliente? Stanza tutta per sé. Veramente da solo per la prima volta da quando ne aveva memoria. Sorrise lievemente cercando di darsi coraggio, stringendo tra le mani le giallastre coperte come se potessero aiutarlo a sopprimere scene di scuri figuri striscianti sulle pareti, di un silenzio di tomba circondante un letto nel nulla, di una torre- Anche durante la sua prima visita a Besaid aveva notato una preoccupante somiglianza tra il palazzo più alto della città e quello spesso raffigurato nei suoi sogni – tutt’ora riusciva a vederne la somiglianza, quando tornava con sguardo velato sullo scheletro della cittadina, contro la quale si stagliava imponente. Prima che tali paure potessero ulteriormente concretizzarsi, tuttavia, il suo istinto gli disse che sarebbe stato meglio dare il via a quella giornata, e presto i suoi piedi si raffreddarono all’improvviso contatto col pavimento.
Essendo il fine settimana e, quindi non dovendo ancora prendere posto come insegnante di scienze nella scuola locale, decise – tra una gamba di jeans scolorito e l’altra – di esplorare un po’, familiarizzare con quel posto che per tanto tempo lo aveva accolto e che aveva scelto di chiamare ancora una volta suo, ritornandovi dopo la separazione dalla moglie. Non era proprio il paradiso che aveva immaginato – o meglio, sicuramente così non era parso dal primo impatto – ma qualsiasi cosa era meglio di Bergen, un bouquet di ricordi dolceamari che solo la piccola Anniken poteva salvare. Sorrise dolcemente al pensiero della piccola, stiracchiandosi mentre lo squillo libero del suo antiquato iPhone dallo schermo incrinato riempiva la stanza, in trepidante attesa di sentire la familiare voce che lo avrebbe di sicuro rassicurato. Purtroppo, i suoi nervi non furono calmati in quella nuvolosa mattinata: immaginando la bimba si stesse godendo qualche ora di sonno in più, sospirò e chiuse la chiamata, augurandole sogni migliori dei propri. A quel punto, non v’era molto altro da fare: indossare la flanella del giorno, ovvero la prima tirata fuori dalla valigia, e recuperare il cappello, abbandonato su uno dei letti inutilizzati come a marcare il territorio. Una volta solennemente riposto sul capo, Jonah si chiuse la porta alle spalle, i cigolii di questa un’introduzione al rullo di tamburi degli scarponi contro i gradini malandati; un passo svelto lo condusse in men che non si dica all’angusto ingresso dell’ostello, illuminato soltanto da quanto filtrante dalle vetrate nella porta. Lì si soffermò solo una manciata di secondi – una bazzecola rispetto al solito – sulla danza della polvere nel fascio di luce, quasi fosse incantevole quanto quella di un serpente, cercando nel mentre di ricatturare quella raffica di pensieri che lo appesantiva dal suo risveglio. Non riuscendovi, sospirò, e fu allora che si accorse di un altro paio di scarpe sul rossiccio tappeto dal complicato disegno. «Buongiorno signor Losnedahl, vuole unirsi a me per la colazione?» lo salutò il proprietario una volta catturato il suo sguardo vagabondo, sorridendogli come se volesse conoscere meglio quello strano figuro comparso in pochi giorni alla sua porta. Non poteva biasimarlo: in fondo probabilmente non passava molta gente da lì, colpevole l’altro ostello da Jonah stesso adocchiato, nei pressi del museo, i cui prezzi tuttavia non erano stati altrettanti accattivanti. «Posso prepararle le uova come preferisce, ho anche dell’ottim-» prima che il buon uomo potesse concludere, gli fece cenno col cappello: improvvisamente andava proprio di fretta, tant’è che aveva già allungato uno scarpone incrostato fuori dalla porta, ed il resto del corpo non poteva certo farsi attendere. «Ah, mi dispiace, ma devo proprio volare» salutò rapidamente il poveretto, il volto un po’ interdetto mentre lo guardava scivolar fuori nel profumo di una fresca mattinata, facendo capolino solamente per concludere con un «buona giornata a lei!».
Sì, okay, Jonah era ancora una volta scappato da un’interazione sociale, ma lo si poteva veramente biasimare? Non era mai stato – da quanto sapeva – un amante dei convenevoli e delle chiacchierate davanti ad un caffè; persino quando lavorava al bar le conversazioni erano molto più interessanti del semplice “cosa farai di bello oggi?”. Non che non sopportasse le persone in generale… forse solo un pochino, ma la sua misantropia almeno non era diretta a chiunque, solo alla maggior parte degli individui sul pianeta. Quel pochi ma buoni che lo aveva sempre messo a suo agio – e spesso si chiedeva se anche il sé del passato fosse stato così, se asse imparato col tempo a preferire la propria compagnia a quella altrui o se fosse qualcosa di innato, come probabilmente lo era la sua passione per gli ambienti aperti. La stessa che lo portava sempre a prendere una bella boccata d’aria appena ne aveva l’occasione, a tirare un sospiro di sollievo ogni volta sgusciato fuori da qualsiasi edificio… E poi quel giorno l’aria aveva un odore speciale, uno dei suoi preferiti: sapeva di pioggia, di nutrimento per il terreno e per sé, che in fondo era un po’ come le sue amate piante: tutto solo e, tra l’altro, capace di sostenersi da solo, almeno ora. Sorrise amaramente a quel pensiero mentre il suo sguardo curioso memorizzava tutto della strada sulla quale l’ostello si affacciava; dai palazzi alle persone, dalle insegne dei negozi alle decorazioni sui balconi, dalle macchine parcheggiate ai colori che provavano ad animare un po’ quella giornata perfetta per la sua palette. Si sistemò la flanella verde e nera sulla maglia grigia terminando la sua ispezione con un’ultima occhiata al palazzo che svettava silenziosamente sopra la cittadina, decidendo di preoccuparsi più di quanto potesse essere alto o di come gli uccelli avrebbero potuto usufruirne del tetto per costruire i loro nidi che della strana sensazione che gli lasciava nelle budella, una tensione irremovibile da quando aveva deciso di tornare in quel luogo ancora così misterioso per lui. Le sue quotidiane preoccupazioni lo accompagnarono lungo la strada, mano nella mano eppur solo, in quella che sperava sarebbe stata una tranquilla mattinata nella sua nuova, calma vita. Peccato che non fu proprio così. Anzi, per quanto avesse sperato che quella sua esperienza si rivelasse liberatrice di qualsiasi problema si fosse trascinato fino a quel momento… pareva avesse invece intenzione di trascinarlo ancor più giù, come un macigno di cui non conosceva neanche le vere fattezze – una verità a cui non sapeva neanche dare un nome. Essenzialmente, diverse ore dopo, Jonah si ritrovò di nuovo lungo la strada dell’ostello, mano destra che stringeva leggermente la spalla dolorante e sguardo stralunato capace di rivedere solamente quanto vissuto in quel breve arco di tempo. Le immagini sfrecciavano senza senso dietro i suoi occhi impauriti, impedendogli di capire chi o cosa avesse davanti – e fu un miracolo se andò a sbattere solo contro persone e non contro muri, anche se era ad un passo barcollante dall’entrare in confidenza con un palo. Rimessosi in equilibrio e tornato un minimo in sé, si accorse di esser quasi arrivato alla porta della sua nuova casa… e di non avere voglia alcuna di rimanere ancora da solo con i suoi pensieri. Per la prima volta nella sua intera vita sentiva il bisogno di compagnia, di essere circondato da altri all’infuori di sé, la necessità di allontanare il più possibile quel caos nella sua testa, come se fosse responsabile di quanto accaduto precedentemente… quando ben sapeva ci fosse altro all’opera, altro di cui non era a conoscenza e che non era sicuro di voler sapere. Così concluse che le sue gambe lo avrebbero portato in qualche altro luogo, magari uno in cui avrebbe potuto accomodarsi, bere qualcosa e respirare, rilassarsi un attimo – ed effettivamente un posto del genere era proprio nei dintorni. Lo aveva notato quella stessa mattina, appuntandolo come possibile rifugio nelle giornate più fredde, e le sue ossa, ancora intorpidite dalla pioggia di poco prima, credevano fermamente lo fosse; perciò, senza esitazioni, attraversò la strada senza neppur guardare e spinse la spalla buona contro la porta, entrando nell’Egon Pub.
Il dolce torpore dell’ambiente chiuso lo fece subito sentire a suo agio, e si sentì anche meglio quando notò fosse un ottimo orario per evitare la calca – il giusto equilibrio tra quanto solitamente evitasse e quanto in quel momento necessitasse. Con fare silenzioso, si portò verso il bancone del locale, lo sguardo perso nell’osservare l’ambiente accogliente troppo curioso per poter esser fermato dal dolore o dagli eventi precedenti – e doveva proprio dirselo, era stato veramente un ingenuo ed un idiota a credere di poter gironzolare per una foresta a lui sconosciuta senza alcun accompagnatore, dopo essersi perduto (letteralmente e non) proprio in una di queste. Sospirò sollevato quando prese posto su uno degli sgabelli, per la felicità delle sue gambe, e pensò “Finalmente un po’ di pace” mentre, com’era solito fare, si toglieva delicatamente il cappello rattoppato per poggiarlo accanto a sé. Si passò una mano tra i corti capelli biondi – abitudine d’un tempo in cui erano più lunghi – e li trovò ancora umidi dall’esser stati accidentalmente esposti alla pioggia, evento abbastanza frequente nonostante il cappello. Il sapore di libertà della pioggia stancava difficilmente Jonah, così come il senso di pace che poteva dare un bancone, l’odore del caffè o della birra e la bellezza del micro-universo creatosi in ogni piccolo bar o pub – per lui uno spazio all’infuori dell’esistenza dove chiunque poteva essere se stesso fino in fondo, senza la paura causata dalle funeste conseguenze della realtà. Ne aveva vista di gente come lui in quel momento, le occhiaie pesanti per le preoccupazioni, gli occhi un po’ spenti per il troppo pianto, ed era stato veramente grato quando, a fine serata, dall’altra parte del bancone, era riuscito a donar loro anche solo un piccolo sorriso, anche solo una pausa da quanto li affliggesse. Portava con grande affetto nel cuore gli anni trascorsi a preparare da bere e servire gli animi, probabilmente ciò che più di ogni altra cosa gli aveva permesso di realizzare la sua umanità – soprattutto agli inizi, quando spesso e volentieri provava una persistente sensazione di inadeguatezza nel profondo del suo animo, come se, tra tutti gli animali esistenti, fosse quello sbagliato. Come se i suoi arti ed il suo capo e quelle cicatrici che al momento lo pungevano come spine non fossero una parte di sé, ma una maschera che nascondeva la sua vera natura – e forse quel mattino aveva in parte compreso dove tutti quei pensieri, col tempo affievolitisi, andassero veramente a parare. Ah, ma si era detto di non volersi appesantire con quel malloppo, di volersi rilassare, no? Sbuffò, infastidito dalla sua testa chiacchierona e dal costante nodo nel suo stomaco, stavolta alimentato anche dalla consapevolezza di aver ignorato le diverse chiamate della sua amata Anniken, troppo scosso per poterle parlare come se nulla fosse. No, non si sarebbe fatto vedere in quello stato, non in un momento così delicato. Non che non volesse mostrarsi debole ai suoi occhi, anzi, non gli era mai piaciuto mentire, in particolare a lei, che aveva intenzione di crescere nel migliore dei modi; no, la sincerità prima di tutto, ma prima ancora aveva bisogno di esserlo con se stesso, capire esattamente cosa stesse accadendo e poi trovare le parole giuste con cui spiegarglielo. Beh, se le sarebbero mai arrivate: nel frattempo, una rapida risposta ai suoi messaggi avrebbe dovuto calmarla per qualche ora, ed un po’ maledisse il fatto che, non avendo un telefono suo, la bambina continuasse a scrivergli con quello di sua madre, strapieno di conversazioni che ormai lo ferivano soltanto. Si era sentito così stupido quando aveva cambiato quel dolce soprannome con Liss, un nome amaro, come se fosse uno stupido segnale del dover per forza andare avanti… ma la verità è che, proprio per questo, avrebbe preferito non farlo. Insomma, da un bicchiere di pensieri pesanti era affogato in un boccale d’altri: con un gesto di rassegnazione, essendosi accorto d’aver fissato il menù dietro al bancone per troppo tempo, fece un semplice gesto al ragazzo vicino a questo per attirarne l’attenzione. Aveva davvero bisogno di una birra.
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