I'll drown when I see you

Mathilde&Coop / Pomeriggio

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    La croce di legno conficcata nel terreno s'innalzava storta, così piccola e sottile da non riuscire neanche a fare un po' di solletico a quel cielo grigio e freddo che le stava sulla testa. La fissava, Mathilde, quasi come se da un momento all'altro avesse potuto sbriciolarsi e mischiarsi alla terra, mimetizzarsi all'arido prato di fine Novembre che si era ritrovata a calpestare. Allora di parole dette non sarebbe rimasto che un ricordo, si sarebbe trasformato in allucinazione, l'immagine di un qualcuno che mai era esistito, non davvero. E con la polvere di quel legname ora sbriciolato in sabbia sarebbe scomparso anche Daven e tutta la sua esistenza, svanita insieme al ricordo di un tossico, uno che nella vita vale poco; uno che nell'esistenza dell'altro non ha mai abbastanza spazio; uno che è meglio lasciarsi alle spalle, gettare in un buco nero, nel dimenticatoio dal quale sarebbe stato poi impossibile recuperare. Aveva la naturale sensazione di gelo addosso che penetrava il tessuto sottile dei jeans blu e della giacca gialla che tirava fuori dall'armadio ogni anno intorno a quel periodo. Mancava poco e sarebbe nevicato, il bianco li avrebbe sotterrati per mesi e le ore di luce si sarebbero ridotte all'osso, un ciclo che non cambiava, una prospettiva che giungeva quasi sempre puntuale. Era il richiamo delle stagioni, un'ornamento di cui piaceva vestirsi la terra, un appuntamento che prima o poi giungeva e sembrava esser inevitabile nonostante l'illusione di cui questa si beava quando, finalmente, giungeva la primavera. Non bastava la fioritura dei prati a frenare l'inverno? Non bastava il calore estivo dell'estate a scacciare via nuvole di neve?
    Non era stata, la primavera di Daven, così bella da riuscire a fermare il suo inverno?
    Scosse il capo, Mathilde, e sospirò appena. La piccola ruga d'espressione che quel pensiero le aveva generato fra le sopracciglia si sciolse, tornò a sollevare lo sguardo dinanzi a sè per posarlo sulle pochissime persone che aveva intorno: nessuno che conoscesse, a parte qualche familiare volto incrociato puntualmente agli incontri NA che le avevano permesso di essere affidata a lui per sentirsi protetta, accompagnata lungo un cammino che, credeva, Daven avesse imparato a memoria tanto da non poter più correre il rischio di perdersi di nuovo. E invece gettarono terra sul suo letto di legno finché Mathilde non potè più vederlo, finché la maggior parte di chi provava pietà e nessuna tristezza si fu dileguato, finché non restarono che un paio di persone da un lato e un paio di fiori colorati sparsi di fianco alla croce dall'altro, là dove una bruttissima gigantografia di Daven sorrideva, ci avrebbe scommesso che a sceglierla fosse stata l'ex moglie, probabilmente non si era neanche accorta che lo scatto era stato preso in un momento in cui aveva usato. Al pensiero si lasciò andare ad una risata divertita che dovette soffocare nel momento in cui una delle due figlie dodicenni dell'uomo si voltò a guardarla, al che, sentendosi malamente giudicata, cercò quantomeno di fare appello al buonsenso, così da serrare di nuovo le labbra invece di commentare l'ipocrisia della madre, ancora in piedi di fianco alla croce e intenta a conversare a voce bassa con il prete. Distolse quindi lo sguardo per spostarlo nuovamente sulla foto dell'ex sponsor, questa volta trattenendo le risate ma lasciando che gli angoli delle proprie labbra si sollevassero verso l'alto. «Testa di cazzo.» sibilò quindi a bassa voce come se potesse conversare ancora una volta con lui, con un tono in cui l'altro avrebbe sicuramente riconosciuto del gioco, com'erano soliti fare da quando avevano iniziato a comprendersi, da quando Mathilde aveva accettato il suo aiuto, da quando era riuscita a mettere la sua rovina da parte per cercare vita altrove. «Ipocrita pure.» aggiunse poi, annuendo piano con il capo mentre lo chinava da un lato. Non era triste, non era arrabbiata, non era delusa. Non aveva mai avuto aspettative diverse dal proprio sponsor, anzi. Sfiduciosa com'era sempre stata, aveva intrapreso quel percorso considerandolo una fase di passaggio, senza volersi aspettare troppo e senza voler avere le aspettative degli altri addosso. Eppure, c'era quella scomoda sensazione che le ribolliva dentro e a cui non riusciva a dare un nome, o forse non voleva e basta. Avrebbe significato sconfitta, avrebbe significato che il seme delle parole del suo sponsor avessero funzionato, avessero smosso qualcosa dentro Mathilde che per molto tempo lei stessa aveva considerato immobile, cementata dentro al petto o dentro al cranio, neanche avrebbe saputo localizzarla nel modo corretto, che a conoscersi era facile dirselo. Era l'eco di un rumore, un pezzo di sé che si stava frantumando a passo lento, ad ogni sguardo posto sul viso immortalato in quella fotografia gigantesca che le stava davanti, nel nero che poteva vedere in mezzo ai denti gialli, nel caos di quei riccioli neri scompigliati, nelle occhiaie che nonostante la pelle scurissima dalla foto sembravano richiamare tutta l'attenzione. Sì, a guardarlo nel ricordo di qualcun altro in lei scaturiva lo stesso un forte effetto e quel rumore sembrava ingigantirsi sempre di più, ad ogni secondo, oltre ogni attimo. Era un piccolo vaso di ceramica che lui aveva riempito piano, goccia dopo goccia, riuscendo a non farlo mai cadere, anche Mathilde aveva imparato a muoversi cauta attorno ad esso, in attesa di una pianta, in attesa di poterci bere forse acqua. Il vaso aveva contenuto il seme di speranze che, quando il telefono aveva squillato due giorni prima, era sparito. La ceramica aveva iniziato a rompersi dall'interno, dei calchi di fratture l'avevano intagliata da cima a fondo e, infine, il vaso si era distrutto in mille piccolissimi pezzi, era divenuto sabbia come ciò che sarebbe divenuto il ricordo di un tossico in qualcuno che la dipendenza non la conosce e non vuole comprenderla, ma solo cancellarla. A quel pensiero, Mathilde abbassò lo sguardo sulla terra sotto i propri piedi, quasi a volersi nascondere dallo sguardo immobile di Daven nella foto, il senso di colpa nato da un pensiero che si era sempre scontrato con quello dell'altro, uno luce e uno ombra, le aveva ricordato qualcuno che un tempo l'aveva amata così tanto da provare a piegare la propria luce per comprenderla, per raggiungerla in luoghi che poi lo avevano catturato e tenuto prigioniero per così tanto tempo che, alla fine, anche loro avevano finito per perdersi. Daven le aveva sempre detto che se fosse rimasta da sola sarebbe annegata, per questo le aveva offerto aiuto, una mano che l'avrebbe tirata su, se lo avesse voluto. Mathilde, d'altro canto, gli aveva risposto che pensava fosse il contrario, che in due era più facile lasciarsi cadere, bastava che anche solo uno dei due perdesse l'equilibrio. A labbra strette e sguardo basso, Mathilde infilò le dita fredde nelle tasche della giacca per riscaldarsi, strinse le spalle immergendo il collo fra le clavicole magre, affondando il mento della sciarpa legata attorno al collo e poi si mosse per dare finalmente le spalle alla croce e avviarsi verso l'uscita del cimitero. Avanzò di qualche passo attraverso gli alti salici che cominciavano a spogliarsi delle foglie, lungo il percorso ciottolato che portava verso il cancello principale quando la sensazione d'essere osservata le fece sollevare lo sguardo di fronte a sè. Non seppe esattamente cosa accadde, eppure pensò avesse pronunciato il suo nome. Mathilde, era quello il suo nome, giusto? Era così che si chiamava? Sì, probabilmente era quello il modo in cui chiunque l'avrebbe conosciuta, o riconosciuta. Si bloccò immediatamente, labbra schiuse, le iridi puntate sulla figura che si era appena ritrovata davanti, le dita delle mani chiuse ancora in due pugni strettissimi avvolti dal calore delle tasche della giacca, le gambe ora tremanti combattevano contro assurde e forse immaginarie folate di vento che la volevano far sbriciolare al terreno come il vaso di ceramica che le si era distrutto dentro con la morte del suo sponsor. Restò a guardarlo per qualche istante ancora, presa dal panico e da un pizzico silenziosissimo di vergogna che sembrava gattonarle lungo la schiena, su e giù, su e giù. Se avesse avuto il pieno controllo delle proprie azioni e del proprio corpo, Mathilde probabilmente si sarebbe messa a scappare, ma Cooper sorrideva e si avvicinava, sempre di più, sempre più vicino, e ad ogni passo nella direzione di Mathilde, le palpebre di questa sembravano sollevarsi così tanto da volersi ritirare sotto pelle, le iridi nocciola che cercavano di catturare tutto quello che potesse darle indizi sul sogno, perché di realtà non era neanche immaginabile parlare. Come poteva? Eppure Cooper camminava nella sua direzione, si fermava dinanzi a lei, allungava una mano nella sua direzione, voleva presentarsi? Era un gioco? Fece un passo indietro, Mathilde, ora la fronte corrucciata e attraversata da rughe d'espressione che sicuramente avrebbero dato a chiunque la parvenza che fosse disgustata da qualcosa, certo non dal tipo che le stava davanti e sorrideva di un sorriso bianchissimo. Tirò via le mani dalle tasche della giacca sollevandone una a palmo aperto verso di lui e una ad indicare sè stessa. «Eh?» fu capace di vocalizzare solamente. Forse parlava a sè stessa, perché quel sorriso che gli vedeva piantato sulle labbra non se lo poteva spiegare, non dopo la tossicodipendenza, non dopo la miriade d'illusioni riguardo una vita perfetta, una famiglia perfetta; non dopo avergli tolto un figlio.
    Non dopo aver preferito l'eroina a tutto quello che avevano e avrebbero avuto.
    Se gli avesse afferrato la mano sarebbero affogati di nuovo?
     
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    I'd forget all the ways that we're broken
    I don't care if you've changed
    I don't even have to stay, huh 🥀

    Poche persone, una manciata appena, una bara calata lentamente sotto terra al cospetto di una croce paradossalmente enorme. Chi c'era dentro quella cassa di legno? Cosa rimaneva del Daven che aveva conosciuto? Solo un corpo vuoto, lì dentro non c'era più niente che faceva di lui il ragazzo vivace e un po' pazzo che agli si era parato davanti il primo giorno di lavoro. Con le mani nelle tasche del cappotto, Coop cercava di ricordare cosa si fossero detti l'ultima volta. C'entrava una pizza di qualche tipo, una roba assurda che l'altro giurava fosse la pizza più buona di quella città. Devi provarla, vedrai, te ne innamorerai. Come di questo posto. Si chiese se si riferisse a Besaid o se intendesse che la comunità del centro recupero gli sarebbe piaciuta. Non glie l'aveva chiesto, forse in quel momento non gli era importato e invece ora avrebbe dato qualsiasi cosa per saperlo. Era troppo tardi, Daven aveva le labbra sigillate e non avrebbe mai più chiarito quel dubbio improvviso. Qualcuno stava parlando, ma la voce faceva solo da sfondo a dei pensieri più gridi del tempo che pesava loro in testa. Nonostante tutti gli addii a cui aveva assistito evidentemente ancora non aveva imparato, Coop, che il domani non è garantito e che bisognava chiedere, preoccuparsi, approfondire senza mai rimandare. Era quello che la gente rimpiangeva di più quando perdeva una persona amata: il tempo che avrebbero potuto condividere, le cose che avrebbero potuto dirsi. Come quella madre che si era vista morire la figlia tra le braccia di uno del primo intervento. Ricordava la sensazione delle costole che si piegavano sotto le dita, sotto i suoi polpastrelli, sotto il peso di un Coop che, disperato, lottava disperatamente per rianimarla; non avrebbe mai potuto dimenticare il sapore chimico sulle labbra della giovane mentre le soffiava aria dentro. I polmoni si riempivano e il petto si alzava, ma una volta che il fiato di Coop usciva niente le restava dentro. Gli era impermeabile, impermeabile alla vita che si sforzava di ridarle. Gli tornò in mente quando, appena arrivati sulla scena, le aveva scoperto le braccia. La madre urlava, fuori di sé, non la smetteva di piangere ma Coop non la sentiva. Guardando le vene gonfie martoriate da piccoli buchi aveva sentito per un secondo mancanza. Si era riscosso subito, naturalmente, ma non riusciva a togliersi dalla testa quei dieci secondi in cui aveva pensato che sarebbe stato bello scambiarsi i ruoli. Era come se il corpo riconoscesse la situazione e ne ricordasse le sensazioni, il solito brivido estatico che provava ogni volta che avvicinava l'ago alla prossima vena. E il sollievo, il piacere dei primi minuti. Qualcosa che non aveva mai più provato allo stesso modo. Ovviamente sapeva che il dopo invece era pure inferno, ma a ricordarsi di quello il cervello impiegò dieci secondi. Dodici minuti dopo, la ragazza era stata dichiarata morta tra le sue braccia. Non aveva mangiato né dormito per giorni, Lara iniziava a preoccuparsi ma lui non riusciva a non pensare alla ragazza e alla madre. Glie l'aveva strappata dalle mani e su di lei ripeteva solo una cosa: torna, devo chiederti un sacco di cose.
    Non conoscere a fondo Daven non era una scusa valida, sentiva che avrebbe voluto sapere più di lui, chiedergli della sua storia e di cosa l'avesse portato ad essere il punto di riferimento principale nella vita dei suoi amici, come li chiamava lui, che di "pazienti" o "clienti" non ne voleva sentir parlare. E invece lì fermo sull'erba umida di pioggia, Coop si rese conto di non sapere abbastanza dell'uomo che solo poche settimane prima l'aveva accolto quasi fosse un amico che non vedeva da tempo, aiutandolo a destreggiarsi con le prime persone, con i cavilli burocratici e a preparare la primissima seduta che da lì a breve avrebbe dovuto tenere. E così Daven era venuto a sapere di un po' della sua storia leggendola dal discorso che Coop stava scrivendo e che ora giaceva lasciato a metà in un portatile rovinato. Come non avrebbe mai saputo di lui, Daven non avrebbe mai conosciuto il finale della storia di Coop e questo pensiero lo attanagliava da quando aveva ricevuto la notizia. Si rese conto che la cerimonia doveva essere finita solo perché le persone presero a muoversi intorno a lui, lasciavano il cimitero per tornare alle loro vite. Lasciavano Daven indietro. Invece Coop si prese qualche minuto in più, non voleva che. Daven si ritrovasse completamente solo tutto insieme. Sapeva che era un pensiero stupido, Daven non c'era più da un pezzo, però avrebbe voluto che qualcuno restasse cinque minuti in più se vi fosse stato lui dentro la bara. Quando finalmente decise di andare, chinò leggermente il capo di fronte alla lapide come ad accomiatarsi, come se fosse irrispettoso andarsene senza salutare, quindi si diresse lentamente verso l'ingresso del cimitero senza tuttavia andarsene. Chiese a qualcuno di lei, aveva solo un nome da associare a quello del centro di recupero ma trovarla non gli fu difficile, visto che quasi tutti i presenti erano più o meno legati allo stesso circolo di cui Daven aveva fatto la propria missione di vita. ≪Lei? Grazie≫ Le indicarono una figura minuscola che ancora vagava tra i salici del cimitero come fosse indecisa se piantare radici e diventare uno di loro o se scappare il più lontano possibile. E sulla linea sottile tra il mondo dei vivi e quello dei morti Coop attese che si avvicinasse, guardandola compiere ogni passo incassata il più possibile nella sciarpa per combattere il vento. Più si avvicinava, più dettagli Coop riusciva a mettere a fuoco. I capelli corti le davano un'aria sbarazzina, le gambe affusolate, il cappotto che sembrava ingoiarla; mosse dei passi nella sua direzione quando riuscì a vederle i contorni delle guance, improvvisamente con la sensazione di doversi sbrigare, di non poter aspettare che fosse lei a raggiungerlo. Non pensò neanche al fatto che fosse strano, seguì solamente l'istinto che lo spingeva a doverla scoprire di più, vederla meglio, raggiungerla come chi si affretta e accorcia le distanza con qualcuno che non vede da una vita. Non disse niente, non la chiamò fino a quando non fu lei a chiederlo. Prima si concentrò sulle ciglia così lunghe da far ombra sulla curva delle guance arrossate, sulla linea dritta del naso, sulle labbra che si schiusero non appena fuori dalla tana della sciarpa. Fu davvero strano, gli parve di riconoscerla. Avrebbe giurato di poter aprire la bocca e chiamarla in qualche modo segreto conosciuto solo da loro, di poter allungare la mano e riconoscere ogni nocca della sua, sbucciata forse dall'impietoso inverno Norvegese. Avrebbe giurato d'essersi già specchiato dentro quegli occhi. ≪Ehm - Mathilde, giusto?≫ Chiese però con un sorriso dolce perché era impossibile. Infatti la strana sensazione si affievolì un poco, forse perché la ragazza sembrava sinceramente spaventata. Come se avesse visto un fantasma. ≪Non volevo spaventarti.≫ Assicurò alzando lievemente le spalle, un movimento impercettibile dei muscoli di schiena e collo. Era pallida, la sofferenza era scritta sul suo volto nonostante cercasse di celarla; scendeva lungo le rughe d'espressione sulla fronte e agli angoli degli occhi, lacrime invisibili che Coop riconosceva. L'istinto fu di abbracciarla ma Coop lo trattenne. ≪Mi dispiace per Daven, non ho avuto tempo di conoscerlo molto ma lui, di te, ha avuto tempo di parlarmi. So che eravate vicini.≫ Spiegò affievolendo il sorriso al pensiero di Daven, una mano che passava tra i capelli scompigliandoli involontariamente. Le dita sostarono su una linea spessa e corta lasciata senza capelli, la cicatrice di un vecchio incidente che toccava sempre in un gesto d'abitudine. ≪Hai da fare ora? C'è una cosa che Daven mi ha detto e di cui vorrei parlarti, magari davanti a un caffè?≫ Tornò a infilare la mano nella tasca, che nel frattempo si era raffreddata come le sue falangi. Bastava un niente e il gelo si prendeva tutto. Con la scusa di aspettare una risposta, Coop la osservò a lungo per capire quella sensazione. Era un solletico fra le mani, un formicolio sul collo, come quando la pelle reagisce istintivamente a qualcosa senza neanche bisogno di toccarla. ≪Se non puoi o non ti va va bene. Possiamo vederci al centro, un'altra volta. Lavoro lì quando posso. Comunque io sono Cooper, Coop.≫ Estrasse la mano dalla tasca affrontando il freddo, qualcosa gli diceva che ne valeva la pena. La trattenne fra loro in attesa che lei la stringesse e confermasse quella sensazione di ritrovamento. O forse no.
     
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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [Descrizione o discussione estesa di dipendenze da alcool e/o droghe;].
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.
    Le azioni descritte non sono ad ogni modo condonate e sono diretta responsabilità creativa di chi ha realizzato tali contenuti.


    A cold arm returns the stolen.
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    ≪Ehm - Mathilde, giusto?≫ la chiamò, eppure fu incerto il modo in cui pronunciò il suo nome. Lo guardò come si guardano vecchie foto per riscoprirsi, alla ricerca di quei piccoli dettagli che rendano ogni prospettiva diversa, che portino a ricordare di ogni sguardo posato con noncuranza, quasi come a volersi punire di non aver mai davvero prestato la giusta attenzione. La cicatrice che dall'alto della fronte partiva e s'infilava tra i capelli castani avrebbe potuto dire molto o dire niente, Mathilde non riusciva a capirlo, eppure si ritrovò a fissarla scoprendola per la prima volta e perché, a guardarlo troppo a lungo negli occhi, temeva che Cooper potesse scoprire a sua volta parti di lei che sarebbero dovute rimanere nascoste. Fu così intenso, quel frangente, che per la prima volta in mesi avvertì il bisogno di qualcosa di ancora più forte. E sarebbe stato facile, avrebbe saputo dove andare, quanto portarsi, dove nascondersi. La fotografia di lei che Cooper stava guardando ritraeva l'estrema immobilità di quella figura minuta avvolta in un cappotto giallo sbiadito, per anni aveva lasciato porzioni di colori qua e là sparsi per inverni lunghissimi e freddi, anch'essi sbiaditi nei ricordi di Mathilde. C'erano foto d'inverni ghiacciati in cui il giallo di quella giacca rianimava ogni sfondo argentato, quasi come il sole che vuole imporsi tra le nuvole a tutti costi. ≪Non volevo spaventarti.≫ - con le mani ancora sollevate dinanzi a sè, Mathilde schiuse appena le labbra per dire qualcosa, eppure fu ancora troppo strano, la testa sembrava aver avuto un corto circuito e il corpo non riusciva a capire in quale maniera reagire. ≪Mi dispiace per Daven, non ho avuto tempo di conoscerlo molto ma lui, di te, ha avuto tempo di parlarmi. So che eravate vicini.≫ aggiunse Cooper, avvicinandosi lentamente a Mathilde dopo aver constatato che, almeno, non sarebbe scappata pensando d'esser avvicinata da uno scippatore. Mathilde ebbe la sensazione di un big bang, un'esplosione che sembrava aver scisso il loro mondo in due e a lei era toccato quello rimasto nella linea temporale del passato, non avrebbe mai raggiunto la frazione all'interno del quale sembrava esser finito lui, uno spazio-tempo nuovo, quasi come la corrente di un vento che ruotava attorno a quello di Mathilde senza mai davvero toccarlo, ci si lasciava spingere per andare avanti, sempre più avanti finché, forse, avrebbe raggiunto la velocità necessaria per distaccarsene completamente. ≪Hai da fare ora? C'è una cosa che Daven mi ha detto e di cui vorrei parlarti, magari davanti a un caffè?≫ proseguì l'altro e, Mathilde, si ritrovò ad inspirare piano, silenziosamente, mentre avvertiva l'effetto di quelle parole sulla pelle, sulla lingua, sotto la punta delle dita che, ora, era tornate ad abbassarsi per afferrare i lembi della giacca gialla e spingerli gli uni contro gli altri così da tenerla chiusa ed evitare al freddo d'infiltrarsi fin sotto gli indumenti. ≪Tu davvero non sai chi io sia.≫ lo sussurrò, un flebile tuono lontano quando la tempesta gira intorno senza mai abbattersi, resta al largo, si spiega sulla superficie del mare, sull'orizzonte di qualcun altro. ≪Se non puoi o non ti va va bene. Possiamo vederci al centro, un'altra volta. Lavoro lì quando posso. Comunque io sono Cooper, Coop.≫ si presentò, sfilando una mano dalla tasca della sua giacca per offrirla a Mathilde che, ora, pur restando ferma lì dov'era, ritirò appena il mento affinché il viso dall'espressione ora quasi incredula si allontanasse di qualche centimetro ancora da lui.
    Con le iridi nocciola che seguivano il contorno delle sue dita, Mathilde guardava ma non vedeva davvero.



    Una ciocca di capelli castani si ribellò alla presa dell'orecchio, ricadendole sul viso. La spinse via di nuovo dietro il lobo con un gesto veloce delle dita, pronta a rincorrerla ancora una volta, fosse stato necessario. ≪Ok, fa' vedere.≫ comandò, allungando il palmo della mano aperta verso l'alto in modo tale che Coop potesse posarvi la propria, sulle labbra la stampa di un sorriso giocoso, due canotti a forma di cuore che si allargavano così tanto da poter attraversare qualsiasi oceano. ≪Solo se mi dici cose belle.≫ rispose lui, eppure staccò una delle mani dalla pancia di Mathilde per afferrare la sua. Strinse appena le dita intorno al dorso di quella di lei prima di liberarla dalla presa per adagiare il proprio sul palmo aperto e in ancora in attesa di Mathilde. ≪Hai paura?≫ chiese lei, voltando appena il capo da un lato per cercare di acchiappare il profilo di Cooper con lo sguardo, la sua figura dietro di lei sembrava abbracciarla con ogni centimetro di pelle, di movimento, di respiro. Accucciati a quel modo avevano passato ore intere su quella veranda, le staffe di legno rosso alle loro spalle nascondevano gli interni spogli di una piccola casa che dava sulle rocce spossate dalle onde dell'oceano e dai venti freddi del nord. Attraverso le piccole finestre incassate in quelle quattro pareti, Mathilde e Cooper avevano avuto modo di vivere giornate intere esattamente come la terra intera viveva ogni suo giro intorno al sole: fermi, in attesa che i secondi passassero, che la luce del sole da arancio mattutino divenisse bianca da far male agli occhi, finendo poi per spegnersi dietro un'orizzonte che si spostava ad ogni ora, e loro due con esso, in costante attesa. Un'attesa che portava con sè il desiderio che un'altra ondata del mare li investisse senza fare di loro pietre che sarebbero state sotterrate nella sabbia, finendo per diventar parte di un abisso dove il sole mai riusciva a sorgere. ≪Di te?≫ domandò poco dopo Coop, avvicinando il mento al collo di Mathilde, il respiro caldo ne carezzò la pelle proprio come continuava a fare una delle mani di Coop, quella posata sulla parte di futuro che presto si sarebbe tramutato in presente e che, in quel momento, comunicava con loro tramite un velocissimo battito cardiaco e qualche gomitata nello stomaco di Mathilde. ≪No, del futuro, se fosse brutto.≫ specificò Mathilde allora, tirando il palmo della mano di Coop verso di sé per guardarlo meglio, delineare le piccole rughe che lo dividevano in tante piccole parti, scompartimenti della vita cui, se solo Mathilde avesse davvero saputo interpretare, forse sarebbe stata anche capace di darvi un nome. Per un momento ci fu silenzio, a parlare era solo il cinguettio di qualche rondine, il campanello di una bicicletta in lontananza, l'acchiappasogni appeso alla porta-finestra che dava sulla veranda. Poi Coop premette piano i polpastrelli della mano libera contro il proprio futuro, sembrava sapere già che forma avesse, al contrario di Mathilde che, con le sue iridi nocciola, cercava di trovarlo fra gli spacchi rosei di una mano. ≪Se siamo arrivati fino a questo punto non può esserlo.≫


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    C'erano cose che, quando il loro mondo si era spaccato in due, erano rimaste solo da un lato, solo in una di quelle due fasce di spazio-tempo in cui erano caduti, separatamente. Se Coop avesse avuto modo di passare dall'una all'altra, avrebbe riconosciuto i movimenti di Mathilde che, quando avvertiva il calore formarsi sotto pelle e girovagarle dentro come un treno che non può fermarsi ad una qualsiasi stazione, faceva come sua madre un tempo le aveva insegnato: sollevato prima un piede e poi l'altro, si sfilò le scarpe da tennis scoprendo i piedi avvolti in un paio di calzini bianchi per tornare a posare le piante dei piedi sui ciottoli freddi del sentiero sul quale si trovavano. Un brivido le percorse la schiena per dilagare su braccia e gambe, raggiunse l'attaccatura dei capelli castani, andò a combattere la sensazione di calore e rabbia che sembrava punzecchiare la radice di ogni nervo. ≪Cos'è che ti ha detto Daven?≫ domandò a voce alta e ferma mentre si chinava per tirare l'elastico delle calze verso l'alto e fermarlo sotto il tessuto dei jeans. Quando risalì col busto, tornò a guardare il viso di Cooper per qualche secondo ancora e poi si voltò per dargli le spalle ed iniziare a camminare a passo svelto in direzione dell'uscita, le scarpe penzoloni fra le dita della mano destra, la presenza di Cooper alle proprie spalle come un'ombra che non aveva il coraggio di guardare, eppure consapevole fosse lì, cercasse di tenere il passo senza mai davvero poterla raggiungere per aggrapparsi alle sue spalle minute. Il deja-vù connesso ad un milione di altre vite, tutte quelle che con lui aveva avuto modo di vivere ma che, ora, sembravano essere solamente sprazzi di un'esistenza che nessuno dei due aveva vissuto per davvero. ≪Ti ha parlato del fatto che avevo dodici anni quando mi sono calata le prime pillole? Che erano di mia madre? O forse del fatto che mio padre è un alcolista senza alcuna speranza?≫ disse, un sorriso amaro le sollevò un angolo della bocca mentre si voltava verso l'altro, mostrandogli il proprio profilo per qualche istante e poi tornare a voltarsi per guardare dinnanzi a sè, i piedi scalzi si premevano frettolosamente passo dopo passo ancora sui ciottoli del sentiero. ≪O magari che sono riuscita a rovinare una delle poche persone a cui tenessi davvero?≫ continuò con una scrollata di spalle mentre avanzava. ≪Oh no, aspetta! Forse ti ha raccontato di tutte quelle volte in cui abbiamo discusso perché io ho detto che un tossico resta un tossico e lui faceva di tutto per farmi credere che non fosse così!≫ probabilmente lo urlò, perché quando si fermò per voltarsi completamente verso Cooper con il palmo della mano libera che andò a premersi contro la fronte in un gesto fintamente teatrale, un paio di uccellini s'innalzarono per volare via dal ramo del salice sul quale erano stati appollaiati fino a quel momento, ed ecco che Mathilde tornava a ricordarsi di una cosa importantissima. ≪Eppure non mi pare sia morto d'infarto!≫ continuò senza riuscire ad abbassare il tono della voce, le scarpe ora le tremavano fra le dita, il respiro faticava a trovare la sua via d'uscita, Mathilde credette di averne accumulato troppo nei polmoni e non sapeva più come farlo uscire. Col rossore a coprirle le guance, forse per via del freddo, forse per via del caldo sotto pelle, espirò silenziosamente nel momento in cui si fu resa conto di aver alzato la voce. Abbassò lo sguardo sui propri piedi, scuotendo piano il capo. Di fianco a loro, a qualche metro di distanza, una coppia li stava guardando, fronte corrucciata e bisbigli nell'orecchio. Li osservò, Mathilde, le sopracciglia incrinate, le labbra serrate, il petto di nuovo gonfio e pieno d'aria e rabbia. ≪Che vi serve, un autografo?≫ li ammonì, lasciando lo sguardo posato su di loro almeno finché non si furono del tutto allontanati. Tornò a guardare Cooper, allacciò il proprio sguardo a lui per davvero solo in quel momento e, per un istante, si vide nell'abitacolo di una vecchia macchina, la vernice grattata via dal tempo e dalla ruggine, era quello che avevano potuto permettersi in quel frangente, dove le banconote erano da racimolare per la roba. Sotto la pioggia che batteva forte quasi volesse frantumare i vetri per attraversarli e picchiarli, Mathilde e Coop si facevano l'ultima volta, l'ultimissima prima di tornare a pulirsi, prima di riuscire ad essere quelli che avrebbero voluto essere: normali, una casa, un figlio, un lavoro, un pranzo e una cena ogni giorno, qualche volta, quando c'era tempo, una colazione. Nient'altro, forse una macchina nuova, forse un giro in bicicletta quando il sole riusciva a riscaldare fin lassù.
    Abbassò la nuca, chiudendo gli occhi per qualche brevissimo istante. ≪Cooper, Coop.≫ pronunciò quel nome e la gola sembrò andarle di nuovo in fiamme. Sospirò, scuotendo il capo e tornando poi a guardarlo. ≪Sembri un tipo a posto, sono sicura che sei un tipo a posto. Starmi dietro non è esattamente il migliore dei modi, per restarci, intendo.≫ bofonchiò nella sua direzione, andando a fermare una ciocca di capelli dietro l'orecchio. ≪Ci siamo già incontrati, noi due, ma se non te ne ricordi eviterei di riportare a galla vecchie reminiscenze.≫ continuò con tono di voce pacato, stavolta, annuendo piano con la nuca, come tutte le volte in cui non aveva avuto la forza di parlare e, con le dita della mano aveva cercato il suo braccio sotto le coperte, la sensazione di avere la lingua annodata nella bocca, nascosta dietro i denti che digrignava per inerzia ad ogni ondata.
    C'erano cose che Daven gli aveva detto e, probabilmente, erano tutte quelle sbagliate.
     
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    Tu davvero non sai chi io sia. Piegò il collo verso destra, scrutandola come se la sua immagine potesse parlargli meglio da storta, dargli più indizi. Le pupille si mossero per prime sulla nuca, immaginando - o ricordando?- un fiocco di neve in lento precipizio, atterraggio morbido e poi una mano, la sua, forse, che lo stringeva fra pollice e indice prima che squagliasse fra capelli bruni già mezzi inzuppati. Poi scesero giù sulla fronte, alle righe di pelle contrite da una rabbia inspiegabile e sulle guance, che il vento prima colorava e poi sbiancava di freddo. Perlustrandola evitò di sostare sugli occhi, che d'improvviso non riusciva più a sostenere; dopo, sotto la linea netta e un po' affilata della mandibola, c'era una matassa gialla impermeabile che impediva alla pioggia di entrare ma che di certo non bloccava la colpa sputata e racchiusa in quella frase che domanda non era, ma pura affermazione. Davvero non sapeva chi fosse e a quanto pare avrebbe dovuto. La cosa lo faceva sentire inspiegabilmente a disagio. Prima del blocco giallo però scorse il collo, giusto il profilo, che con un gesto si vide nella mente spostare i capelli per esporlo a qualcosa, forse alle proprie labbra, forse alla punta delle dita. Ma lui era immobile e, mentre il riscaldamento globale assicurava zero tracce di neve, lui quasi tratteneva il respiro per non muovere un muscolo ed evitarsi, anche solo per sbaglio, di poter fare una qualsiasi di quelle cose appena immaginate - o ricordate? ≪Non proprio.≫ La smentita servì da interruttore di sblocco mentre Coop ricominciava a trovare le proprie capacità intellettive e motorie, sfilando una mano dalla giacca per affrontare il freddo e indirizzando le iridi castano scuro di nuovo sul viso di Mathilde, in quegli occhi a lungo evitati. ≪ Una mezza idea ce l'ho ma me l'hanno data altri. Mi piacerebbe farmene una mia, prima o poi.≫ Accennò un sorriso. Con lui, anche il più piccolo arrivava ad accendere gli occhi. Quando arrivò a fermarsi fra loro, il vento aveva già raffreddato la pelle e le linee sul palmo. Le stesse che Mathilde aveva sfiorato una miriade di volte alla ricerca del loro futuro pregando che fosse felice. Aveva visto quel paio di occhi cambiare modo di guardarla o le era sfuggito, forse, che avrebbero potuto non riconoscerla più?

    Aveva sempre avuto un grande problema, Coop. Non ricordava bene quasi nessuna delle sue prime volte. La prima birra era stata forse una vodka liscia, o una tequila con il sale sul dorso della mano e il limone subito dopo; della prima volta con una ragazza ricordava il viso e il sorriso, il luogo, prima avevano diviso un sundae lasciato a metà, ma non avrebbe saputo rivivere le sensazioni provate, il com'era stato. I momenti che per tutti erano di impatto con lui non attecchivano ma scivolavano via gradualmente, come acqua sul vetro di un finestrino qualunque.
    All'inizio contare le volte era stato facile, i buchi ne tracciavano una mappa triste che girava in tondo senza portare in alcun luogo. A lungo andare diventò però più complicato, le storie si accavallavano a vicenda storpiandosi come le ferite, alla ricerca disperata di spazio su una superficie al limite sfruttata all'inverosimile. Aveva perso il conto di tutti quei sentieri a graffio sulla pelle e aveva smesso di immaginare di collegare i buchi come faceva da bambino, formando stelle o contorni di animali su pezzi di carta bianca.
    Una volta, l'istinto l'aveva spinto a ricalcare le orme di quel ricordo usando la punta delle dita mangiucchiate dalla paranoia dell'attesa della prossima dose per tracciare linee immaginare su una pelle più ferita della sua. Che non fosse suo il braccio che toccava con dita imprecise impiegò un po' a capirlo, perso in uno strato sottile e denso che annebbiava la mente e che, per quanto lo riguardava, poteva essere la stratosfera o il terzo girone dell'inferno. Non avrebbe cambiato nulla, a meno che non ci fosse stata lei. Se avessero tolto lei dallo smog cerebrale niente avrebbe avuto più senso. Quella fu una prima volta che non avrebbe dimenticato mai. Steso a torso nudo tremava come una foglia accanto a Mathilde, un tronco fermo ed esperto che provava a raggiungere per non staccarsi e cadere; per unire i puntini sperando di formare una stella di buchi sull'avambraccio bianco di lei, visto che sul proprio era impossibile. Da un punto solo non si crea niente e invece voleva creare tutto con Mathilde, per questo si era bucato quella prima volta. Voleva raggiungerla, capirla, realizzare figure di un futuro felice come quando da bambino univa quei dannati puntini su fogli bianchi. Quella prima volta l'avrebbe ricordata per sempre, o quasi, almeno fino a quando non glie la rubarono di forza, insieme a un sacco di altre immagini.

    Un brivido scosse l'alta figura come fa il vento dopo aver trovato il modo di insinuarsi nello spazio vuoto dei vestiti, o quando un paio di scapole spoglie si adagiano sul pavimento freddo e il gomito si torce per raggiungere il braccio di qualcun altro. Ma non poteva saperlo, era l'istinto che cercava di parlargli senza che Coop fosse ancora in grado di ascoltare. Quindi, in alternativa, si sentì profondamente a disagio mentre seguiva i movimenti di Mathilde e la vedeva piegarsi per togliersi le scarpe, accartocciata come un foglio di carta che sta bruciando. Un grumo confuso crucciò la pelle fra le sopracciglia, uno nodo scorsoio ben intricato. ≪Che cosa...Fai? Forse, ma non riuscì a finire la frase in tempo prima che le sue spalle rimpiazzassero il viso stravolto e iniziassero a ondeggiare allontanandosi. ≪Ma che cazzo...≫ Disse a bassa voce mentre le braccia si sollevavano per ricadere subito dopo lungo i fianchi. Per un attimo restò lì come se gli avessero incollato le suole al selciato, incapace di decidere sul da farsi. Seguirla rischiando di sembrare uno stalker o lasciarla andare via sapendo quanto fosse facile in quelle condizioni avere una ricaduta. Non appena formulò quel pensiero si mosse per ricalcare i passi di Mathilda le cui, piccolissime, impronte Coop deformava con ogni nuova falcata. La lasciò parlare urlando al vento di fronte a lei ma sentendo comunque il peso di ogni singola frase come se glie la stesse sputando in faccia. Abbassare lo sguardo influì anche sul capo, che inclinò leggermente in avanti sentendosi di nuovo in colpa di qualcosa che non riusciva a comprendere fino in fondo. Forse era il modo in cui gli spiattellava la sua storia come se non ne avesse riguardo e con un dolore che lo feriva, chissà perché, più a fondo del solito. Ci si rivedeva in quella donna stretta in un impermeabile giallo lambito dal vento e che, ora d'improvviso ferma e rivolta verso di lui, sembrava un faro affaticato dal maltempo e sul punto di crollare. O forse non sentiva di avere il diritto di essere lì, di essere una frode, un falso, perché la sua storia non era neanche lontanamente paragonabile a ciò che aveva passato Mathilde. E si maledì pensando pure di aver sbagliato tutto. Approcciarla dal nulla al funerale di quello che, era chiaro, era stato di più che un semplice sponsor. ≪Okay.≫ Espirò quelle due sillabe come ne valesse della sua vita, mentre con un gesto si scusava con la coppia che osservò allontanarsi di fretta per fuggire da tutta quella rabbia e disperazione. Invece lui restò, anche se era difficilissimo. Non si sarebbe mai del tutto abituato al dolore altrui, non avrebbe mai anestetizzato i sensi per impedirsi di avvicinarsi come invece facevano un sacco di colleghi. Avrebbe sempre preso un po' di quel male portandolo con sé per giorni. Sarebbe uscito con lui da quel cimitero anche senza che lo facesse Mathilde, accompagnandolo e pesandogli sul cuore per tutta la notte. Lo faceva volentieri se serviva, almeno un po', ad alleggerire la tristezza di lei. Alzò il capo così velocemente da farsi quasi male. Il suo nome detto così- così come, poi?- suonava come se non fosse la prima volta che quelle labbra si piegavano con lo scopo di chiamarlo. Fece un effetto strano e così forte da avvertirlo sulla pelle, che si increspò in un brivido inspiegabile. Le labbra si chiusero in una linea sottile mentre le sopracciglia formavano il solito nodo di confusione sulla fronte e lui cercava di decodificare i significati dietro quelle ultime frasi. L'impulso di estinguere un prurito all'avambraccio lo spinse ad alzare una mano per poi ripensarci e tornare sui suoi passi. ≪Mi dispiace. ≫ ripetè di nuovo, scusandosi per la seconda volta nel giro di cinque minuti. ≪forse mi confondi con qualcun altro o--≫ prese respiro, concedendosi un secondo che non servì a nulla per riordinare i pensieri. ≪o se è vero, se ci conosciamo già, spero questo possa aiutarti a fidarti di me.≫ Si poteva cogliere una sottile nota di disperazione nella voce di Coop, come se pregasse di essersi comportato bene in qualsiasi passato o fantasia parlasse Mathilds in modo da poterla aiutare nel presente. Alzò la stessa mano di prima, questa volta portando il palmo ad aderire nei dintorni del cuore. Una forza indicibile voleva che aprisse le braccia per incastrare quella sconosciuta proprio lì, tra lo sterno e la spalla; un posto, quello, che sembrava giusto dovesse appartenerle. Si schiarì la voce graffiando aria nella gola secca mentre abbassava la mano e faceva uno o due passi verso di lei. ≪Hai ragione, un tossico resta un tossico per tutta la vita, per questo deve combattere ogni giorno per non ricaderci. Non finisce mai, è estenuante... ≫ prese a sfilarsi il cappotto e poi la giacca del completo da una manica sola, lasciando che penzolassero entrambe da un lato mentre riprendeva a parlare, più accaldato nonostante il freddo che ora percepiva sul torso. ≪è un lavoro che ti spacca la testa e il corpo, è un pensiero fisso che non se ne andrà mai del tutto ma alcuni ce la fanno, Math, alcuni riescono a vivere una vita felice te lo giuro. E Dio, voglio davvero che tu ce la faccia.≫ Confessò di getto quella cosa con una tale sincerità e passione che suonava strano persino a lui mentre, rimossi i bottoni dall'asola, finalmente riusciva ad arrotolare la camicia fino al gomito e lo lasciava andare lungo il fianco, la prova che alcuni ce la facevano.
    Sbiaditi come disegni un tempo a colori sgargianti e ora slavati dalla pioggia, i segni dei buchi si confondevano sulla pelle come tante piccole lentiggini. Non era qualcosa che sottolineava mai alle altre persone e non perché se ne vergognasse. Era intimo, era mettere a nudo una parte che non tutti era dato conoscere. Per un momento che parve infinito Coop non fece altro che guardare in quegli occhi scuri nella speranza di scorgervi chissà cosa, forse una di quelle assurde sensazioni che lo coglievano da quando l'aveva incontrata, solo dieci minuti prima. O, come diceva lei, una vita fa. Immaginò nella mente le braccia trafitte di lei, i segni forse più recenti dei suoi, forse ancora sporgenti. Vide quella immagine come se anche lei avesse scoperto le braccia, come se gli si fosse esposta una dozzina d'altre volte prima. ≪Non sarà mai lo stesso, non sono Daven, ma permettimi di aiutarti. Per favore.≫ Riscuotendosi, abbassò voce e sguardo mentre la mano libera iniziava a spiegare la camicia per ricoprire quella mappa di dolore che, sebbene antico, a volte sentiva ancora pulsare sotto i vestiti per tornare a galla. ≪Posso iniziare offrendoti un caffè?≫ Un sorriso un po' mesto distese le labbra di Coop, che intanto si rivestiva lentamente.

    sto dormendo in piedi, non ho riletto nulla scusa cià tvb


    Edited by scarecrow! - 3/5/2024, 00:37
     
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3 replies since 23/11/2023, 14:47   97 views
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