Second star to the right and straight on 'til morning.

Kara & Lynch

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    Il rumore dei battiti cardiaci e del fumo che fuoriusciva dalle labbra di Lynch erano gli unici rumori udibili a distanza di chilometri. Sdraiato nell'erba umida imperlata di rugiada, il capo appoggiato a un frassino secolare, Lynch osservava il firmamento con gli occhi immobili, persi nella miriade di nubi simili a soffici palline di ovatta che dipingevano il cielo color argento. All'uomo servivano quei momenti di pace, lo aiutavano a far luce sul proprio presente e ad ipotizzare il destino al quale andava incontro. Sognava, rimuginava, sperava e sospirava mentre il mozzicone di sigaretta che teneva in una mano si accendeva dello stesso bagliore delle stelle. Gennaio era iniziato senza troppe cerimonie e le feste sembravano ormai un lontano ricordo cristallizzato nelle fotografie e nelle memorie della popolazione di Besaid. Per Lynch quell'anno erano state un sunto di momenti piacevoli e spiacevoli, un minestrone finito male che ora si faceva sentire con l'amaro in bocca, arido e pungente come il fiele. Messe da parte le tristezze, si era concentrato esclusivamente sul proprio lavoro e sulle festività natalizie che aveva cercato di trascorrere nel migliore dei modi. Quelli erano i pensieri che si imponeva di custodire in quel periodo, anche se per forza di cose le era impossibile non pensare alla fonte dei suoi problemi. Spesso si scopriva a piangere silenziosamente senza un motivo apparente e un attimo dopo a ridere della più futile delle banalità. Si sentiva profondamente instabile come mai si era sentito fino a quel periodo e si era confidato più volte con la sua amica Anastasia, senza però fare nomi precisi. Non osava pensare alle conseguenze se avesse fatto diversamente. Lui era stato un angelo dalle fattezze demoniache, con quello sguardo di ghiaccio così simile a quello di Kara, più buona e misericordiosa di quanto lui avrebbe mai potuto essere.
    Quel giorno non doveva seguire nessuno studente e non aveva nemmeno impegni precisi con nessuno, così aveva deciso di ritagliarsi un pò di tempo per se e fare quattro passi in uno dei luoghi che più adorava della sua città: il Vennelyst park. Lo aveva sempre visto come l'equivalente dei giardini giapponesi zen, un luogo immerso nel verde dove poter meditare in pace e tranquillità, con l'unica compagnia della popolazione animale che sguazzava nell'acqua limpida del laghetto artificiale e quella annidata tra gli alberi. L'inverno aveva donato a quel luogo un aspetto quasi spettrale, ma non meno incantevole. Gli alberi spogli proiettavano le loro ombre come scheletri opachi e i colori spenti facevano somigliare quel parco a un dipinto d'epoca. E nell'attraversarlo ci si sentiva realmente in un'altra dimensione, persi in un mondo tutto nostro e quasi irreale. Abbandonò la sua postazione, leggermente intirizzito dal freddo, per fare quattro passi immerso nella natura spoglia. I passi degli anfibi sull'erba lasciavano ampie impronte che svanivano nell'arco di pochi istanti, giusto il tempo di far rialzare gli steli d'erba dopo che i suoi piedi li avevano calpestati. Bardato come se si fosse trovato al polo nord. Aveva deciso di tenere scoperte solo le mani, coprendosi anche i capelli con un berretto blu cobalto sul quale svettava un marchio che non conosceva. Era colorato e teneva un caldo micidiale; ultimamente non se e separava mai, quasi fosse la coperta di Linus. In generale era sempre stato una persona freddolosa in quanto affetto sin dalla tenera età da anemia perciò non era insolito vederlo fasciato in strati e strati di abiti in pieno inverno. Ironico che proprio lui, la cui particolarità era la criocinesi, ossia la capacità di creare e controllare il ghiaccio e correnti d'aria fredda, fosse sensibile ai climi freddi.
    Deviò il percorso, raggiungendo il limitare del laghetto artificiale, gettano un'occhiata distratta ai tremolii sulla superficie dell'acqua provocati dai pesci guizzanti. Picchiettò i talloni sul terriccio ricoperto di foglie secche ed erba, oscurato dalla sua stessa ombra, immaginando di trovarsi in una calda isola tropicale. Da lì riusciva a scorgere oltre qualche albero il fuoco acceso sulla sabbia finta sul limitare del lago artificiale e tutto intorno una folla di giovani beasidiani intenti a dimenarsi battendo ripetutamente i piedi scalzi sul bagnasciuga. Li conosceva tutti, dal primo all'ultimo, in estate aveva servito e riservito una buona fetta di loro. Cocktails, di ogni forma e dimensione. Ormai la sua fama lo precedeva tanto da essere stato soprannominato "l'amichevole Lynch di quartiere", per chi era solito andare a trovarlo al bar sulla spiaggia alla ricerca dei suoi servizi. Tutti sapevano cosa fosse in grado di fare, a meno che non si avventurassero per quelle strade per la priva volta, e tutti lo cercavano sicuri di fare un buon affare. Immergendosi nei suoi cupi pensieri, fu proprio in quel momento, quando con distrazione osservò la propria immagine riflessa nelle acque torbide che una folata di vento lo investì in pieno viso facendo si che il suo berretto abbandonasse i suoi capelli color ebano e svolazzasse fino a planare nell'acqua, come se vivesse di vita propria.
    «Dannazione!» il vento norvegese è qualcosa al quale o ci si abitua o lo si detesta finché non si cambia aria, trasferendosi in un luogo dal clima più temperato cosa preclusa ai cittadini di quella città, se non per un lasso di tempo piuttosto ridotto. Lui era nato letteralmente nel vento, durante una giornata piovosa con i rami degli alberi in movimento che suonavano una sinfonia di gioia per la sua venuta al mondo. Gli piaceva, a parte quando era talmente forte da far lacrimare gli occhi e arrossare le guance; quelle si arrossavano quasi sempre, era una specie di certezza ogni volta che metteva piede fuori casa in inverno. Automaticamente iniziò a gesticolare forsennatamente nel disperato tentativo di riacciuffare l'oggetto perduto, invano. Lo vide planare con grazia e i colori vivaci scurirsi a contatto con l'acqua. Fortunatamente non era molto lontano dalla riva così si inginocchiò allungando un braccio nella speranza di riprenderlo. Comprese presto che si sarebbe dovuto sporgere di più, ma prima di farlo si guardò intorno con il respiro affannato. I suoi occhi cerulei localizzarono una figura distante non troppi metri che camminava quietamente nella sua direzione. Il suo arrivo poteva rivelarsi provvidenziale per la sua causa. Cercò di attirare la sua attenzione a parole, issandosi in piedi ed indicando l'oggetto che galleggiava placido nel lago. «Mi aiuteresti a prend...?» Quando riconobbe i tratti fisiologici della ragazza, la voce gli si mozzò in gola e rimase pietrificato. Non poteva essere. L'istinto lo portò a credere di aver avuto un'allucinazione, che fosse succube dei proprio desideri, ma più ella si avvicinava più aveva conferma di non star sognando. Era Kara, in carne ed ossa, dopo tutti quei mesi trascorsi chissà dove.
    Il suo battito cardiaco accelerò e avvertì il sangue pompargli ad una velocità allarmante. Sbatté le iridi, cercando ancora di convincersi che stava sognando, o che si trattava di un triste scherzo del destino che aveva voluto far passare proprio lì una ragazza molto simile a Kara. Ma conosceva ogni centimetro di quel corpo e sapeva di avere ancora abbastanza neuroni da non cadere in allucinazioni.
    «Non può essere...» le parole gli morirono in gola e il tono fu talmente basso che di certo furono udite unicamente da lui. Dov'era stata per tutto quel tempo? Perché non gli aveva mai scritto o risposto alle sue telefonate? Si era perfino azzardato a mettere piedi fuori di Besaid pur di scoprirlo, cercandola in tutti i luoghi dove riteneva sarebbe dovuta essere, ma nessuno aveva saputo dargli alcuna informazione utile. Il primo periodo aveva patito le pene dell'inferno, poi si era convinto di una triste possibilità che carinamente suo fratello gli aveva prospettato. Lapidario come sempre il buon vecchio Martin. Invece eccola li, girovagare per la città come se niente fosse, minimamente intenzionata, a quanto pareva, ad avvertirlo o dargli sue notizie. Il nulla, questo aveva ottenuto in tutto quel tempo.
    Il berretto si faceva placidamente cullare dalle piccole onde del laghetto ma ormai per Lynch non rappresentava che un futile ricordo.
     
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    Vennelyst park, Besaid - mattina del 16 gennaio 2018

    Kara Andersen


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    Come la neve che ricopriva luogo dove si trovava ora. Così simile ma così diverso dalla landa deserta che era la sua mente in quel momento. Il silenzio era la differenza fra le due cose: il soffice e dolce suono della neve che, cristallo dopo cristallo, si posava sul manto candido che aveva sepolto l’erbetta verde del prato e gli scuri, secchi e spogli rami degli alberi che decoravano le grandi aiole del parco. Tornare a Besaid non era stato facile sia fisicamente che emotivamente parlando: troppe ore di volo dove non era riuscita nemmeno un secondo a chiudere occhi, le fitte che ad ogni vuoto d’aria sopraggiungevano nella testa facendole chiudere gli occhi per attenuarne il dolore, le assistenti di volo che rompevano le balle ogni cinque secondi chiedendole se voleva qualcosa per dormire o per sentirsi più comoda. Non aveva bisogno di una camomilla o di un cuscino in più, aveva solo bisogno di atterrare sulla terraferma, sana e salva. Non aveva paura di volare e nemmeno soffriva i mezzi di trasporto, anzi… Non si riusciva a spiegare perché in quel viaggio era stata così scomoda e alquanto nervosa. Forse, perché dopotutto era un viaggio importante. Un viaggio alla ricerca di sé stessa, di ciò che era diventata da un anno fa ad ora. Ricordava ancora il giorno in cui aveva deciso di partire per Besaid. Ovviamente sua mamma non l’aveva presa per nulla bene. Appena aveva tirato fuori il biglietto aereo datato al giorno successivo, la madre era scoppiata in lacrime. Erano da sempre molto legate, le voleva bene più di chiunque altro ma lei aveva bisogno di sapere. Nel suo telefono aveva trovato nuovi numeri segnati con nomi di persone a lei sconosciute. Chi erano? Che cosa erano state per lei? Nemmeno il leggere ripetutamente e ripetutamente quei nomi era riuscito a smuovere qualcosa nella sua mente. Nessun ricordo brutto o bello, nulla, il vuoto. Ancora bianco.

    Quel colore l'aveva tormentata per mesi, rinchiusa in una sterile e anonima stanza d'ospedale, incollata al letto, incapace di muoversi. Suoni, rumori, pochi colori che correvano veloci, fuori dalla stanza. Camici verdi, lenzuola rosse sporche di sangue, tubi di respirazione azzurri, liquidi e medicinali dalle più svariate tinte e tonalità. Era stata quella la sua vita per quasi un anno. Circondata da rumori artificiali -quelli naturali erano tutt'altro che suoni piacevoli- e colori innaturali, chimici, falsi, inventati, freddi... Credeva di stare impazzendo rinchiusa in quell’ospedale. Grazie a Dio, dopo circa tre mesi di degenza gli era stato permesso di continuare la guarigione a casa, circondata dalle persone amate. Quando finalmente era uscita da quella prigione candida, la pelle di Kara accolse i raggi del sole come vecchi amici. Chiuse gli occhi, inspirando l’aria fresca dei primi giorni di autunno, dove le foglie degli alberi si tingono del colore del tramonto infiammato.

    Voleva imprimere nella sua mente la sensazione di libertà e di sollievo che provava in quel momento. La libertà di essere di nuovo sé stessa, il sollievo di essere uscita viva e vegeta da quella brutta situazione in cui si era cacciata. Viva, sebbene incompleta. Ma per quello avrebbe presto rimediato.
    Infatti, una volta ripresasi completamente e aver ricevuto l’ok dai dottori, la ragazza aveva prenotato un volo per la Norvegia, nonostante le suppliche di sua madre di non intraprendere quel viaggio. Suo padre, al contrario di ciò che si aspettava, senza dirle nulla l’aveva abbracciata: “Spero che questo viaggio ti aiuti a stare meglio, tesoro mio. Se ti farà sentire bene, non ti fermerò.” le aveva sussurrato all’orecchio. Il giorno dopo l’aveva accompagnata fino in aeroporto e al cancello di imbarco, sulle guance di Kara si erano andate a posare delle calde lacrime, calde di amore e di un affetto infinito, come l’universo stesso.

    Era tornata a Besaid da qualche settimana ormai: nel giro di poco tempo era riuscita a costruirsi una vita lì. Lavorava per la pasticceria/forno del centro, che in quel periodo era incredibilmente affollato per via della stagione invernale e si era sistemata in un bel monolocale, poco lontano dalla spiaggia, lo stesso che aveva occupato durante i mesi del viaggio-studio. Sul suo telefono aveva trovato la sim norvegese, piena di numeri corrispondenti a nomi a lei del tutto sconosciuti. Amici? O semplici compagni di corso? Beh, presto l’avrebbe scoperto, per cui perché sforzare la memoria? Era riuscita a contattare la sua vecchia padrona di casa e le aveva spiegato la situazione. La donna, Elga Kristoffen, le aveva ridato il suo vecchio alloggio senza alcun problema. A detta della padrona di casa, Kara stessa le aveva chiesto di tenerle sempre da parte un posto dove stare in città, perché sarebbe tornata più volte dopo il temine dello scambio. Come mai ho fatto una simile richiesta alla signora Kristoffen? Cosa c’è di così importante in questa città? Cosa mi lega a questo luogo? si era chiesta non appena era rimasta da sola a sistemare i bagagli nel monolocale, lo sguardo fisso sulla porta che si era richiusa solennemente davanti ai suoi occhi.

    Dopo una settimana di scombussolamento generale, finalmente si era abituata al fuso orario e aveva finalmente smesso di andare a dormire alle cinque per poi svegliarsi qualche ora dopo, rimanendo in piedi tutta la notte. Una cosa che non riusciva ancora a fare però era riuscire a dormire fino ad un orario decente la mattina. Per il suo corpo era pomeriggio e per cui passava le sue mattinate a girovagare per la città ancora deserta, alle prima luci dell’alba, quando la rugiada si stava giusto posando sulle foglie dei sempreverde, impassibili di fronte alle grandi nevicate norvegesi. Quella mattina in particolare, Kara si era ritrovata a passeggiare nel grande parco di Besaid, Vennelyst park. Non aveva alcun ricordo di quel parco. Tutto era una novità per lei. Da quando era arrivata li, la sua memoria non era migliorata nemmeno un po’. Probabilmente è ancora troppo presto… O forse è stato uno sbaglio, venire qui… pensò sconsolata, appoggiandosi al tronco secco di un albero spoglio. Alzò lo sguardo verso il cielo coperto da nubi che promettevano altra neve. Gli occhi glaciali scrutarono l’alto, in cerca di qualcosa, un segno. Una nube di vapore caldo uscì dalle sue labbra, librandosi nell’aria, raggiungendo le particelle di idrogeno e ossigeno che con molta probabilità presto sarebbero cadute sotto forma di cristalli di ghiaccio. Il silenzio avvolgeva il parco, gli animali sopiti nel letargo, i boccioli ben lungi dal crescere sui freddi e sterili rami. Tutto era silenzio intorno a lei. Dentro di lei, forse, il silenzio era ancora più assordante.

    Dopo aver vagato per qualche minuto senza una meta, era finalmente giunta nelle vicinanze del laghetto al centro del parco. Provò ad immaginarlo durante la primavera: poteva vederlo chiaramente, lo specchio d’acqua di un azzurro celeste, che rifletteva il cielo candido e sereno; il sole caldo che andava a picchiare sulla superficie, schermandola, rendendo invisibile il fondo. I fiori e l’erba del prato verde come solo in quegli sconfinati e selvaggi luoghi poteva essere, non come l’erba quasi finta di Central Park. Tutto era vita intorno a lei, lì a Besaid. Un ricordo…? Nel momento stesso in cui la mente tornò alla realtà, Kara si chiese se l’immagine appena visualizzata fosse frutto della sua fantasia o se fosse qualcos’altro… Qualcosa di più consistente, vero, reale… I suoi pensieri furono però interrotti da un grido d’aiuto: Mi aiuteresti a prend...? L’uomo davanti a lei aveva perso le parole. Vide nei suoi occhi lo stupore di chi dopo molto tempo naufrago nel mare della solitudine, scopre uno spirito affine, complementare. Due zaffiri di ghiaccio, così simili ai suoi, la scrutarono, come se stesse cercando chissà quale conferma. Mi conosce…? si chiese, vedendo la reazione dello sconosciuto. Percepì il fiato farsi corto, irregolare. Lei lo guardò, stregata. Era veramente un bel ragazzo. I riccioli scuri che ricadevano disordinati sul viso, sul capo appiattiti dal berretto che era inavvertitamente finito nelle gelide acque del laghetto. Era bardato dalla testa ai piedi a differenza sua che con un maglioncino e un piumino che portava aperto, se ne andava in giro come se non ci fosse una temperatura sotto lo zero. Effettivamente da quando era tornata, aveva sempre caldo. In camera non aveva ancora acceso il riscaldamento ora che ci pensava. Che strano. Sarebbe meglio provare la febbre una volta tornata a casa… si appuntò mentalmente nella sua lista di cose da fare per la giornata. Il berretto si allontanava sempre più dal suo proprietario, forse i pesciolini stavano tirando un brutto scherzo al ragazzo. Lesta, Kara prese un rametto usato come braccio per quello che avrebbe dovuto essere un pupazzo di neve e, tenendosi ad al ramo dell’albero che dava sull’acqua, si sporse tentando di acciuffare il cappello biricchino. Dopo due o tre volte che si allungò come meglio poteva, riuscì a incastrare il ramo fra il tessuto. Spero di non averglielo rotto… Una volta portato a riva, lo prese in mano e lo strizzò delicatamente per poi avviarsi verso l’altra figura, poco distante da lei. Non si era mosso di un millimetro, ancora scioccato da chissà quale cosa. Le pareva di aver sentito altre parole uscire dalla sua bocca ma non era riuscita ad ascoltarle bene. Aveva un brufolo in fronte per caso? Le era colato il mascara? Non capiva cosa c’era di così eclatante… Lo guardò perplessa, inarcando le sopracciglia, mostrando una lieve ruga d’espressione sulla fronte. Alla fine, si decise a parlare: “Ecco qui… C’è un bel venticello in questi giorni, eh?” chiacchierò incerta. Non sapeva bene cosa digli anche lei, dopotutto era uno sconosciuto. “Mi spiace solo che si sia bagnato tutto… Puoi avere il mio berretto se hai freddo, tanto io sto morendo di caldo…” disse, togliendosi il suo, lasciando cadere liberi i lunghi capelli scuri sul cappuccio della giacca. Glielo porse, attendendo che l’altro lo prendesse. Si soffermò a guardarlo bene in faccia. La pelle era leggermente abbronzata, un leggero segno chiaro marcava il contorno degli occhi, forse degli occhiali da… Sci? Visualizzò la stessa faccia che aveva davanti ma con in testa un casco e sulle labbra un sorriso pieno d’amore. Un amore sincero, di quelli che ti rapiscono, come un fulmine a ciel sereno e dentro di lei si fece largo un sentimento di serenità, di casa… Era felice nel vedere quel sorriso ma, perché? Lei non lo conosceva e lui in quel momento era ben lungi dal sorriderle. Gli occhi erano si sorpresi ma con uno sguardo più attento colse in loro una grande nostalgia, un dolore lancinante, come se qualcosa di importante, di vitale, era andato perduto, forse per sempre? Dopotutto, chi meglio di lei poteva capire cosa voleva dire perdere un pezzo di sé… Dopo qualche secondo erano ancora lì, a fissarsi intensamente. Nessuno dei due riusciva a staccare gli occhi di dosso all’altro. Che stava succedendo? Improvvisamente Kara interruppe il contatto visivo alla vibrazione del suo cellulare. Mise le mani in tasca e guardò il dispositivo, distrattamente. Era semplicemente Leo che le chiedeva come stava e se si era sistemata bene. Alzò gli occhi al cielo e rimise lo smartphone al suo posto. “Devi scusarmi ma il mio amico si preoccupa troppo per me. A volte è insopportabile ma non lo fa con cattiveria.” disse distrattamente. Effettivamente non aveva idea di cosa dire o fare… Lasciò all’altro l’iniziativa, continuando a guardarlo intensamente. Non lo stava squadrando, non si sarebbe mai permessa. Ma c’era qualcosa di magnetico in lui che la teneva soggiogata. Non riusciva a spiegarselo. Non aveva mai provato nulla del genere con nessun’altro al mondo. O forse si…?

    Edited by _kane;san - 2/2/2018, 23:12
     
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  3. Lynch‚
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    KSVC3YI
    Difficile dire come si sentiva Lynch in quel momento. Si era sentito martellato da una raffica di emozioni che lo avevano investito troppo rapidamente perché riuscisse a capacitarsi di ciò che stava accadendo. In primo luogo la felicità, dopo tutto quel tempo trascorso lontano l'uno dall'altra, di poter finalmente rivedere Kara. In secondo luogo subentrò la collera per tutta la disperazione provata a causa della sua sparizione; non un avviso, un biglietto, una telefonata, un messaggio. Niente di niente. Ed infine, e se ne accorse rapidamente, sorse in lui una profonda paura ed inquietudine perché leggeva in quelle iridi che conosceva a memoria, come una mappa stellare per un astrologo, che non lo riconosceva. E le sue parole non fecero che confermare le sue supposizioni. Kara si rivolse a lui come una qualsiasi estranea, o conoscente, fa con una persona che ha visto la mattina precedente; non era freddezza la sua ma un'amichevole distacco emotivo che per Lynch era impensabile. Lo stava prendendo in giro? No, non era da lei, e anche se fosse stata avvezza agli scherzi il suo corpo esprimeva il contrario. Erano sinceri i suoi gesti, sincero il suo sguardo. A quel punto Lynch ipotizzò che dietro quel comportamento vi fosse un bislacco tentativo di oscurare dei sensi di colpa che, forse, l'attanagliavano da tempo. Sensi di colpa per come si era comportata nei suoi confronti e magari sarebbe perfino riuscito ad ottenere delle spiegazioni in merito se l'avesse assecondata. Si domandò come si sarebbe comportato se si fosse trovato al suo posto; di certo non avrebbe optato per quell'arlecchinata, ma avrebbe cercato un altro escamotage per riavvicinarla. Doveva considerare però che Kara era una persona estremamente creativa, che in più di un'occasione lo aveva stupito con la sua inventiva. Tenendo conto di questo non avrebbe dovuto stupirsi che cercasse di riapprocciarsi a lui dopo tutto quel tempo in un modo così particolare. «Mh si, effettivamente un vento come questo non è insolito in questo periodo dell'anno.» le rispose grattandosi il capo, arruffando ulteriormente la matassa intricata di boccoli corvini. Si sentiva impacciato in quel ruolo, non era il tipo di persona in grado di fingere con gli altri, quindi anche assecondarla come se stesse parlando con una persona qualunque e come se l'avesse sentita per telefono la sera prima, gli risultava molto complicato.
    Gli sembrava di avere a che fare con una persona diversa, addirittura sconosciuta non fosse stato per il timbro di voce e per la sua fisicità. Eppure era lì, in carne ed ossa, ben diversa da come era stata raffigurata nei suoi sogni più felici e negli incubi che avevano accompagnato quell'ultimo anno. Inizialmente non aveva voluto credere che una persona come lei potesse abbandonare colui che, in più di un'occasione, aveva detto essere l'amore della sua vita. Così l'aveva cercata in ogni angolo del globo che gli fosse possibile raggiungere in un lasso di tempo relativamente breve, per evitare di perdere i propri ricordi e poteri a causa della sua lontananza da Besaid. Si sentiva profondamente spaesato, come uno scalatore in mezzo ad una montagna coperta interamente di neve, incapace di trovare la strada giusta da seguire per fare ritorno a casa. Non era in grado di comprendere se assecondare quella farsa fosse la cosa giusta da fare, ma aveva sempre rispettato il volere di quella ragazza e non avrebbe fatto diversamente nemmeno in quella circostanza. O almeno ci avrebbe provato. Persona mai viste prima e figure a lui note camminavano indisturbate vicino a loro, i volti tesi in sorrisi spensierati e gli animi leggeri. Quello di Lynch, invece, era un baratro contenente un uragano di emozioni e paure.
    Sospirò sonoramente, passandosi una mano sul volto e stropicciando malamente i propri tratti. Nel frattempo il clima si impegnava a non smentirsi neanche in quel momento ed infatti sentiva filtrare il vento freddo fra le asole del cappotto che proteggeva geloso la stampa di Revolver sulla maglietta. Inspirando sonoramente, spostò le pupille di fronte a lui, prendendo a scrutare lo strato di nubi onnipresenti al gusto smog un po' come farebbe un Gibson in Braveheart. Poi tornò a dedicarsi a Kara, incerto su quale mossa fare.
    Gli fu offerto di indossare il suo berretto, un'opera d'arte fatta a maglia (magari dalla nonna materna che a quanto gli aveva raccontata era molto pratica di cucito) di svariati colori che culminava con un pon pon blu cobalto. Difficile decidere se rendersi ridicolo indossando qualcosa palesemente femminile o rifiutare una cortesia. Stava per prenderlo quando un messaggio telefonico che Lynch non poté udire interruppe il loro contatto visivo ed i suoi propositi. Leo. Conosceva quel nome e la persona a cui apparteneva, anche se indirettamente. Kara a suo tempo gli aveva parlato di lui, nominandolo in un paio di occasioni ed additandolo come suo ex ragazzo.
    Lo stupì oltremodo il fatto che solo averla sentita nominare quel ragazzo, nonostante ne avesse parlato in termini puramente amichevoli, avesse smosso in lui qualcosa; una sorta di gelosia che non provava da tantissimo tempo. In quell'ultimo anno si era spesso domandato se provasse ancora dei sentimenti per Kara, nonostante non avesse più l'opportunità di vederla e di trascorrere del tempo con lei. A lungo andare si era convinto che i suoi sentimenti si fossero assopiti, come foglie coperte da un'ampia coltre di neve; ora che la rivedeva invece si era accorto che quei sentimenti erano perdurati nel tempo e che li avvertiva vividi e forti come se a separarli fossero state poche ore. Decise di far finta di niente, avvertendo però sempre di più una profonda inquietudine. Va bene, potevano anche giocare, fingere di non conoscersi o quale fosse il maledetto piano di Kara, ma come si sul dire il gioco è bello quando dura poco. Perchè continuava con quella farsa? Perchè diamine non ci dava un taglio e la smetteva di trattarlo come un perfetto sconosciuto? E perchè gli aveva porto il suo berretto invece che asciugare il suo?! La particolarità di Kara era la pirocinesi, la capacità paranormale psicocinetica di controllare il fuoco e di incendiare un oggetto con la forza del pensiero, senza l'ausilio di alcun mezzo fisico, e per una come lei asciugare istantaneamente un oggetto bagnato era una bazzecola, dunque perchè non lo aveva fatto e aveva continuato a comportarsi come se non fosse sé stessa?
    Qualcosa non quadrava, Lynch lo sentiva intimamente ed era una sensazione che andava amplificandosi man mano che trascorrevano i minuti, ma non sapeva se fosse il caso di comportarsi in un modo piuttosto che in un altro. Lui che mai aveva avuto problemi a relazionarsi col prossimo mentre in quel frangente sentiva di star perdendo la propria lucidità. Cercò dunque un modo per capire meglio cosa stava succedendo, trasse dalla tasca dei jeans un pacchetto di sigarette, ne estrasse una e se la portò alle labbra. «Hai da accendere?» Quella era la prova del nove. Oltre ad essere una persona estremamente arguta, la sua Kara afferrava al volo il sarcasmo pungente di Lynch, specialmente se faceva riferimenti alla sua particolarità, della quale tra l'altro era sempre andata fiera e non aveva mai perso occasione per sfoggiare.
    Si sarebbe aspettato di veder modellare l'espressione di Kara in sincero orgoglio, seguito da un gesto con le dita affusolate che avrebbe acceso in un'istante la sigaretta. Ma ciò non avvenne, anzi la sua risposta fu la miccia che lo fece scoppiare. «No, mi spiace ma io non fumo.» Nell'udire quelle parole vergate di un timido imbarazzo, Lynch granò le iridi oltremare, sconvolto da quella che era l'ultima risposta che si sarebbe aspettato di udire. Basta con gli scherzi, la sua pazienza aveva un limite ed era stato abbondantemente superato.
    «Basta scherzare, Kara! Potevi asciugarmi tu stessa quel berretto e lo sai! Posso capire che tu ti senta in imbarazzo, ma far finta che sia la prima volta che mi incontri non alleggerirà di certo la tensione!» Le parole fuoriuscirono dalle sue labbra come un fiume in piena, e ben rappresentavano tutta la collera e la frustrazione con la quale aveva dovuto convivere l'ultimo anno. Tutta la paura, la tristezza e la rabbia che erano annidate dentro di lui e che non era riuscito a sfogare se non lavorando e cercando di svagarsi con gli amici, montarono dentro di lui come un vulcano in eruzione. Nemmeno si rese conto del fatto che il proprio tono di voce si fosse alzato di un'ottava e che si fosse trovato a gesticolare come un ossesso in mezzo ai passanti. «Ehy Lynch e io che ti facevo un dongiovanni!» Qualcuno si rivolse a lui in tono canzonatorio, ma Lynch nemmeno si preoccupò di controllare a chi appartenesse la voce. La sua totale concentrazione era votata unicamente a Kara, in quel momento.
    «Si può sapere dove sei stata in tutti questi mesi?! È passato più di anno da quando mi hai promesso che saresti tornata! Cosa ti è successo? Nemmeno un messaggio, una chiamata, niente di niente. Sei svanita nel nulla infischiandosene di chi stava a Besaid ad aspettare il tuo ritorno!» Avvertì una vena sulla fronte pulsargli, come sempre accadeva quando era soggetto a forti picchi emotivi. Se avesse avuto un oggetto sotto mano probabilmente gli avrebbe dato un pugno, perciò era stato un bene che non avesse afferrato il berretto di Kara. Tutta quella situazione gli pareva ai limiti del surreale, profondamente sbagliata ed irritante ma anche innegabilmente rincuorante.
     
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    Vennelyst park, Besaid - mattina del 16 gennaio 2018

    Kara Andersen


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    Mh si, effettivamente un vento come questo non è insolito in questo periodo dell'anno.” rispose quasi con tono assente, come se la sua mente stesse vagando in lontani ricordi di un tempo non troppo passato. Vide l’uomo portare la mano alla nuca per scompigliarsi i riccioli bruni, con fare quasi imbarazzato. Perché quella reazione? Perché quell’imbarazzo? Ok, non era una cosa da tutti i giorni conoscere gente nuova ma sembrava troppo teso dopo quel piccolo scambio di battute. Kara arrossì leggermente nel trovarsi a fissarlo, era così carino, le faceva una tenerezza infinita vedere un bel ragazzo, alto, muscoloso, comportarsi come un bambino che vergognandosi va a nascondersi dietro la gonna della mamma. Teneva gli occhi bassi, quasi come se non riuscisse a guardarla negli occhi. I suoi pensieri furono interrotti dal profondo sospiro che si levo dalle sua labbra, creando una nuvoletta di vapore che piano piano sparì nell’aria gelida di quella giornata nevosa, andando ad alimentare più in alto le cariche nubi grigie. Starà per nevicare? si chiese, persa in quell’istante di contemplazione comune del cielo plumbeo. Lei abbassò per prima lo sguardo, soffermandosi sul viso dell’altro che veniva stropicciato dalle grandi e callose mani. Gli occhi seguirono i movimenti circolari, rapiti piacevolmente dalla reazione del suo interlocutore. Sembra che non ha idea di come comportarsi… Perché tutta questa frustrazione? pensò, vedendolo chiaramente in difficoltà. Cercava delle risposte, si... Ma come poteva trovarle guardando le nuvole, sfuggenti nel cielo trasportate dal vento, che silenzioso lassù in alto soffiava senza tregua. Sembrò riprendersi quasi subito da quel momento di crisi e spostò lo sguardo sul berretto che gli veniva porto. Le parve di scorgere una leggero scherno nel modo in cui guardava l’aiuto che gli veniva offerto. Gli occhi di Kara, per un secondo, si fecero duri, offesi dalla reazione ma poi effettivamente si rese conto che per un uomo come lui indossare quel cappellino alquanto femminile era ridicolo. La cimava di una decina di centimetri e vedere un uomo, con barba incolta e capelli selvaggi come lui indossare un berretto lavorato a mano che terminava con un morbidissimo ponpon effettivamente faceva alquanto ridere. Le labbra non tradirono l’ilarità delle sue fantasie, lo fecero gli occhi che si addolcirono. Dopo aver letto il messaggino di Leo (a New York era notte fonda, cosa cazzo ci faceva sveglio a scriverle a quell’ora?) e rimesso via il telefono, notò l’improvviso irrigidirsi del corpo dell’altro, quasi come se non si aspettasse quella frase È gelosia quella che vedo? pensò, un po’ appagata nel vedere quella reazione, appagamento che svanì subito seguito dalla domanda Ma perché dovrei sentirmi così… ? Era come se il suo corpo si muovesse in autonomia, lei non aveva alcun controllo, i sentimenti scorrevano nelle sue membra a briglie sciolte. Riprese il contatto visivo, notando un cambiamento nelle iridi azzurre. Oltre alla frustrazione ora poteva leggervi anche il dolore per una profonda perdita, una nostalgia infinita, come un uomo nel deserto che dopo ore scorge un’oasi e rivede l’acqua dopo ore passate a soffrirne la mancanza. Perché la guardava così? Lei non aveva idea di chi lui fosse. Non sapeva nemmeno il suo nome… Però quanto avrebbe voluto che lui glielo dicesse. Cambiò repentinamente espressione, ora in tono quasi di sfida, alla all or nothing, e le chiese se aveva da accendere. Aveva ignorato completamente la sua offerta? Il braccio, rimasto teso fino a quel momento, si abbassò leggermente rimanendo però sospeso fra i loro due corpi. A quella strana richiesta, Kara corrugò la fronte. Per “avere da accendere” si suppone di avere fra le dita almeno una sigaretta. E lui non aveva ancora tirato fuori nulla del genere. Ma che cazz… si chiese, quasi lo disse, interrompendosi solo per riprendere in modo più gentile, lievemente imbarazzato per la strana richiesta. Nel ricevere il suo rifiuto, l’altro alzò gli occhi su di lei, guardandola direttamente nei suoi. Mare e ghiaccio, cielo e zaffiri. In quel momento ebbe un po’ paura… Se fosse stato possibile, era certa che quello sconosciuto l’avrebbe tramutata in un pezzo di ghiaccio soltanto guardandola. Un brivido freddo le corse lungo la spina dorsale quando l’uomo si sporse in avanti e le afferrò il braccio. La prese poco sotto il polso, stringendo le dita con forza sulla cicatrice. Il viso di Kara si piegò in una smorfia di dolore.“Basta scherzare, Kara! Potevi asciugarmi tu stessa quel berretto e lo sai! Posso capire che tu ti senta in imbarazzo, ma far finta che sia la prima volta che mi incontri non alleggerirà di certo la tensione!” le disse. Ma di cosa sta parlando? Cosa vuole da me? Io nemmeno lo conosco questo qui! Asciugargli il cappello? E come avrei potuto, mica mi porto dietro un phon in borsa!Ehy Lynch e io che ti facevo un dongiovanni!” lo schernì una voce che proveniva da dietro la schiena di Kara. Lynch… L’uomo che era stato chiamato con quel nome nemmeno parve sentirlo. La rabbia non sparì da viso di Lynch ma gli occhi si addolcirono quando questa si fece in parte per far posto alla tristezza. “Si può sapere dove sei stata in tutti questi mesi?! È passato più di anno da quando mi hai promesso che saresti tornata! Cosa ti è successo? Nemmeno un messaggio, una chiamata, niente di niente. Sei svanita nel nulla infischiandosene di chi stava a Besaid ad aspettare il tuo ritorno!” Finalmente capiva la reazione dell’altro. Aveva promesso una cosa del genere? Lasciare tutto, la sua famiglia, la sua vita, la sua promettente carriera universitaria in America per venire qui… Con lui. Chi era quest’uomo? Valeva veramente così tanto da averle fatto promettere tutto ciò? Tutto quella violenza, quella rabbia… Le dispiaceva aver fatto soffrire qualcuno per tutto quel tempo. La mano, intrappolata nella stretta dell’altra cominciò a tremare. Gli occhi di Kara si fecero lucidi. Non capiva, era completamente all’oscuro di tutto ciò. Cosa era successo due anni fa? “Io… io… Mi dispiace…” disse, con voce roca, rotta dalla confusione e quello che poteva sembrare un pianto imminente. Ma non c’erano lacrime nei suoi occhi. Solo nubi che oscuravano i suoi ricordi e il suo cuore. Perché si sentiva così attratta da lui? “Io non so chi tu sia… Non so nemmeno quale è il tuo nome…” disse, dispiaciuta. Sembrava una brava persona e sentiva che dicendo quelle parole, parole che anche lui probabilmente si era aspettato di sentire ma che probabilmente avrebbe voluto mai udirle, l’avrebbe fatto soffrire. Una cattiveria gratuita. Il braccio pulsava sotto la stretta, le ferite qualche volta le facevano ancora male. La testa prese a pulsarle. Voleva ricordare. Voleva poter dire a Lynch che sapeva esattamente chi era e cosa era per lui, voleva dirgli che gli dispiaceva di non aver mantenuto la loro promessa. “Io… Mi spiace… Perdonami… ” disse infine, con le lacrime che si fecero largo silenziosamente fra le ciglia e rigarono gli zigomi rossi per il freddo contro la sua calda pelle.

    I didn't mean to make you suffer. I'm not pretending because of my pride. A part of me just faded away and I could not do anything to keep it safe...


    I'm sorry



    Edited by _kane;san - 2/2/2018, 23:14
     
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  5. Lynch‚
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    User deleted


    KSVC3YI
    Quella situazione aveva dell'incredibile il che, pensato da un uomo nato e cresciuto a Besaid, aveva un che di paradossale oltre che ironico. Se qualcuno avesse predetto a Lynch che quella mattina avrebbe rivisto dopo più di un anno l'unica ragazza della quale si fosse mai innamorato, sicuramente gli avrebbe riso in faccia decretando nulle le sue capacità premonitorie. Invece tutto si stava realizzando sotto il sguardo basito e non riusciva a capire se fosse tutto frutto della sua immaginazione o la cieca realtà. Non riusciva a pensare a niente di sensato, era come se gli avvenimenti di quegli ultimi minuti fossero velati da una patina che li rendeva effimeri. Per sincerarsi di non stare impazzendo avrebbe voluto toccarla, anche solo sfiorarle una mano, giusto per essere certo di non avere di fronte un'illusione così dannatamente reale da sembrare vera. Poteva scorgere infinitesimali peli sul volto, micro rughe, qualche lieve imperfezione di un volto che aveva sempre ritenuto perfetto. Così vero e così reale, del tutto differente da come gli si era presentato nei sogni fatti in tutto quel tempo. Difficile dire se avesse mai provato delle sensazioni analoghe a quelle che lo stavano attanagliando in quel momento, e i sentimenti che sentiva di provare erano del tutto incontrastanti. Si domandò se avrebbe mai potuto disfarsene, ritrovando un equilibrio psichico ed emotivo che in quel momento sapeva di aver perso. Era adirato, sentiva dentro montare la rabbia per essere stato abbandonato, una sensazione che già aveva provato da piccolo e che era in grado di ferirlo più di mille martellate al cranio, ed era allo stesso tempo dilaniato dal dualismo che poneva da una parte tutta quella rabbia covata nel tempo e dall'altra un fortissimo amore che non aveva mai smesso di provare nei confronti di Kara. Inspirava ed espirava rapidamente, come se quel gesto repentino potesse in qualche modo liberarlo da quella sensazione di malessere. Perché essere così frastornati aveva effetti poco piacevoli su ogni fibra del suo essere e rapidamente stava sorgendo anche un forte mal di testa. Certamente se qualcuno lo avesse osservato con attenzione avrebbe notato quanto era scosso, ma solo lui poteva comprendere quanto quella situazione lo stesse frastornando. Oltre alla sorpresa di rivederla, vi era quell'assurda storia che sembrava non ricordarsi di lui. Fosse stato più lucido avrebbe forse potuto ricondurre quell'amnesia al fatto che a lungo era stata lontana da Besaid e qualsiasi cittadino, anche chi vi si era trasferito da poco, sapeva quali fossero le implicazioni di un lungo allontanamento dalla cittadina. Ma in quel momento non riuscì a fare alcun collegamento e anche se l'avesse fatto restava il fatto che Kara sapeva bene a cosa sarebbe andata incontro stando fuori città così a lungo, perciò il fatto che avesse perso la memoria doveva essere stata una sua scelta. Certo, non poteva essere altrimenti. La gentilezza che l'aveva sempre distinta non era mutata e nemmeno la profonda dolcezza del suo sguardo, ma quella non era la sua Kara; colei che gli saltava in braccio come se non lo vedesse da giorni, che gli preparava stravaganti manicaretti solo per allietargli una lunga giornata di lavoro. Non era il comportamento che aveva sempre tenuto quando stava con lui e quindi non gli era possibile riconoscerla davvero. Sapendo che quella mattina l'avrebbe rivista, si sarebbe figurato quell'incontro in maniera profondamente differente: tirata, certo, guarnita di rancore e di forte imbarazzo, con una possibile riappacificazione forse, ma di certo non come si stava svolgendo. Senza rendersene conto iniziò a ridacchiare sotto ai baffi, dell'incredulità di quella situazione, del buffo scherzo del destino, scuotendo il capo come se non volesse accettare la realtà dei fatti. Sembrava di essere stati catapultati in una candid camera senza il consenso di uno dei due protagonisti principali. Staccò la presa attorno al suo polso esile, ricordando solo in quel momento di aver già avuto quel contatto ad attestare la veridicità di quella visione e, istantaneamente, si sentì in qualche modo vuoto e portato come una calamita a ricercare un contatto con lei. Il suo corpo desiderava questo, la sua psiche al contrario anelava unicamente di ritrovare un briciolo di serenità. «Non ce la faccio. Scusami ma fa troppo male...» farfugliò intenerito dalle sue iridi velate di lacrime sincere. Era visibilmente frastornata, forse quanto lui anche sene dubitava poiché conoscere la fonte della propria tristezza e rabbia era molto più doloroso che accoglierla dentro di sé senza conoscerne la fonte. Visto che ormai era palese che non stava scherzando e che le sue scuse erano sincere. Restò in attesa, come se lo scorrere del tempo potesse in qualche modo far luce su quella matassa apparentemente senza senso. Attese nella speranza che magicamente le cose potessero aggiustarsi, incastrandosi come pezzi di un puzzle di dimensioni cosmiche. Ovviamente tutto questo non si verificò e Lynch, sopraffatto da tutto questo, decise che era meglio prendere le distanze dalla fonte di tale dispiacere. Questa volta sarebbe stato lui a lasciarla sola, anche se quel gesto non era attuo a farle del male, ma solo a preservare sé stesso.
    Si era svegliato con una sensazione positiva quella mattina, certo che una passeggiata al parco potesse implementare una giornata destinata a divenire sempre più rosea. Ma quell'incontro, seppur da una parte avesse giovato al suo animo, aveva parallelamente scosso qualsiasi sua certezza sull'andamento della mattinata e, volendo ben vedere, della sua vita. Da tempo si era arreso al fatto di proseguire il suo cammino di crescita da solo, facendo leva solo sulle sue forze ed aiutato solo da amici, da suo padre e dai suoi fratelli, l'unica famiglia ormai rimastagli.
    «Lasciamo stare, fai come se non mi avessi mai riv..» si bloccò, conscio che le cose per lei apparivano ben diverse da come le vedeva lui «..come se non mi avessi mai visto.» Ogni parola gli raschiava la gola come carta vetrata e sentiva sanguinare dolore ad ogni sillaba. Una parte preponderante del suo essere non desiderava proferirle, ma sentiva che era la cosa migliore da fare. Per lui e forse anche per lei. Se mesi addietro Kara aveva preso la decisione di non fare ritorno, di incastrare la sua persona e tutto ciò che avevano condiviso nel dimenticatoio, evidentemente l'aveva reputata la scelta più saggia per lei. Attese ancora qualche secondo, cristallizzando ogni fattezza di quel volto ed imprimendolo nella memoria, cosa insensata visto che lo conosceva alla perfezione. Non ce n'era bisogno ma lo aiutò nel distacco. Digrignando i denti nascosti da una bocca serrata, le cui labbra eccessivamente premute iniziarono presto a dolergli, girò i tacchi e prese a camminare a passo spedito nella direzione opposta dalla quale era venuto. Si voltò solo una volta, agitando il braccio con veemenza ed indicandola con l'indice, facendo poi ricadere pesantemente l'arto perpendicolare al busto. Davanti a lui tutto era immacolato ma quel candore in quel momento non trasmise altro se non un ulteriore sensazione di tristezza e disagio interiore. I suoi passi, attutiti dal manto nevoso, lasciarono profonde impronte sul terriccio, come quelle che avevano ormai marchiato il suo animo da quando aveva rivisto Kara Andersen.
     
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4 replies since 16/1/2018, 16:38   312 views
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