Let it all go

Ivar X Fae

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    | IVAR WESENLUND | 24 Y.O |
    “Ricordi quando ho perso una scarpa sulle scale della chiesa, Bjorn? In quel momento ho maledetto tutto. Credevo che qualsiasi cosa potesse rovinare il mio giorno perfetto. Eppure è andato tutto bene. Abbiamo ballato senza scarpe, è stato bellissimo”.
    Sua madre guardava il focolare sognante, seduta su quella sedia che ormai era divenuto il luogo in cui Ivar si era abituato a vederla. Ricordava dettagli superflui, riviveva sensazioni e odori. Eppure non riusciva nemmeno a rendersi conto di non essere al fianco di suo marito, ma di suo figlio. Era dilaniante la maledizione che era toccata a lei, più di qualsiasi altra, perché perdere i ricordi era forse la più dolorosa delle pene. “Già” ,rispose Ivar, sorridendole dolcemente e volgendo lo sguardo verso di lei. Faceva male, ricordare il suo sguardo amorevole, le sue parole, i suoi abbracci, e sapere che probabilmente non sarebbero mai più tornati. Eppure, mai le avrebbe dato ulteriori preoccupazioni, mai le avrebbe negato la gioia di trovare appoggio in qualsiasi momento. Avrebbe raccolto i suoi ricordi, così come aveva fatto per una vita intera, e glieli avrebbe restituiti, poco a poco, quando ne avrebbe avuto bisogno, quando alla fine, forse, avrebbe dimenticato tutto. E poi la sua espressione cambiò, e da sorridente che era divenne triste. La sua mano tremò, su quello scranno. “Ho visto il futuro, Bjorn. Ho visto un futuro in cui non siamo insieme”. Il cuore di Ivar perse un battito, di fronte a quel suo inaspettato momento di semi lucidità. Che avrebbe dovuto fare? Dirle la verità? Inventare una bugia? O avrebbe dovuto continuare quella sceneggiata, fingendo di essere ciò che non era, per mantenerla tranquilla? Ancora una volta spettava a lui decidere del destino degli altri. Avrebbe solo voluto abbracciarla, e versare con lei le lacrime che mai avevano versato per suo padre, tenerla stretta fino alla mattina successiva. E poi avrebbe voluto svegliarsi e trovarla di nuovo com’era prima, con un libro di Tolstoj in mano e una tazza di thè, pronta per tornare a scuola. Ma lui non aveva il potere di cambiare gli eventi, non era uno di quegli dei le cui storie aveva udito tante volte. Era solo un ragazzino cresciuto troppo in fretta, con l’unica capacità di mandare in frantumi la propria vita e quelle degli altri. “Non succederà. Andrà tutto bene”. Rispose, soffocando di nuovo quel boccone amaro e sfoggiando per l’ennesima volta quel sorriso finto, che sembrava tranquillizzarla ogni volta. “Mettiti a letto, e lascia che il futuro arrivi senza alcuna aspettativa. Domattina, se vorrai, potrai raccontarmi i tuoi sogni”. La aiutò a mettersi a letto e le rimboccò le coperte dopo averle dato i suoi tranquillanti. “Non aspettarmi sveglia”. Le accarezzò delicatamente i capelli e si allontanò. Sembrava di nuovo lei, quando dormiva, la donna che sempre aveva ammirato e cercato. Faceva male pensare che quella persona fosse ancora lì, ma a giorni alterni.
    Si chiuse la porta alle spalle, e solo allora si rese conto di tremare. E per quanto si sforzò di respirare profondamente, e di convincersi che quella era ormai la sua vita, non riuscì ad allontanare quella morsa allo stomaco che gli spezzava il respiro, e la voglia di gridare più forte che potesse. Non fece nulla, nemmeno quella volta, e scese in cantina barcollando. Si rifugiava lì, di notte, a scolpire, quando il mondo sembrava crollargli addosso. Prese la punta media d'acciaio e fece per continuare l’opera che aveva già iniziato a scolpire giorni addietro, ma la sua mano non si mosse. Non sapeva cosa disegnare, cosa immaginare, quale figura o motivo far emergere da quel freddo pezzo di legno. Avrebbe solo voluto dar sfogo all’angoscia che provava dentro, incanalarla, trasferirla. Ma che forma avrebbe potuto assumere il dolore? Non ebbe bisogno nemmeno di rifletterci, perché il dolore trovò il modo di avere la sua espressione. Le linee appena abbozzate che aveva inciso iniziarono ad annerire, a divenire più profonde. E man mano che Ivar lasciava la mano posata su quella scultura appena distinguibile, man mano che lasciava che i pensieri fluissero e andassero a sommarsi, le linee nere iniziarono ad espandersi, a sottolineare le venature del legno, e a riempire gli spazi vuoti. E iniziarono a cadere, agli angoli, alcuni pezzi di quello che ormai era divenuto carbone, finché di ciò che era non rimase che un rudere bruciato e sgretolato. Forse era quella l’espressione del suo dolore, e finché non avesse nuociuto a nessuno, sarebbe andata bene. Si illudeva, Ivar, che la sua maledizione sarebbe rimasta esiliata a quelle poche stanze.

    ● ● ● ● ●



    Non ci fu una logica che lo spinse ad andare comunque a quella festa a cui aveva già declinato l’invito, soprattutto nel suo stato emotivo. Forse si illuse che scappare da quella casa, anche per una sera, lo avrebbe fatto sentire meglio, che uscire sarebbe stato un passo importante per riprendere in mano quella vita che al momento aveva messo in pausa. Cercò di tranquillizzarsi, di lasciare le sue angosce in quella casa così come le ceneri di ciò che era nata per essere un’opera d’arte. Così come le ceneri della propria esistenza. Indossò un maglioncino bianco non troppo aderente, dei jeans chiari e gli scarponcini, e mise sopra il parka grigio scuro e una sciarpa bianca. Sciolse il codino e tirò indietro i capelli. Uscì facendo tintinnare le chiavi del pick up, che era parcheggiato appena fuori dalla sua abitazione.
    Quel veicolo, che probabilmente era appartenuto a suo nonno, faceva sempre un brutto rumore, probabilmente prima o poi lo avrebbe lasciato a piedi. “Non lasciarmi anche tu, ti prego”, disse, alla macchina, giustamente per poi partire in direzione del cimitero di Besaid. E man mano che abbandonava la strada principale per imboccare vie secondarie, si rendeva sempre più conto di quanto quella fosse una pessima idea.
    Un ragazzino che conosci a malapena perché è tuo cugino di un imprecisato grado ti invita ad un diciottesimo, in una casa abbandonata vicino al cimitero. E tu ci vai. Già questo è abbastanza strano. Senza considerare che sarai il più vecchio là dentro, che le bevande più alcoliche che troverai saranno succhi di frutta corretti con lo spumante, e che ti arresteranno per pedofilia non appena proverai a rivolgere la parola a qualcuno. Scosse la testa. Prima parlava con la macchina, poi pensava come se qualcun altro gli facesse notare le cose. Doveva avere per forza qualcosa che non andava. Ciliegina sulla torta, alla radio partì Mad World. “Ah, ecco, adesso sì che possiamo dare inizio alla festa”. Mugugnò, di nuovo parlando da solo.

    Si diceva che quella casa fosse stregata, che gli spiriti vivessero entro le sue mura. Eppure, per quella sera, anche gli spiriti dovevano essere scappati, dato il casino che c’era. Parcheggiò il suo pick up arancione, che vicino a una Lamborghini tutta lucida e cerata faceva la sua bella figura da carrozza di Cenerentola. E’ pure arancione, come la zucca. Constatò. Evidentemente si stava già rilassando, dato che per tutto il tragitto aveva pensato cretinate. E la festa poi, non si rivelò essere come l’aveva immaginata. Di ragazzini ce n’erano ben pochi, e probabilmente erano già completamente ubriachi. Alex sembrava aver invitato tutta Besaid a quella festa, e a quanto pareva, l’intera città aveva accettato l’invito. Si guardò intorno alla ricerca del festeggiato, ma non lo scorse da nessuna parte. Pazienza. Posò il giubbotto su una poltrona, non molto fiducioso di ritrovarcelo a fine serata e si avventurò in quella giungla selvaggia di persone che si baciavano e avvinghiavano. “Non ci credo, Ivar Wesenlund. Non ti vedo da una vita! Ma che fine hai fatto?” Ivar sgranò gli occhi e indietreggiò di un passo. Scrutò quel volto conosciuto, eppure non sovvenne alla sua mente alcun nome da associargli. E adesso chi ca**o è questa? Si chiese, nel panico. “Ehm, ciao. Bene. Da quanto tempo!” Farfugliò cose a caso, in evidente difficoltà, mentre lei gli mise in mano un drink non ben identificato e continuò a straparlare, evidentemente ubriaca. “C’è anche Astrid con te? State ancora insieme, vero? Aspetta che chiamo Jenna, sarà felice di rivederti.” E sparì, alla ricerca della fantomatica Jenna. E poi chi cavolo era Jenna? Ivar rimase immobile, per qualche istante, nello stesso punto. Era come trovarsi in un deja vu, come se le persone e lui stesso fossero rimasti intrappolati in quella che era la sua vecchia vita. Si allontanò, prima che la molestatrice potesse tornare. Non aveva voglia di rispondere a quelle domande che avevano già, involontariamente, riaperto le ferite. Bevve il drink che la ragazza gli aveva lasciato. Chissà di chi era poi? L’unica cosa che sapeva era che in quel bicchiere c’era quasi solo alcool, il che gli andava anche bene, nonostante bruciasse la gola come fuoco. Abbassò lo sguardo per tirare fuori il cellulare dalla tasca, quando qualcuno lo strattonò, facendogli cadere addosso ciò che rimaneva della sua bevanda. Doveva essere iniziata una rissa, e non sembravano fare per scherzo. La gente aveva iniziato a muoversi concitata, mentre lui, all’estremità di quel facinoroso gruppo, cercava di allontanarsi. Non erano quelle faccende in cui era solito immischiarsi. Ma quella che era iniziata come una semplice baruffa divenne ben presto una lotta tra esseri umani con abilità fuori dal comune. E fu così che iniziarono a volare oggetti e persone, la luce del fuoco iniziò a mescolarsi a quella delle luci stroboscopiche, e le grida e i rumori alla musica. Una sedia volò verso di lui e altre persone, e gli venne spontaneo scansarsi e tirare indietro la ragazza che era per caso accanto a lui, prendendola per la mano. E sarebbe stato normale, se quella scossa che tanto bene conosceva non avesse iniziato a percorrergli il braccio e il palmo della mano in cui stringeva il polso di lei. Quella sensazione che non riusciva a fermare. La guardò, per un istante, quasi terrorizzato. Non ebbe nemmeno il tempo di soffermarsi sullo strano colore dei suoi capelli, sul suo viso, o su di lei. Lo sguardo corse al suo polso, ancora stretto sotto la sua presa. Per un attimo credette di non riuscire più a respirare, di fronte a quello che era, in effetti il suo incubo peggiore. Aveva evitato che fosse colpita da una sedia, condannandola però ad un male ben più grande e doloroso. E lei non aveva chiesto nessuno dei due. Lasciò la presa, di scatto, in preda al panico. Non sapeva che fare adesso, quali delle mille variabili da calcolare prendere in considerazione, cosa dire, come fermare ciò che stava accadendo. “Io..” Farfugliò, piuttosto concitato. “No no, non ora, maledizione”. Avrebbe voluto prenderle la mano e constatare i danni, cercare di aiutarla, ma sapeva che se l’avesse toccata di nuovo probabilmente avrebbe solo peggiorato la situazione. Non era che un povero illuso, Ivar, che tanto scioccamente aveva pensato di poter fuggire dai suoi fantasmi e dalla sua maledizione.
    Sarebbe rimasto per sempre prigioniero di quegli inferi, di quella prigione, come Euridice incatenata nelle profondità dell’abisso.

    Edited by Iwar - 29/1/2018, 04:00
     
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    “Il lupo perde il pelo, ma non il vizio” le aveva sempre ripetuto zia Rory; di qualsiasi cosa si trattasse, la donna dai capelli rossicci avrebbe potuto benissimo esser scambiata per un disco rotto, sottolineando quanto ormai avesse già vissuto e visto al mondo. E Fae ormai conosceva tutte le sfumature di quell'esistenza invecchiata dal tempo, soffermandosi a pensare, alcune volte, a quanto quelle parole potessero essere gonfie d'aria e nient'altro. Ma dopotutto l'amava e mai avrebbe provato a dirle ancora qualcosa che avrebbe potuto ferirla. Sapeva perfettamente che alcune delle rughe marcate che la donna portava con stanchezza sul viso erano frutto delle nottate in bianco passate ad aspettare che la scapestrata di sua nipote tornasse a casa. Le sarebbe bastato il rumore delle chiavi nel nottolino della porta d'ingresso e tutto si sarebbe tranquillizzato lì intorno, almeno per quelle restanti ore della notte. Ma spesso questo non accadeva e, malgrado volesse davvero provare ad entrare in contatto con la ragazza, lasciando che questa la facesse entrare nell'intimità dei propri pensieri e delle proprie paure, la zia Rory non aveva mai davvero avuto il coraggio di chiederle in maniera aperta se lei avesse in qualche modo bisogno di aiuto, rompendo il silenzio che spesso le aveva separate. D'altro canto, sua zia avrebbe solo potuto immaginare cosa le sue due nipoti stessero provando; ciò che non capiva era perché reagissero in due modi del tutto differenti, quale tassello del puzzle veniva a mancare? Perché Meggy, a differenza di sua sorella minore, non usciva quasi mai? Per quale assurda ragione Meggy riusciva ad avvolgerla in un affettuoso abbraccio, mentre Fae non ci provava nemmeno? Bè, non lo avrebbe mai capito, ma prima o poi sarebbe arrivata semplicemente ad accettarlo. Se con Meggy trascorrevano momenti fra donne, passando le giornate tra un parrucchiere ed un salone di bellezza, pronte a farsi belle per i muri dei loro appartamenti, Fae preferiva dirle un Ti voglio bene sottovoce, quasi sospirato e vergognoso, per poi ritirarsi nel proprio guscio e tornare a mostrarsi troppo sicura di sé ed indipendente per essere abbracciata dalla donna che l'aveva cresciuta. E proprio in quel momento, mentre zia Rory la osservava cambiarsi sull'uscio della sua stanza, Fae pensava a quanto tempo fosse ormai passato da quando la donna le sceglieva gli indumenti da indossare prima di lasciarla strisciarsi via di casa per gettarsi su quei banchi di scuola che tanto aveva odiato. E ogni tanto, solo per farla contenta, Fae la cercava in giro per casa gridando il suo nome per farsi aiutare ad abbinare magliette e jeans. Puntualmente la donna le ricordava che ormai aveva quasi trent'anni suonati e che, prima o poi, avrebbe dovuto trovarsi casa e sloggiare, il che avrebbe implicato prendersi la responsabilità di scegliersi autonomamente che razza di stracci indossare. Stracci, perché ovviamente gli accostamenti di Fae e il gusto per il vintage -vecchio e usato, per zia Rory- non erano esattamente i preferiti da sua zia. Naturalmente, il tutto condito era da una fragorosa risata della ragazza, la quale ormai conosceva quelle parole a memoria, considerandole addirittura le più affettuose che qualcuno potesse dirle. Fae non era come le altre, avrebbe detestato un'aperta dichiarazione d'affetto da parte della donna, ed era per questo che il suo tentare di infastidirla era ormai una sincera espressione d'amore. Questo però la intristiva, alcune volte; si soffermava a pensare a come sarebbe stato se suo padre non fosse morto in quell'incidente anni prima e se sua madre non avesse deciso di fuggire da Besaid per liberare la mente dalle visioni terribili della morte di suo marito che questa città le aveva rifilato. Ricordava delle notti passate con i palmi delle mani a coprire le piccole orecchie, le guance rosee attraversate da lacrime silenziose, mentre nella camera accanto le urla di sua madre si ripetevano senza ritegno. Avrebbe voluto riuscire a svegliarla, anche solo per un attimo, guardarla negli occhi e dirle che sarebbe andato tutto bene anche senza papà, senza i fiori che portava a casa senza dal nulla, solo per vedere le sue tre donne sorridere. Ma Besaid l'aveva fatta ammalare, ricoprendola di paure e dolore, quando aveva deciso di donarle forse una delle particolarità più belle e al contempo più brutte che potessero esserci. Sua madre Cinthya aveva la possibilità di assorbire i ricordi delle persone che meglio conosceva, che più amava, conservandoli nella propria mente come se fossero suoi. E così aveva fatto con le sue figlie, quando tutto era accaduto. Aveva assorbito le immagini dell'incidente viste dagli occhi di una piccolissima Fae, seduta sul sedile posteriore dell'auto che era finita in acqua. E sebbene avesse ringraziato il cielo per il dono che sua figlia aveva ricevuto, ossia la prematura rigenerazione dei tessuti corporei e quindi una morte più difficile da raggiungere in casi come quello, suo marito non ce l'aveva fatta e tornava a tormentarla con il suo sguardo pieno di terrore durante la notte, mentre quella macchina ripercorreva ininterrottamente lo stesso percorso e i polmoni di suo marito s'inondavano d'acqua. Non ce l'aveva fatta a reggere il dolore, non ce l'aveva fatta a sorridere come una volta e aveva deciso che andare via sarebbe stata l'unica soluzione, l'unico modo di regalare sonni tranquilli a quelle bambine che aveva tenuto in grembo pochi anni prima. Fae pensava che non l'avrebbe mai perdonata, ma se solo avesse avuto mai modo di incontrarla ancora, avrebbe dimenticato ogni addio, ogni lacrima, ogni mamma ti odio detto alle pareti della sua stanza. Ma in quegli anni aveva dovuto accontentarsi, modellando la propria vita e dandole una forma tutta sua; le uscite nel mezzo della notte, gli incontri sulla collina con il resto della combriccola, gli affari che aveva stretto e di cui a volte si era pentita. Il lupo perde il pelo ma non il vizio era esattamente ciò che sapeva con esattezza stesse pensando zia Rory in quel momento, vedendola prepararsi di fretta in procinto di uscire nuovamente di casa per tornare chissà a che ora. Sì, lo sapeva che non era più una ragazzina, ma per lei restava un gioiello prezioso da custodire con cura. Aveva indossato un jeans chiaro a vita alta e un maglioncino di color giallo canarino, aveva dato una spazzolata -per modo di dire- ai capelli ed era uscita dopo aver dato un bacio sulla guancia a zia Rory. «Non aspettarmi sveglia.» le aveva detto.

    ***


    Non sapeva quanto tempo fosse trascorso esattamente da quando era giunta alla casa. Le voci si facevano sempre più chiassose e la musica rimbombava nelle orecchie come se fossero ad un rave. L'atmosfera sembrava quella, ed era abbastanza certa che fra i presenti stesse girando molto più che erba, lo leggeva nello sguardo di certi tipi che le passavano accanto senza quasi accorgersi che intorno a loro il mondo continuasse ancora a girare e il tempo a scandire il proprio ritmo nella tarda serata. «Basti, io vado a prendermi qualcosa da bere. Ci vediamo fra poco. Se non torno in almeno... hm, dieci minuti, direi, attivate il codice rosso. Mi spaventa passare di lì,» disse soffermandosi con lo sguardo in direzione di un piccolo corridoio che divideva quello che avrebbe dovuto essere un grande e antico salotto da un altro soggiorno, appena più piccolo ma ugualmente spazioso, nel quale poltrone e divani si affacciavano a quello che sicuramente era un bancone delle bibite mal improvvisato. «...ma nella vita bisogna affrontare le proprie paure, giusto?» chiese ridendo, rivolgendosi all'amico in piedi accanto a lei, intento a muoversi con Nonchalance a ritmo di musica mentre i bassi esplodevano a solo mezzo metro da loro -di certo non il migliore dei posti in cui fare l'uovo a feste di quel genere. Si avviò, cercando di farsi spazio fra i corpi sudati di gente che forse neanche aveva mai visto. E sebbene fosse alquanto interdetta dalla situazione, il poco spazio tra una persona e l'altra e il fatto che le sembrava qualcuno le stesse palpando il fondoschiena, riuscì comunque a raggiungere il proprio obiettivo, lanciandosi in direzione di una bottiglia di Wodka quasi fosse un'alcolista in astinenza. Aprì la bottiglia e se ne versò il contenuto in un bicchiere di plastica rosso. Ne bevve mezzo in un sorso, soffocando quel bruciare che saliva velocemente dai polmoni alla gola, facendole lacrimare gli occhi. Tirò un sospiro di sollievo, avvertendo le proprie guance colorarsi di un rossore genuino. D'un tratto, come se fosse la cosa più naturale del mondo, un ragazzo massiccio ne spinse un altro proprio in direzione del bancone, e non contento dell'effetto avuto, aprì le danze ad una rissa del tutto prevedibile, in un luogo come quello. Fae inarcò un sopracciglio, restando immobile per un momento nel fissare i due prendersi a male parole e cazzotti. Restarono a terra per una frazione di secondo, rialzandosi poi ancora una volta. Avrebbe potuto terminare tutto in quel momento, se non si fossero aggiunti altri due ragazzi alla lotta, destando l'attenzione di chiunque in quella stanza e fomentando il tutto con il lancio di oggetti a caso. Fae scoppiò a ridere, divertita, quasi stesse assistendo ad uno spettacolo bizzarro. Tutto molto affascinante e fuori dal comune, addirittura divertente, almeno fino a quando a volare non fu altro che una sedia. Massiccia, in legno. In direzione di Fae. «Oh porc-...» e nel momento in cui il sorriso le stava svanendo istantaneamente dalle labbra, una mano l'afferrò con forza trascinandola via dal punto in cui si era fossilizzata. Il bicchiere le scivolò dalla mano finendo per terra, così come i piedi che s'intrecciarono e le fecero prendere una mezza caduta. Si sollevò in tempo per guardare il viso spaventato del ragazzo che le aveva evitato un trauma cerebrale, il quale non appena ebbe il tempo di pensare a cosa fosse appena successo, si staccò da lei liberando il polso dalla sua presa decisa. Ma il ragazzo continuava ad essere incredibilmente preoccupato, come se avesse appena visto un fantasma. «Ehi calma, è solo una ris-..» ma si fermò per un secondo, poiché iniziò ad avvertire qualcosa di strano al proprio polso, quasi fosse un bruciore. Sollevò il braccio in direzione del proprio volto, ponendolo in direzione del fascio di luce più vicino ed osservandolo con aria stranita. La pelle si era inspiegabilmente seccata, annerendosi nel punto esatto in cui la mano del ragazzo aveva fatto pressione su di essa. «Ma che diavolo...? si chiese, massaggiando poi il tessuto della propria carne con l'altra mano. Posò lo sguardo sul ragazzo, mentre un'espressione interrogativa si dipingeva sul proprio viso. «Penso tu abbia stretto troppo la presa...» disse, non del tutto convinta, mentre alle loro spalle l'inferno continua ad emergere a suon di sberle e pugni. Passò qualche secondo, e poi il nero sparì di nuovo, lasciando per qualche istante ancora la pelle priva di liquidi, disidratata. Sembrava la pelle di una persona anziana, come se la mano di Fae avesse vissuto cinquant'anni più del resto del corpo. Sollevò il viso e puntò lo sguardo in direzione del ragazzo dai capelli scuri, avvertendo quanto fosse spaventato e sapendo, in qualche modo, che quel terrore nei suoi occhi aveva poco a che fare con la rissa. «È tutto ok?» gli domandò, continuando a massaggiare delicatamente il proprio polso, nella speranza che quella strana sensazione andasse via in fretta. Chi era? E che diavolo le aveva fatto? Quella sì, che sarebbe stata una serata difficile da dimenticare.
     
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    | IVAR WESENLUND | 24 Y.O |
    Era insito nel principio della mummificazione, il voler mettere un freno alla morte. Si credeva che un corpo potesse continuare a vivere, anche in un'altra dimensione, se il processo che tutto conduceva alla distruzione fosse stato fermato. Per questo gli antichi si prodigavano per far sì quel processo si fermasse. Per loro la morte non era distruzione, non era un processo. Per loro la morte era solo un rito di passaggio, obbligatorio per chiunque. In ogni epoca gli uomini gareggiarono con la morte, tentarono di sconfiggerla. Eppure, nessuno ci è mai riuscito.
    Fino ad oggi.


    Non aveva molti ricordi della sua nonna materna, che era morta quando Ivar aveva sei anni. Non aveva ricordi di giornate o bei momenti passati con lei. Ricordava solo la sua figura, e i suoi modi di trattarlo. Irina Hedlund, almeno stando ai ricordi di Ivar, era una donna fermamente attaccata alle tradizioni e alla religione. Cristiana fino al midollo, indossava sempre pesanti crocifissi al collo, sopra strati e strati di maglioni di lana e scialli. Ricordava le sue mani ossute, i suoi polsi in evidenza, intorno ai quali era sempre arrotolato un rosario di madreperla. Ricordava la sua voce roca da fumatrice incallita, il suo bisbigliare parole incomprensibili in latino con lo sguardo volto alle ginocchia, i capelli grigi e ispidi che spuntavano da sotto un velo nero che portava sempre in testa. Aveva sempre avuto paura, il piccolo Ivar, di quella che a lui sembrava la strega cattiva di Biancaneve. E col senno di poi aveva capito invece, quanto fosse lei ad avere paura di lui e per lui. Sua nonna aveva capito quale strano dono gli avesse dato il fato molto prima che potesse farlo lui. Aveva osservato le foglie che avvizzivano sotto le sue mani, la polvere che i muri rilasciavano sotto al suo tocco, gli uccellini feriti che lui tentava di salvare e che mai più riprendevano il volo. Avrebbe potuto dargli conforto, quella donna arcigna, insegnargli a convivere con quella capacità, come una nonna amorevole avrebbe fatto col nipote. Ma lei non fece questo. Attaccata com’era ai suoi ideali cristiani, iniziò ad etichettare quel bambino come qualcosa di immondo, una manifestazione di quello che lei chiamava demonio, l’incarnazione del male nella sua forma tangibile e universale. Se non fossero intervenuti i suoi genitori a fermarla, probabilmente lo avrebbe sottoposto a qualche strano rito di esorcismo o roba così. Aveva assorbito le parole di sua madre, Ivar, che gli dicevano di non badare a lei e a i suoi deliri portati dalla senilità, e ne fece la propria idea. Eppure quello fu il primo momento in cui il bambino si sentì fuori luogo, inadatto a quel mondo, ancora prima di scoprirne il perché. Fu in quel momento, che per la prima volta, sentì di essere un mostro.
    Chissà che cosa avrebbe detto Irina Hedlund, se avesse potuto assistere a quella scena? Chissà quanto avrebbe goduto nel bearsi della consapevolezza di aver avuto ragione? Gli parve di sentirla, per un istante, la sua voce raschiata inveire contro di lui, dire che era pericoloso.
    “Quel bambino è un mostro.”
    Quella fu la frase che sovvenne immediatamente alla sua mente, mentre il resto del mondo, per un istante, sembrava fermarsi.

    Conosceva bene la sensazione che in quel momento stava provando di nuovo, così come conosceva bene la paura di non riuscire a fermare o a ribaltare gli eventi. Accadeva per caso. Era come se una strana energia iniziasse a fluire lungo il suo braccio, e a farlo formicolare fino al palmo della sua mano. Ed era piacevole quanto spaventoso lasciare andare quel freddo che sembrava pervadergli le vene, lasciare che si trasferisse a qualcos’altro. Bastò un istante, prima che potesse davvero percepire il contatto con la pelle di lei, ma bastò perché potesse sentirla irrigidirsi e disidratarsi, divenire ruvida. Lo spaventava percepire come le cellule potessero morire, una dopo l’altra, trascinare con loro le proprie vicine, perché sapeva che quello era un processo a cui non si poteva porre rimedio. Un errore fatale che anche quella volta, contro la sua volontà, commise.
    Quando lasciò la presa, era ormai troppo tardi.
    Nemmeno sembrò accorgersi lei, di quello che le stava accadendo, tanta era la concitazione nell’ambiente circostante. Non percepì forse subito il dolore che la morte dei tessuti poteva comportare. Eppure se ne accorse subito, Ivar, che non potè fare a meno di fissare la pelle annerita sul suo polso delicato. Non sapeva ancora quanto a fondo fosse penetrata la necrosi, quali tessuti avesse intaccato. Sapeva solo che avrebbe compromesso per sempre quella ragazza. Nel più fortunato dei casi se la sarebbe cavata con un trapianto cutaneo, nel peggiore avrebbe dovuto farsi amputare una mano prima che il danno compromettesse il resto del suo corpo. Avrà avuto la sua età, quella ragazza di cui con un passaggio della luce potè cogliere il variegato colore dei capelli e il viso pallido che svettava in parte coperto da essi. L’aveva compromessa per sempre, per un fottuto, semplice, errore di calcolo. Cosa aveva fatto lei, al karma, per meritare un destino simile? Cosa l’aveva messa sulla sua strada? La guardò contemplare la sua pelle, senza riuscire a muoversi, col fiato rotto da quell’agitazione che non riusciva a fermare. Sembrava tutto uno strano e terrificante incubo. Sembrò quasi che i rumori fossero svaniti, intorno a lui, per qualche istante, mentre a tratti alterni percepiva ancora quella sensazione, quel freddo pervadergli gli arti e chiedere di nuovo di essere lasciato libero. Incrociò lo sguardo interrogativo di lei, ma non lesse terrore nelle sue iridi illuminate da mille colori diversi. “Penso tu abbia stretto troppo la presa...” Disse lei, troppo tranquilla per essere conscia di cosa le stesse accadendo. E poi accadde qualcosa. Qualcosa che mai si sarebbe aspettato sarebbe accaduto, perché quello era parte unicamente delle sue più recondite speranze. “Decisamente" . Sussurrò, quasi distratto, mentre contemplava la vita combattere la morte, in una sorta di miracolo. La necrosi non si espanse come era naturale facesse, non logorò i suoi tessuti. Si arrestò, quella macchia nera che marchiava la sua pelle, e lentamente iniziò a ritrarsi. Restò a bocca aperta, guardando la pelle della ragazza riprendere il suo naturale colore, spingere quella macchia sempre più indietro, fino a contrarla e farla sparire. Non gli era mai capitato di vedere una cosa del genere, mai avrebbe immaginato che qualcuno potesse mettere un freno alla sua maledizione, o per lo meno sopravvivervi. Eppure lei era la prova vivente che si sbagliava, che l’impossibile non era poi così inarrivabile, che anche a quelli come lui a volte era concessa una seconda possibilità.
    “È tutto ok?” Tutto sembrò fermarsi, in quel momento. La sensazione di tumulto nel suo animo, il tremito delle sue mani. Persino quella sua capacità, che tanto scalpitava per uscire e seminare distruzione sembrava essersi sopita. Alzò lo sguardo verso il suo viso. Lei stava bene, non sapeva nemmeno come, né come ciò fosse possibile. Ma era reale lei, e quello che era accaduto. Rise, senza motivo, quasi a liberare le sensazioni contrastanti che in quel momento stava provando, felice che per almeno una volta il fato gli sorridesse. “Si”. Disse, chiedendosi se davvero andasse tutto bene. “Adesso si” . La sua espressione divenne più rilassata. Fu come se stesse scaricando a terra l’adrenalina, come se nel suo corpo l’equilibrio fosse tornato. “Mi dispiace, davvero, non volevo farti del male, è che…” Ecco, ora era il momento delle scuse. Era sempre assurdo scusarsi per qualcosa di cui non era volontariamente responsabile. Ma come avrebbe potuto spiegarle che aveva appena rischiato di ucciderla? Sarebbe davvero bastato poco tempo in più perché le cose andassero diversamente. “…oh, non importa.” Cercò di sviare quel discorso su qualcosa che nemmeno lui riusciva a spiegare, e che lo stava evidentemente mettendo in difficoltà, dato che aveva iniziato a farfugliare di nuovo cose apparentemente senza senso. Insomma, la fase del non riuscire a parlare alle ragazze carine l’aveva superata a quattordici anni, ma evidentemente quel mix di emozioni continuava a ripercuotersi sulla sua capacità di articolare un discorso. “Tu stai bene, e non so come sia possibile, ma è questo l’importante”. Sorrise di nuovo, scuotendo leggermente la testa, ancora incredulo. Non sapeva chi avesse di fronte, come fosse possibile tutto ciò. Sapeva solo che Besaid dispensava doni e maledizioni, e a lei aveva donato la possibilità di essere il suo rovescio della medaglia. Un miracolo in grado di resistere a quello che era il tocco della morte, di far sì che la vita vincesse, che si rigenerasse e ristabilisse l’equilibrio.
    Un miracolo decisamente attraente.
    Scacciò quel pensiero dalla sua testa, così come giunse. Il primo approccio era stato un quasi-omicidio. Le sue possibilità erano decisamente sfumate in partenza.
    Beh, ora avrebbe dovuto fare qualcosa, pur di non restare imbambolato a fissarla ed essere scambiato per una specie di ritardato. “Comunque, mi chiamo Ivar. Ti stringerei la mano ma…” Tentennò. Beh certo, ora poteva permettersi pure di fare dell’ironia. Tanto non aveva rischiato di farle del male. E non rischiava di fargliene ancora, nonostante quella che aveva davanti fosse una specie di Wonder Woman versione colorata. No no “Meglio di no” concluse, abbozzando un sorrisetto rassegnato. Nonostante la situazione ora fosse sotto controllo, preferì non rischiare oltre, non almeno finché il suo animo non si fosse acquietato del tutto. Nemmeno si era accorto del fatto che la rissa doveva essersi spostata più in là, o magari fuori, e che il caos stava pian piano rientrando. Tutto stava tornando allo status quo, come fosse stato solo un’ondata passeggera, che li aveva colpiti e poi era tornata indietro. “Ci siamo già incontrati da qualche parte? Il tuo mi sembra un viso conosciuto” Le chiese poi, cercando di scavare nella memoria e recuperare qualcosa sull’identità della ragazza dai capelli arcobaleno. Sicuramente, a Besaid, l’aveva già vista in giro, una come lei non passava di certo inosservata, ma in effetti non ricordava di averci mai parlato.
     
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    Almeno una volta nella vita capita ad ognuno di sentirsi fuori luogo, come si sentirebbe un mostro in un luna park pieno di bambini in attesa del loro turno sulla giostra più bella e divertente di tutto il parco. Il mostro è nascosto dietro il chiosco dello zucchero filato, gli piacerebbe tanto averne uno e gustarselo come chiunque, così da leccarsi le dita una volta terminato e mangiato tutto. Decide allora di avvicinarsi, non sa di essere diverso e tenta di approcciarsi agli altri chiedendo di prestargli una monetina, vuole giocare insieme agli altri, vuol far vedere loro che anche lui è capace di divertirsi. Allora decide di uscire allo scoperto, di provare ad avvicinarsi ad uno di loro e afferrargli la mano, in due si ha meno paura pensa il mostro, timoroso -non ha mai giocato con nessuno, non sa ancora bene come si fa. Ma non sa che gli occhi degli altri bambini non hanno la possibilità di guardare attraverso, di vedere che sotto quella pelle strana e unta, al riparo nella cassa toracica, batte un cuore identico al loro. Quei bambini non lo sanno, vedono quello che possono vedere, sentono dei versi strani, un'altra lingua diversa dalla loro, e non capiscono. Scappano tutti via, urlano dalla paura al mostro!, ma quale mostro? Si chiede lui stesso, e non lo sa, proprio non capisce. Inizia a scappare dietro quei bambini, tentando di fermarli e facendo capire loro di aver paura esattamente nella stessa maniera. Cos'avranno visto arrivare? Deve preoccuparsi? Perché continuano a guardarsi dietro, deve farlo anche lui? Un mostro cattivo lo sta seguendo? Ma quei ragazzini scappano sempre più veloce, lui arranca ancora e ha il fiatone, continua a guardarsi indietro, ma c'è solo il vuoto e le luci delle giostre. Quei bambini sono strani, forse un po' diversi da lui e il mostro sta iniziando a capirlo. Allora forse scappano da lui? Ha delle gambe storte e una pelle più rigida, forse è proprio quella diversità che fa di lui un mostro? E continua a correr loro dietro, imprecando ancora una volta in quella lingua sconosciuta. Poi dal nulla appare qualcuno o qualcosa, il mostro non lo sa. Ma si avvicina sempre più a lui e non sembra aver paura; lo afferra per una mano e lo tira via, lontano dalle urla spaventate dei bimbi e i loro genitori. Gli sorride -lo stesso strano sorriso, forse senza denti, forse con. E alla fine capisce che non è lui il mostro, perché il cuore ce l'ha e batte come quello di tutti gli altri. E quel tocco basta, gli fa capire di aver trovato un amico, qualcuno con cui poter essere se stesso senza metter paura, qualcuno che sappia leggere fra le corde della sua anima e parli quella sua stessa strana lingua sconosciuta, imparata chissà dove e chissà quando. Qualcuno che non abbia scelto di essere chi è, ma che alla fine abbia accettato di vivere nella propria pelle senza cercare di scacciarla, di fuggire via da essa. E in quel momento, Fae si sentiva esattamente come il mostro, perso nella corsa contro il tempo per cercare di acchiappare qualcuno di quei bambini e far capire loro di non essere poi così diversa. Arrossì di colpo quando notò lo sguardo stupito del ragazzo dinnanzi alla reazione che la sua pelle ebbe al contatto con il palmo della mano di lui. A Besaid era normale assistere a qualcosa di strano, di insolito, quasi ogni giorno. La popolazione si spaccava in due parti esatte, divise fra chi elaborava nella propria mente quelle particolarità e le rendeva cosa di ogni giorno, e chi dall'altro lato pensava di impazzire al sol pensiero di avere la possibilità di accettarle e definirle quasi normali. Fae non sapeva in quale delle due frazioni quel ragazzo avrebbe potuto esser collocato, ma sapeva che quello sguardo era un misto fra stupore e paura, e questo non le piacque affatto. Si sentì quasi sotto esperimento, come se quegli occhi puntati su di lei volessero ferirla ancora, vedere quale reazione avrebbe avuto la sua pelle. Sigillò le proprie labbra, inspirando profondamente e cercando di tenere sotto controllo il rossore che colorava leggermente il suo viso. Tornò a coprire la parte della pelle che si era stranamente rinsecchita sotto la pressione della mano di lui, cercando quasi di nasconderla agli occhi dello sconosciuto. Farfugliò poi qualcosa riguardo al fatto che non avrebbe voluto farle del male, ovviamente, e che era alquanto dispiaciuto per ciò che era accaduto pochi secondi prima. Fae annuì piano, quasi non volesse credergli e sperando che il giovane non fissasse mai più il suo braccio. Molti cittadini di Besaid erano stati graziati con delle strane e assurde particolarità che non avevano niente a che fare con la parte fisica, ma solo psichica. Certo, a volte poteva essere peggio, ma la stramba abilità della rigenerazione dei tessuti era visibile a chiunque. Se fosse caduta, inciampata, e si fosse sbucciata un ginocchio, ne sarebbe rimasto solo il sangue sulla pelle, poiché questa avrebbe creato in maniera quasi istantanea uno strato del tutto nuovo, chiudendo la ferita senza neanche aver bisogno di punti o medicazione. Sapeva di aver spaventato molti dei suoi compagni di classe, ai tempi della scuola, dovendosi sorbire anche mille domande al riguardo e il fatto che in molti le avevano detto di essere fra le più fortunate. Avrebbe potuto combattere la morte a occhi chiusi, non avere malattie. Ma Fae non aveva mai apprezzato nulla di tutto questo, neanche l'ammirazione di un solo. Sapeva che prima o poi sarebbe successo qualcosa, quel qualcosa che l'avrebbe resa uguale a tutti gli altri e avrebbe salutato la morte anche lei. Magari più tardi rispetto a chiunque, ma si sentiva fragile e mortale come tutti gli altri, consapevole anche di esserlo. «Sì, io... bè, non so esattamente cosa tu abbia fatto ma a quanto pare non sembra aver funzionato su di me.» gli rispose, alzando finalmente lo sguardo e puntandolo negli occhi chiari di lui. Fino a quel momento non si era concentrata affatto sulla figura del giovane, non inquadrandolo esattamente come avrebbe dovuto. Non credeva di averlo mai visto in giro, ma anche per lei sembrava avere un viso conosciuto. Besaid, dopotutto, era sempre lo stesso insieme di un'unica cerchia di persone. E che quel tocco avesse messo in azione la sua particolarità? Questo non poteva saperlo e non riusciva neanche a pensare ad una maniera gentile e delicata per chiederlo. Ma lei era Fae Olsen, la scapestrata ragazza senza regole, alla quale se solo non fossero avvampate le guance avrebbe avuto il coraggio anche di chiedergli che taglia portasse di pantaloni. Ma no, quello non era il momento e l'idea di essere ancora sotto i suoi occhi le faceva ingessare le gambe. «Fae. Direi che è un piacere ma non sono ancora sicura che lo sia.» gli disse, mettendo su un mezzo sorriso del tutto forzato. Si voltò qualche secondo per assicurarsi che nessuna sedia stesse volando nella sua direzione e notò con sollievo che la rissa sembrava essersi acquietata, lasciando nuovamente spazio all'atmosfera della festa di compleanno -rave- che aveva regnato fino a poco prima. Staccò la mano dal braccio, tornando ad osservare per una frazione di secondo la pelle che ormai sembrava essersi rigenerata quasi completamente, e poi tirò fuori dalla tasca posteriore dei jeans il pacchetto di sigarette. Aveva bisogno di fumare e quella casa si sapeva non avere un proprietario, quindi ne avrebbe accesa una lì dentro. Afferrò la prima per il filtro e la posizionò fra le labbra, dandole vita subito dopo con l'accendino nascosto all'interno del pacchetto. Lo inserì nuovamente nel contenitore di carta e prima di riporlo, lo allungò verso Ivar, di fronte a lei. «Fumi?» gli chiese, indicandogli il pacchetto con un movimento del capo. Quella era una delle brutte abitudini che ormai non riusciva più a cancellare. La prima sigaretta le aveva fatto compagnia quando aveva solo quattordici anni. Prematuro, lo sapeva, ma di lì era stata tutta una discesa ripida fra alcol e fumo. «Potrebbe essere. Frequenti sempre feste di questo tipo?» gli domandò, incuriosita. Aveva un viso dai tratti ben delineati, contorno di quelli che erano occhi decisamente magnetici. Se per Fae erano i capelli che la distinguevano da chiunque altro, per questo Ivar erano certamente gli occhi. «O ti ci presenti solo per prendere parte alle risse, magari?» disse, scherzandoci su e abbozzando un sorrisino non troppo deciso. Fece un tiro alla sigaretta e mantenendola poi fra l'indice e il dito medio, si avvicinò di qualche passo al bancone delle bibite. Prese due di quei bicchieri in plastica rossa e li riempì con del Rum, forse 4 o 5 cl di quel liquido secco e amaro, prima di voltarsi e fare nuovamente due passi indietro in direzione di Ivar. Gliene allungò uno e mantenne l'altro. Avrebbe voluto fargli delle domande, di cui alcune ben precise, riguardo ciò che era appena accaduto; ma ancora non se la sentiva e non aveva esattamente idea di come iniziare. L'unica cosa che sapeva era che poco prima qualcosa era avvenuto, e nessun contatto fisico -in tutta la sua vita- aveva avuto quel tipo di effetto su di lei. «Comunque credo davvero che questa sia la cosa più strana che mi sia capitata da un bel po' di tempo a questa parte.» confessò, alzando nuovamente lo sguardo verso di lui e puntato il proprio negli occhi del suo interlocutore. «E non parlo della rissa. A quelle ogni tanto ci partecipo anche, se capita.» continuò, cercando di ironizzare con l'intento di ammazzare l'imbarazzo che si era creato fra di loro solo poco prima.
    Se tutti loro avevano ricevuto da Besaid in dono una particolarità, bè, la stessa città ne aveva una per sé: ogni cosa, ogni attimo trascorso all'interno di quei confini, era una continua sorpresa che mai nessuno di loro sarebbe stato capace di comprendere fino in fondo. Ciò che ogni giorno avveniva fra quelle strade o in quelle case, restava qualcosa di incredibilmente unico che forse solo gli stessi cittadini avrebbero mai potuto accettare e conviverci. E Fae ne restava sempre colpita, in un certo senso, chiedendosi poi quando quell'uragano di cambiamenti e novità avrebbe smesso di girare intorno ad ognuno di loro. Era un circolo infinito di nuove sensazioni e scoperte, che forse non tutti avrebbero mai apprezzato, compresa lei, la quale non sapeva ancora come reagire a tutta quell'incredibile stranezza che ogni giorno la circondava.
     
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    | IVAR WESENLUND | 24 Y.O |
    Prima di andare a dormire, sua madre soleva raccontargli delle storie, così come tutte le mamme facevano. Non si addormentava mai, Ivar, prima che la storia fosse finita. La ascoltava curioso e faceva domande, per carpire da quelle storie più dettagli possibili. Le ascoltava fino alla fine, ed anche quando lei spegneva la luce, continuava a pensarci, ad assimilare dettagli, a immaginare come sarebbe stata la sua vita se fosse divenuto il protagonista di quelle storie che tanto gli davano adrenalina. A volte interpretava alcuni di quei personaggi, quando insieme a Leonard giocava a “fare finta di”. Prendevano vita, quelle storie, e cambiavano il finale perché quello che avevano era troppo scontato, o semplicemente non gli piaceva. E così, Ettore e Achille smettevano di combattersi, e si alleavano fondando il più grande impero mai esistito, Hansel e Gretel trovavano il libro nero della strega e diventavano maghi potentissimi, Thor e Loki combattevano con coraggio, e poi infine si addormentavano insieme su un prato. Era grazie a quel modo di pensare fuori dagli schemi che due semplici soldati impedivano che la seconda guerra mondiale si verificasse, che il cacciatore salvasse Biancaneve e la sposasse divenendo il protagonista della storia, che gli elfi divenivano la razza prevalente sulla terra. I destini di quei personaggi potevano essere cambiati, semplicemente immaginandoli diversamente. Si chiedeva se anche la vita fosse così, se davvero si potesse divenire il protagonista di una storia, plasmarla e raccontarla a proprio piacimento come uno scrittore e il suo personaggio fusi insieme. Era bello, fantasticare, in un modo in cui ora non riusciva più a concepire la realtà. Non c’erano più regine cattive in agguato dietro agli alberi, una cannuccia non poteva trasformarsi in una bacchetta magica, l’ambiente circostante non offriva più ostacoli dietro a cui ripararsi dai colpi del nemico. Se fosse diventato uno dei personaggi delle storie che aveva prima ascoltato e poi letto da solo, probabilmente Ivar sarebbe stato una specie di Re Mida al contrario. Mentre il primo riusciva a trasformare tutto ciò che toccava in oro, divenendo un’iperbole dell’avidità umana, Ivar riusciva a togliere la vita a tutto ciò che toccava, a negarne l’identità per sempre. Si era sempre chiesto che sensazione avrebbe provato Mida, se fosse realmente esistito. Chissà se avrebbe avuto paura della capacità che tanto aveva agognato, quando l’oro sarebbe divenuto tanto da nausearlo? Chissà se avrebbe rivoluto indietro la sua vecchia vita, una volta compreso che quella che aveva era terrificante? Non comprendeva, Ivar, la volontà del Re di avere un tocco che avrebbe potuto cambiare l’essenza di ciò che gli passava sotto mano. Sapeva, il giovane falegname, che una cosa del genere mai avrebbe potuto essere chiamata dono. Non riusciva a trasformare tutto ciò che toccava in oro, eppure il principio era lo stesso. Chi era lui, per andare persino contro la natura? Per decidere come cose e persone dovessero mutare? Sentiva di avere il potere di trasformare qualsiasi cosa volesse, in qualcosa che non avrebbe avuto più alcuna utilità; e quella consapevolezza ad Ivar faceva paura.

    Aveva imparato a conoscere la morte in tutte le sue sfaccettature, nelle situazioni più impensate, nelle sue sfumature più terribili, eppure non aveva mai smesso di temerla. Aveva visto come un semplice oggetto potesse morire, anche solo in maniera metaforica, perdendo la funzione per cui era nato e la propria identità, e disintegrarsi al punto da non avere più possibilità di trasformarsi in qualcos’altro. Aveva percepito la vita abbandonare la materia vivente, fibra dopo fibra, lottare strenuamente per un ultimo istante, prima di abbandonarsi a un fato che essa non aveva scelto. E infine, aveva visto la morte da fuori, consumare una delle persone che amava di più, portarsela via in un istante, senza permettere nemmeno che la vita reclamasse il proprio miracolo. Conosceva la morte molto di più del resto delle persone, aveva imparato a conviverci come quella fosse una macabra sorella, eppure, nemmeno per un istante, aveva smesso di averne paura.
    Nemmeno in quel momento aveva smesso di tenerla, quando il mondo sembrò essersi rovesciato e la vita aveva iniziato a vincere sulla morte. Nemmeno quando la pelle della ragazza che aveva di fronte aveva iniziato a riprendere il suo naturale colore aveva smesso di avere paura. Paura dell’irreversibile, paura di condannare qualcosa o qualcuno all’oblio eterno. Continuava a guardarla, perché in lei vedeva qualcosa che mai avrebbe creduto possibile. Qualcosa di dannatamente bello ai suoi occhi, una meraviglia irripetibile nei secoli e oltre quell'istante. Spostò lo sguardo dal suo polso, quando lei sembrò ritrarsi, nascondersi. In effetti si sentiva un po’ irruento, quasi con quello sguardo stesse violando lei e ciò che era, facendo ciò che mai avrebbe voluto fosse fatto a lui. Ma non era riuscito a contenere lo stupore di fronte a quel miracolo, il sollievo di vedere che a volte qualcosa di tanto bello potesse accadere.
    “Sì, io... bè, non so esattamente cosa tu abbia fatto ma a quanto pare non sembra aver funzionato su di me.” Non riusciva a smettere di sorridere, nemmeno di fronte alla sua spavalderia o al poco peso che aveva dato alla cosa. Era tutto così surreale e improbabile da suscitare in lui emozioni contrastanti. La paura degli istanti precedenti si mescolò al sollievo, e all’incredulità. “Per fortuna, aggiungerei”. Sussurrò, lasciando che i suoi muscoli si rilassassero, cullati dal battito del suo cuore che decelerava pian piano. Il nome di lei, in effetti, gli aprì una porta. Si, ecco chi era, la PR. Doveva averla vista qualche volta nei locali in centro, mentre serviva da bere, nelle poche occasioni in cui si era convinto ad uscire. Probabilmente conosceva Zoe, gli sembrava di averle viste parlare in quelle poche occasioni, in cui era rimasto in disparte a farsi gli affari suoi. Il sorriso gli morì in bocca, di fronte al suo “non sono ancora sicura che lo sia”. Che c’era da aspettarsi, in fondo? Aveva cancellato la ferita che Ivar le aveva inferto, ma sicuramente non avrebbe potuto rimuovere dalla mente ciò che era successo. Tutto portava a delle conseguenze, anche i miracoli. Le avrebbe dovuto delle spiegazioni, quello era certo. Ma quali parole avrebbe potuto trovare lui, che in quel momento non riusciva nemmeno a pronunciare il proprio nome senza balbettare? Come avrebbe potuto parlarle della sua particolarità, senza sembrare o sentirsi un mostro? Di nuovo quella parola sovvenne alla sua mente, scacciata solo dai suoi gesti, che a tratti smorzavano la tensione e a tratti la acuivano. “No, grazie”. Rispose gentile, declinando la sua offerta. A volte si concedeva qualche sigaretta, soprattutto insieme a Zoe, prima di passare a roba leggermente più pesante durante le loro “serate relax”, ma in quel luogo l’aria era talmente satura da soffocarlo già. Rise, alla battuta della ragazza d’acciaio, seguendone i tratti delicati illuminati dalla flebile luce di un accendino. Per una volta che partecipava a una festa, succedeva il putiferio. La vita sociale di Ivar era sempre un qualcosa di precario, almeno quanto il suo equilibrio emotivo. “No, generalmente non frequento feste così. Credo che questa fosse la festa di compleanno di mio cugino… prima di divenire un rave party”. Fece spallucce. Se avesse saputo che quella festa sarebbe divenuta una calca in cui avrebbe rischiato di fare una strage, di certo non ci sarebbe andato. Ma il destino aveva deciso qualcosa di diverso per lui, quella sera. Qualcosa di inaspettato che solo un luogo come Besaid poteva combinare.
    Prese il bicchiere che lei gli porse, sorridendo, quasi a smorzare la tensione che fino ad allora aveva accompagnato le poche parole che fino ad allora si erano scambiati. Brindò con lei, buttando giù un sorso di quel liquido che gli raschiò la gola dolorosamente. Dovette chiudere un attimo gli occhi per lasciare che quella sensazione scemasse. Era strano trovarsi di fronte a qualcuno che, nonostante fosse stato vittima della sua maledizione, non avesse paura di lui. Era intrigato da quella risoluta ragazza dai capelli colorati e lo sguardo vispo. E doveva a lei, forse più a chiunque altro, l’unico bene che potesse offrire: la verità.
    “Comunque credo davvero che questa sia la cosa più strana che mi sia capitata da un bel po' di tempo a questa parte. E non parlo della rissa. A quelle ogni tanto ci partecipo anche, se capita.” L’angoscia lo pervase, nonostante il tentativo di lei di mascherare la perplessità racchiusa in quella frase. Ci aveva sperato, che avesse lasciato correre, che non sarebbe più tornata sull’argomento. Eppure, probabilmente quel baratro che si frapponeva tra loro non si sarebbe mai colmato, non finché la verità non fosse venuta a galla. Non era una semplice osservazione, la sua, era una richiesta.
    “Oh, è decisamente strana”. Ribattè, armandosi del coraggio necessario per fare ciò che di colpo gli venne in mente. Si guardò intorno, cercando di individuare nell’ambiente circostante qualcosa adatto al suo scopo. Lo trovò, proprio sul tavolo delle bevande, accostato al muro: un mazzo di fiori, probabilmente un regalo per il festeggiato non molto gradito, o il frutto di una qualche proposta rifiutata. Sfilò una rosa dal mazzo ben confezionato, e si volse di nuovo verso Fae. Una persona leggermente più spigliata di lui le avrebbe regalato la rosa ed avrebbe così cambiato discorso. Ma lui non fece altro che prenderla delicatamente per un braccio, ora che almeno la sua abilità sembrava inattiva, e sussurrarle “Vieni. Ti mostro una cosa”. La condusse poco più in là, vicino alla finestra, dalla cui vetrata filtrava un po’ più luce di quella presente nella stanza. Volse le spalle al resto delle persone, per assicurarsi di non essere visto, quasi facendo da scudo a ciò che stava per compiere. Guardò Fae, incupendosi per un attimo, i gomiti poggiati sul davanzale, e poi guardò la rosa che teneva in mano per lo stelo. Non gli fu difficile pensare a qualcosa di brutto, la sua vita stava andando a rotoli. Bastò ricordare suo padre, il suo volto sorridente, affinché il senso di vuoto prendesse il sopravvento, e quella sua terribile capacità si riattivasse. Lo sentì di nuovo, quel formicolio gelido scorrergli lungo il palmo della mano, e scemare, a ondate.
    Guardò la rosa con espressione apatica, lo stelo avvizzire e divenire nero, i petali rossi disidratarsi e ritrarsi, divenendo di un grigio cenere. Alcuni caddero, alcuni rimasero strenuamente attaccati a quel pistillo, calcificandosi l’uno con l’altro. Non bastarono che pochi istanti, affinché quel fiore ancora in parte vivo morisse, divenisse secco e irrecuperabile. La percepì a pieno, Ivar, la vita abbandonare ciò che aveva semplicemente toccato. Sospirò e lasciò andare ciò che rimaneva di quel fiore, che non appena cadde sul davanzale, si frammentò lungo lo stelo e perse ulteriori pezzi dei petali. Restò in silenzio, guardando Fae affinché potesse elaborare la cosa. Mostrarglielo era decisamente stato più semplice che spiegarglielo. “Questo è ciò di cui ho paura, questo è ciò che sarebbe potuto accadere a te, per un mio stupido errore, e che non mi sarei mai perdonato”. Le disse, poco speranzoso che capisse cosa potesse significare avere il dono di uccidere. E ammise, la propria leggerezza anche con lei, cosa di cui si era già accusato a sufficienza. “Ma tu, sei il miracolo vivente che mai avrei immaginato di vedere, qualcosa di…” Non avrebbe saputo come definire quella che era la sua stupefacente antitesi, il polo positivo di quella carica. Scosse la testa una volta, lentamente, alla ricerca di quella parola. “Speciale”. Fu l’unica parola che trovò per descriverla, non quella giusta forse. E sorrise, di fronte a quella ragazza che probabilmente sarebbe scappata a gambe levate di lì a breve.
    Era a quello che Besaid conduceva i suoi abitanti: a giungere di fronte alle proprie paure ogni giorno, a fare i conti con capacità che non trovavano riscontro altrove, a stupirsi di fronte alle sorprese che quel luogo ameno aveva in serbo nel suo mazzo di carte.

    Edited by Iwar - 7/2/2018, 13:04
     
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    Qualche volta si soffermava con lo sguardo su ciò che la circondava, chiedendosi quali storie assurde si nascondessero dietro il tempo che scorreva corrodendo la pelle che rivestiva ogni cosa. O addirittura quale fosse il vero passato di quella città, di quelle strade che percorreva ogni giorno in maniera quasi del tutto inconscia. Non aveva realmente un'idea di che aspetto avessero avuto le mura di quelle abitazioni più di qualche anno prima, o quale fosse lo spirito dei cittadini ai tempi delle leggende che erano giunte a loro tramite passaparola, di generazione in generazione, tramandatesi con lo scorrere degli anni. Intorno a lei conosceva tutto ciò che si rendeva visibile ai suoi occhi, ma sostanzialmente non sapeva cosa si nascondesse dietro il vecchio pozzo in disuso nella zona ovest della città, accanto al chiosco malandato che ancora si reggeva in piedi solo per miracolo degli dei, probabilmente. Non aveva neanche idea di chi avesse calpestato il terriccio dietro casa di zia Rory, prima che al suo fianco fosse costruita una casa dalle mattonelle arancioni e rosse con il tetto dalle tegole scure, sotto il quale qualche anno dopo una giovane ragazzina avrebbe fatto il proprio ingresso, decretando quella come casa sua. C'erano molte cose che Fae non sapeva, e forse era stata la consapevolezza di non avere una visuale completa del proprio circondario, che aveva iniziato a sviluppare una curiosità superlativa, quasi molesta alcune volte. Non si mostrava mai impertinente, ma in qualche modo cercava sempre di scovare il resto delle cose, l'altra faccia della medaglia. Glielo aveva insegnato suo padre, a non fermarsi di fronte alla corazza che protegge la reale forma delle cose. Vels Olsen aveva avuto la possibilità di scoprire cosa si nascondesse dietro gli occhi di una persona, mostrando a sua figlia quei sogni che lui stesso avrebbe voluto vedere realizzati. Suo padre, difatti, aveva la complessa abilità di trasformare le speranze e i desideri in immagini, creando delle illusioni attorno a sé al quale chiunque gli fosse vicino avrebbe potuto partecipare. Lo ricordava con esattezza, come se l'uomo le camminasse ancora accanto mostrandole ciò che il cuore tentava di nascondere. Una delle prime volte che la ragazza aveva avuto modo di visitare quel mondo incantato che suo padre allestiva intorno a lei con il solo ausilio della mente, Fae ne era rimasta talmente sorpresa e contenta, che Morfeo non aveva poi fatto alcuna fatica ad accoglierla fra le proprie braccia per accompagnarla nel luogo più tranquillo della sua mente, lasciandola cadere nel sonno più profondo di cui avesse mai potuto godere. Ricordava di averlo chiamato, pretendendo la sua presenza in quella cameretta dalle pareti rosa costellate di adesivi a forma di elefanti. La scrivania piena di cianfrusaglie, tra cui libri per bambini e matite colorate. L'uomo che amava più al mondo aveva fatto il proprio ingresso, sporgendosi appena con il viso oltre la porta e osservando la propria bambina puntare lo sguardo su di lui, il viso corrucciato e impaziente. Le aveva sorriso, sapendo perfettamente di cosa avesse bisogno la piccola Fae. Si era mosso in direzione del piccolo lettino, avvicinando ad esso la poltroncina a forma di orsacchiotto e sedendosi su di essa, sprofondando nella morbidezza della sedia-peluche. Aveva allungato una mano verso il viso di sua figlia, accarezzandole con cura le guance rosee e sistemandole i capelli biondi dietro l'orecchio. Fae aveva sorriso, inspirando lentamente e serrando le palpebre con forza, in fervida attesa di quella che sarebbe stata la sua ninna nanna alternativa. Vels amava guardare nel cuore delle sue bambine, rimanendone ogni singola volta esterrefatto da ciò che dinnanzi ai suoi occhi appariva; quando si addentrava nel cuoricino della più piccola delle sue bambine, ciò che vi trovava era semplicemente magia. I sogni di Fae non avevano nulla di oscuro, di sporco. Non c'erano paura, non c'era timore. Ogni battito era un particolare, una sensazione di contentezza che la bambina provava quando suo padre le stava accanto. Vels si perdeva nella bellezza del mondo in cui Fae crollava, sorpreso da quanto sua figlia fosse creativa e felice dei sogni che lei gli mostrava. Così, la piccolina riusciva finalmente ad addormentarsi, camminando in un grandissimo campo di ciliegi mano nella mano con suo padre. Era un turbinio di colori e luci, intorno a loro. Passeggiavano su un viale ciottoloso che sembrava non aver fine, mentre intorno a loro un'infinita quantità di creature fatate si libravano in aria, staccando fiori e ponendoli fra le ciocche di capelli colorati i quali ricadevano in maniera del tutto naturale sulle loro spalle. In alto, al posto del cielo, c'era una distesa d'acqua azzurrissima, a tratti verde smeraldo, che ondeggiava sulle loro teste senza minacciare però di inondarli. Vels avvertiva la sensazione di sicurezza di sua figlia, qualcosa che neanche la sua mente avrebbe mai potuto immaginare. Guardava Fae accanto a sé, osservando il movimento delle sue piccole e sottili braccia che piano piano, come per magia, si allungavano verso l'alto e toccavano quell'acqua pulita, fresca. Non aveva mai visto nulla di simile, Vels Olsen, neanche con la sua primogenita, che a differenza di Fae aveva sempre avuto una mente molto più razionale, sin da piccola. Il massimo della fantasia che aveva avuto modo di scovare attraverso i sogni di Meggy, erano stati dei conigli volanti che salterellavano di nuvola in nuvola. E Fae ricordava tutto come se quelle il ricordo di quelle notti fosse attentamente custodito in un cassetto della propria mente, chiuso a chiave. Non avrebbe potuto liberare quei ricordi, o l'avrebbero colpita e fatta crollare una volta per tutte. Insieme ad esso c'era anche quello dell'ultima illusione che suo padre le aveva mostrato, proprio qualche minuto prima che avvenisse quel maledetto incidente che le aveva cambiato radicalmente la vita. Lo ricordava ancora come un coltello che lacera la carne, lasciandone sgorgare il sangue in cerca di libertà e ossigeno puro. Con il corpo aveva avvertito quella che probabilmente era stata una caduta nel vuoto con l'auto, mentre gli occhi erano stati altrove, in un luogo scuro, a tratti illuminato da una luce che non aveva avuto idea del luogo dal quale provenisse. Era seduta su una sedia, suo padre dinnanzi a lei che le sorrideva dolcemente. E l'aveva udito, mentre le aveva detto ancora una volta -l'ultima volta- che le voleva bene. Lo aveva sentito benissimo, quasi fosse vero, ma quell'immagine seppur profonda e sentimentalmente forte, era arrivata accompagnata dalla paura, una sensazione di terrore che le aveva messo lo stomaco sottosopra. Aveva capito che suo padre aveva voluto nasconderle la vista di ciò che stava accadendo, ma l'uomo non era riuscito a imprigionare la paura lasciandola solo per lui, trasmettendola così anche alla povera Fae, incapace di capire per davvero cosa diavolo stesse avvenendo. Poi non aveva ricordato più nulla; la figura di suo padre era svanita nel nulla e le sue orecchie erano divenute come cotone, incapace di acquisire ulteriori suoni. Si era risvegliata parecchi giorni dopo, in una stanza bianca e vuota. Suo padre non c'era più a sorriderle e spostarle i capelli dietro l'orecchio.
    Cercava di mascherare la paura e l'imbarazzo con gesti semplici, quasi comuni. L'accendere una sigaretta, prendere da bere e offrire lo stesso al suo interlocutore che, ne era sicura, stava provando esattamente le stesse sensazioni che smuovevano la sua pelle in quel momento. Entrambi sapevano di dover dirsi qualcosa, ma non avevano la minima idea di come arrivare ad interagire senza dire baggianate o senza toccare dei tasti che, probabilmente, sarebbero divenuti quasi troppo intimi da affrontare per due estranei come loro. Fae avvertiva solamente la sensazione di sollievo che Ivar stava provando in quel preciso istante, quando la pelle di lei sembrava essersi rigenerata per miracolo, combattendo quella che avrebbe dovuto essere tutt'altro che vita. «I miei complimenti, forse sei l'unico invitato che conosce di persona il festeggiato e probabilmente si ricorda come si chiama.» scherzò, inarcando appena le sopracciglia in segno di sorpresa. La voce aveva fatto il giro di Besaid e si era sparsa tra i più giovani dei suoi cittadini ad una velocità che avrebbe fatto invidia al virus del raffreddore. «Io suppongo di averlo visto solamente per due minuti, da quando sono qui. Credo sia quello con in testa la coroncina di slip femminili che girava in salotto ubriaco poco prima. Era alle ricerca della propria torta di compleanno, a quanto pare qualcuno ci ha ficcato la faccia dentro e ora ha perso tutta la bellezza iniziale.» affermò, indicando con la mano la stanza dietro di loro e cercando di non ridere come un'idiota. Era anche per situazioni come quelle, che cercava in tutti i modi di non perdersi feste di quel genere. Non le importava di presentarsi a casa di uno sconosciuto -o in quel caso in una casa che avrebbe dovuto essere infestata dai fantasmi, a sentir parlare le vecchie nonne di Besaid. «Se lo vedi digli che mi dispiace. La prossima volta però dovrebbe perdere più tempo nel buttar giù la lista degli invitati, direi.» continuò, cercando di scherzare così da sciogliere il ghiaccio creatosi solo qualche minuto prima. Avvicinò il bicchiere alle labbra, mandando giù un altro sorso di Rum che aveva nel bicchiere. Inspirò profondamente; le labbra schiuse e i denti stretti, così da farci passare in mezzo dell'aria e rinfrescare la bocca infuocata dall'alcool. Avvertì il corpo di Ivar irrigidirsi nuovamente nell'udire le sue parole, per poi seguire il suo sguardo alla ricerca di qualcosa in quella stanza, forse una via di fuga così da potersela svignare senza doverle alcun tipo di spiegazione. Ma con sua sorpresa, il giovane si voltò nuovamente a guardarla, per poi afferrarla con premura da un braccio e trascinarla con sé. Ebbe un breve e quasi impercettibile sussulto nel momento in cui Ivar avvolse le proprie dita nuovamente attorno alla sua pelle, chinando il capo in direzione del punto in cui si erano nuovamente giunti e assicurarsi che non stesse avvenendo nulla, che la sua pelle fosse sempre dello stesso colore biancastro che da sempre la distingueva. Spense in fretta la sigaretta, lanciandola per terra e continuando a seguire i passi del suo interlocutore per scoprire dove avrebbe voluto condurla. Si fermò accanto ad una finestra, poco lontano dal chiasso della festa. Lo seguì, posizionandosi di fronte a lui e dedicandogli la propria competa attenzione. Ivar prese una rosa fra le mani, mantenendola con delicatezza dallo stelo ed incupendosi lentamente mentre il proprio sguardo si soffermava su di essa. Puntò i propri occhi sulla stessa rosa che il ragazzo teneva fra le dita, osservando con stupore quei colori spegnersi lentamente, lasciando il posto a qualcosa che non aveva neanche più le sembianze di un fiore, di vita. Qualche petalo abbandonò lo stelo, sacrificandosi e andando ad adagiarsi sullo spazio del pavimento che li divideva. Fae restò qualche secondo ad osservare quello stelo che, fino a brevi momenti prima, era stato caratterizzato dai colori accesi ed eccentrici della vita. Era accaduto ciò che, se lei non avesse avuto quella particolarità che Besaid le aveva donato, sarebbe avvenuto anche alla sua pelle, degenerando e divenendo morte, arrivando a spegnerle anche l'anima. Non credeva di aver mai visto nulla di simile, in tutta la sua vita. Tutte le persone che aveva avuto modo di conoscere erano state graziate da doni meravigliosi, a volte eccentrici e complicati, ma decisamente interessanti. Quello che possedeva Ivar, però, superava tutte le aspettative, sorprendendola e portandola a domandarsi fino a che punto si potesse arrivare, se ci fosse qualcuno oltre loro che malediva ogni giorno vissuto in quella città. Sollevò quindi lo sguardo verso di lui, puntandolo negli occhi chiari del ragazzo. Non seppe bene cosa dire, come gestire quella situazione, e restò immobile e in silenzio ad ascoltare le sue parole e provando ad immaginare anche solo per un momento come Ivar potesse sentirsi, quale peso si trascinasse sulle spalle. E lei se ne stava lì, impalata e ingessata in quel corpo che pareva esser l'unico a sfidare quello di Ivar. «Io non sono speciale, Ivar.» gli disse, scuotendo appena il capo e cercando di concentrarsi per trovare le parole giuste da formulare. Non si era mai vista sotto quella luce, così come non aveva mai pensato di essere più speciale degli altri. Perciò provo ad accostarsi a lui e al suo modo di esprimersi, serrando le labbra e tirando fuori dalla tasca dei jeans il suo accendino giallo fosforescente. Lo mantenne in una mano, mentre con l'altra andò ad appoggiare il bicchiere di plastica sul davanzale della finestra. Poi la sollevò all'altezza del petto, distendendo perbene le dita e volgendo il palmo in direzione del pavimento. Con l'altra avvicinò l'accendino a quella, posizionandolo ad una distanza del tutto pericolosa alla pelle chiara che rivestiva le ossa sottili della sua mano libera, e solo dopo aver tirato un lungo sospiro silenzioso fece roteare la rotellina che liberava il gas, lasciando che questo si trasformasse in una fiammella. Avvertì il calore invaderle la mano, partendo dal centro esatto del palmo per poi estendersi alle dita e al polso. Si trasformò presto in bruciore, per poi esplodere in dolore. Strinse i denti, cercando di tenere per sé la paura e mettendo da parte quello che avrebbe dovuto essere l'istinto di sopravvivenza di cui ogni umano disponeva, lei compresa. Dopo qualche secondo, allontanò l'accendino dalla propria pelle, voltando nuovamente la mano ed allungandola in direzione del viso di Ivar, in piedi di fronte a lei. Non osò guardarlo, restando concentrata con le proprie iridi puntate sulla ferita che si era appena procurata. Un cerchio perfetto di colore rosso, circondato da tante piccole bollicine e al centro del quale sembrava essersi formata una ferita che aveva preso lentamente a sanguinare. Aspettò qualche secondo, continuando a trattenere il respiro per il dolore e serrando per un attimo gli occhi. Attese. Passarono forse tre, massimo quattro secondi, quelli che sembrarono essere minuti interminabili, fino al momento in cui il dolore si appiattì lentamente fino a svanire. Riaprì gli occhi per puntarli nuovamente sul palmo della mano aperto all'insù. Le bolle erano sparite e la pelle sembrava essere tornata del suo biancastro colore originario. Ci passò il dito indice dell'altra mano, raccogliendo e spostando il sangue che ne era fuoriuscito. Dove prima c'era stata la ferita sembrava essere tornato tutto come prima del contatto con il fuoco, e solo allora sollevò il proprio sguardo su di lui. «Io invece ho paura di questo. Di vedere intorno a me la fragilità delle cose e dover camminare da sola alla ricerca di quella che dovrebbe essere la mia, di debolezza.» disse, in quello che sembrò essere più che altro un sussurro. Quante volte lo aveva immaginato? I suoi sogni non raccontavano più di avventure in un campo di ciliegi, ma di una giovane ragazza dai capelli arcobaleno che si trascinava fra le lapidi di tutti quelli che aveva conosciuto. Non era essere speciale, era esser maledetti dall'eterna attesa.
     
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    Nasciamo senza paure, come pagine bianche che all’inizio sarà qualcun altro a scrivere per noi, e sulle quali metteremo mano quando l’incipit sarà già segnato. Ci affidiamo agli altri, a braccia amorevoli e correnti tiepide. Ci affidiamo al mondo senza avere la minima cognizione della realtà, e senza chiederci cosa sia il bene e cosa sia il male. Lasciamo che esso ci plasmi, come argilla malleabile, facendo di noi ciò che quel sadico scultore vuole, senza poter impedire nulla. E ci troviamo poi grandi, a poggiare la penna sulle pagine della nostra vita chiedendoci da dove le nostre paure abbiano avuto origine.
    Sperimentiamo la paura sin da bambini, per motivi che ci sembrano irrazionali, ma che qualcuno nel profondo ci ha insegnato. Le grida di qualcuno, gesti improvvisi, situazioni spiacevoli, quelle ci insegnano la paura. E poi c’è il nostro istinto, quella forza motrice e sconosciuta che ci impedisce di farci del male, e ci instilla la paura di tutto ciò che in qualche modo potrebbe ledere la nostra vita. Sperimentiamo la paura nelle più svariate situazioni. È questa, la causa del morso allo stomaco che percepiamo quando perdiamo l’equilibrio, quando percepiamo un rumore forte e inaspettato, quando perdiamo qualcuno. E il nostro cervello si ribella alla paura. Ci spinge a mettere le mani avanti, a fuggire, ad attaccare, o a restare immobili sperando che ciò che ci fa paura non ci colpisca. E poi ci sono paure che costruiamo da soli, che nascono unicamente nella nostra mente senza che qualcuno o qualcosa ci abbia messo in guardia da esse. Impariamo ad avere paura di cose che per altri potrebbero risultare irrazionali e incomprensibili. E scriviamo su quelle pagine vuote una nuova parte di noi, perché quelle paure ci portano su strade prestabilite, e ci impediscono di percorrere quelle che ci porterebbero ad affrontarle. Siamo ciò che il mondo ci ha reso e ciò che noi abbiamo deciso. Siamo noi, il risultato delle nostre paure. Le contempliamo, le nutriamo, cerchiamo di conoscere noi stessi per vincerle prima ancora di doverle affrontare. Forse non le affronteremo mai o, se lo faremo, ci renderemo conto che nulla è come lo avremmo immaginato. Ci renderemo conto di non essere mai stati pronti. A volte ci chiediamo “qual è la mia paura più grande?”, e ci mettiamo a scavare nell’inconscio, alla ricerca di ciò che più di tutto ci spaventa. Ma la verità è che non esiste mai solo una, non c’è mai un risultato assoluto in quella ricerca. Ogni paura ne scatena altre, così come ogni scelta scatena delle conseguenze. E ci saranno sempre nuove paure, a renderci umani, fin quando alla fine non torneremo al principio.

    Non era facile, essere creature plasmate dalla paura in una città che dava ai suoi abitanti capacità sovraumane, che a volte era proprio la paura ad alimentare. Come si poteva convivere con la consapevolezza che la paura ne avrebbe generata altra? Questo era quello che viveva Ivar ogni giorno della sua vita. Affrontava la sua paura ogni giorno, eppure non era mai riuscito a superarla. La assaporava, per un breve istante in cui perdeva il controllo, e poi l’allarme rientrava, perché mai si concedeva la curiosità di conoscere ciò che sarebbe accaduto dopo, se l’avesse lasciata vincere. Ed anche quella volta il destino aveva deciso che non sarebbe arrivato fino in fondo. O la fortuna, forse, fu a muovere gli eventi. Sapeva, Ivar, che se fosse accaduto, non si sarebbe più rialzato. Qualche forza a lui sconosciuta aveva messo Fae sulla sua strada, in quell’esatto momento in cui avrebbe rischiato tutto, e tutto aveva preso una piega diversa. Ma forse, quel fato tanto benevolo non li aveva fatti incontrare solo per non fargli affrontare le proprie paure. Forse, quella sera, voleva mostrare ad Ivar che c’era qualcos’altro, oltre la sua paura. Che c’erano persone e paure diverse, esistenze affini e altrettanto spaventose. Non era un punto di arrivo, la ragazza dai capelli arcobaleno che era sopravvissuta al suo tocco. Forse lei era un inizio, una scoperta.
    “I miei complimenti, forse sei l'unico invitato che conosce di persona il festeggiato e probabilmente si ricorda come si chiama. Io suppongo di averlo visto solamente per due minuti, da quando sono qui. Credo sia quello con in testa la coroncina di slip femminili che girava in salotto ubriaco poco prima. Era alle ricerca della propria torta di compleanno, a quanto pare qualcuno ci ha ficcato la faccia dentro e ora ha perso tutta la bellezza iniziale. Se lo vedi digli che mi dispiace. La prossima volta però dovrebbe perdere più tempo nel buttar giù la lista degli invitati, direi.” Rise. Lui i suoi diciotto anni nemmeno li aveva festeggiati, ma guardando come erano precipitati gli eventi, si disse che probabilmente non era stato un male. “Si, si chiama Alex, e conoscendolo, credo che questa sia proprio il genere di festa che avrebbe voluto.” Rispose. Chissà, magari quella era stata la sua intenzione fin dall’inizio. Magari il passaparola era partito proprio da lui.

    . . . . .



    E poi aveva deciso di mostrare a quella ragazza quella che secondo lui, ingenuamente, era la propria paura più grande. Non sapeva se lo fosse davvero, c’erano troppe cose di cui inconsciamente aveva paura, e stilare una classifica sarebbe stato tanto inutile quanto stupido. Guardò la rosa avvizzire tra le proprie mani, perdere tutto ciò che la rendeva viva: il suo colore, la sua funzione, la sua linfa. E poi spostò lo sguardo verso Fae, osservando la sua reazione. Non sapeva se quella fosse stata una cosa giusta da fare, in quel momento, di fronte a una persona che conosceva minimamente. Sapeva solo che quella era una risposta, l’unica chiara che avrebbe potuto dare a lei, che non aveva espressamente fatto domande, ma che i suoi occhi avevano implicitamente espresso. Non si mosse, lei. Non lasciò trasparire emozioni. Non si scompose di fronte a quella che era una sadica dimostrazione di come tutto potesse essere fragile a rischio. “Io non sono speciale, Ivar.” Si limitò a dire, come se le sue parole l’avessero colpita molto più di quel gesto, come se quel termine avesse potuto ferirla molto più del suo tocco. Non disse nulla, e semplicemente si limitò a distogliere lo sguardo, cercando qualcosa nella tasca dei jeans. Seguì i suoi movimenti, chiedendosi dove volesse arrivare. Non c’era paura nei suoi occhi. Lei era la prima in cui non vedeva quel sentimento. E poté non sentirsi il mostro che era, per una volta, per quel breve istante.
    La vide dare vita alla fiamma, e poi porre il palmo della sua mano sopra di essa. D’istinto mosse la sua per cercare di evitare quel contatto, quando vide una leggera smorfia di dolore dipingersi sul suo viso, ma si arrestò e trattenne il respiro, chiedendosi fin dove la ragazza dai capelli arcobaleno volesse spingere le proprie capacità di resistenza. Non si mosse, nemmeno quando iniziò a percepire l’odore della sua pelle che bruciava. Restò con lo sguardo piantato a quella fiamma che, tremolando appena, distruggeva. Guardò la sua mano, segnata dal fuoco. Sangue e vesciche imbrattavano quella pelle candida. E poi si ritrassero, quei lievi gonfiori, come se il tempo avesse iniziato a scorrere al contrario. Continuava a non capire come fosse possibile non considerare un miracolo, quello. E si ritrasse, quella piaga che sembrava fare dannatamente male, fin quando sul palmo di lei non restò che sangue posato, che non sgorgava da alcuna ferita. Incrociò il suo sguardo, lei. E in quello sguardo Ivar colse una sfumatura diversa della sua stessa paura. La paura di essere un qualcosa di dannatamente sbagliato, una minaccia per sé stessi, prima ancora che per gli altri.
    “Io invece ho paura di questo. Di vedere intorno a me la fragilità delle cose e dover camminare da sola alla ricerca di quella che dovrebbe essere la mia, di debolezza.” Erano gli opposti, loro due, entrambi condannati a un tipo di dannazione che non avrebbero potuto gestire, o contrastare. “Tu non puoi…?” Morire? Avrebbe davvero detto quella parola? Avrebbe davvero dato voce alla sua paura, pur sapendo quanto doloroso questo potesse essere? Aveva visto i suoi affetti spegnersi, consumarsi, avvizzire intorno a lui, senza che potesse fare nulla per arrestare quel processo. Conosceva la paura che Fae provava, eppure nemmeno riusciva a immaginare quanto spaventoso potesse essere viverla amplificata, con la consapevolezza e la dannazione di non poter essere fragile come tutto il resto. Non avrebbe detto quella parola, che tanto conosceva e che tanto temeva. Erano le antitesi, loro, la vita e la morte, eppure nessuna delle due sembrava essere il bene o il male. Entrambe erano parte di un cerchio che compiva un innaturale corso. Un terrificante corso. “Credo che tu l’abbia già trovata, quella”. Disse, inclinando leggermente la testa di lato. Era la sua stessa capacità, probabilmente, ad essere sua forza e debolezza. Quella ragazza era condannata ad avere un fisico che mai avrebbe subito danni. Ma il suo cuore? Quello sarebbe andato distrutto con ogni parte della sua vita, corroso e portato a fondo come la più mortale delle cose. E si sarebbe distrutto, probabilmente, finché di lei non sarebbe rimasto che un corpo vuoto. Era sadica la particolarità che quella cittadina le aveva donato, forse ancor più della sua. Tanto bella da poter resistere a lui, quanto orribile da impedirle di poter abbracciare ciò che lui rappresentava. Erano equilibri, che mai avrebbero potuto compensarsi, se non l’uno con l’altra. “Sai, mia madre diceva sempre che c’è un motivo per cui abbiamo queste capacità, e che forse un giorno scopriremo qual è.” Abbassò lo sguardo abbozzando un sorriso triste. Pronunciava quelle parole, dette da altri senza nemmeno averne capito il significato. Se le ripeteva spesso, quando tutto sembrava andare in pezzi. “In realtà, non ho ancora scoperto quale sia la sadica ragione per cui riesco a uccidere qualsiasi cosa io tocchi. Ma mi piace illudermi che un giorno troverò quel motivo. Che lo troveremo.” Aveva usato la parola giusta: “illudermi”. Sapeva Ivar, che il suo era un vano tentativo di auto condizionarsi. Un semplice disperato desiderio di dare un senso alla propria esistenza. Cercava rifugio nelle sue illusioni, l’ingenuo falegname di Besaid, per sentire più leggere le catene che lo intrappolavano sul fondo del baratro. “E forse non dovrei considerare speciale tutto ciò, ma non riesco a restare impassibile di fronte al fatto che tu riesci a resistermi. Nulla è mai sopravvissuto a me, alla mia maledizione. Tranne te.” Lasciò fluire quei pensieri, sussurrandoli appena. Pensieri dannatamente egoisti, questo se ne rendeva conto. Eppure non poté fare a meno di chiedersi se il suo essere la sua perfetta antitesi non fosse già un tassello di quel motivo che tanto andava cercando. Una parte di quel disegno, colorata e astratta, che era l’intreccio delle vite di più persone. Fili della tela tessuta dalle Parche e rimasta a metà. Era questo che la rendeva speciale ai suoi occhi, pur non conoscendo altro di lei se non forse il suo segreto più grande.

    Tutti abbiamo paura di qualcosa, tutti viviamo nel costante terrore che i nostri incubi peggiori possano realizzarsi. Eppure, sembra più facile affrontarle, se abbiamo qualcuno con cui dividerle. Qualcuno con cui lasciarle andare.
     
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    Dire sì, lasciarsi andare. È questo ciò che ognuno dovrebbe fare la maggior parte del tempo.
    A volte sembra sia l'unica soluzione, l'unica cura alla pazzia che assale la mente quando è colma di pensieri indesiderati, di timori e ansie. Sarebbe bello poter spegnere tutto, chiudere gli occhi e abbandonarsi al fato, smettere di decidere, di rincorrere il tempo per paura di arrivare in ritardo. Sarebbe bello poter decidere di essere sempre forti, di avere una stabilità nella vita che neanche sapevamo di possedere. Sarebbe bello, sì, arrendersi per una volta senza preoccuparsi del resto, di tutto quello che ci circonda e dell'inquietudine che ci assalirebbe se solo abbassassimo le difese per qualche secondo. Eppure, ripensandoci, non ci sarebbe nulla di sbagliato, così come non ce ne sarebbe neanche nel mostrarsi deboli, nel portare alla luce le sensazioni sgradevoli che ci assalgono quando pensiamo di non potercela fare, quando sembra che tutto ciò che ci circonda stia complottando contro di noi solo per vederci stare male. Lasciarsi andare era qualcosa che Fae probabilmente ancora non aveva imparato a fare. Chiunque l'avesse conosciuta, aveva sicuramente pensato -almeno una volta- di avere davanti una persona così malleabile che a tratti potesse anche sembrare quasi irreale. Una personalità che spiccava da qualsiasi poro della sua pelle, persino dalla radice dei suoi capelli multicolore. E questo avrebbe portato in molti a pensare di interagire con qualcuno che avrebbe potuto mordere, pur di affermarsi a qualunque costo. Ma era l'idea sbagliata che la gente si faceva di lei, quella. Fae si sentiva più che altro sempre in dovere di mostrarsi invincibile, in dovere di sostenere la miriade di pietre che si portava ormai da anni sulle spalle. Si sentiva in debito con se stessa per tutte quelle volte in cui si era lasciata andare alla sofferenza, cedendo alle debolezze e facendo sì che queste la corrodessero dall'interno. Ma i tempi erano cambiati e lei aveva fatto lo stesso, costruendosi intorno una corazza che l'avrebbe protetta da qualsiasi attacco esterno, a volte anche da quelli con sembianze del tutto positive. Ed era lì, fra quelle mura, che spesso si sentiva mancare l'aria: chiusa nella propria gabbia, incapace di scappare altrove, fissava il proprio sguardo sulla parete alla ricerca di un foro attraverso cui guardare fuori, sognare di non aver più bisogno di protezione. E in quel momento, sebbene avesse dinnanzi a se un'anima pericolosa, avvertiva un'inspiegabile vicinanza a questa sconosciuta. Non aveva mai incontrato Ivar -non che se ne ricordasse- ma in un certo senso aveva appena scoperto quanto fosse simile a lei, quanto quel giovane dagli occhi cristallini potesse essere parte del cerchio che, probabilmente, un giorno avrebbe capito in che direzione continuava a roteare. Le parole del giovane andarono a toccare tasselli dell'anima di Fae di cui probabilmente lei stessa non aveva mai avuto idea esistessero. Furono quasi sussurri che si andavano a scontrare con l'ambientazione in cui si trovavano; una casa colma di gente ubriaca, sicuramente anche fatta, che partecipava ad un party del tutto illecito in una casa abbandonata nel quale -in teoria- nessuno avrebbe avuto il permesso di metterci piede.
    «Questo non lo so, non ne sono sicura... ho rischiato, tempo fa, ma sono ancora qui e questo onestamente non me lo spiego ancora.» affermò, scuotendo appena il capo. Capitava raramente che riuscisse ad aprirsi in quel modo, a fare riferimenti all'incidente che le aveva portato via l'unica persona che aveva mai davvero amato in tutta la sua vita. I ricordi erano sbiaditi, quasi non ne aveva, ma tutto ciò che c'era stato dopo ce lo aveva tatuato in ogni singolo angolo della mente, del suo corpo. Lo avrebbe ricordato per sempre, sarebbe stato inevitabile. Gli sorrise istintivamente, cercando di nascondere quell'ansia che sembrò assalirla ancora una volta. Non amava parlare di ciò che era stata, di ciò che continuava ad essere, sebbene vivesse in pace con se stessa. Ma quello era un argomento delicato, malgrado qualcun altro al posto suo ne avrebbe potuto parlare con leggerezza, essendo felice di aver ricevuto proprio quel dono dalla cittadina che pochi regali si concedeva. Abbassò lo sguardo, mantenendo quel sorriso malinconico stretto sulle sue labbra. Avrebbe voluto poter concordare con lui, dirgli che credeva negli stessi sogni e aveva le stesse speranze, ma sarebbe stata solo una grande menzogna; Se c'era qualcosa che aveva imparato a proprie spese, era che “Illusione” era sinonimo di infelicità e tormento. Nessuno ci avrebbe mai scommesso, ma lei ricordava perfettamente il proprio viso quattordicenne riflesso in uno specchio: troppo spesso delle lacrime si erano fatte strada su di esso, mentre quegli occhi si cercavano a vicenda in attesa di un ritorno, di una spiegazione. Mai nulla era tornato, e mai nulla le era stato spiegato. Da sola aveva iniziato a trovare il proprio percorso e sempre sola avrebbe continuato, così come in un certo senso pensò capitasse ad Ivar. Aveva quello stesso sguardo triste di chi ha camminato a lungo fra le macerie, alla ricerca di un fiore mai trovato, riuscendo forse a distruggere anche se stesso. Non lo sapeva, non aveva idea di cosa il destino gli avesse messo sulla via, ma Fae gli leggeva negli occhi una tristezza familiare, vicina. Eppure, a differenza di Fae, Ivar sembrava ancora avere il coraggio di guardare oltre, pronto a scattare alla ricerca di ciò che lo avrebbe reso felice, alla ricerca di quello stato di pace che mai aveva avuto in dono. «Vorrei concordare con te, Ivar. Forse non sono ancora pronta per farlo, però.» disse quasi sottovoce, sollevando appena le spalle. Mise via l'accendino, posandolo nuovamente nella tasca posteriore dei suoi jeans, poi allungò una mano in direzione del bicchiere che aveva poggiato sul davanzale della finestra accanto a loro. L'afferrò con forza e ne bevve immediatamente un altro sorso, prima di annuire e rivolgersi ancora al ragazzo, il quale presentava in quel momento uno sguardo ben più espressivo e accesso rispetto ai primi momenti del loro incontro. «Per essere un tipo cupo sei anche abbastanza positivo.» scherzò, riferendosi a ciò che lui aveva appena detto. Probabilmente gli serviva qualcuno che la pensasse in quel modo, qualcuno che potesse in qualche modo darle la forza di riprovare a credere che, dopotutto, qualcosa potesse davvero migliorare. Iniziare a credere che se era nata in un posto come quello per avere una vita come quella, allora c'era davvero un progetto più grande per lei pronto ad aspettare di essere scoperto e compreso. Non aveva idea di cosa si trattasse esattamente, ma gli occhi di Ivar riuscirono in qualche modo a comunicare con lei come in pochi erano riusciti, da un po' di tempo a quella parte. Incontrava gente, ci conversava, ma alla fin dei conti quello che rimaneva era sempre ben poco: in poche occasioni aveva avuto la sensazione di incontrare qualcuno che potesse capirla davvero, qualcuno che avesse gli stessi timori e le stesse impazienze. E Ivar sembrava l'unico a dire di capirla e a farlo davvero, e per qualche momento era stato bellissimo, emozionante scoprire di non essere sola in un mare di gente; era stato bello per Fae Olsen sapere di non essere l'unica a sentirsi il mostro dal quale chiunque scapperebbe. «Mi imbarazza dirlo, ma... grazie. E non mi riferisco al tuo dirmi di essere speciale o all'avermi salvato il culo poco fa. Ah, e neanche al fatto che hai quasi tentato di uccidermi.» disse, cercando di dosare le proprie parole con leggerezza, di pronunciarle con cura per fargli intendere cosa lei stessa volesse esprimere, come volesse fargli capire quanto, inaspettatamente, gli fosse grata per quel breve incontro. «Sai, non capita spesso di avere questo tipo di confronti, e so che è strano dirlo, ma tu sei quel ”Tranquilla Fae, non sei l'unica” che aspettavo da tanto tempo.» continuò, annuendo piano con il capo. Portò la mano libera a spostare una ciocca di capelli che le era ricaduta sul viso, portandola dietro l'orecchio. Non sistemava mai i capelli, se non quando si sentiva oltremodo osservata, quasi in imbarazzo. Bevve un altro sorso dal bicchiere di plastica che stringeva nella mano sinistra, appena prima di quello che ebbe tutta la parvenza di essere uno sparo. Intorno a loro si creò immediatamente un'insolita calca, un via vai di gente che fino a poco prima non c'era stato. Si voltò di scatto in direzione delle scale, puntando il proprio sguardo sulla figura di una ragazza dalla chioma riccia. Con il viso nascosto tra le mani, gridava disperatamente in cerca di aiuto, indicando il piano superiore. Lo stomaco di Fae si rivoltò, contorcendosi su se stesso quasi volesse esibirsi davanti ad un pubblico. «Che diavolo è successo?» domandò, non aspettandosi di certo una risposta da Ivar, che ancora le stava accanto. Avanzò di qualche passo, in direzione dell'arco che divideva il salotto dal disimpegno con le scale che portavano al piano di sopra, all'interno del quale si era accalcato il maggior numero di persone. «Fae? Fae, sei qui! Dobbiamo andare, ci sono gli sbirri, io non posso restare.» Basti le piombò davanti, gli occhi rossi come il fuoco e un'aria del tutto instabile. Strinse le mani attorno agli avambracci della ragazza, scuotendola appena. Fae riuscì a scostarsi, scuotendo il capo e cercando di calmarlo. «Vai a mettere in moto, prendo le mie cose e ti raggiungo.»gli disse, annuendo con convinzione e guardandolo negli occhi per tranquillizzarlo, infondergli fiducia. Ormai sapeva come doveva trattarlo quando era in quello stato, lo conosceva da fin troppo tempo ed ogni sua reazione era impressa nella mente di lei come inchiostro su carta. Basti annuì a sua volta con il capo, voltandosi in fretta e raggiungendo l'uscita secondaria della casa, per poi passare dal retro e raggiungere l'auto. Fae si voltò un'ultima volta verso Ivar, sollevando una mano posandola sul braccio di lui, stringendo poi appena le dita intorno ad esso. «Quando avrai voglia mi troverai al Bolgen, in città. A presto, Ivar.» gli disse, questa volta incapace di sorridergli. Dietro di lei il caos si amplificava, estendendosi a tutta la casa. La maggior parte dei ragazzi se l'era data a gambe, ma molti di loro non erano neanche in grado di reggersi correttamente in piedi. Si voltò dando le spalle al ragazzo e si diresse verso la folla, mischiandosi ad essa. Oltre alle grida, nelle orecchie di Fae c'era il battito del proprio cuore che martellava ad una velocità insolita. Si fermò, come paralizzata; Al piano di sopra, un ragazzo si era tolto la vita. Quando i poliziotti arrivarono, nessuno ebbe più la possibilità di lasciare quella casa per un bel po' di tempo.
     
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