What have I become, my sweetest friend?

Erik & Adam

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    L'abbigliamento casual quasi se lo imponeva quando non era a lavoro, dove l'etichetta imponeva un rigido quanto ripetitivo vestiario che poco si confaceva al suo spirito libero. Ad accogliere il suo sguardo illuminato dai raggi di quella calda mattina di fine inverno, un dedalo composto da fitti alberi di varie forme e dimensioni, che gli fecero pensare di essere sbucato in un altro punto della cittadina. Casa. Ecco come i proprietari alludevano alle proprie dimore; una parola che lui aveva ormai dimenticato da tempo, poiché non vi era luogo dove ormai riuscisse a sentirsi così in pace con sé stesso da poter pensare di mettervi radici. Forse, in tal senso, Besaid era quanto di più simile si potesse accostare a quella nomea, almeno per quanto lo riguardava. Ma dove si stava dirigendo non era consentito a lui di chiamare quella costruzione con quel nome, bensì ad un suo carissimo amico di vecchia data.
    Procedette a passo sostenuto finchè non si parò di fronte ad un'elegante villetta singola, eccessivamente ampia per ospitare un'unica persona, di un intenso rosso porpora a tingere le travi in legno, con il tetto spiovente e disposto su due piani. Intricati cornici d'edera formavano disegni naturali sulla facciata colpirono l'osservatore, che fece guizzare lo sguardo prima sulle colorate vetrate, poi sulle piante multicolori che adornavano cespugli incantevoli. Il proprietario di quell'abitazione doveva disporre di un bel pollice verde, da questo Erik già lo sapeva. Lo steccato che lo separava da quella perla architettonica lasciava intravedere molto della dimora e l'accademico spese qualche minuto per ammirarne la bellezza. La paralisi. Uno dei temi centrali introdotti da Joyce nei suoi racconti, si distendeva davanti ai suoi occhi verso un orizzonte verdeggiante ed immobile nel quale quell'abitazione sembrava vi fosse stata incastrata da un'abile architetto. Decise che era giunto il momento di donare un tocco di dinamismo a quel quadro mai visto prima. Lanciò un fischio acuto ed attese, ma quando non vide nessun cane andargli incontro, ne dedusse che poteva essere sul retro della villa e non aver udito il suono da lui emesso, o più semplicemente doveva trovarsi al suo interno. Wendy, l'imponente amico a quattro zampe del suo amico, non era mai stata un bravo cane anti visitatori, piuttosto era una pigrona che preferiva dormire placidamente al fianco del suo padrone. Dedotto ciò, superò senza troppe cerimonie lo sterrato, raggiungendo la veranda decise di prestare attenzione al piccolo campanello posto poco sotto il suo capo, in prossimità della porta d'ingresso. A conti fatti, la sua altezza non doveva essere lo standard migliore per sistemare un oggetto di quel tipo ed aspettarsi che una qualsiasi visitatore lo avrebbe raggiunto facilmente era piuttosto stravagante. In perfetto stile Adam Harvey. DIIIIIN. Un tintinnio dolce ma ben udibile ruppe il silenzio che quel punto della spiaggia gli aveva donato, lontano dai punti dove normalmente si riversavano i bagnanti; fortuna fosse lì per una buona causa. Non dovette attendere a lungo perchè il padron di casa lo accogliesse con un entusiasmo che non aveva eguali. Wendy, uno splendido esemplare di Setter Irlandese dagli occhi di cristallo e il manto del medesimo colore delle travi di legno, spuntò dal lato destro della dimora per correre incontro al nuovo arrivato, accompagnando i propri movimenti da un forte guaito ed arrestandosi di fianco al padrone.
    Una pittoresca smorfia di disgusto deformò i tratti ormai marcati dallo scorrere del tempo di Adam, e in quel preciso momento Erik seppe che era felice di rivederlo. Il suo fedele amico aveva modi di fare tutt'altro che banali e col tempo aveva imparato sia a comprenderli che ad accettarli, anzi, ormai c'erano volte in cui era anche in grado di immaginarli.
    Ridestandosi dalla stasi contemplativa che l’aveva trattenuto sulla soglia d'ingresso, ingannando l'attesa osservando i dettagli dell'abitazione, il quarantenne si dedicò alla figura del suo buon amico. Occhi pesto quasi quanto i suoi, un vago sentore di alchol che gli fuoriusciva dalle labbra dischiuse, i capelli scomposti a rincorrersi in una corsa mal arrestata e l'ampia vestaglia, verosimilmente più grande di quattro taglie rispetto a quella di Adam, dai colori sbiaditi ed una pessima trama che ricordava quella dell'imponente tappeto che ricopriva per intero la sala della dimora dove Erik era nato. Quasi non fece in tempo a giungere alla parte migliore, le ciabatte con ricamate sopra le iniziali del proprietario, che con la coda dell'occhio fece appena in tempo ad intercettare la pesante porta in legno che stava per essere richiusa in malo modo, bloccando quel movimento con la mancina. «Eh no, amico mio. Ti avevo avvisato che ti avrei seguito in questo posto dimenticato da Dio e così è stato.» ammiccò con un sorriso felino mentre mentre faceva pressione sul legno affinchè la porta potesse tornare a descrivere un movimento circolare.
    «Ora vedi di trovare un modo più carino per manifestare la tua gioia di sapermi di nuovo nella stessa città dove hai messo radici.» Il suo tono di voce andava progressivamente alzandosi, mentre il sigaro veniva sballottato da una parte all'altra della sua bocca. Questa volta impresse una consistenze forza nel movimento, al punto di riuscire ad aprire definitivamente la porta e ad avanzare i primi passi sull'ingresso. Automaticamente, ora che non vi erano più impedimenti, Wendy gli saltò sino a raggiungere il petto del tedesco, manifestando ogni sorta di gesto che potesse far intendere al nuovo arrivato che era felice di rivederlo. Dal canto suo, Erik si chinò in avanti, immergendo le mani nel folto pelo ramato. «Wendy, vecchia volpona, anch'io sono felice di rivederti! Dimmi che hai divorato quell'insulsa coperta con la quale il tuo padrone si riscalda quando finisce mezzo stecchito sul divano, in preda a ridicole visioni alcoliche.» Come probabilmente è stato fino a poco tempo fa pensò, ancor più felice di aver deciso di fare quell'improvvisata all'amico che, non fosse stato così, probabilmente sarebbe rimasto avvinghiato alle grinfie di Morfeo per tutto il resto della giornata. Si erano accordati perchè Erik raggiungesse Adam una volta ottenuto il trasferimento per conto dell'università dove insegnava a Bristol, ed una volta che questi si fosse sistemato. E quale modo migliore per informarlo che la reunion era arrivata, se non attraverso una visita inaspettata?
    Ah, le sorprese. Sempre la migliore soluzione ad ogni problema, anche se quel problema prendeva il nome di Adam Harvey.

    Edited by Comet - 11/1/2019, 08:58
     
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    Incenso. Si, era proprio odore di incenso ad impregnare l’aria ed era quasi nauseante per quanto intenso fosse. Chissà dove cristo santo l’aveva scovato l’incenso, magari in qualche negozietto indiano nella periferia di Bergen: Besaid vi erano rivenditori di candele profumate ma mai con fragranze così tipiche e forti. Inoltre era palese che fosse stato in un negozio indiano, dato che indossava un kostoweh, il classico copricapo riempito di penne. Vere? Chi lo sa.
    Adam Harvey sedeva in salotto, su quel tappetto color vinaccio che copriva parte del pavimento in legno, a gambe incrociate. Gli occhi chiusi, le labbra serrate, i muscoli del viso rilassati. Posava il dorso delle mani sulle ginocchia e i polpastrelli di indice e pollice erano uniti, formando un cerchietto. Meditava. Meditava? Forse.
    Non era stato il mal di testa a svegliarlo quella mattina e neanche sua figlia Noa. Non era stata Wendy con le sue richieste di portarla a spasso, non era stata Charu, la domestica che aveva assunto perché totalmente incapace di prendersi cura di casa, indiana. No, non era una coincidenza. Adam Harvey aveva voluto una donna delle pulizie indiana perché, il suo popolo, è custode di antiche leggende e quindi, per un contorto ragionamento che non è dato sapere, in grado di scovare il malocchio.
    Ed era stata proprio Charu a spiegargli che, per aiutare l’anima dei nostri amici a riposare in pace, bisognava pregare in quel modo, invocare il grande Dio Pinga e chiedere perdono per i peccati del defunto. Perciò il professore era concentrato, con un lieve tic al labbro e al naso, a comunicare mentalmente con questa grande entità che non apparteneva neanche alla sua religione. In realtà non era mai stato credente, né praticante, poteva definirsi agnostico, ovvero alla costante ricerca della verità. Non poteva esistere alcun Dio, secondo Adam, altrimenti avrebbe posto fine alle guerre. Questo era forse l’unico pensiero profondo e sentimentale che la sua mente sarebbe mai stata capace di partorire.
    Dinanzi a se, tra il camino spento e la tv, era stato costruito una sorta di altare. Possedeva due scaffali : su quello inferiore erano state disposte candele rosse accese; su quello superiore, tra due lumini neri, troneggiava una foto di Erik, sorridente, incorniciata. Accanto, un vaso cinese, dai toni azzurri e bianchi. Era un miscuglio di roba, insomma, che rispecchiava esattamente la sua mente. Disordinata, caotica, imprevedibile, spesso anche deviata. Non era pazzo, no, forse un tantino psicolabile, ma ogni suo gesto era aveva uno scopo, era figlio della logica. No, pregare una divinità indiana era del tutto insensato ma, in definitiva, lo si poteva definire una persona geniale. A modo suo. Purtroppo però il suo cervello aveva questi momenti down, di vuoto cosmico, che proprio era impossibile evitare.
    Erik era morto. Non riceveva più sue lettere da settimane e gli era sembrato sensato pensare che fosse stato rapito dagli arabi, torturato per risolvere un problema di matematica e poi decapitato. Povero, povero amico suo, tanto buono e onesto, tanto capace di sopportarlo. Avrebbe conservato il suo ricordo in eterno e il vaso cinese lo aveva comprato proprio per custodire le sue ceneri. Le avrebbe recuperate, prima o poi, sempre se quel gruppo di arabi non avesse deciso di gettare il suo corpo nel fiume.
    Wendy gli si avvicinò scodinzolando e iniziò ad annusarlo un po’ ovunque. Si soffermò sul viso e leccò prima la guancia e poi gli occhi. Adam arricciò il naso in un’espressione disgustata ma non reagì per non turbare la sua preghiera. L’eterno riposo di Erik dipendeva da lui.
    Ad un tratto, mentre Charu sistemava la cucina, il cane abbaio, trotterellando verso la finestra. Il professore aprì un occhio, sospirò irritato. Wendy continuava a scodinzolare e a guaire, preda di una felicità incontrollata. Sospirò ancora, spostò la mandibola a destra e a sinistra in un gesto che esprimeva tutto il suo disappunto. Al decimo guaito del suo setter, sbottò «In nome di Ganga, che vuoi!» .
    Si alzò di scatto da terra, fumava come una ciminiera ma il fisico e l’agilità lo accompagnavano ancora. Wendy era del tutto impazzita, con le zampe poggiate sul davanzale della finestra, la coda sventolata come una bandieruola. Solo a due persone potevano essere dedicate queste feste: Noa, sua figlia, uscita per andare in università, ed Enrik che, a detta sua, doveva essere bello che morto. Non riuscì a capire chi dei due fosse dato che, quando si affacciò per capirlo, il soggetto già bussava alla porta ed era quindi fuori dal suo campo visivo.
    «Seduta» brontolò ma per tutta risposta Wendy lo seguì allegra. Si tolse il copricapo piumato, gettandolo per terra, aprì la porta e le sue iridi nocciola incontrarono quelle azzurre del suo migliore amico. Mentre il setter reagì normalmente, varcando la soglia e iniziando a fare feste al tedesco, Adam si comportò.. da Adam. Inizialmente lo guardò con espressione interrogativa, come se per la prima volta vedesse un essere umano, un animale su due zampe dotato di intelligenza e con i pollici opponibili. Poi la sua espressione si tramutò in disgusto e d’istinto gli chiuse la porta in faccia. Si, proprio in faccia, senza se e senza ma. A questo punto è necessaria la traduzione della sua reazione: era felice di vederlo, come una pasqua, come un bambino a natale. Erik era come un fratello per lui e quei mesi passati a Besaid, da solo, erano stati deprimenti. Non aveva il suo compagno di bevute, di mangiate cinesi. Non aveva il suo collega universitario con cui incrociarsi nei corridoi, organizzare corsi di poesia, spettegolare –si, erano due bizzoche-. Insomma, era mancato il suo complice ma mai lo avrebbe ammesso.
    Erik bloccò la porta con il piede e Adam lo guardò contrariato. Un modo più carino per manifestare la sua felicità? Lo mandò a quel paese con un gesto della mano e si voltò per tornare in salotto. Il tedesco lo raggiunse, avrebbe potuto fare ciò che voleva in casa Harvey, era quasi di famiglia.
    «Charu!» chiamò la donna a gran voce «Devo aver commesso un errore, il tuo bel dio lo ha riportato in vita» guardò Erik con sprezzo «Come mai, come mai sei fuggito alla morte!» quasi lo rimproverò e indicò la sua foto affiancata da due lumini su quel piccolo altare che con amore aveva costruito. Sprofondò nel divano e afferrò il pacchetto di patatine buttato sul tavolinetto, iniziando a divorarle cinque alla volta. L’indiana arrivò in quel momento e si portò le mani ai fianchi «No! Le patatine, di prima mattina, che fai!» urlò, cercando di strappargli il pacco di mano. Ci riuscì, lasciando Adam con una espressione di disappunto. La domestica si accorse di Erik e lo salutò gentile, presentandosi e spiegando il suo ruolo in quella casa: non solo puliva ma evitava anche che quello svitato mandasse a fuoco l’intera Norvegia.
    Adam si massaggiò le tempie e poi si strofinò il viso, sollevandosi appena gli occhiali dalla spessa e tonda montatura. Un principio di mal di testa iniziò ad infastidirlo e quando Erik si sedette, scattò in piedi. «Vi concerò come si deve, vedrete!» iniziò con tono solenne. Poi mosse dei passi a destra e guardò a sinistra, come se ci fosse un interlocutore al suo fianco «Un paio di bastonate malandrino!» si spostò a sinistra e volse lo sguardo a destra, in particolare lo fissò sul viso del tedesco, puntandogli il dito contro «Siete voi una baldracca, ché gli Sly malandrini non lo sono... Date un'occhiata alle cronache: siamo venuti con Riccardo il Conquistatore, noialtri... E perciò paucas pallabris, che il mondo vada come vuole: e piantiamola!» con un patos e una drammaticità degni di Oscar, aveva iniziato a recitare a memoria alcuni versi dell’opera “La bisbetica domata”. Erik era la bisbetica. O Adam? Ad ogni modo, la sua interpretazione fu impeccabile, come se si trovasse sul serio su un palco, con i riflettori puntati sul capo, e da un momento all’altro il pubblico avesse lanciato rose per l’ottima interpretazione. Solo quando lo fissò intensamente si ritrasse, dondolando appena la testa e stirando le labbra in un sorriso «Ciao Erik, cosa ci fai a casa mia?» domandò gentile, come se si fosse reso conto il quel momento che il suo migliore amico fosse nella stessa stanza, come se si fosse ricordato di avere normali reazioni umane. No, non era bipolare. Beh, forse un pochino.
    Schiuse le labbra per aggiungere qualcosa ma ancora una volta Wendy abbaiò. Questa volta, però, non era un guaito di gioia ma di avvertimento. Con la coda dell’occhio guardò la finestra, oltre il vetro. Sussultò, alzò le mani al cielo nel panico. «Wendy, seduta! Wendy!» indicò il suo materassino. Il setter scodinzolò portandosi su di esso, compiendo due giri su se stessa e sedendosi, continuando a pensare che fosse solo un gioco. Adam corse per tutta la stanza come una trottola impazzita e poi si avvicinò ad Erik «E tu, vieni qui!» quasi come se lo stesse rimproverando, lo afferrò per il colletto della maglia e lo costrinse ad alzarsi. Gli prese il braccio e lo spinse fino alla porta d’ingresso, recuperando, durante il tragitto, un paio di chiavi da un mobiletto. «Vuoi guidare una Ford?» domandò retorico «Fai del tuo meglio, non deludermi» gli mise in mano le chiavi, si portò l’unghia dell’indice tra i denti, in un gesto spaventato e pieno di preoccupazione, e aprì la porta, nascondendosi dietro di essa. Sull’uscio, un agente di polizia «Chiedo scusa, è sua la Ford in divieto di sosta?» l’uomo si rivolse al povero Erik «Sarebbe la decima volta che la lascia così, siamo costretti a multarla.. signor?»

    Perdona strafalcioni di battitura, non ho riletto ç.ç


    Edited by .Souseiseki. - 21/2/2018, 19:17
     
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    Che Adam Harvey fosse un uomo bislacco era noto anche ai primati. Qualunque essere avesse avuto la sfortuna di incontrarlo, doveva aver per forza appurato ciò che agli occhi di Erik era un dato di fatto, ed era proprio questa sua eccentricità ad averlo allontanato in principio ed attratto in una secondo momento. Tale attrazione si era poi tramutata in sincera amicizia e ormai sentiva di essere una delle poche persone al mondo ad essere davvero in grado di comprendere, nei limiti del possibile, i suoi modi di fare a dir poco stravaganti.
    La loro frequentazione era stata dapprima confinata alle mense scolastiche condite da tappeti di bassa lega, pesanti come le presenze che li animavano ma mai sufficienti a coprirne la pochezza di sostanza: lì era d’obbligo svuotarsi di se stessi per indossare maschere consone all’arredamento, compito che avevano sempre ricoperto entrambi con encomiabile zelo. Il nobile Erik, tuttavia, si era saputo distinguere ai freddi occhi argentei della preside per la spina dorsale alla quale non aveva mai rinunciato nei ritrovi accademici: lungi dall’essere untuoso o mellifluo, aveva sempre preferito dimostrarsi distaccato, taciturno persino, forse perché restio a fingere troppo simpatie inesistenti; se si trattasse di insofferenza o supponenza era difficile a dirsi ma, senza dubbio, possedeva una gradevole sagacia, caratteristica saggiata in un secondo momento proprio con il collega Adam Harvey nei loro estemporanei scambi verbali e riconfermata non appena avevano deciso di scambiare quattro parole all'infuori delle mura accademiche.
    Da quel momento i due improbabili amici, così differenti per aspetto tanto quanto per carattere, erano divenuti inseparabili. A testimonianza di ciò vi erano numerosi eventi che li avevano visti protagonisti ed innumerevoli ricordi dei quali non avrebbero mai potuto separarsi.
    Erano in grado di capirsi come nemmeno erano state in grado di fare le rispettive compagne di vita che avevano calcato il loro cammino fino a qualche anno prima. Con entrambe avevano raggiunto traguardi che mai avrebbero immaginato, eppure le cose tra loro erano giunte ad una fine mentre Erik era fermamente convinto che finché avesse avuto fiato nei polmoni, non si sarebbe mai separato da Adam.
    Fu con questa consapevolezza che accolse con una grassa risata le manifestazioni di gioia dell'amico andò ad aprirgli alla porta. Osservò la sua cagnolona con un'alzata di spalle, certo che almeno lei lo avrebbe potuto capire. Dopotutto viveva da quando era cucciola con quel padrone scellerato, ormai doveva essere abituata alle sue stranezze. Come lui del resto.
    A volte si era domandato quante volte fosse balenato nella mente di Wendy di scappare da quel padrone degenero che, a modo suo, le voleva comunque un gran bene. Le strapazzò le orecchie, grattandole la nuca pelosa con fare affettuoso.
    Seguì dunque il padrone di casa all'interno di un arredamento molto stile Adam, beffeggiandolo per il copricapo piumato che pareva uscito da un film western. Una volta raggiunto il salotto fece la conoscenza della domestica indiana, l'ultima persona che avrebbe mai pensato di incontrare in quella casa poiché, da che ricordava, non aveva mai saputo di altri suoi predecessori, almeno quando vivevano entrambi a Bristol. Vi erano molti lati oscuri nella vita di Adam Harvey e quello forse rientrava nella lunga lista. Trovò a domandarsi da dove fosse scaturito tutto quell'interesse verso il mondo indiano ed altarini di dubbio gusto -la sua foto faceva macabra mostra di sé come se Erik fosse morto- e, come dovette constatare dallo scambio di parole dell'amico con la domestica, gli fu chiaro che sul serio Adam sembrava averlo dato per morto.
    Aggrottò le sopracciglia, mordicchiando il sigaro che aveva spento prima di fare il suo ingresso nell'abitazione. Quello era la sua novità dopo che per gioco una sera, in compagnia di Jørgen, aveva deciso di provare i sigari in sostituzione delle tanto amate sigarette. Erano più forti e, per questo, era portato a fumarne di meno. L'obiettivo era quello di abbandonare definitivamente quel vizio ma, si sa, ogni cosa a suo tempo. Un tempo discretamente lungo, tenendo conto di tutte le volte che nella vita se lo era proposto.
    Mentre ridacchiava sotto ai baffi, pensò che forse quel crederlo morto fosse un modo alla Adam di dare un senso alla sua assenza in quel periodo. Aveva smesso di cercare di capire certe idee partorite dalla sua mente contorta e poi trovava quell'altarino davvero grazioso.
    «Sono qui perchè non riuscivo più a starti lontano. Era diventato un patema insostenibile.» glie spiegò mimando una vocina molto gay che, se era certo che l'amico ne avrebbe inteso l'ironia intrinseca, non sarebbe stato lo stesso per Charu. Per appurare ciò, ruotò il capo sino a conficcare le iridi smeraldine in quelle scure come ossidiana dell'indiana, notando il suo sconcerto e ipotizzando quali domande stavano nascendo nella sua mente. «Ma se non mi desideri più posso tranquillamente tor...» Non ebbe tempo di ultimare la frase perchè l'amico e collega lo aveva afferrato per il colletto della maglia, fatto bruscamente alzare dalla comoda poltrona, fino a riportarlo fuori di casa senza che avesse tempo di dire ma.
    Con Adam Harvey non era possibile annoiarsi. Semplicemente non poteva esistere quella parola quando si stava in sua compagnia. Poi che ciò che scaturiva da essa non era sempre positivo era un altro discorso, difatti.. «Chiedo scusa, è sua la Ford in divieto di sosta?» Il povero Erik non fece in tempo ad aprir bocca che il poliziotto in divisa continuò. «Sarebbe la decima volta che la lascia così, siamo costretti a multarla.. signor?» Erik gli rivolse un'espressione sbigottita, in bilico tra il sentirsi impotente, adirato e divertito al tempo stesso.
    Aveva già visto quel poliziotto su una pagina di giornale, se non ricordava male era un certo Jude Micchelsen o qualcosa di simile, a capo della polizia beasidiana. Aveva un volto più bonario e conciliante nella foto, rispetto a quello stizzito ed esasperato che aveva in quel momento.
    «Oh, ha ragione buon uomo, guardi, ecco.» alzò la mancina avviluppata alle chiavi dell'auto e con la destra ne picchiettò il dorso, come fanno i bambini che si auto castigano. «Comunque sono Adam Harvey. Si, con la H, perfetto.» precisò mentre controllava che il poliziotto trascrivesse correttamente le generalità di Adam. «Ed è giusto che le precisi che le volte sono undici, non dieci.» La stoccata finale era d'obbligo, mentre si grattava la nuca con aria colpevole, abbozzando un sorriso di scusa.
    A quelle parole si accorse che l'uomo aveva smesso di scrivere sul foglio prestampato e alzò lo sguardo con fare minaccioso. «Ha bevuto Sig. Harvey? O mi sta prendendo in giro?» Erik palesò un volto così angelico da sembrare una maschera calata alla perfezione, alzando i palmi delle mani a mò di scusa. Le chiavi tintinnarono nel movimento mentre il sigaro gli solleticò le labbra mentre riprendeva la parola. «Non mi permetterei mai, agente. Si, bevo regolarmente ma solo nella mia modesta abitazione.» affermò con sicurezza mentre indicava l'enorme abitazione disposta su due piani alle sue spalle. Un silenzio tombale calò tra i due, interrotto fortunatamente dalla ricetrasmittente che teneva nella tasca della camicia. L'uomo portò l'apparecchio all'orecchio e diede alcune indicazioni, dopodiché riservò un'altra occhiata malevola al povero Erik ed evidentemente giunse alla conclusione di avere cose ben più importanti di cui occuparsi. Terminò di scrivere la multa e gliela piazzò in mano, intimandogli di essere più accorto in futuro e che se fosse successa nuovamente una cosa del genere non sarebbe stato così lungimirante e lo avrebbe portato in centrale.
    L'insegnante attese che il poliziotto si fu allontanato, diretto alla sua jeep, profondamente tentato di salutarlo con la mano che ancora teneva la multa giusto per ricordargli quanto Adam Harvey fosse un nome da ricordare ed una persona da tenere sotto stretta sorveglianza, ma alla fine fu vinto dall'affezione che provava nei suoi confronti e non lo fece.
    Fece dietro front e tornò, per la seconda volta quel giorno, a bussare sonoramente alla porta di Adam. Aveva notato con la coda dell'occhio che era rimasto sulla veranda, sicuro che fosse abbastanza lontano da non aver sentito il dialogo scambiato con il poliziotto. «Aprimi, amico mio..» quando finalmente la sua richiesta fu accolta, gli sistemò le chiavi della Ford tra le mani. «Grintosa la tua macchina. Thò, ecco un regalino disse aggiungendo, oltre alle chiavi, la multa che gli aveva appena fatto preparare.

    Edited by Comet - 23/2/2018, 12:15
     
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    Adam aveva uno strano rapporto con le autorità. Egli riportava ancora cicatrici –sia metaforiche che non- del suo servizio militare e alcuni meandri della sua mente erano ormai distrutti dall’esperienza della guerra e, con ogni probabilità, non si sarebbero mai più riattivati. Il suo animo era stato costretto per anni a sopportare regole e obbedire ad ordini, alcuni dei quali anche insensati, come radersi ogni mattina pur non avendo neanche un accenno di barba e finendo così solo per farsi un danno. Un soldato non può agire o pensare autonomamente, è il proprio comandante che lo fa. Egli può persino scandire il ritmo del respiro, se lo volesse, con un semplice ordine, e il soldato è costretto a rispettare il suo volere. Disciplina, rigore, ordine, sono queste le tre parole che hanno piegato e plagiato la mente di Adam, poiché, obiettivo del comandante, è far in modo che il plotone sia un corpo unico.
    Per anni la sua folta chioma era stata rasata e costretta in un berretto, il suo corpo fasciato da una divisa mimetica e la sua ragione resettata e programmata a scattare ad ogni comando. Ecco perché, dopo il congedo, oltre a tutti i traumi che aveva dovuto smaltire –alcuni dei quali ancora lo tormentano- , Adam sviluppò una riluttanza nei confronti delle autorità. Certo, non viveva nella più totale anarchia ed era pur sempre una persona civile, ma Adam aveva delle proprie leggi e rispettava solo e soltanto quelle.
    Perciò se ne infischiava di un divieto di sosta, per lui era giusto un amichevole consiglio. E dei consigli altrui ne poteva far a meno. La macchina parcheggiata in divieto non era un atto di ribellione o di noncuranza: per il professore di lettere, il cartello stradale avrebbe avuto valore quando gli sarebbe tornato utile, un giorno, forse. Ed era tutta qui la sua genialità, piegare le situazioni e le regole a suo favore, riuscendo, in un modo o nell’altro, a cavarsela sempre e ad uscirne vittorioso. Il tutto però non sarebbe stato possibile senza la sua grande arte oratoria, la sua abilità di intortare chiunque con i suoi discorsi enigmatici e, in apparenza, senza alcuna logica. In realtà erano proprio le domande senza senso le più ragionate. Adam adorava mettere in difficoltà il proprio interlocutore poiché è proprio quando qualcuno è preso in contropiede che dimostra sul serio il proprio carattere. Erik era il suo migliore amico perché sempre riusciva a tener testa ai suoi piccoli test. Era forse l’unico in grado di rispondere ai suoi furbi e scardinati quesiti, ad ignorare i suoi momenti down senza porre domande e ad assecondare ogni sua stramba idea.
    Adam era nascosto dietro la finestra e osservava la scena scostando appena la tenda color crema, da cui sbucava metà del suo viso. Jude, quel poliziotto, lo conosceva fin troppo bene ed era sicuro che, prima o poi, lo avrebbe trascinato in centrale. Non solo continuava ripetutamente a richiamarlo per il divieto di sosta ma era stato proprio lui ad intervenire quando l’americano aveva deciso di dar fuoco a un mobile perché colpito dal malocchio. Il grande falò era stato notato dal diligente poliziotto e tra i due era scattata una disputa, anzi, un dialogo con un folle: Jude sbraitava accennando anche alla sua pazzia, Adam tentava di convincerlo che era stato costretto a farlo, per non incorrere nell’ira del divino Aumakua, la divinità polinesiana della morte. Come fosse finito a sfogliare libri di culture polinesiane e ad avere avuto a che fare con una cameriera polinesiana è un’altra storia.
    Erik salutò Jude e poi bussò nuovamente. Adam aprì la porta, l’unghia dell’indice incastrata tra i denti e l’espressione preoccupata di un bambino che teme il rimprovero di sua madre. Il suo stato d’animo mutò in uno seccato quando il tedesco sventolò sotto i suoi occhi la multa.
    «Mie chiavi!» esclamò strappandogli dalle mani le chiavi della Ford e buttandole poi da qualche parte –fortuna finirono su un mobiletto e non per terra-. Prese poi la multa con due dita e la sollevò a mezz’aria , poco più sopra del proprio naso. L’angolo destro della bocca si sollevò, la parte del naso si arricciò e tutto questo lato del viso si contrasse, in una espressione stranita, come se fosse un indigeno che scopre per la prima volta la civiltà e le multe. Girò su se stesso un paio di volte, studiando quel foglio di carta persino in controluce. Poi grugnì e scrollò le spalle, sorrise e guardò Wendy. «Che diventi cenere!» annunciò come se stesse aprendo i giochi medievali.
    Andò in cucina e rovistò tra i diversi armadi, cacciando poi una ciotola in alluminio. Il cane lo seguì scodinzolando, pensando fosse tutto quanto un gioco.
    Adam depose la multa nel contenitore con grazia, come se fosse Carlo Cracco intento a preparare una ricetta. Recuperò dalla tasca dei jeans l’accendino –non se ne separava mai- e accese il fuoco. Le fiamme scoppiettarono e la carta si arricciò, divenendo prima giallognola e poi cenere ai bordi.
    Charu entrò in cucina stringendo al petto lenzuola aggrovigliate. Si paralizzò, sgranando gli occhi «Che fa?!» urlò nel panico, prendendo la ciotola in cui ardeva la giovane fiamma «Lasciala!» anche Adam afferrò il contenitore. «Impazzito! Lo spenga subito!» «No! Estinguerò così il mio debito!» strattonando la ciotola, il pezzo di carta avvolto dalle fiamme saltò fuori, finendo sul tavolo. E bum! Le fiamme iniziarono a divorare il legno, Charu urlò cose in indiano, Adam alzò le mani al cielo correndo come un pazzo, Wendy trotterellava felice seguendolo.
    Adam recuperò dal sottoscala un estintore, riprese Erik per il colletto del maglioncino e lo trascinò nel panico in cucina. «Spegnilo! Veloce! Veloce!» gli diede l’estintore in mano e si nascose dietro le sue spalle, cercando di far star zitto il proprio cane che aveva iniziato ad abbaiare contenta.
    Quando l’incendio fu placato, il tavolo era intatto con un buco nel centro, l’aria impregnata di fumo nero e Charu fuori dai gangheri «Io mi licenzio» sbottò. Indicò Adam, poi Erik e iniziò a sproloquiare nella sua lingua madre. Adam, purtroppo, capì ogni cosa e sorrise «Non la pensavi così la scorsa notte» commentò malizioso e compiaciuto e sbam: Charu lo colpì con uno schiaffo talmente forte che quasi perse l’equilibrio. «Questo forse me lo meritavo» biascicò dolente, portandosi una mano sul viso. Charu indossò il cappotto e andò via.
    «Quante storie per un po’ di fumo» borbottò aprendo il frigo, prendendo due birre. Una la porse al tedesco, l’altra l’aprì e iniziò a bere. Si portò in salotto come se niente fosse, come se non avesse appena rischiato di incendiare l’intera casa e, probabilmente, morire. Non era successa alcuna tragedia, perciò perché impuntarsi? Adam era fatto così, che fosse remoto o prossimo, non viveva mai nel passato. Dato che il futuro era incerto, per niente scritto, egli godeva ogni attimo che il presente aveva da offrire. Nonostante fosse stato a un passo dalla morte, in guerra, il professore sembrava non dar peso ai pericoli, finendo per essere travolto da essi. In realtà affrontava di petto ogni eventualità ed era sempre pronto a sdrammatizzare ogni problema. Da qui il suo mantra: “la vita è una e va vissuta”.
    Recuperò un 33 giri di Edith Piaf e lo inserì nel giradischi. Poggiò la puntina di lettura sul disco, gracchiò appena e poi il buon vecchio fonografo riempì il salotto con la splendida e profonda voce della cantante francese. [x]
    Nooon, je ne regrette rieeen . Adam chiuse un attimo gli occhi, assorbendo il codice linguistico come un computer, poi iniziò ad ondeggiare seguendo il ritmo di quella malinconica e dolce sinfonia. Canticchiò qualcosa in un perfetto francese, con accento impeccabile, come un madrelingua. Poi si abbandonò sul divano, bevendo ancora e guardando Erik. «Allora professore di matematica, se qui per conoscere una donzella o per farti conoscere da una donzella o per creare qualche casino che poi devi risolvere?» domandò schietto, forse un po’ ironico. Ricordava tutto ciò che era successo a Bristol, ricordava Cecilia, ricordava il rischio che Erik aveva corso, cioè di diventare padre. Adam lo aveva definito proprio così, rischio, poiché la probabile madre altro non era che una studentessa universitaria e l’americano conosceva bene le rinunce e i sacrifici che avrebbe comportato accudire un bambino in una età così giovane. Non si era risparmiato di rimproverare Erik, sempre a modo suo, come fosse suo fratello. Senza alcun problema aveva espresso il suo parere quando gli fu detto che Cecilia aveva subito un aborto spontaneo. “Considerati fortunato” aveva commentato ed era stato molto sincero.
    Sorrise «Lo sai che se mi parli in tedesco, posso capirti?» domandò, forse retorico, forse no. Chi poteva saperlo, passando da una domanda semi seria a una sciocca e totalmente fuori contesto. Ma, d’altronde, Adam non seguiva mai un filo logico, nei discorsi come nella vita.
     
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    Era lecito sostenere, oltre ogni ragionevole dubbio, che Adam Harvey fosse un uomo molto particolare. Di questa originalità Erik ne aveva fatto il motivo per il quale gli era così affezionato. Di norma purtroppo per lui non era facile intessere legami duraturi con le altre persone, vuoi per il passato che aveva modellato il suo carattere rendendolo così duro e severo, vuoi per alcuni aspetti della sua personalità che non lo rendevano la persona più mite con la quale intrattenere un rapporto di qualsiasi tipo. Questo era uno dei maggiori motivi per cui teneva così tanto ad Adam, al punto da aggiungerlo come motivo fondamentale che lo aveva portato a trasferirsi a Besaid. Ormai sentiva di essergli legato quasi fosse stato un fratello, anzi, di certo aveva un rapporto migliore con lui rispetto a quello che aveva con i suoi veri fratelli con i quali condivideva il patrimonio genetico e tratti fisiologici.
    Lo seguì con aria mite nuovamente all'interno della sua abitazione, spendendo qualche manciata di secondo per rimirarne l'arredo che, ora più di quando risiedeva a Bristol, denotava segni tangibili di quella sua nuova vicinanza spirituale con il credo indiano. Non nutriva dubbi sul fatto che avesse assoldato una domestica indiana unicamente per farsi dare qualche nozione in più in merito a quella cultura così diversa dalla sua; ma Adam era fatto così e quando si impuntava su una cosa voleva assorbirla a trecentosessanta gradi. Purtroppo le stranezze di Adam non sembrarono essersi circoscritte al momento iniziale in cui era arrivato persino a farlo scontrare con un agente di polizia, poiché gli eventi che si susseguirono dopo furono, se possibile, ancora più strambi.
    Arrivò a domandarsi cosa avesse portato quella domestica a sopportare quel datore di lavoro così a lungo -ormai erano diversi mesi che il suo ex collega di lettere si era trasferito a Besaid- poiché era certo che quell'episodio fosse stato l'ennesimo di una lunga lista e, magari, anche uno di quelli meno pericolosi. La poteva capire, in un certo senso, ed evidentemente la paga era buona per portare avanti quel rapporto di lavoro, o forse la poverina da lui aveva anche il vitto e adorava vivere in prossimità della spiaggia e, pur di non rinunciarvi, era disposta a sopportare Adam in tutto e per tutto.
    Contenta lei, pensò l'accademico. Quando si verificò quella sorta di mini incendio, non solo Erik non alzò un dito (beccandosi così le occhiate in cagnesco di Charu) ma iniziò a ridere piegandosi in due come non faceva da diverso tempo. Se pensava che le azioni di Adam potessero portare ad un rogo? Assolutamente no. A feriti? Nemmeno. Si trovò a pensare di aver passato talmente tanto tempo in compagnia di quell'uomo da vedere qualsiasi sua stranezza come la quotidianità -per lui- e quindi a non allarmarsene minimamente.
    La domestica alzò gli occhi al cielo e abbandonò la stanza, borbottando qualcosa nella sua lingua madre e gesticolando al vento. Erik la osservò lasciarli ai loro discorsi, sorseggiando la sua birra ed osservando Adam che si abbandonava pesantemente sul divano. Canticchiava in un francese impeccabile e questa perfetta dizione non passò inosservata alle orecchie del professore di matematica che però non disse nulla, sistemandosi a sua volta sul divano. Lo fece proprio quando l'amico lo canzonò alludendo ad uno dei periodi della sua vita al contempo più felici e turbolenti che avesse mai passato.
    Sospirò sonoramente, prima di rispondergli.«Per nessuna delle due opzioni, amico mio.» sentenziò arricciando le labbra sulle quali ancora sentiva il pizzichìo delle bollicine della birra.
    «Sono qui per chiudere definitivamente un capitolo della mia vita ed iniziarne un altro. E anche perchè non riuscivo a starti lontano.» tutte verità assodate e che non sarebbero giunte nuove alle orecchie di Adam, dopotutto ne avevano parlato a lungo durante la loro corrispondenza nel periodo in cui erano stati lontani.
    Non aveva più intrattenuto contatti con Cecilia e ancora il suo cuore martellava come una bomba impazzita quando ripensava a lei, al suo dolce carattere, alla sua pelle perfetta, a quel sorriso che non si era spento nemmeno nei momenti più difficili. Aveva amato la forza dei suo carattere e la sua caparbietà e forse un giorno, con distacco, avrebbe trovato giuste le scelte che li avevano portati a separarsi. Un giorno lontano, quando le ferite del suo cuore si sarebbero rimarginate e il suo spirito sarebbe riuscito a pensare a lei con serenità, piuttosto che con una malcelata apprensione. Fortunatamente la voce di Adam tornò a distoglierlo da quei tristi pensieri e come un uomo che si desta da un sogno ad occhi aperti, tornò a dedicargli la sua completa attenzione. Wendy scodinzolò felice e si sistemò di fianco a lui e poggiò il muso sulle sue gambe.
    Erik iniziò a massaggiargli il capo, facendo scivolare le dita massicce sulla sua peluria rossastra. «Aber wirklich?» *Ma davvero? Lo canzonò riservandogli un'espressione sardonica.
    «Und weißt du, dass ich mich jetzt genau an jedes Wort erinnern kann, das auf die Strafe geschrieben wurde, die du gerade verbrannt hast? Schon, fotografisches Gedächtnis.» E lo sai che io adesso posso ricordare esattamente ogni parola scritta sulla multa che hai appena bruciato? Già, memoria fotografica. Non aveva ancora avuto occasione di parlargli di cosa la cittadina gli avesse donato, una particolarità che aveva apprezzato fin da subito. Aveva ancora non pochi problemi a parlare in norvegese, quindi sicuramente la particolarità di Adam a suo dire era molto più utile e stimolante della sua, ma non poteva lamentarsi. Nessuno gli aveva detto a cosa sarebbe andato incontro e aveva faticato a credere a quanto aveva appreso nelle lettere di Adam, riguardo la sua nuova capacità di parlare qualsiasi tipo di lingua.
    Gli avrebbe chiesto di parlargli in aramaico o di scrivergli delle raccomandazioni con i geroglifici, quando Charu tornò nella stanza. Alla sua comparsa, le orecchie pelose di Wendy si alzarono attente e vigili.
    «I signori gradiscono una tazza di Tè Darjeeling?» domandò con fare professionale, mostrando loro un vassoio contenente due tazze su cui strane incisioni indiane svettavano in colori cangianti. Erik osservò la sua lattina di birra, un sapore che non era il massimo da accostare al Tè, eppure non se la sentiva di rifiutare. «Volentieri, lo lasci pure qui.» la ringraziò indicandole un tavolino sul quale la donna poggiò le due tazze fumanti. Il tè Darjeeling, tè dalla regione Indiana del Darjeeling, nel Bengala Occidentale, era tradizionalmente considerato il più pregiato dei tè neri, soprattutto in Gran Bretagna e nei paesi facenti parte dell'ex-Impero Britannico. Soprannominato "lo Champagne dei tè", era leggero, chiaro, con un aroma floreale e un colorito ambrato.
    «Una famosa leggenda indiana è legata alla nascita di questo Tè.» spiegò la donna, palesemente lieta di essere presa così in considerazione. Chissà come diavolo doveva essere vivere con Adam Harvey, Erik non voleva nemmeno immaginarlo. «Una storia d'amore in puro stile Rajput, quella tra il re Prithviraj Chauhan e la principessa Samyukta, narrata dai Charans, i bardi dell'India occidentale, da secoli: il padre di lei, re Jaichand di Kannauj, era acerrimo nemico del giovane Prithviraj, ma i due rampolli reali si amavano in segreto. Il padre di Samyukta organizzò un Swayamwar, una sorta di torneo rituale durante il quale i principi rajput si sfidavano per ottenere il favore e dunque la mano di una principessa in età da marito. Prithviraj non venne nemmeno invitato, ma apparve al galoppo nel bel mezzo del Swayamwar e, afferrata al volo Samyukta, i due innamorati si dileguarono. La guerra fra i due reami si inasprì e indebolì le rispettive armate, facilitando la penetrazione dall'Afghanistan degli eserciti di Muhammad di Ghur e, nel bel mezzo della guerra, in molti dicono di aver visto i due amanti, spettri che osservavano silenziosi, che si dissolsero al sole lasciando sulla terra cocente due foglie, con le quali venne creato il primo tè Darjeeling. Ancora oggi, il mio popolo, associa questa specifica bevanda a Prithviraj Chauhan ed alla principessa Samyukta.»
    Erik annuì con espressione stupita, facendole intendere che aveva apprezzato il suo racconto. Tutta soddisfatta, con un leggero inchino la donna lasciò nuovamente il salotto, ritirandosi in cucina.
    «Che dici, Adam, mi sai tradurre queste scritte?» domandò l'uomo alzando davanti a sé una delle tazze, rimirando i segni disegnati con estrema precisione.
     
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    Chiudere definitivamente un capitolo della propria vita ed iniziarne un altro. Così aveva detto Erik. Adam inarcò le sopracciglia, scettico, avendo forse la prima reazione spontanea. Abbassò lo sguardo, fissando il vuoto per un po’.
    Secondo l’americano, il progetto del suo amico era impossibile. Quando crediamo che una fase della nostra vita sia conclusa, in realtà è solo confluita in un’altra, diluita, magari, per non destare sospetti. Ogni nostra scelta, ogni nostro pensiero dipende da ciò che siamo stati e questo non è possibile cambiarlo. Erik avrebbe sempre vissuto con una ferita nel cuore, un taglio profondo che recava il nome di Cecilia. L’avrebbe cercata, ne era sicuro, nei visi, negli atteggiamenti, negli sguardi. Aveva capito quanto quella ragazza fosse importante per lui quando, parlando di lei e del loro tragico epilogo, il suo volto si era incupito. Erik Hoffman, tedesco integerrimo, professore di matematica e devoto alla logica, non avrebbe mai sciolto i muscoli del viso in un’espressione addolorata per una donna. Eppure era successo e Adam, a modo suo, gli era stato vicino.
    Ad avvalorare la tesi di quanto importante fosse stata la ragazza, per lui, era anche il fatto che avesse quasi rischiato di diventare padre e questo, pur avendolo scombussolato non poco, era stato accettato. Il tedesco aveva vissuto la stessa storia di Adam, solo in un tempo e con finale diverso. Adam era stato poco più di un ragazzo quando la sua vita fu stravolta, per sempre. È incredibile come un piccolo oggetto femminile, quale il test di gravidanza, possa restare impresso in eterno nei propri ricordi. E lui riviveva ogni giorno, nei suoi sogni o incubi peggiori, l’istante in cui Lillian scoppiò in lacrime, affondando la testa nel suo petto e stringendolo a se, mormorando, tra i singhiozzi, di aspettare un bambino. La notizia lo colpì forte quasi quanto uno schiaffo e, per la prima volta, si sentì mancare il pavimento sotto i piedi. Aveva compreso Erik, il suo shock emotivo.
    Tuttavia, le emozioni negative, per Adam, erano state spazzate via dopo nove mesi, rimpiazzate da un amore incondizionato nei confronti di una piccolissima creatura stretta tra le braccia e bisognosa di cure. La sua Noa. In quel momento giurò che l’avrebbe protetta e dato ogni cosa, resa felice, anche a costo di sacrificare se stesso. Ecco, Adam Harvey, scapestrato e anche un po’ anarchico, obbediva solo a proprie leggi ed era devoto solo all’amore per sua figlia. Gli dispiaceva che Erik non avesse potuto provare la gioia di diventare padre ma che, al contrario, allo smarrimento e paura iniziale si fosse aggiunto il dolore della perdita.
    Sapeva che l’esperienza di un figlio, nato o meno, ti accompagna per tutta la vita. Nonostante lui avesse fatto di tutto per ricominciare, dopo il divorzio, Noa, al suo fianco, gli ricordava che non sarebbe mai stato possibile. E così Adam era risospinto sempre nel passato, quasi remando controcorrente, e purtroppo anche il suo amico Erik avrebbe dovuto affrontare lo stesso destino. Per fortuna era un uomo forte e il peso dei ricordi non lo avrebbe mai piegato.
    Preferì non dar voce a questi suoi pensieri, dimostrando un certo tatto. Abbozzò quasi un sorriso e, quando lo sentì parlare tedesco, il suo sguardo si illuminò di interesse ed entusiasmo. Schiuse le labbra per replicare ma rimase basito e deluso da ciò che sentì. Erik aveva sviluppato la memoria fotografica e gli avrebbe chiesto qualche dettaglio in più, circa la sua particolarità, se solo non avesse ammesso di ricordare ciò che era scritto sulla multa. L’angolo del labbro si sollevò in un tic nervoso e poi sorrise sornione. «Nach ein paar von diesen wirst du dich nicht einmal mehr an deinen Namen erinnern» Dopo un paio di queste non ricorderai neanche il tuo nome disse in un perfetto tedesco, afferrando la bottiglia di birra per il collo e lasciandola dondolare appena a mezz’aria. La capacità che aveva sviluppato lo divertiva parecchio e insolito era stato il luogo in cui l’aveva scoperta.
    Giungendo a Besaid, per i primi tre giorni, Adam aveva potuto comunicare solo facendo appello al suo inglese fortemente influenzato dalle sue origini americane. Poiché detestava non capire o dipendere dagli altri, magari da qualcuno propostosi di far da mediatore, lui, insieme a sua figlia Noa, aveva deciso di comprare un dizionario e un corso avanzato di norvegese, di quelli in dvd con tanto di manuale teorico. Dunque si era recato in negozio e un commesso lo aveva aiutato a scegliere il pacchetto più adatto. Inutile dirlo, la decisione durò ore: Adam ne scartò un paio e per i motivi più disparati, come, ad esempio, la ragazza in copertina che gli ricordava troppo Lillian. La sua ex moglie lo torturava già abbastanza chiamandolo ogni giorno, per assicurarsi che fosse vivo e che sua figlia Noa stesse bene, non era necessario ritrovarsela anche in tv ad impartire lezioni di lingua. Ma questo, ovviamente, il povero addetto non poteva saperlo. Al momento del pagamento, il giovane si lasciò sfuggire una frase in norvegese e Adam lo fissò, stupefatto. Qualcosa era scattato, lui lo aveva capito. Gli chiese di ripetere, di parlare ancora, e lo stupore del professore aumentò quando, con estrema naturalezza, lui riuscì a rispondergli in norvegese. Guardò il pacchetto, dvd più manuale, lo rigirò un paio di volte tra le mani e annuì ripetutamente, soddisfatto. Restituì l’articolo, commentando con un il corso più rapido di sempre, e uscì dal negozio, con la mani in tasca e fischiettando allegro. Quel giorno lo passò saltando di bar in bar, di locale in locale, come un grillo, per testare la sua capacità. Parlò con tutti e, per quelle uniche ventiquattro ore, Adam fu una persona affabile e socievole. Strambo si, sempre, poiché spesso fermava i passanti chiacchierando di cose prese a caso ma, almeno, non spaventò nessuno.
    Charu tornò in salotto con un vassoio contenente due tazze di tè. Il professore sbuffò, roteando gli occhi, posò la birra sul tavolinetto presente tra i due divanetti, e sprofondò nel divano. Recuperò annoiato il pacchetto di patatine e ricominciò a mangiarle. Wendy, sentendone l’odore, si avvicinò a lui, elemosinandone qualcuna, scodinzolando e abbaiando. Adam strinse al petto il pacchetto, quasi a volerlo difendere «Sciò» disse, come se potesse bastare a smuovere un setter affamato. Data l’insistenza del cane, cocciuto come il padrone, fu costretto a lanciarle una patatina, il più lontano possibile però, per liberarsi di lei. Wendy corse a prenderla, urtando contro la domestica che sospirò irritata. Chissà quanto doveva essere difficile, per lei, vivere in quella casa. La donna iniziò a raccontare una leggenda indiana a sfondo amoroso, una storia che Adam preferì non ascoltare. Divorò patatine a gruppi di cinque o sei, lasciando che lo scrocchio sovrastasse le parole di Charu.
    Conosceva già quella leggenda, era stata proprio lei a raccontargliela e lui aveva ascoltato con interesse, la prima volta. Tuttavia, oltre al tema amoroso, ve ne era un altro che proprio non riusciva a sopportare: quello bellico. Era difficile, per Adam, sentir parlare di guerra, anche se inserita in un contesto favolistico. L’esperienza in oriente era radicata in lui sotto forma di trauma e persino a distanza di anni era tormentato da incubi notturni. Toccare con mano la sofferenza, penetrare in città devastate, veder morire i propri amici, nessuna di queste immagini lo avrebbe mai abbandonato. Queste non solo tappezzavano le pareti della sua memoria, ma, la guerra, era anche cucita sulla pelle, racchiusa in un taglio che, dal pettorale, percorreva quasi tutta la gabbia toracica. E aveva quasi sfiorato la Donna velata, la morte, se solo la sua sfrenata voglia di vivere, di mettersi in gioco, non lo avesse salvato.
    Adam ringraziò appena Charu con un gesto del capo, quando terminò la sua storia e si congedò, e smise di masticare come un elefante, lasciando il pacchetto sul divano e prendendo un altro sorso di birra. Non avrebbe mai bevuto il tè ma non per dispetto, semplicemente, se lo avesse fatto, probabilmente avrebbe rimesso: teina, alcol e patatine non era proprio una combo consigliata.
    «Che dici, Adam, mi sai tradurre queste scritte?» domandò il tedesco e lui si sporse un attimo per studiare la tazzina e l’inscrizione. Indiano. «Hamaara pahala shikshak hamaara dil hai» lesse, replicando persino i suoni gutturali. Probabilmente Erik avrebbe riso, chiunque lo avrebbe fatto nel sentire il burbero Adam Harvey parlare hindi. «Il nostro primo insegnante è il nostro cuore» tradusse, sbuffando appena. Amore, amore, sempre amore. Il professore aveva lasciato andare da tempo questo sentimento, provandolo solo per sua figlia. Certo, provava affetto, come il bene fraterno per Erik, ma non si sarebbe mai più innamorato. Sia perché, secondo lui, l’amore porta guai, sia perché il suo cuore continuava ad appartenere a Lillian. Ma questo mai lo avrebbe ammesso. Sorrise malizioso «E a te, Erik Hoffman, cosa ha insegnato il cuore?» sprofondò nuovamente nel divano e intrecciò le mani sotto il mento, osservandolo, in attesa di una risposta. Pareva un professore che avesse appena posto una domanda a trabocchetto al proprio studente sotto esame.
     
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