Please don't take my sunshine away

AstridXIvar

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    Henrik sospirò spazientito e si scrollò un po’ di truciolato rimasto sui polsini del maglioncino. Aveva aiutato Ivar a trasportare i componenti dei mobili in salotto ma non era stato l’unico: due guardie, passanti per caso, avevano notato i due giovani ragazzi in difficoltà. «Vuoi na mano?» domandò uno di loro ma non aspettò risposta: insieme al suo amico, afferrò alcune tavole e le portò in casa. Poi, Cesare, prima di andare, osservò Ivar «Tu me recordi Ballante» l’altro, Orazio, lo scrutò a sua volta «Er mejo portiere der monno? Naaah» voltarono le spalle, salutarono Henrik con una stretta di mano ed uscirono come se niente fosse. Bah, turisti.
    Astrdi ed Henrik avevano acquistato una casa poco lontano dal mare, dal terrazzo era possibile ammirare la spiaggia e l’orizzonte, perdersi nel delicato contrasto tra i colori del tramonto e le bianche creste delle onde. L’interno era suddiviso in spazi ampi e luminosi, arredato con gusto moderno e inglese. Un vialetto piastrellato e delimitato da aiuole conduceva ad un loggiato che percorreva l’intero perimetro della villa. Varcata la soglia d’ingresso, vi era una piccola anticamera color crema, con attaccapanni a muro –a cui era appeso il soprabito di Henrik e un cappotto a quadri di Astrid- portaombrelli ad angolo e un grande specchio sul lato destro, per rendere più spazioso l’ambiente. Un piccolo arco delimitava il confine tra l’anticamera e il soggiorno: un'unica, enorme stanza inondata di luce grazie a grandissime finestre, pareti bianche e parquet chiaro in rovere. Con l’anticamera alle spalle, a destra si aveva un grosso spazio dove sarebbe stato montato il tavolo. A sinistra [xsenza la libreria, obv], invece, due divani in pelle bianca, disposti uno di fronte e uno di lato a un televisore a schermo a plasma, su un tappetto color crema. Alle spalle del secondo divano, il muro attendeva di essere coperto dalla libreria. Esattamente a metà di questi due ambienti vi era una porticina che chiudeva un bagno di servizio –il secondo, il vero bagno era al piano di sopra- e una scala che conduceva al secondo piano, la zona delle camere da letto e un piccolo studio.
    Tutto comunicava che era stato Henrik a scegliere l’arredamento minimal chic, tutto tranne un pianoforte a muro, separato dal televisore da una finestra. Ecco, lo strumento musicale, timidamente, confermava anche la presenza di Astrid. Era aperto e sul leggio vi erano spartiti musicali annotati e corretti.
    Henrik continuò ad aiutare Ivar quando ne ebbe bisogno e gli chiese, con gentilezza, di sentirsi a proprio agio e comportarsi come se fosse a casa sua. Era antipatico, si, ma mai scortese, anzi, sapeva essere molto cordiale ed ospitale. Era un signore, Henrik, purtroppo però non lo dimostrava sempre.
    Scoccò uno sguardo al suo Hamilton da polso e si spazientì, stringendo le labbra. Le cinque e mezza del pomeriggio e la sua ragazza non era ancora tornata. Le aveva chiesto di rincasare presto perché il suo volo era prenotato per le sette, ci avrebbe messo un’ora per raggiungere Bergen in taxi e voleva sia salutarla sia assicurarsi che qualcuno stesse a casa per dare una mano al falegname e seguirlo nelle sue operazioni. Ma lei niente, non c’era.
    Indossò il soprabito e prese la valigia «Ivar, vado» si avvicinò al giovane, stringendogli la mano con la mancina «Astrid dovrebbe essere qui a momenti, spero. Scusa se ti lascio ma devo proprio partire» sorrise «Buon lavoro».
    Proprio mentre varcava la soglia del salotto, in anticamera si scontrò con Astrid che richiudeva la porta di casa. «Bentornata» la investì con ironia. «Scusa Henrik ma abbiamo avuto un nuovo bambino e ha fatto un bel po’ di capricci, così sono rimasta perché..» si affrettò a spiegare, prevedendo la sua reazione. «Ti avevo chiesto di rincasare prima, il mio volo parte tra due ore. Perché hai fatto tardi?» continuò non curando le sue parole «Te l’ho spiegato, abbiam-» sbuffò Henrik, snobbandola, e controllò l’ora ancora una volta. «È tardi ora, devo andare. Ne riparliamo.. » «Si, quando torni» continuò lei piccata. Ormai le loro conversazioni degeneravano in discussioni che terminavano con la stessa frase. “Ne parliamo quando torno”. Che stesse partendo, che fosse in ospedale, che stesse andando a lavoro, Henrik rimandava tutto quanto al suo ritorno perché era troppo impegnato per lei, per lei che era la sua ragazza e che tollerava ogni suo eccesso di arroganza, che era sempre pronta a smussare gli spigoli del suo carattere. Purtroppo, però, anche la grande pazienza di Astrid aveva un limite e in quel momento lo aveva superato. D’accordo essere stressati e tesi per il viaggio ma poteva essere più gentile o, quantomeno, ascoltarla. Invece no, era ignorata. Avrebbe potuto anche recitargli una filastrocca , invece che discutere, lui non se ne sarebbe reso conto: era troppo preso ad imporre la sua ragione. «Se torni» aggiunse dura. L’idea che quel viaggio di lavoro a Cambridge durasse due settimane non la rendeva contenta, neanche un po’, ed era stato motivo di discussione per giorni. L’inglese roteò gli occhi, esasperato «Astrid non ricominciare con questa storia, è solo una stupida credenza popolare di una cittadina piccola con abitanti bigotti» «E io allora? La mia memoria?» «Si chiama disturbo da stress post-traumatico te l’ho già spiegato. Hai subito un lutto, è stato un trauma e hai rimosso, fine. E comunque..» e parlò, tanto, sciorinandole tutto il suo esame di neurologia, districandosi tra i complessi meccanismi della mente, addentrandosi nel processo sinaptico. Astrid lo mise un attimo in pausa, era troppo, anche per lei. Pensò a Lois : se fosse stata il suo grillo parlante le avrebbe di sicuro ordinato di tirargli uno schiaffo. No, non lo avrebbe mai fatto ma una piccola parte di lei provò un certo piacere ad immaginarsi colpirlo e metterlo a tacere. Mentre in sottofondo la profonda voce di Henrik elencava i capisaldi dell’anatomia umana, il suo sguardo corse un attimo oltre le sue spalle, a ciò che poteva osservare dal grande arco che dava al salotto. Vi erano mensole di legno accatastate, oggetti da lavoro raggruppati, teli a coprire il parquet. D’un tratto il suo sguardo annoiato e spazientito si illuminò. Portò l’attenzione su Henrik, non aveva seguito una parola di quel noioso discorso «Non hai il volo tra due ore?» domandò, retorica e un po’ acida ma Henrik era troppo sicuro di se per cogliere la sua frecciatina, l’invito, insomma, a levarsi di torno. «Giusto» si piegò per baciarla ma lei si scostò, sorridendo «Quando torni, Henrik. Quando torni» gli lasciò una semplice carezza sul viso e lo superò. Lois, oltre a godersi la scena ingozzandosi di popcorn, le avrebbe di sicuro fatto una standing ovation. Si girò giusto per osservarlo aprire la porta di ingresso e sparire dietro di essa. Si abbandonò a un sospiro, metà preoccupata per lui, metà sollevata. Si sentì profondamente in colpa nel pensare che finalmente sarebbe stata sola, che per quelle due settimane non avrebbe dovuto affrontare alcuna discussione, che avrebbe goduto un po’ del sacrosanto silenzio.
    Quel pentimento fu spazzato via e rimpiazzato da una strana emozione quando volse lo sguardo al salotto. Ivar era lì e chissà per quante ore ci sarebbe stato. Tale idea le strinse un nodo in gola e non capì perché, prima di varcare la soglia ed entrare in stanza, esitò.
    Osservò le tavole e le assi in legno accatastate e riconobbe le gambe del tavolo smontate, poggiate al muro. Le iridi poi sgusciarono rapide sul viso del ragazzo indaffarato, e, quando i loro sguardi si incrociarono, sussultò, preda di uno strano sentimento. «Ciao Ivar» sorrise dolce e radiosa. Senza volerlo si perse nei suoi grandi occhi blu, profondi come il mare, impetuosi come le onde. Si ritrovò a fissarlo imbambolata finché, quel mezzo incanto, fu spezzato da due ricordi imbarazzanti: San Valentino e Lucy. Si sentì morire. Sperò che il pavimento si aprisse e la risucchiasse. Pregò che una gigantesca meteora colpisse casa sua. No, okay, questo forse è un po’ troppo.
    Purtroppo i ricordi di quella sera erano tornati a galla nei giorni successivi, come piccole boe, nutrendo in lei il desiderio di far perdere la memoria a tutti i presenti, a tutti coloro che avevano assistito al suo spettacolo imbarazzante. Ricordava ogni cosa. Il “patato” sussurrato come se fosse un gatto, la canzone, il bacio con la sconosciuta, la chiacchierata al bancone, la sua imbarazzante presentazione e il suo scoppiargli a ridere in faccia. Ecco, da qui in poi non era ancora ben chiaro come si fosse evoluta la situazione ma era quasi certa che si fosse sentita male e che Lois l’avesse trascinata a casa. Le gote acquistarono colore e l’immagine di lei che gli stringeva le guance in un “cioppi cioppi” la portò a sperare di morire. Come se non bastasse a questo bel carico di disagio se ne aggiungeva altro: la conversazione avuta con Lucy. La tripletta. La tripletta. La tripletta. Si sarebbe schiaffata una mano in faccia se solo avesse potuto e il suo bel visetto arrossì così tanto che sentì caldo. Sorrise, nervosa, imbarazzata.
    Distolse lo sguardo dal suo, altrimenti sarebbe svenuta, e per sbaglio si scontrò con il suo riflesso nel grande specchio del salotto. Tra i capelli aveva una margherita che Gretel le aveva incastrato tra le ciocche per gioco, lo zigomo sinistro era sporco di pittura verde, frutto di un’attività artistica con i bambini finita in guerra. Aveva dovuto cambiarsi così in fretta che non si era preoccupata di darsi una sistemata ed Henrik era stato troppo preso a rimproverarla per notare quei dettagli. Si sentì buffa e imbranata e pensò che, se è vero che gli alieni esistono, avrebbero potuto tranquillamente rapirla in quel momento.
    Si voltò verso Ivar e indietreggiò piano «Io andrei in bagno» disse, cercando di dissimulare tutto il suo imbarazzo. Camminando al contrario andò a sbattere contro il divano. Che altro? «Ma chi ha messo qui il divano» ridacchiò nervosa, ecco, mancava la pessima osservazione. «Fai come se fossi a casa tua Ivar, io.. torno subito» comunicò prima di sgusciare al piano di sopra come una trottola.

    Litigavano anche loro. Le discussioni erano molto rare, certo, ma quando accadevano erano animate dalla stessa intensità con cui si amavano. In camera sua, Astrid osservava un punto impreciso del muro, le braccia conserte al petto, l’espressione corrucciata di chi è stato appena contraddetto. Ivar, d’altro canto, vagava per la stanza, nervoso. La francese sapeva bene che non era saggio farlo arrabbiare, il suo tocco aveva quasi sempre la meglio e diveniva una mina vagante. Difatti, il ragazzo, durante la discussione aveva serrato i pugni per reprimere ogni impulso di sfiorarla. Per un momento posò i palmi ben aperti sullo schienale della sedia e in una frazione di secondo il legno iniziò a marcire. Si allontanò, imprecando, innervosendosi sempre di più. La rabbia di Astrid fu sostituita da apprensione e preoccupazione, seguiva ogni suo movimento, Ivar era sempre più adirato e anche disperato: non poteva toccare niente e ciò lo mandava ancor più in confusione. «Ivar» lo chiamò piano ma lui non l’ascoltò, passandosi le mani tra i capelli. Al secondo mobile distrutto, lesse sul suo viso tutta la sua frustrazione, generata dal sentirsi un “mostro” e dai suoi sforzi per reprimere la maledizione. Intervenne: prima gli afferrò il polso e poi lasciò scivolare la mano nella sua. Lui, d’istinto, si ritrasse, spaventato a morte poiché temeva di farle del male. Lei, prevedendo la reazione, fu più rapida e intrecciò le dita con quelle di Ivar, in una presa salda e decisa. Qualcuno avrebbe parlato di incoscienza –dato che ben due mobili erano marci e per metà ridotti in cenere-, altri di amore. «Ivar» pronunciò il suo nome con fermezza. Il falegname tentò ancora di divincolarsi, guardandola con occhi sbarrati, quasi a dirle che era una pazza. Lei strinse la sua mano, più forte «Ivar guardami» mormorò «Ivar guardami!» sbottò risoluta. «Non ho paura di te e tu non devi averne di te stesso» ogni parola era ferma, decisa. Sapeva imporsi, la sua dolce Heloise. «Non è il tuo tocco a controllarti ma sei tu, sei tu che lo controlli hai capito?» Ma Ivar non voleva saperne e scuoteva il capo, tentando sempre di sottrarsi a quella presa che la francese rendeva più sicura. Non doveva cedere, lei avrebbe trasmesso tutto il coraggio che mancava a lui quando la maledizione prendeva il sopravvento e lo spaventava «Astrid posso ucciderti, lasciami» biascicò, impotente, disperato. «No» mormorò lei, il tono si addolcì. Posò la fronte sulla sua «Se fosse vero, mi avresti già fatto del male» sorrise «Invece è tutto okay e questo prova che puoi controllarlo, che sei più forte, Ivar» lo spronò cercando di infondergli tanta sicurezza. «Non puoi farmi del male» e lo baciò, un bacio morbido e intenso destinato a trasformarsi in qualcosa di più. E, per tutto il tempo che i loro corpi si incastrarono come due perfette metà, Astrid non lasciò mai la sua mano.
    L’avrebbe tenuta stretta. Per sempre


    Quando Astrid tornò in salotto, aveva recuperato la solita calma e pacatezza. Si era tolta quel fiore dai capelli, lavata via la macchia di vernice che un po’ l’aveva fatta ridere perché le conferiva un aspetto molto buffo. Aveva anche cambiato il suo abbigliamento, indossando, ora, dei jeans chiari e non molto aderenti, per star comoda, e un maglioncino color sabbia, poco più grande del suo corpicino. Scosceso a sinistra, lasciava l’omero scoperto così come metà scapola ed era ben visibile il suo enigmatico tatuaggio: la rosa dei venti spiccava intatta sul suo incarnato chiaro. I capelli rossi erano sciolti e, come sempre, piegati in morbide onde.
    Osservò Ivar e si fece forza. Il cuore batteva come un matto, sembrava voler sfondare la gabbia toracica e comunicarle qualcosa che non comprendeva. I suoi grandi occhi chiari, il suo sorriso dolce, si erano insinuati in lei come un tarlo e, in quelle due settimane, l’avevano scavata dall’interno. Anche se sbronzo, Astrid, a mente fresca e lucida, lo aveva reputato affascinante con quel cappellino da marinaio. Dopo l’incontro con Lucy, spesso ripensava a lui, nei momenti morti, al loro unico incontro avuto in bottega, come se la chiacchierata con la sua amica le avesse fatto notare che si, Ivar non le era rimasto indifferente.
    E, come accaduto con la sua collega quando le aveva mostrato la foto, anche in quel momento si sentì agitata, nervosa, e tutto era condito da un sano senso di colpa per Henrik. Era fidanzata, maledizione, non poteva provare queste strane sensazioni per un altro ragazzo. Erano sbagliate. Non poteva e non doveva, perciò decise di ignorarle e di fingere. Inoltre avrebbe dovuto affrontare ciò che più la metteva in difficoltà e, se era impossibile chiarire la questione tripletta –non erano certo affari suoi-, di certo poteva risolvere il problema San Valentino. Si schiarì la voce, prendendo dal divano un telo bianco piegato con cura. «Scusami per San Valentino» iniziò, affiancandolo. Ridacchiò appena, divertita «Ti assicuro che è stata la prima volta e non ricapiterà mai più. Dico sul serio. E scusa per il.. insomma, il cioppi cioppi» per poco non scoppiò a ridere «E per il patato ma hai la barba talmente diradata che, beh, sei proprio un patato» e, questa volta, rise. Preferì affrontare il discorso portandolo sul piano scherzoso, per rompere il ghiaccio, ignara che in passato sfotterlo per la barba era uno dei suoi giochi preferiti. Raggiunse il pianoforte, chiuse lo spartito e poi la tastiera, coprendolo con cura con il telo bianco. Lo strumento era stato di sua madre ed era proprio pigiando quei tasti che Heloise aveva imparato a suonarlo. Tornando a Besaid lo aveva ritrovato a casa di Marcus e deciso di portarlo a casa sua. Suonava spesso, certe volte anche per interi pomeriggi, ed era un modo per comunicare ancora con Cecile e tamponare il vuoto che la sua morte aveva provocato. Ecco perché lo custodì, era uno dei pochi oggetti a cui teneva.
    Tornò a guardare Ivar, portandosi le mani ai fianchi «Bene, non sarò un falegname ma non ti aspetterai che resti seduta tutto il tempo a guardarti lavorare, sai?» si impose con la sua tipica determinazione mista a tenerezza. «E ti prego, non dirmi che “non hai bisogno di niente” perché ti aiuterò lo stesso, che la cosa ti piaccia o no» si guardò intorno «Ci sarà qualcosa che posso fare o che puoi insegnarmi, imparo in fretta » annuì con vigore, animata da tanto entusiasmo.

    Edited by .Souseiseki. - 22/2/2018, 23:17
     
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    | IVAR WESENLUND | 24 y.o | Astrid's house
    Omnia fert aetas. Il tempo porta via tutte le cose.
    Non erano proprio veritiere, quelle parole incise nella storia da un antico scrittore dalla fervida fantasia. Non riusciva a lavare via tutto, il tempo. Non portava via i ricordi, non faceva scemare il dolore. Era tiranno, il tempo: allontanava le cose senza mai cancellarle davvero. Non sapeva, Ivar, se questo fosse un bene o un male.
    Aveva portato via quello strano San Valentino, il tempo, affievolendone cause e conseguenze. Era passata l’euforia che lo aveva spinto a perdere le inibizioni. Era passata l’inquietudine di vedere Astrid. Era passata Lucy, la sensazione della sua pelle che sfiorava la sua, il sapore delle sue labbra.
    Eppure, quel tempo tiranno sembrava compiere un cerchio. Portava via tutte le cose, e poi le riportava indietro, inesorabilmente, spingendolo a rivivere le sensazioni che sperava di aver dimenticato.
    Provava uno strano senso di angoscia all’idea di dover rivedere Astrid. Il suo sorriso, che sempre aveva amato, riapriva in lui quelle ferite che l’avevano quasi ucciso una volta. E le sue mani, tanto delicate, sfioravano quello scrigno in cui aveva sigillato i suoi sentimenti, ed aprivano spiragli che lasciavano entrare il freddo. Sospirò, accartocciando tra le mani il foglio su cui aveva scritto l’indirizzo. Sarebbe andata bene, ci sarebbe voluto poco tempo. Sarebbe passato, anche quello, il tempo lo avrebbe portato via, come faceva con ogni cosa.

    . . . . .


    Si ritrovò nei pressi della spiaggia, lungo un viale costellato da poche villette che affacciavano sul mare. La macchina di Henrik era parcheggiata di fronte a quella che doveva essere la casa in cui ora viveva. Con la sua Heloise. Non riusciva a lasciar andare quel senso di angoscia che lo opprimeva, la sensazione che qualcosa di strano sarebbe accaduto. La paura che avrebbe fatto dannatamente male.
    Scese dal pick up e subito il biondo uscì dalla porta per aiutarlo, sorridendo cordiale come sempre. Non poté rifiutare il suo aiuto, neanche per orgoglio. C’era parecchia roba da portare, e la scala, massiccia, pesava sicuramente più di lui. Anche due passanti si fermarono, e dopo averli visti in difficoltà, si unirono a loro. Avevano uno strano accento, che mai aveva sentito da quelle parti. “A regazzì, che ve serve na mano?” Chissà, magari erano stranieri. “No tranquilli, ce la facciamo”. Provò a dire. Ma quelli nemmeno lo sentirono, e iniziarono a scaricare tavole. “Ma che, senti qua, sta roba pesa come ‘e colonne der foro. Ve fate scappà n’ernia ar disco così, statece attenti”. Ivar capì davvero poco di ciò che dissero. Sembravano parlare una lingua loro. Restò perplesso, quando uno dei due puntò gli occhi nei suoi, e dopo un attimo di silenzio, se ne uscì con: “Te me recordi Ballante”. “Chi?” Chiese. Magari era un loro amico. Ma che nome era Ballante? Il tizio si girò verso l’altro. “Aò sti norvegesi non sanno chi è Ballante. Io boh, ma ndo cazzo semo venuti a vive?”. “Ma che cazzo ne so”. Rispose l’altro. Continuarono a battibeccare tra loro, mentre trasportavano tutti i pezzi su per le scale, facendo attenzione a non sbattere le tavole per non ammaccarle. La casa era estremamente luminosa, ma dannatamente spoglia. Mancava quel tocco di colore che l’avrebbe resa allegra. Mancava il calore che l’avrebbe resa accogliente. Mancava Astrid.
    “Oh, tocca annà, ce sta er derby!” Disse uno di quei due all’altro. Frettolosamente, strinsero la mano a lui e a Henrik, e corsero via, accompagnati da un “Lazio! Lazio! Lazio!” che rimbombava per le scale. Ivar era ancora rimasto a chiedersi chi diamine fossero quei tizi e di che cosa parlassero. Ma la loro assurda presenza, se non altro, aveva in parte affievolito la tensione. Guardò Henrik, chiedendosi cosa Astrid avesse trovato in lui. Non fu difficile però trovare una risposta.
    Spostarono i divani, portando le prime tavole verso la parete contro cui avrebbe dovuto poggiare la libreria, e accatastandone altre contro la parete, in verticale. Guardò l’orologio, lui. Sembrava essere sempre di fretta, come il Bianconiglio, troppo impegnato a rincorrere la propria vita per fermarsi a godere dei momenti spensierati che essa offriva. “Ivar, vado. Astrid dovrebbe essere qui a momenti, spero. Scusa se ti lascio ma devo proprio partire. Buon lavoro”. Disse, preparandosi per uscire, sorridendo cordiale. “Non preoccuparti. Non ci metterò molto. E grazie, buon lavoro anche a te”. Rispose, abbozzando un sorriso. Non riusciva ad odiarlo, nonostante lui rappresentasse tutto ciò che nella sua vita era sbagliato. Sembrava una brava persona, Henrik, forse l’unica in grado di proteggere colei che Ivar amava. Volse lo sguardo verso la roba sparsa sul pavimento. Avrebbe dovuto iniziare a montare i montanti e le mensole, prima di attaccare la pesante scala tortile al tutto. E fece per aprire la cassetta degli attrezzi, quando sentì la voce di Astrid risuonare per il corridoio. La sentì alterarsi, discutere con Henrik di qualcosa. Nemmeno seppe perché quello lo fece arrabbiare. Erano fidanzati, litigavano come coppie normali, accadeva a tutti. Ma il sapere che la sua Heloise soffriva faceva soffrire anche lui. Il tempo, tiranno, non aveva portato via quella sensazione. Strinse i pugni, e iniziò a spostare roba sperando che il rumore gli avrebbe impedito di sentire ancora le loro voci. Distacco: era questa la sua arma per sopravvivere.

    “Ciao Ivar”. Alzò lo sguardo e si fermò, quando udì quella voce dannatamente più vicina. Chiamava il suo nome, con dolcezza. Restò immobile, per un istante, mentre la stretta allo stomaco si faceva dannatamente fastidiosa. Portava un fiore tra i capelli, la sua Heloise. Aveva il viso imbrattato di tempera. Sembrava la Heloise di sempre, quella che se ne fregava delle apparenze quando si stava divertendo. Sembrava che il tempo fosse tornato indietro, come faceva sempre.

    “Ciao Ivar”. Quella voce, che avrebbe riconosciuto ovunque, irruppe nel suo silenzio, inaspettata, come un fulmine. Di scatto alzò lo sguardo verso la porta, e la trovò lì, la sua Heloise, col suo sorriso stampato in volto. Sorrise, a sua volta, felice di vederla come lo era ogni volta. “Che ci fai qui?” Disse correndo verso di lei, e prendendola in braccio sollevandola leggermente da terra, cingendo la sua esile vita con le braccia forti. Rise, lei, emettendo un gridolino acuto, come faceva ogni volta che sentiva l’equilibrio venir meno. “Sono tornata prima. E un po’ mi mancavi.” Rise, lei, guardandolo negli occhi e dandogli un bacio. “Un pochino. Poco”. Ricambiò il bacio, Ivar, lasciando scivolare le sue labbra tra quelle di lei. Gli era mancata, anche se era stata via solo poco più di una settimana. “Tu no, per niente.” Scherzò, baciandola di nuovo per poi allentare la presa dopo averle fatto toccare nuovamente terra. Faceva male, la distanza, eppure rivederla, stringerla di uovo tra le sue braccia ogni volta, riusciva ad annullare tutto ciò che era stato prima. Annullava le preoccupazioni, la tristezza, la solitudine. Tutto riprendeva ad essere bello quando lei tornava. Non faceva troppo male l’attesa, quando sapeva che lei sarebbe tornata, sempre.

    Restò per un attimo a guardarla, perdendosi tra le linee disegnate di quel sorriso morbido. “Ciao, Astrid”. Non la chiamò Heloise, quella volta. Non commise di nuovo l’errore. Non che lo avesse fatto di proposito. Gli venne spontaneo, distaccarsi, come se quel nome creasse un legame a cui era troppo difficile sottarsi. Non c’erano ricordi imbarazzanti ad accompagnare quel suo sorriso. Non c’era San Valentino, non c’erano parole taciute. C’era la sua Heloise, in quel momento, quella che amava veder tornare ogni volta, quella che aveva stretto sempre la sua mano senza avere paura, quella che aveva portato il suo cuore anche in terre lontane. Si rese conto che erano rimasti a guardarsi, in silenzio, per chissà quanto tempo. E doveva essersene accorta anche lei, dato che iniziò a farfugliare imbarazzata, quasi cadendo rovinosamente mentre indietreggiava. "Oh. Cavolo, l’ho spostato io. Scusa scusa”. Cercò di dire, freneticamente, mentre lei cercava di recuperare il suo equilibrio precario. “Si, certo, grazie”. La guardò sgattaiolare via, per le scale. Era dannatamente bella quando arrossiva.
    Rimase solo, in quella stanza tanto luminosa quanto soffocante, e volse lo sguardo verso alcune foto che prima non aveva notato, racchiuse in cornici fatte di conchiglie e cartapesta. Una raffigurava Astrid ed Henrik, sorridenti, felici, in mezzo a tanti bambini, col deserto che si intravedeva alle loro spalle. Quella accanto ritraeva Astrid, sorridente, con in braccio un gatto dal manto grigio e l’espressione palesemente arrabbiata.

    “Dai fammi una foto col patato!” Disse lei, mettendogli in mano una canon e iniziando a rincorrere il gatto per catturarlo. Emise un miagolio strozzato, quando lei lo agguantò con la forza e se lo strinse al petto. “Che devo cliccare?” Chiese Ivar, in uno dei suoi momenti di crash. Non era un maestro delle macchinette digitali, e della tecnologia in generale. A volte di sentiva come suo nonno quando si incazzava perché non riusciva a cancellare i messaggi che gli inviavano gli operatori telefonici. Astrid alzò gli occhi al cielo, esasperata. “C’è solo un pulsante. Quello sopra, grande” rispose. ”Si ma sta calma” sbottò Ivar, e iniziarono a litigare. “Ah.” Rise imbarazzato, il falegname in evidente difficoltà. Mise a fuoco e scattò la foto, ma quando andò a vedere il risultato sullo schermo digitale, scoppiò a ridere. “Fammi vedere com’è venuta”. Disse lei leggermente imbronciata, lasciando finalmente andare il gatto che non aspettava altro che scappare. “No, bene, tu sei venuta bene… è il gatto che…il gatto”. Ivar aveva di nuovo le lacrime agli occhi, e non riusciva nemmeno a parlare per quanto rideva. Le passò la macchinetta. Era una bella foto, peccato che Ivar si fosse focalizzato sul nascondino sull’espressione arrabbiatissima del gatto, che sembrava star pensando “uccidimi ti prego”. “Ti prego…ti prego non cancellarla, io non ce la faccio”. Continuava a ridere, mentre anche lei lo seguiva a ruota. “Ma dai, ma che c’è da ridere? Povero patato!” Fece la finta preoccupata, mentre in realtà rideva anche lei. Era perfetta, spontanea, e lei era bellissima in quella foto.

    Si morse il labbro inferiore, quando la sua attenzione fu di nuovo catturata dall’espressione di quel gatto. Sembrava essere accaduto una vita fa, tutto quello. Quelle immagini, impresse su una pellicola, sembravano parti della vita di qualcun altro. E poi c’era una foto, senza cornice, che ritraeva Marcus con in braccio la piccola Astrid. Era più giovane di come lo ricordava Ivar, più vitale, più sorridente. Sembrava più coraggioso, di quando gli aveva chiesto di lasciar andare tutto per sempre.

    “Non puoi chiedermelo, Marcus, non puoi”. Sussurrò Ivar, col fiato rotto dallo shock, guardando incredulo l’uomo che sembrava essere calmo, seduto sulla sua sedia a rotelle. Lui lo scrutava di rimando, severo, conscio che se si fosse abbandonato a qualsiasi debolezza probabilmente avrebbe ceduto. “Ha già perso sua madre, e non è mai riuscita a superarlo. Io sto morendo, Ivar, in modo lento. So che lei vorrebbe starmi accanto, accompagnarmi fino alla fine. Ma so anche che tutto questo la distruggerebbe. Deve dimenticare, ragazzo, fuggire il più lontano possibile e dimenticare tutto. Sai che è la soluzione migliore”. Parlò in tono calmo, lui, mentre il cuore di Ivar sembrava impazzito. Non riusciva nemmeno a ragionare, o a realizzare ciò che di lì a poco sarebbe successo. Non riusciva nemmeno a concepire una vita senza la sua Heloise. Era già difficile starle lontano per qualche settimana…ma lasciarla per sempre, quello era inconcepibile. “Troveremo altre soluzioni, ce ne saranno. Come puoi chiedermi di perderla per sempre? A me non pensi? Non sono pronto a questo, non credo che lo sarò mai. Mi distruggerà, Marcus.” Il suo tono si faceva sempre più agitato, quasi fosse sull’orlo di una crisi di nervi. Nemmeno si accorse che la mensola in legno a cui si era appoggiato aveva iniziato ad imbrunire e a spaccarsi, almeno finché gli oggetti che erano riposti lì sopra non iniziarono a cadere. Marcus lo guardò agitarsi. Non ebbe nemmeno bisogno di parole per dirgli ciò che aveva davanti agli occhi. Non aveva nulla da offrire, Ivar, solo morte e distruzione. Era Astrid la sua stabilità, ma se anche lei fosse crollata, allora tutto sarebbe andato in pezzi. Strinse i denti, quel falegname appena ventiduenne, non riuscendo a fermare né le lacrime che avevano iniziato a scendere lungo le sue guance, né la sua capacità che avida, cercava di distruggere ogni cosa. Tremavano le sue mani, mentre labile si faceva largo la consapevolezza che quella sarebbe stata l’unica soluzione. “Se la ami davvero devi lasciarla andare”. Sentenziò Marcus, con la voce più morbida. Era la richiesta di un padre che amava sua figlia. La richiesta di un uomo che forse li amava entrambi, e che a entrambi ora chiedeva un sacrificio. “Lo farai?” Chiese. Non gli chiese come lo avrebbe fatto, come lo avrebbe affrontato, se sarebbe riuscito a sopravvivere. Forse la risposta a quei quesiti avrebbe fatto troppo male anche a lui. Non lo abbracciò Ivar, non si voltò a guardarlo, mentre con tutte le forze cercava di riprendere il controllo. Si asciugò le lacrime che quel pianto isterico aveva provocato, e ingoiò quell’amaro boccone. Trasformò in odio quella disperazione, odio verso quel mondo meschino che aveva permesso tutto ciò. “Si.” Sussurrò freddo, chiudendo per un attimo gli occhi quasi sperando che, quando li avrebbe riaperti, si sarebbe reso conto che quello era stato solo un brutto incubo. Non si voltò verso di lui, non lasciò più trasparire emozioni. Semplicemente aprì la porta, e avanzò, chiudendosela alle spalle. E chiuse in quella stanza quella che era una parte suo cuore. L’altra parte l’avrebbe seppellita poco dopo, al confine di Besaid.

    Ebbe un tremito, quando si trovò a fissare quella foto, quello sguardo e tutto ciò che si portava dietro. Lo sguardo di un padre che aveva sacrificato l’ultima parte della sua vita per amore di sua figlia. Lo sguardo di un uomo che aveva portato con sé il senso di colpa per aver distrutto quel ragazzo che aveva perso già abbastanza. Gli aveva persino chiesto di perdonarlo, Marcus. Non ce n’era stato bisogno. Entrambi avevano fatto quella scelta, entrambi ne avevano subito le conseguenze. Lo avevano portato insieme, quel peso, per un po’.
    I passi di Astrid lo riscossero. D’istinto si volse di nuovo verso le parti della libreria che andavano ancora montate, e si accovacciò a terra, piegando le ginocchia e studiando la situazione. Non era il momento di lasciarsi andare ai ricordi, quello. Non era il momento di lasciare libere le emozioni contrastanti che provava. Aveva fatto una promessa, a quell’uomo di cui ora restava solo una foto lasciata su uno scaffale. Aveva promesso che non si sarebbe voltato a guardare indietro, come Orfeo nell’Averno.
    Si avvicinò, lei, fingendosi risoluta ma con qualche preoccupazione che velava il suo sguardo. Il maglioncino lasciava scoperta la spalla su cui recava ancora il segno di quel tatuaggio che avevano disegnato insieme. Il suo cuore parve fermarsi, per un attimo. Chissà se avrebbe mai ricordato tutto quello? Chissà, se un giorno, due estranei avrebbero preso la direzione? Il tempo portava via ogni cosa, ed ogni cosa riportava indietro. Ma non avrebbe ridato loro il tempo che gli era stato rubato, e non gli avrebbe restituito gli istanti che loro, mossi dall’hybris, avevano rubato al tempo stesso. Alzò lo sguardo, verso di lei che era in piedi, e incrociò quei suoi occhi che alla luce assumevano le sfumature dei prati in estate. Quegli occhi in cui amava perdersi, ogni volta. “Scusami per San Valentino” Disse lei, accovacciandosi accanto a lui e iniziando a stendere un telo di plastica. “Ti assicuro che è stata la prima volta e non ricapiterà mai più. Dico sul serio. E scusa per il.. insomma, il cioppi cioppi” Distolse lo sguardo dal suo, e rise. Nemmeno ci pensava più, a quel San Valentino. Non quando tutto sembrava volerlo riportare molto più indietro. Non era ancora ritornato a quel punto di congiunzione, il tempo. “E per il patato, ma hai la barba talmente diradata che, beh, sei proprio un patato” Rise, lei. Era così bella quando rideva. Lo aveva sempre preso in giro per quello, e lui non se l’era mai presa. “Non hai nulla di cui scusarti”. Rispose, sorridendo. “Non con uno che ha cantato una canzone imbarazzante su un palco, con un cappello da marinaio in testa e senza riuscire a spiccicare una parola in inglese”. Fece spallucce. Si, quella era stata decisamente una serata imbarazzante. Ma guardarla col senno di poi era diverso. Ciò che era sembrato imbarazzante e insuperabile al momento, ora appariva come qualcosa di cui ridere. “E chiudiamo il capitolo San Valentino, ti prego. Inutile dire che abbiamo lasciato entrambi la dignità al Bolgen”. Rise, chiudendo quel discorso. Forse era meglio non parlarne. Già, forse era meglio accantonare del tutto quel delirio.
    La vide alzarsi, e coprire con cura il pianoforte, che sembrava essere l’unica nota stonante in quel salotto tanto anonimo. L’unica parte della sua Heloise rimasta tra le pareti bianche della sua memoria. C’era ancora, lei, da qualche parte. Era ancora la sua Heloise, anche se lei non lo sapeva.
    “Bene, non sarò un falegname ma non ti aspetterai che resti seduta tutto il tempo a guardarti lavorare, sai? E ti prego, non dirmi che “non hai bisogno di niente” perché ti aiuterò lo stesso, che la cosa ti piaccia o no. Ci sarà qualcosa che posso fare o che puoi insegnarmi, imparo in fretta”. Si, era decisamente la sua Heloise, quella, testarda e determinata, sempre pronta a vivere le situazioni e non a guardarle dall’esterno. Non potè fare a meno di sorridere, Ivar, di fronte alla sua espressione decisa, nonostante facesse dannatamente male sapere che la donna che amava era lì, di fronte a lui, ma che ci fosse un muro invisibile e indistruttibile a dividerli. “Ok, mi prenderesti le viti nella cassetta?” Chiese, indicandogli la cassetta degli attrezzi rossa che era alle sue spalle. “Ce ne dovrebbero essere un paio di buste. Prendi quelle più lunghe”. Seguì i suoi movimenti, e avvertì una feroce stretta allo stomaco quando vide una delle pesanti tavole che erano appoggiate al muro inclinarsi pericolosamente e staccarsi dalla parete per iniziare a pendere nella direzione in cui si trovava Astrid. Si alzò di scatto, e corse verso di lei. “Attenta!” Gridò concitato, frapponendosi tra lei e la tavola e reggendola con entrambe le mani. Non era un peso troppo gravoso da reggere, ma beccarlo in testa sarebbe stato decisamente doloroso. E si trovò ad avere il suo viso a pochi centimetri di distanza, a respirare il suo profumo, mentre il suo respiro si spezzava di nuovo. Era dannatamente vicina, tanto che poteva percepirne il respiro sulla propria pelle. Si trovò con gli occhi puntati nei suoi, mentre il cuore batteva prepotentemente, tanto che forse lei avrebbe potuto sentirlo. Non seppe nemmeno quanto durò quel momento, prima che uno scricchiolio iniziasse a provenire dalla tavola. “Stai bene?” Chiese, leggermente affannato, voltandosi poi verso la tavola, che aveva iniziato ad annerire e in mezzo alla quale si era creata una profonda spaccatura. Guardò di nuovo lei, e indietreggiò di un passo, terrorizzato ora anche dal fatto che lei potesse ricordare, che la morte potesse divenire di nuovo il suo biglietto da visita. Distolse lo sguardo dal suo, e riappoggiò di nuovo la tavola al muro, assicurandosi che fosse stabile stavolta. “Ehm…tranquilla, ne ho fatte un paio in più”. Cercò di dire, constatando i danni. Cercava di riprendere il controllo del proprio corpo, il seminatore di morte, prima che le emozioni prendessero di nuovo il sopravvento. E si allontanò, ancora di più, fuggendo da quello sfiorato contatto che tanto lo aveva turbato. “Le viti..ehm..si, servono per questa”. Disse indicando tavole a caso. Voltò per un momento le spalle alla sua Heloise, mentre la stanza intorno a lui sembrava vorticare, mentre il suo cuore cercava di riprendere il suo regolare ritmo. Lei era come una tempesta, in grado di sconvolgerlo e stravolgerlo. In grado di scatenare le sue emozioni come elettroni impazziti in un atomo.

    Persino gli alberi piansero e si piegarono, quando udirono il pianto d’Orfeo che finita vedeva la sua vita senza Euridice. E lo seguirono con lo sguardo, gli dei, quando egli scese nel luogo in cui nessuno si era mai avventurato, per avere indietro ciò che restava di lei. Promise Orfeo, che mai si sarebbe voltato indietro nonostante la paura di perderla lo tentasse ogni volta. Non sentiva i suoi passi dietro di lui, il poeta dannato dall’amore, seguito da un’ombra che non poteva percepire. E si volse, cercando il suo sguardo che mai più vide. Scelse l’istinto, Orfeo, e la perse per sempre.
     
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    Il tempo si fermò, tutto tacque, ogni cosa si annullò. Ivar reggeva la tavola con entrambe le mani e il viso era dannatamente vicino al suo. Esistettero solo i suoi occhi, lo sguardo chiaro che scavò aggressivo nel suo, aprendosi un varco e giungendo laddove i ricordi erano stati chiusi in camere blindate e ormai abbandonate. Non tutte le porte potevano essere aperte, alcune possedevano ancora una chiave, sepolta da qualche parte. Altre, invece, erano destinate a restare chiuse per sempre, deteriorando le memorie imprigionate dietro di esse. Lo sguardo di Ivar, però, fu talmente impetuoso che riuscì a scardinare una porta con violenza, sfondandola, permettendo a ciò che era rinchiuso di liberarsi: non si trattò di immagini ma di emozioni, condensate in una nube che con prepotenza le annebbiò la mente, devastandola come una tempesta.
    Le sue iridi cristalline la paralizzarono, non ebbe la forza di sottrarsi al suo sguardo, neanche per un istante. Mentre Ivar riuscì, involontariamente, a raggiungere la parte di memoria ormai atrofizzata, lei non fu capace di addentrarsi in lui. Continuò a scavare, a ricercare qualche risposta. Perché con quel ragazzo era tutto così diverso? Perché ogni minimo gesto doveva scatenare una bufera, in lui, in lei o in entrambi? Riprese piano a respirare, lentamente, sentendosi sconvolta. La sua memoria era come un puzzle i cui pezzi erano andati alcuni perduti e la maggior parte distrutti. La sua anima vagava, da quando era a Besaid, in cerca di quei tasselli mancanti, certe volte persino pregando di trovarne qualcuno. In quel momento, che aveva il viso di Ivar così vicino al suo e i loro respiri mescolati, l’impatto aveva inserito con violenza un pezzo mancante, come un bambino spazientito che incastra i tasselli con forza, pur di farli combaciare.
    Le chiese se stesse bene e annuì una sola volta, appena. No che non stava bene. Per niente. Le emozioni liberate vagavano come pazze nel suo corpo, riprendendo le loro vecchie postazioni, quelle occupate quando viveva ancora a Besaid. Alcune di esse si annidarono nel cuore, ricordandogli un battito che aveva perso da tempo. Non erano più pulsazioni impazzite, ma ben calibrate, quasi come se fosse una macchina a cui erano appena stati rimontati degli ingranaggi importanti. Piano piano, quando ogni sensazione ebbe trovato il suo posto, anche lei parve calmarsi e recuperare la quiete. Così, d’un tratto, si sentì più completa.
    Ivar risistemò la tavola, preoccupandosi di renderla stabile e le diede le spalle, farfugliando qualcosa circa chiodi e assi. Inutile dire che non lo ascoltò. Si soffermò sul legno marcio e scuro che disegnava i contorni di un grande spacco. Con delicatezza, quasi come potesse far del male, accarezzò quel danno e seguì il contorno frastagliato della crepa. E, ancora, da quella camera la cui porta giaceva a terra, sfondata, uscì l’ultimo prigioniero: un ricordo. Era minuto come un bambino e portava con se una consapevolezza. La particolarità di Ivar era quella, condurre tutto ciò che toccava alla morte o a uno stato di cancrena avanzato. Ricordava. «Ivar..» nel momento esatto in cui mormorò il suo nome, seppe anche cosa fare: piano sfiorò il polso per fargli avvertire la sua presenza, poi la mano sgusciò senza alcun timore nella sua. A quel contatto il falegname sussultò, ritraendosi spaventato ma lei sapeva –già, sapeva- che avrebbe reagito così e intrecciò le dita con le sue. «Ivar, è tutto okay» sussurrò rendendo ancora più salda la presa, non mostrando la minima paura. Lo costrinse a voltarsi, incrociando il suo sguardo. Come se in lei si fosse sbloccato un organigramma sepolto da tempo, il gesto che seguì fu del tutto spontaneo.
    Posò la fronte sulla sua.
    «Sono qui» sussurrò come aveva sempre fatto quando era troppo spaventato da quel suo tocco, quando era necessario fargli capire che lo amava e che avrebbero affrontato insieme la sua paura. Non era stata Astrid a pronunciare tali parole ma Heloise, la sua Heloise, che quel grande impatto emotivo aveva risvegliato dal sonno in cui era caduta. Heloise riconobbe la criticità del momento, ne assunse il controllo e Astrid la lasciò fare. Sono qui, sono tornata. Per poco.
    Non si sentì in imbarazzo per quel gesto. Per lei era giusto, naturale, sensato. Nonostante Ivar fosse uno sconosciuto, lei sapeva che in quei casi doveva rassicurarlo e, in qualche modo, evitare che si sentisse un mostro. Per la prima volta non si pose alcuna domanda perché la risposta era chiara come il sole: lei gli aveva sempre stretto la mano. Nessun ricordo importante era stato sbloccato, nessuno che spiegasse chi fosse quel falegname, che valore avesse avuto per lei. Ma ricordava la loro dita intrecciate quando la sua particolarità prendeva il sopravvento.
    Aveva piena consapevolezza del suo corpo, non era stato un istinto estraneo a muoverlo. Le dita saldamente intrecciate con quelle di Ivar erano al posto giusto, così come era corretto lo sguardo determinato e dolce incastrato nel suo. Era tutto così normale, per la prima volta.
    E, secondo copione, avrebbe dovuto baciarlo. Quei momenti si concludevano sempre con un bacio, con un morbido contatto che spazzava via ogni paura, ogni preoccupazione, e riportava la quiete. Scattò uno scontro tra ragione e sentimento, il primo le ricordava che no, non poteva baciare uno sconosciuto, il secondo la rassicurava, dicendole che sarebbe stata la cosa più ovvia. Vinse la ragione, poiché niente ricordava di lui, e si scostò, indietreggiando di qualche passo, mantenendo la mano nella sua «Coraggio» disse ovattata. Non andò nel pallone, non si sentì a disagio. Sorrise e portò l’attenzione sulla tavola spaccata, il motore di tutto «Per i francesi questa è arte» ridacchiò, riferendosi allo squarcio «Oh là là, c’est magnifique, très très joli» imitò i critici d’arte francesi, mimando le loro espressioni estasiate, smielando quanto più possibile il tono di voce, tutto ciò per sdrammatizzare e distrarlo. Rise e sperò di far ridere anche lui. «Sei un vero artista Ivar» tornò a parlare norvegese ma calcando l’accento francese, interpretando ancora il buffo ruolo di critico. «Ma io vorrei la mia bellissima scala tortile, Signor Wesenlund, perciò torniamo a lavoro» smise di recitare ma non di ridere, mantenendo il tono scherzoso che voleva sia alleggerire la tensione sia infondergli coraggio e sicurezza. Liberò la sua mano e sospirò, contenta. Era serena, felice che un piccolo tassello fosse stato aggiunto al puzzle della memoria. Significava che non tutto era perduto, che poteva ancora sperare di ricordare.

    Era impaziente. Il cuore aveva iniziato a martellare da quando il bus aveva varcato il confine di Besaid e imboccava la strada principale. Era stato il suo viaggio più lungo, trascorrendo circa due settimane in Kenya, a Nanyuki, come collaboratrice nei centri per orfani. L’esperienza, come tutte le altre, era stata molto formativa e, pur vivendo in condizioni non proprio comode, splendida. Il contatto con i bambini, essere il motivo dei loro sorrisi, far parte di una cultura tanto diversa dalla sua, la riempiva di tanta gioia e soddisfazione. Si sentiva utile al mondo e questo bastava. Tuttavia doveva tornare, perché nessuna felicità poteva essere paragonata a quella che provava quando era con Ivar. Si mordicchiò il labbro inferiore, nervosa.
    Il bus si fermò, finalmente, e il conducente fu il primo ad uscire per aprire il portabagagli e gestire i passeggieri che, altrimenti, si sarebbero fiondati sulle proprie valige senza alcun ritegno. Ad Astrid non interessava il bagaglio. Scese dal pullman, il freddo norvegese la strinse in una morsa gelida che la costrinse a stringersi nel cappotto. Si guardò intorno. Tra i visi anonimi di parenti e amici in attesa dei loro cari, individuò la chioma castana rasata ai lati, gli occhi blu che scrutavano tra la folla, in cerca dei suoi. Sorrise radiosa, lui fece lo stesso quando i loro sguardi si incrociarono. Astrid scattò come una molla, gli corse incontro sicura che Ivar l’avrebbe stretta tra le braccia e sollevata da terra, compiendo un mezzo giro su se stesso. E così fu. Si strinse al falegname e lo baciò, un bacio morbido e infinito. Si scostò solo per respirare. «Sono qui» sussurrò contro le sue labbra, senza mai smettere di sorridere. Lo diceva ogni volta che tornava, sia per decretare la fine di quell’attesa, sia per comunicargli che era sempre la sua Heloise, che non aveva dimenticato niente. Lui era impresso nel suo cuore. «Ciao Heloise» mormorò Ivar, sorridendo a sua volta. «La tua barba non è cresciuta neanche un po’» ridacchiò lei, strofinando la punta dei loro nasi e baciandolo ancora. «Oh ma non preoccuparti per me, tesoro» proruppe la voce di Marcus che si avvicinò, trascinando la valigia. «Come sto? Benissimo, grazie per averlo chiesto. Smettila di abbracciarmi, non respiro» ironizzò, un po’ geloso, dato che la sua lenticchia lo aveva totalmente ignorato per correre tra le braccia di Ivar, che la coccolava, mentre a lui era toccato il compiuto più infausto, recuperare il bagaglio sgomitando nella calca. Ma Marcus era un uomo saggio e accettò la sconfitta: ormai era Ivar l’uomo che occupava il posto d’onore nel suo cuore. Sospirò esasperato. Ah, i giovani e l’amore! «Riporto la valigia a casa, non fare tardi, signorinella» squadrò il falegname «E tu, le mani in tasca, devo ancora capire se mi stai simpatico o meno» pur scherzando, il tono fu severo. Era un amicone, si, ma aveva promesso a sua moglie che li avrebbe tenuti d’occhio. Certo non voleva diventare nonno, ecco.
    Marcus si allontanò, Ivar allentò la presa ed Heloise toccò nuovamente terra. «Devo raccontarti un mucchio di cose» esclamò lei, eccitata. «Intanto c’era un bambino troppo carino, lui..» e iniziò a raccontare ogni cosa, descrivere i luoghi che aveva visto, le persone incontrate e conosciute. Strinse la sua mano e si incamminarono, ridendo e chiacchierando. Non importava dove fossero diretti, se a casa, in falegnameria o in una caffetteria. Qualsiasi posto sarebbe stato perfetto. Erano insieme.


    Ivar montò i montanti, poi le mensole e Astrid non lo lasciò solo neanche per un secondo. Sempre al suo fianco, cercava di aiutarlo in ogni modo. Abituata ad affiancare i medici in sala operatoria, sembrava proprio un’infermiera insieme al chirurgo: lui le chiedeva di passargli qualche strumento o di recuperare un sacchetto di viti e lei eseguiva, scattando come un soldatino. Tutto quel lavoro fu poi accompagnato da tante chiacchiere, leggere, allegre, spensierate. Il ghiaccio era rotto del tutto, Astrid era a proprio agio con quel ragazzo che, ormai, sconosciuto non poteva più definirlo. Certo, non sapeva niente del suo passato, dei suoi gusti, della sua famiglia, eppure quel ricordo sbloccato aveva unito il cuore al suo. Si sentiva legata a lui e, per la prima volta, non si chiese il perché. Sapeva che poteva fidarsi, che, in qualche modo, erano stati uniti da chissà quale legame. Ed era bello. Era dannatamente bello.
    E poi, purtroppo per Henrik, lo trovava così affascinante. Proprio non poteva far a meno di pensare a quanto fossero stupendi i suoi occhi malinconici, non poteva impedire alle gote di acquistare colore quando lo sguardo incrociava il suo, chiaro e penetrante.
    Non sapeva fino a che punto Ivar la conoscesse, per questo Astrid raccontò ciò che le era capitato in quei due anni lontana da Besaid, eventi che di sicuro il falegname ignorava. Parlò di Londra, di quanto piovosa e grigia fosse. Preferiva di gran lunga Parigi e ne spiegò anche i motivi: molto più romantica, poetica, il luogo adatto per i sognatori. Sostenne la sua tesi con sano patriottismo, poiché reputava la Francia la sua vera casa. Ma non era sempre stato così: un tempo, casa, erano le braccia di Ivar.
    Finalmente arrivò il momento di montare la scala tortile. Il giovane ebbe qualche difficoltà nel sollevarla Ivar non mi morire, te prego e Astrid si preoccupò abbastanza, seguendo ogni suo movimento, anche se poco avrebbe potuto fare con il suo esile corpicino. Dopo parecchi sforzi e una buona mezz’ora, la scala fu agganciata e la libreria finita. La francese indietreggiò per osservarla nella sua completezza e splendore. Gli occhi si sgranarono per l’entusiasmo e i muscoli del viso si rilassarono in un’espressione rapita «Magnifica» commentò incantata «Ivar è bellissima, sembra.. è.. come un gigantesco baobab» ridacchiò. «Conosci i baobab, no? Aspetta..» raggiunse un piccolo comodino ad angolo e, aprendo un cassetto, recuperò un foglio bianco e una penna.
    Invitò Ivar a raggiungerla mentre sedeva per terra –dato che il tavolo doveva ancora essere montato- . Lo guardò quando le fu accanto, accovacciato proprio come lei. «Proverò a disegnartelo» sembrava volesse aggiungere un “non ridere” ma abbassò lo sguardo sul foglio e iniziò a disegnare. Ciò che riuscì a produrre fu una storpiatura. Un debito. Il bel tronco del baobab divenne una sorta di palla quadrata e i suoi rami possenti e massici sembravano dei tentacoli. Era una patata con i tentacoli. Ma ci disegnò le foglioline, quindi ok, poteva passare per un albero. Ivar scoppiò a ridere e lei dovette mordersi l’interno delle guance per non fare lo stesso. «Questo è un baobab, cioè, non proprio» parlò ma il falegname era troppo impegnato a non soffocare. «Dai, smettila, dai!» rise anche lei e, non contenta, disegnò accanto al baobab un elefante. O meglio… ciò che ricordava lontanamente un quadrupede. Aveva le zampe rettangolari e un corpo squadrato, fin troppo curvo. La proboscide pareva il tubo di un’aspirapolvere. Ivar rise, sempre più forte «Non è carino ridere così di una ragazza, Ivar» ma rise anche lei. Qualcuno sembrava aver riavvolto il nastro, aver restituito al tempo Heloise ed Ivar, quei due giovani innamorati complici e migliori amici. «Beh, disegna tu un elefante, Signor Picasso» rimbeccò divertita, per niente offesa, porgendogli la penna e il foglio. Ivar ebbe qualche difficoltà a concentrarsi, troppo distratto a piangere per il disegno terribile di lei. Nonostante fosse distratto, l’elefante che riprodusse fu quasi perfetto, molto verosimile e ben proporzionato. Astrid dischiuse le labbra in una finta espressione oltraggiata «Non noto alcuna differenza tra il mio e il tuo disegno» e risero ancora come due bambini. «D’accordo Monet, ora ti becchi il tuo ritratto in bottega» sentenziò, riprendendo la penna e iniziando a disegnare. Ciò che ne venne fuori… beh… come spiegarlo? La bottega era un quadrato con una porta rettangolare. In questo rettangolo un omino stilizzato, Ivar, con in testa una sorta di corona che in realtà avrebbe dovuto rappresentare la sua chioma castana rasata ai lati. Accanto al quadrato-bottega, un ulteriore rettangolo, alto e grande uguale, con una sorta di arco nel centro e tanti piccoli omini stilizzati a metà: la vetrina della falegnameria. Dato che tutto non era molto ben chiaro, Astrid ebbe la pensata di scrivere “bottega”, “vetrina”, “sculture” in corrispondenza di ogni cosa. Ivar rideva, rideva fino a sentirsi male e Astrid con lui.
    Nel mentre anche piccole lacrime solcavano la sue pelle chiara, l’attenzione della francese cadde sull’avambraccio sinistro di Ivar. Forse il falegname non si era reso conto che, istintivamente, aveva rimboccato le maniche della felpa. Forse era un altro scherzo del destino. Forse il deus ex machina giocava sul serio con le loro vite. Un tatuaggio. Una s impressa con l’inchiostro, sotto una punta nera e bianca. Un punto cardinale, il sud. Astrid smise di ridere, spiazzata. Senza neanche chiedere il permesso, scostò maggiormente la manica, scoprendo l’est e l’ovest. Una rosa dei venti. «Tu.. tu..» il cuore iniziò a battere come un matto. Avrebbe finalmente risolto il mistero? Si sentiva emozionata, scossa e impaurita allo stesso tempo. Ivar.. era così pieno di sorprese per lei. Era eccitata come un matematico vicino alla soluzione di un problema impossibile, come un esploratore che scopre Atlantide. «Guarda» si girò di tre quarti, indicando il suo omero sinistro, la sua rosa dei venti, resa più graziosa da due fiori incastrati tra le punte. «Tu sai cosa significa?» tornò composta, guardandolo con occhi ricolmi di speranza. Pregò che la risposta fosse affermativa, che Ivar potesse fare un po’ di chiarezza e dare un senso a quel tatuaggio. « Io ho dimenticato. Eppure sono convinta che abbia una sua storia, una sua importanza. Per favore, se sai qualcosa, qualsiasi cosa, dimmelo. Ti prego» non sganciò lo sguardo dal suo, non vacillò nemmeno per un secondo. Il tono era fermo, la sua espressione determinata. Un tempo, le loro anime, i loro corpi e i loro cuori si erano appartenuti, quei due tatuaggi ne erano la conferma, anche se Astrid non lo capiva. E, proprio come indelebili erano le due rose dei venti, indelebile sarebbe stato per sempre il loro amore.
     
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    | IVAR WESENLUND | 24 Y.O | Astrid's House
    Giocava il tempo, portava indietro tutto compiendo il suo malsano circolo. E si arrestava, d’improvviso, donando dei fermo immagine di quella che era stata l’esistenza di ciascuno. Sembrava essersi fermato, il tempo che troppo repentino correva, in quel momento. Avrebbe voluto potesse fermarsi più a lungo, Ivar, avere la possibilità di perdersi più a lungo nello sguardo della sua Heloise. Avrebbe voluto stringerla a sé e cancellare quel bagliore di paura che velava il suo sguardo. Avrebbe voluto ricostruire i suoi ricordi, inserendo i tasselli uno ad uno, come un mosaicista esperto, e ricrearne il disegno completo. Avrebbe voluto abbattere quel muro invisibile che li teneva separati, nonostante l’estrema vicinanza. Avrebbe voluto più tempo, Ivar, con la sua Heloise. Avrebbe voluto il per sempre, il lieto fine. Il tempo poteva fermarsi, ma non poteva mutare. Non poteva concedere loro ciò che avevano perduto, per una scelta sbagliata, in quella dolorosa partita a carte giocata contro il destino. C’erano Ivar ed Heloise, in quel momento, sospesi nel tempo, per un solo, effimero, istante.

    ”Negli occhi tuoi il mio viso, il tuo nei miei, mostrano cuori semplici e sinceri. Dove li trovi due emisferi senza ovest declinante o freddo nord? Sol muore ciò che inegualmente è commisto. Ma se i nostri due amori sono uno, o noi ci amiamo in modo tale che nessun sia da meno, mai morranno.”

    Alcune storie parlavano di amori che riuscivano ad oltrepassare ogni confine, di amanti che riuscivano a riunirsi, vincendo persino la morte. Altre storie invece finivano tragicamente, come quella d’Orfeo, che per uno stupido errore aveva perso per sempre l’amore della sua vita. Non sapeva quale sarebbe stato il finale di quella storia, Ivar. Forse lo avrebbero scritto loro, forse l’avrebbero lasciato scrivere al destino. O forse quella storia era già finita, quel giorno al confine di Besaid, quando il falegname aveva deciso di perdere per sempre la parte più bella della sua vita. Forse era stato quello il loro finale, troppo tronco e doloroso per essere accettato. Fuggì, Ivar, da quei suoi occhi inchiodati nei suoi, dalle domande che si portavano dietro. Riuscivano a incatenarlo, quei quesiti taciuti, a tenerlo lì con la sua Heloise, così come Orfeo avrebbe voluto rimanere negli inferi insieme alla sua Euridice, se fosse stato possibile. Lo sguardo corse alla tavola che aveva appena semidistrutto, e allo sguardo di lei, alla ricerca di una reazione da poter prevedere. Si discostò da lei e indietreggiò, volgendo lo sguardo altrove e cercando di far rientrare sotto il proprio controllo l’assurda capacità che per troppo tempo l’aveva costretto a contenere le emozioni. Ma non sarebbe potuto fuggire per sempre, non da lei, non da quello sguardo piantato nel suo. Non da quella mano che gli sfiorò il polso e si serrò sulla sua. “Ivar”. Il suo cuore accelerò di colpo nel sentirle pronunciare quel nome con tanta dolcezza. La dolcezza che solo la sua Heloise sapeva riservargli. Una dolcezza che aveva dimenticato. Per un istante, tornarono indietro. Nemmeno seppe come ciò fu possibile. Seppe solo che cercò di divincolarsi da quella presa, di fuggire da lei per non farle del male, come sempre faceva quando perdeva il controllo. L’aveva sempre sfidata, lei, quella sua particolarità, lo aveva sempre spinto oltre il limite. E lui l’aveva superato, ogni volta, per preservare ciò che di più amava al mondo. Lo respinse, con tutte le sue forze, quel recondito desiderio di distruggere ogni cosa. Scemò, semplicemente, quando le dita di lei si intrecciarono alle sue e la stanza intorno a loro scomparve.

    Sono qui”. Sussurrò lei, guardandolo negli occhi. “Sarò con te, sempre, e tornerò da te, sempre.” Disse lei con tono calmo e dolce, mentre le sue mani erano ancora scosse da tremiti incontrollati. Aveva paura, Ivar, di ciò che era. Aveva paura del suo essere un mostro, in grado di uccidere con un solo tocco, come la gorgone faceva con lo sguardo. Ed ogni volta che accadeva, ogni volta che quelle emozioni represse si liberavano, riusciva quasi a guardarsi dall’esterno, a percepire il suo corpo e la sua capacità muoversi senza poter fare nulla per fermarsi. Era terrificante perdere il controllo di ciò che nemmeno lui conosceva a fondo. Era straziante, vivere ogni giorno con la paura di poter far del male alle persone che amava. Non aveva paura, l’incosciente Heloise. Non lo vedeva per il mostro che era. Forse la ragazza era fastidiosamente impietosita dal suo essere dannatamente fragile. Forse non comprendeva a pieno ciò che rischiava. Ma lei c’era, sempre. Non importava chi avesse torto o ragione, durante una lite. Non importava se il mondo intorno a loro stesse crollando. Ed aveva paura Ivar, non solo di farle del male, ma anche di farsi del male. Che sarebbe accaduto, se un giorno, lei non ci fosse stata? Se avessero preso strade diverse, se avesse di nuovo perso il controllo? Nemmeno pensava a quella ipotesi, in quel momento, eppure era consapevole che non esistevano promesse impossibili da rompere. Era consapevole che lei era l’unica che avrebbe potuto tenere stretta la sua mano senza avere paura. Sfilò le dita dalla sua stretta, morbidamente, lasciando scivolare le mani lungo la sua schiena e stringendola in un abbraccio. “Lo so.” Sussurrò semplicemente, cingendo la sua vita esile, e poggiando la guancia contro i suoi capelli che sapevano di balsamo alla fragola e rosa canina. Si sentiva a casa, stretto tra le braccia di lei. Sarebbero state la sua casa, le braccia di Ivar. Ancora per un po’.

    “Sono qui”. Fu come se, per un istante, lei fosse davvero lì. Come se il tempo fosse tornato indietro, come se la sua Heloise fosse tornata, per uno strano gioco del destino, tra le sue braccia. Poggiò la fronte sulla sua, lei, come se quello fosse il gesto più naturale del mondo. Si irrigidì, il giovane falegname, perché sapeva che non era realmente così. Era una tortura indicibile, quella improvvisa vicinanza destinata a svanire. Era ciò che più voleva e ciò che, razionalmente, gli faceva più male. Non reagì, Ivar, la lasciò fare, tentò di godersi quell’istante, quello splendido deja vù che il tempo, compiendo cerchi irrazionali, sembrava avergli voluto regalare. Chiuse gli occhi, per un istante, sospirando, lasciando che il battito del suo cuore riprendesse il suo regolare ritmo. Durò troppo poco, forse, ma fu bello. Si distaccò leggermente, senza azzardare movimenti repentini, e sfiorò la guancia liscia di lei, con la mano libera, fino al collo, riaprendo gli occhi. “Coraggio” Disse lei, guardandolo negli occhi e allontanandosi da lui mantenendo il contatto. Come poteva avere coraggio, di fronte a tutto ciò? Non erano solo i ricordi di Astrid ad essere andati in pezzi. Si era spezzato, irreparabilmente, anche il suo cuore insieme ad essi. E qualsiasi cosa fosse accaduta, in quella stanza, nulla sarebbe tornato indietro per più di pochi effimeri istanti. Fu questa consapevolezza, forse, a impedirgli di sorridere di rimando, e a permettergli di lasciare la sua mano senza nemmeno accorgersene. Avrebbe voluto fosse per sempre. Avrebbe voluto la sua Heloise indietro. Non era la stessa cosa, quella. Non era che un illusione. Una splendida illusione in grado di portarlo alla pazzia, come la voce delle sirene per lo sventurato Ulisse. E lei provò a sdrammatizzare, probabilmente scorgendo quella malinconia nei suoi occhi. Lo faceva sempre, lei. Riusciva a trovare la bellezza in ogni cosa, qualcosa per cui poter lottare o sorridere. Aveva questo dono, lei, oltre a quello che Besaid le aveva affidato.

    “Per i francesi questa è arte. Oh là là, c’est magnifique, très très joli. Sei un vero artista Ivar” Abbozzò un sorriso, anche se non riuscì a trovarlo divertente quanto lei. Era ancora troppo scosso da ciò che era appena accaduto, troppo sconvolto da quel contatto, dalla miriade di ricordi che aveva risvegliato, dalle sensazioni che gli aveva trasmesso. Ma fu grato ad Astrid per non avergli fatto pesare la cosa, per non aver insistito, per non aver fatto domande a cui, probabilmente, non avrebbe saputo cosa rispondere. “Ma io vorrei la mia bellissima scala tortile, Signor Wesenlund, perciò torniamo a lavoro”. “Oh, si, certo!” Rispose, quasi riscuotendosi, rendendosi di nuovo conto di essere rimasto imbambolato. Quasi si era dimenticato della scala. Ed era lì per quello, fondamentalmente. Batté le mani, senza un reale motivo, e si voltò verso i pezzi che ancora attendevano di essere montati. Non ci misero molto. Astrid lo assisteva, gli passava gli attrezzi, mentre lui disponeva prima i montanti e poi ci montava le mensole. Era bello, lavorare insieme a lei. Era bello stare con lei, nonostante fosse dannatamente straziante pensare che quegli istanti sarebbero stati destinati a rimanere un unicum. Si sciolse, la tensione che aveva provato poco prima. Il sorriso di lei riusciva a farlo sentire a casa, anche se non era più tra le sue braccia. Ebbe qualche difficoltà a sollevare la scala, e si chiese come avessero fatto, i due turisti, a trasportarla con tanta facilità. Alla fine però, riuscì ad accostarla abbastanza da poterla ancorare al resto della libreria. Gli piaceva, l’effetto che dava. Sembrava un po’ la scala di un castello, in cui la bella Heloise- i cui ricordi erano addormentati- avrebbe potuto trascorrere le sue giornate, cullando quei sogni che, nonostante l’amnesia, non aveva mai abbandonato. Indietreggiò di qualche passo, guardando l’opera soddisfatto. Era qualcosa che avevano costruito insieme, e ciò la rendeva ancora più bella. “Che dici, ti piace?” Chiese, volgendosi verso di lei. “Magnifica” Ribattè lei. “Ivar è bellissima, sembra.. è.. come un gigantesco baobab. Conosci i baobab, no? Aspetta.” Ivar rimase perplesso, cercando di capire se le piacesse davvero. Che cacchio c’era di bello nei baobab? La vide correre e prendere un blocchetto. Che voleva fare, disegnare? Aveva imparato? No, perché forse Astrid aveva dimenticato i propri disegni, ma Ivar no, ed era sicuro che in quel caso, sicuramente, sarebbe riuscito a mancare di tatto.
    “Proverò a disegnartelo”. Ecco. “No ti prego, lo so com’è fatto un baobab!” Insomma, forse non ne aveva mai visto uno dal vivo, ma i documentari c’erano anche in Norvegia! Ma Astrid nemmeno lo ascoltò, e prese a disegnare una specie di palla con dei tentacoli. Ivar serrò le labbra, per non ridere. Insomma, non sarebbe stato carino. Con la vecchia Heloise era in confidenza, ma la persona che aveva davanti era diversa. Ma quando lei si mise d’impegno, a disegnare quelle che sembravano essere foglie, scoppiò a ridere. Adorava i suoi disegni storpi. Adorava il broncio che si dipingeva sul suo viso quando non otteneva il risultato che voleva. “Questo è un baobab, cioè, non proprio. Dai, smettila, dai!” Uguale” Disse, poi mordendosi un labbro per cercare di non ridere. Ovviamente, non ci riuscì. “Scusa è…” continuava a ridere. “I rami…” Farfugliava cose a caso, cercando di rimediare alla propria mancanza di tatto. Non ci riusciva. Astrid, palesemente piccata da ciò, disegnò pure un animale non ben identificato vicino al pallone coi tentacoli. “Non è carino ridere così di una ragazza, Ivar”. “Lo so”. Rise pure lei, mentre il falegname si asciugava le lacrime. “Beh, disegna tu un elefante, Signor Picasso”. Ah ecco che animale era. Avrebbe dovuto riconoscere la proboscide in quella specie di onda. “Ah era un elefante?” Commentò con la voce strozzata dalle risate, mentre in ginocchio per terra accanto a lei, tentava di riprendere fiato. Quando Ivar crashava, lo faceva in grande stile. Impugnò la matita, ma nemmeno riusciva a guardare il foglio su cui Astrid continuava a disegnare cose. Ciò che lei sbagliava era il voler aggiungere dettagli futili e focalizzarsi su di essi. Bastavano poche semplici linee per definire una figura. E un elefante stilizzato non era poi così difficile da disegnare, se si avevano a mente le caratteristiche principali. Certo, continuare a ridere mentre lo faceva non rendeva le cose facili. “Non noto alcuna differenza tra il mio e il tuo disegno.” Disse lei, fingendosi imbronciata. “No, ma infatti..” Stava avendo più o meno la stessa reazione che aveva avuto col nano di Larsen. Ivar doveva avere seri problemi con i disegni.

    Ma cos’è?” Ivar rideva a crepapelle, mentre Astrid si cimentava per l’ennesima volta nel disegno. “Dai, che voglio disegnare il mio tatuaggio”. Rispose lei, leggermente imbronciata. Ci era quasi riuscita, in effetti. Almeno la rosa dei venti assomigliava all’originale, nonostante fosse tutta storta. Il problema erano le foglie e i fiori che aveva tentato di disegnarci intorno, che sembravano un groviglio di peli(?) con degli insetti neri in mezzo. Ed era quel dettaglio che stava impedendo ad Ivar di respirare. “Vuoi davvero tatuarti quella cosa? Guarda che è indelebile”. Astrid rideva con lui, eppure sembrava dannatamente in disappunto. Mollò la matita sul tavolo e incrociò le braccia. “Aspetta, facciamolo insieme dai. Riprendi la matita”. Disse smettendo di ridere e sorridendole dolcemente. La ragazza non si oppose. Mise la mano intorno a quella con cui lei reggeva la matita, e la strinse delicatamente. “Ok, adesso reggi la matita, ma lascia il polso morbido”. Si fidavano, l’uno dell’altra. Non era difficile abbandonarsi a ciò. Guidò la sua mano lungo quel foglio, lasciando che disegnasse due linee dritte, la prima dall’alto verso il basso, la seconda da sinistra verso destra, creando una croce perfetta. Disegnarono poi le altre linee tangenti, che avrebbero rappresentato gli incroci di direzione, il cerchio intorno, alcuni fiori appena abbozzati. Astrid si lasciava guidare da lui, sorrideva. “Ora prova a rendere il chiaroscuro ai fiori. Bastano poche linee tratteggiate, ai margini, senza però mai toccare le linee di contorno. E’ questo il segreto per dare l’effetto del volume, la luce.” Sussurrò, lasciando la sua mano e lasciandola continuare da sola. Nel frattempo però, per non renderle il lavoro troppo facile, iniziò a dargli baci lungo il collo, scendendo da dietro l’orecchio, più in basso. Astrid si ritrasse, ridacchiando. Amava il suo modo di arricciare il naso quando le faceva il solletico. “E dai, smettila, come faccio a disegnare così?” Polemizzò lei. “Ah, non lo so guarda…” Sussurrò lui, ridendo, per poi continuare a cercare di distrarla. Probabilmente non sarebbero mai riusciti a disegnare un tatuaggio decente. Ma non importava. Ciò che era impresso nel loro cuore non poteva essere espresso da un semplice disegno

    Astrid continuò a disegnare, stavolta cimentandosi in un suo ritratto in bottega, con tanto di bottega ovviamente, vetrina e sculture. Si, gli omini più o meno somigliavano agli ex voto a figura umana stilizzata dell’età arcaica archeomoment. Ivar continuava a ridere di gusto. “Basta non respiro aiuto” Cercò di dire. Probabilmente a breve Astrid avrebbe dovuto rianimarlo, perché sarebbe andato in iperventilazione. “Ma che cosa ho in testa? Una corona?” Continuò a ridere, insieme a lei. Era come essere tornati indietro. Erano lui ed Heloise, ancora una volta.

    Il suo sguardo però mutò, improvvisamente. Smise di ridere, lei, mentre lo sconforto iniziava a pervadere il suo sguardo. “Tu.. tu.” Prese il suo braccio e gli tirò su la manica. Prima ancora che potesse parlare, capì dove sarebbe arrivata. La rosa dei venti. “Guarda”. Si scoprì la spalla, mostrando quel tatuaggio che avevano disegnato insieme, e a cui insieme avevano dato un significato. “Tu sai cosa significa?” Non era una domanda, quella, era una richiesta di aiuto. L’appello disperato dell’amore della sua vita che, invano, cercava di rimettere insieme i pezzi. “Io ho dimenticato. Eppure sono convinta che abbia una sua storia, una sua importanza. Per favore, se sai qualcosa, qualsiasi cosa, dimmelo. Ti prego.” Gli si strinse lo stomaco a quelle sue parole. Non poteva sottrarsi a quello. Non poteva fuggire stavolta. Non poteva fuggire a quel suo sguardo indagatore. Non poteva fuggire da nessuna parte. Tutto si giocava, ora, nel calibrare bene le parole. “Si, lo so”. Ammise, sospirando e abbassando lo sguardo. Si avvicinò a lei, e posò un dito sulla sua spalla, percorrendo delicatamente le linee di quel tatuaggio. “Lo abbiamo disegnato insieme.” Lasciò quell’allusione sospesa. Poteva significare tante cose. Che erano stati amici, o amanti, o che semplicemente si erano conosciuti in un determinato momento della loro vita. Erano stati tutte queste cose, loro, ma questo lei non poteva saperlo. “A nord c’è il gelido mare che porta alle distese di ghiaccio, il freddo. A sud ci sono l’Europa, la tua Francia, e poi l’Africa. Il calore.” Continuò, lasciando che il suo tocco seguisse la linea verso il basso. “A ovest c’è il mare sconfinato, l’ignoto. A est c’è la terra ferma, la stabilità.” Il suo dito scorse leggero, prima a sinistra e poi a destra. “La rosa dei venti serve a questo, ad orientarci in mezzo al caos quando perdiamo la direzione, a portarci a casa, anche quando il vento condurrà le nostre vele verso orizzonti lontani.” Concluse, interrompendo quel contatto. Sorrise, mestamente, tornando a guardarla negli occhi. “A quanto pare ha funzionato. Sei tornata a casa”. Era così. Forse era solo una sua fantasia, quella. Eppure, nonostante tutto, lei era tornata nel luogo da cui era partita. Era tornata diversa, spezzata, la sua casa non era più tra le sue braccia. Eppure, se il destino l’aveva riportata lì era perché, forse, un giorno lei avrebbe trovato il suo posto nel mondo. “Ora c’è una cosa che io devo chiedere a te. Io ti conosco, lo sai. Ma non chiedermi come, non chiedermi quanto”. Non chiedermi se ti ho mai amato. Non chiedermi se ti amo ancora. Concluse mentalmente. Avrebbe potuto farlo, in fondo. Avrebbe semplicemente dovuto smettere di porsi domande. Sarebbe stato più facile per lei, lo sarebbe stato per entrambi. Faceva male, dannatamente, chiederle quello. Faceva male precludersi di nuovo la possibilità di sbilanciarsi. Faceva male imporsi di non amarla, quando i suoi occhi non facevano altro che cercare il suo sguardo, le sue mani quelle di lei, le sue labbra il suo sapore.
     
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    Erano ormai venti minuti che fissava lo spartito senza realmente studiarlo o riprodurre alcun suono, senza seguire le note che componevano una melodia di Yann Tiersen, “Comptine d’un autre-été”. Le dita sottili e affusolate posavano sui tasti bianchi ma nessuno veniva pigiato. Era assorta, Astrid, e malinconica. Ormai da giorni fingeva che andasse tutto bene, quando era con Ivar, per non farlo preoccupare, ma la realtà era ben diversa: tutto stava precipitando. Suo padre aveva avuto il primo ictus e, dopo essersi ripreso e tornato a casa, le aveva posto una richiesta assurda, inconcepibile. Lasciare tutto. Abbandonare ogni cosa, lui, Besaid. Ivar. Lottava, Heloise, contro quel pensiero e sembrava di remare controcorrente poiché, lo sapeva, tutto era ormai deciso. Toccava a lei l’infausto ruolo di parlarne con Ivar, di spiegargli come realmente stessero le cose. E non riusciva ad accettare niente di quel presente che si era ritrovata a vivere senza neanche rendersene conto e avrebbe lottato fin quando non ci sarebbero state più alternative. Un rumore la destò, facendola sussultare. Marcus ridacchio «Dannata sedia a rotelle. Avrei preferito un bel monopattino, sei d’accordo lenticchia?» scherzò bofonchiando, sempre pronto a sdrammatizzare per cercare di distrarla. Astrid non rispose, abbassando lo sguardo e suo padre la raggiunse urtando qualche mobile. Era ancora molto impacciato con la sua nuova migliore amica. «Comptine d’un autre-été» lesse «Mi piace, un sacco. Perché non suoni un po’?» propose sorridendo. Astrid scosse il capo «In realtà ho appena smesso» mentì atona. L’uomo sospirò e lei incrociò il suo sguardo, animata da una improvvisa decisione. Non costava niente tentare ancora di dissuaderlo, di convincerlo a farla restare e che le sue idee fossero totalmente sbagliate. «Papà» «Ne hai parlato con Ivar?» brecciò lui, severo. «No, ascolta, io» «Ti avevo chiesto di farlo, Astrid» continuò ad interromperla, capendo le sue intenzioni e stroncandole sul nascere. «Papà, ti prego. Ascoltami» sussurrò prendendogli le mani «Non voglio lasciarti solo, voglio starti vicino, voglio aiutarti. Sei mio padre, come posso abbandonarti? E Ivar.. lui è tutto ciò che voglio. Mi rende felice, lo amo da impazzire. È tutto il mio mondo, non posso.. non posso rinunciare a lui. » «Lo capisco, Astrid, ma io sto morendo» Astrid gli lasciò la mani e scosse appena il capo «Questa è la realtà, smettila di combatterla. Quando morirò, tu crollerai» «No» biascicò non accettando neanche una di quelle parole. «Sono dodici anni che non permetti a nessuno di farti chiamare Heloise» continuò lui mentre Astrid si alzò di scatto, fuggendo da quel discorso. «Non hai ancora accettato la morte di mamma, come potresti sopportare la mia» «Con Ivar» sbottò lei, disperata, indossando il cappotto. «Astrid, devi dimenticare. Devi evitare un dolore che ti distruggerà. Non sei abbastanza forte per questo» «No infatti. Non sono forte per accettare ciò che accadrà, non da sola. Ho Ivar. È lui la mia forza, papà, e non puoi chiedermi di rinunciare, di andare via. Mi dispiace. Che la cosa ti piaccia o no, scelgo l’amore. Scelgo lui» alcune lacrime le rigavano il viso quando aprì la porta di casa e uscì.

    Qualcuno potrebbe affermare che dimenticare sia più semplice. Eppure, Astrid, provava la stessa sofferenza di Ivar, ma di matrice differente. Dopotutto cosa siamo noi, se non un groviglio di ricordi? Essi sono la nostra essenza, la nostra storia. Ognuno è uno scrigno di memorie e la bellezza sta nel poter mostrare a chi si vuole il proprio contenuto. Siamo stupendi per tutto ciò che abbiamo fatto. Per le nostre scelte, per i nostri errori. Per chi abbiamo amato, odiato, abbandonato, aiutato. Per i luoghi e persone che abbiamo conosciuto, per ciò che abbiamo imparato. Astrid aveva perso la memoria e, con essa, la capacità di raccontarsi. Non avere più un passato significava non aver più neanche un’identità. Che cosa era, lei? Ignoto. Confusione. Da quando era a Besaid, il suo riflesso non le comunicava più niente. Nello specchio c’era una ragazza dai capelli rossi e le gote spruzzate di lentiggini, le labbra stirate in un dolce sorriso per nascondere tutta la sofferenza che provava.
    Se per Ivar doveva essere frustrante non essere ricordato, per lei era doloroso perdersi nel suo sguardo, accusare un batticuore e non capire. Non poter ricordare. Quante altre volte, i due, erano stati insieme? Quale sentimento legava i loro cuori che parevano essere fatti della stessa sostanza? Avrebbe voluto trovare una risposta a tutto ciò, sia per aiutarsi che per aiutare quel ragazzo a star meglio. Tuttavia, per quanto si sforzasse, continuava a brancolare nel buio. Si sentiva persa, incompresa, come Polifemo accecato che urla il nome di “nessuno”. I ricordi schiacciavano Ivar, così come l’oblio schiacciava Astrid.
    «Lo abbiamo disegnato insieme» disse lui. Quel dolore scemò e fu pervasa dal benessere. Era lui, l’incognita. Per due anni, ogni giorno, osservava il tatuaggio con insistenza, quasi si aspettasse che potesse leggere le sua storia sulla propria pelle. Invece erano sempre linee nere e mute, fredde, e sembravano farsi beffe di lei e della sua amnesia. Si, era come se il destino avesse voluto marchiarla a vita e punirla per aver abbandonato Besaid. Ora, finalmente, quando avrebbe guardato la rosa dei venti, non ci sarebbe stato più l’ignoto ma il viso di Ivar, i suoi occhi blu, il suo sorriso luminoso. E avrebbe potuto immaginarli, mentre disegnavano il tatuaggio, insieme, magari a casa sua o in un bar, ridendo e scherzando. Non le importava granché cosa fossero stati e perché avessero deciso di tatuarsi lo stesso simbolo. Ciò che più contava è che almeno quella piccola tortura fosse finita. Enigma era risolto. Ascoltò rapita la spiegazione del falegname, ringraziandolo tacitamente per ogni parola. Le tenebre avevano smesso di stritolarla, poteva respirare per un secondo. Il cuore si rilassò un poco e si abbandonò a un profondo sospiro, causato anche da una strana sensazione provata al tocco del ragazzo. L’indice che piano sfiorava quei contorni le increspava la pelle e le infondeva una sensazione di benessere. Desiderò che quel momento non cessasse mai.
    Così non fu, ovvio, e Astrid dovette tornare a far i conti con la realtà. Per un attimo le era sembrato di star bene, di non aver mai dimenticato, di essere sempre stata a Besaid. «A quanto pare ha funzionato. Sei tornata a casa» furono queste esatte parole a colpirla come una lama affilata. I suoi occhi si gonfiarono di lacrime e abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore. Il dolore c’era, non era scomparso e Ivar aveva torto. Astrid non era casa, non lo sarebbe mai stata finché tutto quanto continuava a risultarle anonimo. Di certo aveva solo il suo lavoro, i colleghi, le persone nuove che aveva conosciuto in quei mesi. Ma le strade, le case, i volti di chi la studiava, riconoscendola, erano sempre pronti a ricordarle che aveva perso se stessa e ogni cosa. Che cosa era, Astrid, se non un involucro vuoto? Aveva perso il suo valore e la via. Non era a casa, era persa in chissà quale dimensione e nessuno, nessuno riusciva a trovarla. Era sola.
    «No non è vero» mormorò sofferente, qualche lacrima le rigò il viso. Non si abbandonava mai a quel dolore, impediva sempre che potesse prendere il controllo. Lo soffocava con tutte le sue forze, lasciandosi logorare internamente, divenendo sempre più debole. Prima o poi avrebbe ceduto, non sarebbe più stata capace di mascherare la sofferenza sotto un sorriso dolce, i suoi libri non l’avrebbero più protetta dalla realtà. In quel momento, il pianto che reprimeva, tentò di liberarsi. Una lacrima, una seconda e una terza sfuggirono, rigandole il viso, come flebili segnali d’aiuto. Soltanto questo chiedeva la sua anima, di essere salvata, perché lei non ne era in grado e presto avrebbe perso tutto. Si stava lasciando andare, combatteva per gli altri ma non più per se stessa. Se l’oblio meritava, lo avrebbe accettato. «Non funzionerà mai niente con me» le scappò, demoralizzata. Sospirò ancora, rendendosi conto di aver ceduto, e si asciugò le lacrime, guardando altrove. Doveva rimettere le mani sul volante dei sentimenti, perciò li spinse con forza nel cassetto e lo richiuse con prepotenza. Non capiva, Astrid, che l’unica soluzione era lasciarli liberi, sfogarsi con qualcuno. Lei, ormai, era fermamente convinta che nessuno potesse più aiutarla. Detestava però crogiolarsi nel pianto, amava invece sorridere, scherzare e ridere, trasmettere un po’ di gioia a chi era con lei, che fossero i suoi bambini o i suoi amici. Si schiarì la voce e, quando ebbe ricacciato indietro tutte le sue lacrime, poté nuovamente incrociare il suo sguardo e annuire alla sua richiesta. «Ora c’è una cosa che io devo chiedere a te. Io ti conosco, lo sai. Ma non chiedermi come, non chiedermi quanto» sorrise con dolcezza. «Non te lo avrei mai chiesto» ammise. «Non è facile per te, lo capisco. Non lo sarebbe per nessuno. Ascoltami» il tono divenne morbido ma deciso. Heloise tentava, ancora una volta, una soluzione. « Tu e soltanto tu sei il custode dei nostri vecchi ricordi, io non potrò mai esserlo. Ma che ne diresti di crearne di nuovi. Insieme a me. Non vivere nel passato, non riesco a raggiungerti. Cercarmi nel presente, è qui che mi troverai. Ripartiamo da zero» piano la mano sfiorò la sua. Se Ivar fosse stato attento, avrebbe capito che a parlare era la sua Heloise, sfuggita al controllo di una Astrid ormai spezzata. «Insomma, che ne diresti.. che ne diresti se due estranei prendessero la stessa direzione?» non era stato un altro brandello di ricordo, no. La frase che, quattro anni prima, era stata solo scritta sul frontespizio di un libro, era ora pronunciata con naturalezza. Fu spontanea, Astrid, senza sapere che tale domanda era stata l’incipit della loro storia d’amore.

    Il tempo si dilatava, quando facevano l’amore, ed esistevano solo l’uno per l’altra. I loro corpi perfettamente incastrati, le dita intrecciate, i respiri mescolati: erano unità. Quei due giovani sembravano essere nati con l’unico scopo di amarsi. Ogni attimo passato insieme, era un attimo rubato al tempo e reso infinito. Era un momento di pausa, di sosta, in cui tutto sarebbe stato possibile.
    Astrid si portò su di lui, aveva il lenzuolo stretto sopra il seno e la schiena scoperta che Ivar accarezzò piano. Sorrise, lei, e lo baciò. Presto sarebbe partita, come sempre, per una settimana. «Tornerai? »domandò Ivar in un sussurro. «Si» rassicurò l’uomo che amava e anche se stessa. Sfiorò le sue labbra, lui le baciò le dita affusolate. «Sei ciò che resta quando tutto crolla. Sei la risposta ad ogni domanda. Sei tutti i miei progetti. Sei la strada che sceglierei sempre, non importa quanto tortuosa sia. Sei il mio nord. Tornerò sempre, Ivar, perché non mi è possibile affrontare la vita senza te» si persero per qualche istante nei loro sguardi, regalandosi l’ennesima promessa di un’esistenza insieme. Ivar era per lei molte altre cose. Era la sua casa, la sua forza. Sarebbe stato il suo 'si' pronunciato davanti ad un altare, il padre dei suoi bambini. Astrid non aveva mai amato così tanto qualcuno. Era un amore narrato solo nei più grandi romanzi del passato. Era l’amore gentile tanto agognato dai poeti. Era l’amore di Orfeo e Euridice, l’amore degli amori, il sentimento per antonomasia. Era consapevole che tutto, di lei, sarebbe sempre stato di ivar. Niente avrebbe portato via al giovane falegname la sua Heloise. «Eternamente mio, eternamente tua..» mormorò, poi risero piano, lui invertì le posizioni facendola sgusciare sotto il suo corpo, attento a non gravare troppo su di lei. La strinse e posò la fronte sulla sua «Eternamente nostri» concluse la frase, una citazione di una lettera che sanciva la loro appartenenza. Si baciarono, i corpi aderirono fin quasi a confondere il battito dei loro cuori. Avevano lo stesso ritmo, ormai. E sempre lo avrebbero avuto
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    Dimenticò Henrik. Dimenticò di essere fidanzata. Dimenticò persino di aver dimenticato. C’era soltanto Ivar, in quel momento, per lei. Solo quel ragazzo e i suoi occhi profondi che racchiudevano chissà quale storia. Un tempo Astrid ne aveva fatto parte, conoscendo ogni dettaglio, la morte del padre, la malattia di sua madre, aiutando Ivar ad affrontare tutto ciò, facendosi carico un po’ del suo dolore. Erano così, quei due, sempre pronti a condividere ogni cosa, ad esserci sempre, fino a divenire reciprocamente necessari. La vita poteva essere affrontata soltanto insieme. In quel momento c’era il loro indissolubile legame che non si sarebbe prostrato ad alcuna maledizione o particolarità. L’unione dei loro cuori pareva sbeffeggiare il tempo, la lontananza, l’oblio. Tutto era dormiente, in Astrid, dando l’impressione di non esistere. Invece, quel legame, piano piano si ridestava, intorpidito, e riconosceva Ivar, i suoi sorrisi a cui mai si sarebbe abituata, scombussolandola sempre, la sua voce profonda e avvolgente. È vero che non esistono promesse infrangibili eppure era impensabile per i loro cuori, che dipendevano l’uno dall’altro, sapersi distanti. Era inaccettabile persino per il destino che concedeva loro una seconda possibilità, poiché forse, un amore come quello, neanche lui lo aveva mai conosciuto. Ed ecco che ogni cosa pareva risospingerli indietro, una frase, una carezza, un sospiro. Pareva che la realtà si fosse attivata per far in modo che la loro storia avesse un finale degno di essere scritto. Ivar e Astrid possedevano ora pagine bianche, le ultime che la vita concedeva per rimediare, per riprendere in mano le promesse perse nel vento, tramutare la sofferenza in gioia, la gioia che provavano ogni giorno, anche nel compiere l’azione più semplice come disegnare i propri tatuaggi. Il destino rivoleva indietro ogni cosa. Rivoleva indietro quei due ragazzi che si sarebbero amati anche se tutto, intorno a loro, fosse caduto in pezzi. Rivoleva ascoltare i loro progetti di un futuro insieme, di vivere in una casa in riva al mare. Rivoleva l’impazienza provata da entrambi nel tempo trascorso ad aspettarsi, quando lei partiva per poco e lui attendeva, consapevole che sarebbe tornata. Rivoleva le loro promesse, piene di un amore genuino e onesto, il più delicato e puro che possa esistere. Rivoleva le loro mani intrecciate.
    Astrid sospirò e recuperò il foglio e la matita «Comunque i miei disegni sono più realistici» commentò, trovando la forza di scherzare. Se non ci fosse riuscita, sarebbero stati perduti entrambi, inghiotti dal passato, per Ivar pieno di immagini, per lei totalmente buio. Solo un ricordo e una consapevolezza squarciavano le tenebre: la particolarità del ragazzo che Astrid aveva sempre sfidato e l’aver dato un senso al suo tatuaggio, sapendo che era stato disegnato insieme a lui. Le servì, questo pensiero, per non affondare, come se il bel falegname le avesse dato un’ulteriore speranza.
    Si alzò, piegando il foglio «Questo qui lo conserverò, così posso spacciare il tuo elefante per mio» spiegò compiaciuta, fingendo fosse un piano geniale. Posò carta e matita sul divano e guardò le assi di legno destinate a comporre il tavolo. «La pausa è finita, torniamo a lavoro» sorrise, rimboccandosi le maniche. Era gratificante costruire qualcosa quando tutto era distrutto. Inoltre era bello lavorare al fianco di Ivar, aiutarlo quando possibile, passandogli attrezzi o chiodi. Preoccuparsi per lui, poi, quando rischiava di farsi male –almeno dal suo punto di vista- le riscaldava il cuore. Non nutriva tanta premura neanche nei confronti di Henrik. Accusava il desiderio di proteggere Ivar da ogni pericolo, persino da se stessa e la sua amnesia, le sue domande che chissà quali ferite avrebbero riaperto. No, lei non lo avrebbe ferito. Non più.
    Il tempo trascorse ancora un altro po’ , tra una chiacchiera e un asse di legno agganciata ad un’altra, finché anche il tavolo fu pronto e disposto nel grande spazio vuoto a destra, da cui poteva intravedersi uno scorcio di cucina. Ivar aveva un talento naturale. Astrid adorava osservarlo all’opera, le mani che per lui generavano solo distruzione, per lei erano strumenti con cui riusciva a creare opere meravigliose. Non generava morte, il bel falegname, ma vita. E lei trascorreva le ore in bottega, occupando il suo bel posticino, leggendo o osservandolo lavorare. Era magnifico stare insieme a lui, pur non ricevendo molte attenzioni poiché occupato a costruire mobili o ad accogliere i clienti. Eppure, tra un impegno e un altro, Ivar incrociava il suo sguardo, sorridevano e tacitamente esprimevano il loro amore.
    La francese non si rese conto che, ormai, erano scoccate le otto, il sole caldo aveva ceduto il posto alla pallida luna. Non si rese conto neanche che era scoppiata una bufera di neve, almeno fin quando non si sentì il vento fischiare e far vibrare i vetri. Fu catturata da un simile fenomeno atmosferico, rari a Londra e del tutto assenti in Africa. La tromba d’aria era talmente violenta che i fiocchi di neve gironzolavano come pazzi a mezz’aria, sballottolanti su e giù, a destra e a sinistra, ed erano talmente fitti da formare un grande muro bianco.
    «Perché non.. resti a cena?» domandò, un po’ titubante, riportando l’attenzione su di lui. «Potremmo inaugurare il tavolo, no?» propose sorridendo con entusiasmo. «Non devi preoccuparti, cucino bene. Non ho mai ucciso nessuno. Lois crede che se il mio talento culinario lo avessi anche nel disegno, ora i miei quadri sarebbero esposti al Guggenheim di New York» scrollò le spalle, ricordando quanto fossero dolci i commenti della sua migliore amica. Li apprezzava, però, sia perché originali e divertenti, sia perché schietti e diretti. Apprezzava la sua onestà ma, al tempo stesso, la temeva. Quando parlava di Henrik, quando le faceva notare come la loro relazione stesse franando, Astrid preferiva cambiare discorso. Sapeva quanto vere fossero quelle considerazioni e le respingeva. Comunque, anche se avessero preso strade differenti, non ne avrebbe sofferto poi così tanto. Non era più legata ad Henrik, non come prima.
    Si morse il labbro inferiore, intrecciando le mani dietro la schiena, in un gesto timido e quasi infantile. Il cuore perse più di un battito per ciò che avrebbe detto «Se ti lasciassi andare con questo tempaccio, mi preoccuperei» mormorò e l’imbarazzo impiegò pochi secondi ad assumere il controllo. Le gote acquistarono colore e tac! Addio Astrid. «Insomma pensa se la visibilità fosse scarsa e cadessi in un burrone a causa di una curva stretta» ma perché gli stai raccontando la trama di Final Destination? «Mi dispiacerebbe partecipare al tuo funerale. Nel senso.. non che non ci verrei» ma in quali cavolo di discorsi ti stai impelagando? «Nel senso, verrei con piacere al tuo funerale. Non che io voglia vederti morto, saresti affascinante anche da morto» ottimo, non solo sarebbe stata scambiata per una necrofila ma aveva anche ammesso a gran voce di reputarlo affasciante. Il cuore le martellava nel petto come un tamburo e le gote divennero rosse come due pesche mature. Doveva uscire da quel discorso insensato che rischiava di diventare pericoloso. «Non volevo dire che sei affascinante. Cioè lo sei moltissimo, per me. In generale, suppongo, credo che tu lo sia per tutte le ragazze» arrancò, in seria difficoltà. La voce morì e con essa anche quel ragionamento insensato. Chiuse gli occhi un attimo e strinse le labbra, sperando di scomparire. Invece che risolvere un problema costruito con le sue stesse mani, vi sprofondò maggiormente, raschiando il fondo. questo è colpa della famosa gif. Era vero, lo trovava affascinante, ma mai lo avrebbe ammesso, almeno non in quel modo impacciato. Pregò che la tortura finisse, che Ivar capisse quanto l’imbarazzo potesse mandarla in confusione. D’altronde era una reazione provocata proprio da lui, inconsciamente, e da quel nascente interesse che Astrid non riconobbe, ignorandolo. Sospirò profondamente e riaprì gli occhi, recuperando un po’ il controllo. Coraggio Heloise, devi soltanto invitarlo a cena. Puoi farcela. «Potremmo cucinare qualcosa insieme, che ne dici?» riuscì finalmente a dire, ridacchiando nervosamente e sistemandosi i capelli rossi in una crocchia. Nonostante avesse farneticato, il suo intento era chiaro come il sole: voleva sapere Ivar al sicuro. Insieme a lei.

    Ciò che sai amare, rimane. Il resto è scoria. Ciò che sai amare, non sarà mai strappato da te.

    Edited by .Souseiseki. - 20/3/2018, 14:24
     
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    Fingeva che tutto andasse bene, che ogni giorno fosse come gli altri. Fingeva che il sole che sorgeva ogni giorno fosse l’inizio di una nuova meravigliosa avventura, che ogni tramonto fosse un fantastico momento di quiete. Fingeva che ogni bacio rubato a lei fosse un istante rubato al tempo stesso. Ma era in realtà il tempo, patrigno, che rubava vita a loro, che consumava le loro esistenze, le ticchettava inesorabile conducendoli verso la fine. Lo sapeva, Ivar, che quel momento sarebbe presto arrivato. Ogni istante che passava, irrecuperabile, lo dilaniava. Viveva quegli istanti a pieno, conscio che sarebbero stati gli ultimi, che mai avrebbe potuto riaverla tra le braccia. Ed ogni volta, ad ogni sguardo di lei, tentava vanamente di uccidere quei sentimenti, tanto forti che sapeva prima o poi lo avrebbero ucciso. Non lo avrebbe mai mostrato a lei, quanto quella scelta lo aveva distrutto. Non avrebbe ceduto alla propria debolezza. Avrebbe tenuto la sua mano, fino alla fine, fino a quando la memoria non l’avrebbe portata lontano, dove nemmeno la rosa dei venti avrebbe potuto orientarla. “A che pensi?” La voce dolce della sua Heloise lo riscosse, mentre si accorse di star fissando il vuoto, seduto sullo sgabello accanto al piano di lavoro. Lei lo guardava preoccupata, distogliendo l’attenzione dal libro che stava leggendo. Sorrise, mascherando ancora una volta la sua preoccupazione, ricacciando indietro quei sentimenti che sembravano dilaniare la sua carne pezzo dopo pezzo, come l’aquila di Prometeo. C’erano tante risposte a quella domanda. “Penso a quando non ci sarai, a quanto sembreranno vuote queste stanze senza il tuo sorriso ad illuminarle. Penso a quando mi dimenticherai, a quanto sarà facile. Penso a te che cancelli noi, ciò che siamo stati, ciò che avremmo voluto essere, in un battito di ciglia, e questo mi dilania. Penso a tutti i progetti che abbiamo fatto insieme, a quanto ingenuamente abbia riposto le mie speranze in essi; penso che non li realizzeremo mai, e mi distrugge. Penso che non riesco nemmeno a immaginare la mia vita senza te, e che non so se riuscirò a viverla.” “A niente”. Si avvicinò a lei, e le diede un delicato bacio sulla guancia. Forse lei sapeva a cosa stava pensando, lo leggeva nei suoi occhi. Leggeva in quegli occhi la sua disperata richiesta di fermare ciò che stava accadendo. Gli chiedeva, Heloise, di tenerla con sé nonostante tutto. Sarebbe sempre stata con lui, la sua Heloise, ma non nel modo che entrambi avevano sempre immaginato. Non poteva fermare la morte, Ivar, poteva solo crearne. Non poteva evitare il dolore, poteva solo causarne. Non poteva fermare il tempo, Ivar, poteva solo lasciarsi consumare da esso.

    Si illudeva, Ivar, di poter fermare il tempo, mentre sfiorava la pelle di lei. Si illudeva che se entrambi lo avessero voluto, quegli istanti sarebbero entrati in stasi. Eppure poteva sentirlo scorrere, inesorabile, ancora una volta, scandito dal proprio respiro, dal battito del proprio cuore. Non poteva essere fermato, Crono, che era il padre di tutti gli dei. Solo Zeus vi era riuscito, eppure aveva vinto un padre, non il tempo stesso. Contro quello, a nessuno era permesso combattere. Avrebbe voluto riavvolgere il nastro, impedirsi di dire quelle parole che sembravano aver ferito la sua Heloise di nuovo, irreparabilmente. Avrebbe voluto essere l’Ivar di qualche anno prima, quello che avrebbe asciugato le sue lacrime e l’avrebbe stretta tanto forte da impedirle di versarne altre. Quello che avrebbe fatto di tutto per distrarla, pur di far spuntare un sorriso sul suo bel viso. L’aveva fatto, Ivar, aveva fermato le sue lacrime ancor prima che potessero sgorgare, una volta. Lo aveva fatto, e l’aveva persa per sempre. “No non è vero. Non funzionerà mai niente con me”. Avrebbe voluto dirle che non era vero, che lei era la forza che metteva in moto il suo cuore, colei che riusciva a rendere bello anche il momento peggiore. Non fece nulla, il falegname, se non distogliere lo sguardo dal suo per puntarlo alle fughe del pavimento. Gli aveva sempre spezzato il cuore vederla piangere. Glielo spezzava ancora, vederla così confusa e paesata. Guarirà, col tempo. Si disse. Se lo era detto anche quel giorno, quando al confine di Besaid aveva lasciato la sua mano. Non lo aveva guarito, il tempo. Non aveva fatto altro che infettare la ferita. L’aveva distrutta, aveva distrutto sé stesso, per una promessa che tutt’ora non riusciva a infrangere. Eppure lei era forte, molto più di lui. E sorrise, di nuovo.

    “Non te lo avrei mai chiesto. Non è facile per te, lo capisco. Non lo sarebbe per nessuno. Ascoltami” Lasciò correre lo sguardo prima su di lei e poi sulla sua mano, che delicata, sfiorava la sua. “Tu e soltanto tu sei il custode dei nostri vecchi ricordi, io non potrò mai esserlo.” Il suo cuore perse un battito. Era come se d’improvviso gli fosse stata sbattuta in faccia la verità. L’aveva dimenticato, lei, lo sapeva. Eppure rendersene conto realmente era diverso. Era intrappolato nel limbo della damnatio memoriae, sulle spalle portava ricordi per una vita intera. Ricordi che mai più avrebbe potuto condividere, sui quali non avrebbe più potuto ridere insieme a lei. Che senso avevano, quei ricordi a quel punto? “Ma che ne diresti di crearne di nuovi. Insieme a me. Non vivere nel passato, non riesco a raggiungerti. Cercarmi nel presente, è qui che mi troverai. Ripartiamo da zero.” La sua espressione fu scettica. Come poteva chiedergli una cosa del genere? Come poteva ripartire da zero, lui? Lui che aveva sfiorato le sue labbra un milione di volte, fino a perderne il conto, che si era lasciato cullare dal battito del suo cuore, dalla sua voce? Lui che aveva sempre atteso il suo ritorno, che lo faceva tutt’ora. Lui che aveva sempre cercato di proteggerla, tanto da strapparsi il cuore dal petto pur di renderla felice. Come poteva, Ivar, dimenticare? “Insomma, che ne diresti… che ne diresti se due estranei prendessero la stessa direzione?”. Sussultò, a quelle parole. Quelle parole che spesso si erano ripetuti. Quelle parole che erano state l’inizio di quell’amore tanto forte da essersi sublimato.

    “E se due estranei prendessero la stessa direzione?” C’erano solo quelle parole, scritte sul frontespizio di quel libro che la ragazza dai capelli rossi gli aveva dato rincorrendolo. Sorrise, Ivar. Nel frattempo lei era già scomparsa. Aveva sfogliato quel libro, ma non vi aveva trovato altri appunti, se non un biglietto con l’indirizzo di un bar. Non era riuscito a non pensare a lei, al suo sorriso radioso, nei giorni seguenti, nonostante la sua mente fosse troppo impegnata a scappare dalla sofferenza, a fingere che non esistesse. Forse era per quello, che non riusciva a smettere di pensarci. Lei era uno spiraglio di luce tra le tenebre. Così, l’indomani mattina decise di recarsi a quell’indirizzo. Non sapeva bene cosa avrebbe potuto dirle, lui era dannatamente impacciato con le ragazze. Probabilmente avrebbe fatto qualcosa di stupido, o detto qualche cavolata di cui, probabilmente si sarebbe pentito. O magari avrebbe potuto ucciderla nell’imbarazzo di stringerle la mano. C’erano mille variabili che aveva considerato, eppure andò. Aveva disegnato una rosa dei venti, a matita, sotto quella frase. Se due estranei avessero preso la stessa direzione, probabilmente avrebbero avuto bisogno di qualcosa che gliela indicasse. E probabilmente anche lui ne avrebbe avuto bisogno, come Ulisse, perso com’era tra i flutti agitati della propria esistenza. Entrò nel locale, ed ebbe una piccola esitazione quando la trovò lì, seduta da sola a leggere un libro, assorta. Quasi non ci sperava, in effetti. Sorrise, e si avvicinò di qualche passo. Non potè fare a meno di sorridere come un imbecille alla prima cottarella. Eppure trovava stupendi i suoi grandi occhi chiari, il suo sorriso contagioso, la sua timidezza. “Ciao”, esordì, annunciando la propria presenza. E quando lei alzò lo sguardo, scioccamente, si trovò a non sapere cosa dire. Le porse il libro, poggiandolo sul tavolo. “Ehm, l’ho letto e…pensavo fosse carino riportartelo. Insomma, sei stata così gentile…” Iniziò a sproloquiare, facendo poi per andarsene. Avrebbe voluto sotterrarsi in quel momento. Se non avesse saputo di non poter arrossire nemmeno volendo, probabilmente avrebbe pensato di essere diventato viola, tanto era in calore che gli avvampava le guance. Che diamine gli prendeva? Insomma, era totalmente rincretinito? Si, ovviamente. Fece un passo per andarsene, poi tornò indietro, da bravo bipolare. “E, volevo dirti che mi piacerebbe. Cioè la frase che hai scritto, se era per me…” Continuò a farfugliare. Coraggio Ivar, devi solo chiederle di uscire, l’ha praticamente fatto lei. Devi solo ufficializzare la cosa! “Si, sarebbe bellissimo”. Disse infine, sorridendo e rilassandosi per un momento, abbassando lo sguardo per non impazzire. Era davvero imbranato. “E… ti va di fare una passeggiata? Qualsiasi direzione andrà bene”. Chiese, a quella ragazza di cui non conosceva nemmeno il nome. Erano davvero due estranei, che si accingevano a prendere la stessa direzione. Che fosse stata il nord, il sud, l’est o l’ovest, non importava.

    Restò a guardarla, con gli occhi sgranati, chiedendosi se avesse davvero pronunciato quella frase o se l’avesse solo immaginata. Forse quello era solo l’ennesimo sadico scherzo del destino. O forse il tempo aveva riavvolto quel nastro fallato, ancora una volta. “Mi piacerebbe...” Rispose, così come aveva fatto quel giorno, con meno imbarazzo e con la consapevolezza che quei due estranei non erano estranei. Avevano percorso già miliardi di passi, nella stessa direzione. L’avevano sempre seguita, anche se lontani. E la rosa dei venti li aveva portati indietro, affinchè non smarrissero la via. Strinse la sua mano, per un istante, godendosi quel dannato deja vu, conscio che presto tutto ciò sarebbe svanito, come tutto il resto.

    Astrid raccattò i fogli. Era quello il loro nuovo inizio. Astrid non sapeva nulla di Ivar, di ciò che era stato. Ivar si trovava di fronte ad una nuova Astrid, che non aveva memoria di ciò che era stata, ed aveva colmato i vuoti con una vita nuova, diversa. “Comunque i miei disegni sono più realistici”. Rise, lei, che sempre riusciva a ribaltare le situazioni, a rendere bella anche l’agonia. “Oh, non lo metto in dubbio. Non mi avevano mai fatto un ritratto così bello”. Scherzò. “Questo qui lo conserverò, così posso spacciare il tuo elefante per mio”. Sorrise. Gli faceva strano sapere che avrebbe conservato qualcosa di suo, nonostante a suo tempo, avesse lasciato ogni cosa all’oblio. Aveva già qualcosa di suo, anche se non ne era consapevole: il suo cuore. Lo aveva sempre avuto, anche quando ne aveva perso il ricordo. “La pausa è finita, torniamo a lavoro”. “Si, direi che è il caso di riprendere”. Rispose, facendo spallucce, lasciando che il tempo riprendesse a scorrere, portandosi via anche quell’attimo sospeso. Il tavolo non fu difficile da montare, bastava attaccare le gambe. Eppure non fu mai da solo, nel farlo. Lei era sempre accanto a lui, seguiva i suoi movimenti, attenta. Di tanto in tanto la guardava, e sorrideva in silenzio.

    “Devo dirti una cosa”. Disse serio, lasciando per un momento incompiuto il lavoro che stava portando avanti. Astrid lo guardò preoccupata. “Pensavo… mi hai parlato così tanto di Parigi. Perché non ci andiamo, insieme?”. Non sapeva come avrebbe reagito la ragazza. Parigi era per lei una casa, ma anche un luogo che portava con sé brutti ricordi. Il luogo che si era portato via sua madre. Una città dai mille colori che improvvisamente era diventata grigia. Ma le sue labbra si aprirono in un sorriso radioso. Lei corse e gli saltò addosso avvolgendogli le braccia intorno al collo. Dovette far appello a tutte le sue forze per non cadere rovinosamente a terra con lei sopra. Pose le mani intorno alle sue gambe per non farla cadere, mentre lei gli stampava un bacio in bocca, entusiasta. “Si! Sisisisisi!” Si, era palesemente entusiasta. “Ma puoi lasciare il lavoro per qualche giorno? Quando partiamo?” Sorrise. Ciò che rendeva felice lei rendeva felice anche lui, nonostante sarebbe stato problematico prendere un aereo per uno come lui che, toccando anche solo il finestrino, avrebbe rischiato il disastro. Avrebbero affrontato anche quello, in qualche modo. Qualsiasi direzione avessero preso, quei due estranei, sarebbe stata quella giusta.

    Nemmeno si rese conto del sole che calò repentino, lasciando il posto al buio, fuori dalla finestra. I vetri tremarono, annunciando la tempesta che si stava già consumando all’esterno. Raddrizzò il tavolo, e guardò fuori preoccupato. “Perché non… resti a cena?””Ti andrebbe di restare per sempre?” Le fece eco la nonna di Mulan Chiese lei, facendolo trasalire. Chicomecosa?Potremmo inaugurare il tavolo, no?” restò col fiato sospeso per un attimo, con la bocca semi aperta. Accettare avrebbe significato proseguire con quella tortura. Rifiutare sarebbe equivalso a fuggire per l’ennesima volta. “Non devi preoccuparti, cucino bene. Non ho mai ucciso nessuno. Lois crede che se il mio talento culinario lo avessi anche nel disegno, ora i miei quadri sarebbero esposti al Guggenheim di New York”. “Lo so…” Si lasciò sfuggire. Sapeva tante cose di lei. “Cioè…si insomma, lo so, e tu lo sai che lo so. E’ complicato”. Farfugliò, ridendo nervosamente. Non era facile per lui ricominciare daccapo. Non quando aveva amato quella ragazza tanto da distruggersi. Non era facile mettere a tacere i sentimenti che fino ad allora lo avevano accompagnato, rinchiusi in una scatola non perfettamente ermetica. “Non vorrei disturbare..” Disse prendendo tempo. Che avrebbe dovuto fare? Scappare da quella situazione pericolosa sarebbe stata la situazione più logica. Peccato che la tempesta avesse deciso di imperversare come se non ci fosse stato un domani, in quel momento. “Se ti lasciassi andare con questo tempaccio, mi preoccuperei” La guardò interdetto. Davvero si sarebbe preoccupata? Per un estraneo? Si, la conosceva abbastanza da sapere che lo avrebbe fatto, per chiunque. “Insomma pensa se la visibilità fosse scarsa e cadessi in un burrone a causa di una curva stretta”. “Ma che..” Commentò perplesso, toccando mentalmente ferro, mentre lei iniziò a sproloquiare. Lo faceva sempre quando era in imbarazzo. Lo faceva spesso anche lui. erano nel loop “Mi dispiacerebbe partecipare al tuo funerale. Nel senso.. non che non ci verrei” La faccia di Ivar, che cercava di seguire il discorso, era sempre più perplessa, mentre Astrid affondava nelle sue stesse parole. “Nel senso, verrei con piacere al tuo funerale. Non che io voglia vederti morto, saresti affascinante anche da morto”. Ivar era un po’ confuso. Non sapeva se essere lusingato dall’aggettivo “affascinante” o preoccupato dal fatto che Astrid presentasse qualche istinto necrofilo. Beh, era stata con un che uccideva con il solo tocco, magari era normale(?). “Non volevo dire che sei affascinante. Cioè lo sei moltissimo, per me. In generale, suppongo, credo che tu lo sia per tutte le ragazze”. Sorrise imbarazzato. Non sapeva cosa rispondere a tutto ciò. Per cui scoppiò a ridere. Era dannatamente carina quando arrossiva. Iniziava a parlare di cose che nemmeno lei comprendeva. “Ok, mi hai convinto”. Disse alzando le mani in segno di resa. La tempesta comunque, non gli avrebbe permesso di allontanarsi troppo al momento.
    “Potremmo cucinare qualcosa insieme, che ne dici?”. Ecco. Magari Astrid non ricordava che Ivar non era un asso della cucina lui scongela, forte. Per uno che distruggeva tutto ciò che toccava, non era facile far lievitare un impasto. “Ehm… in realtà io non sono molto bravo, in cucina. Ma proverò ad essere d’aiuto, in qualche modo”. Rispose imbarazzato. “Intanto potrei pulire un po’ qui, hai una scopa?” Si voltò, alla ricerca della fantomatica scopa, ma non mosse neanche due passi che si ritrovò ad inciampare su qualcosa e un manico che gli volò dritto in faccia. SBEM. “Ok.Trovata” commentò dolorante, impugnando il manico e massaggiandosi il naso con la mano libera, cercando di ricacciare indietro i lacrimoni che gli stavano scendendo per il dolore. La figura di merda era sempre dietro l’angolo,questo non lo avrebbe mai imparato. Si mise a spazzare per terra, mentre Astrid iniziava a sbattere qualcosa in una ciotola. Quando ebbe finito ripose la scopa e la paletta all’angolo che ometto de casa e la raggiunse. “Che cucini di buono?” Chiese spuntando alle sue spalle, molto più sciolto di quanto avrebbe potuto immaginare. Probabilmente aveva ancora gli strascichi di quando Astrid lo aveva drogato. Si allungò a prenderle della farina, ma quando aprì lo sportello, il sacco di farina gli cadde addosso. Preciso. In faccia. Aperto. Dovette fare appello a tutte le sue forze per trattenere le imprecazioni che avrebbe voluto rivolgere alle divinità più svariate del Pantheon norreno. “Non ridere”. Disse, ridendo pure lui e quindi contraddicendosi. Come se fosse stato possibile. Cercò di togliersi la farina dalla faccia e di riaprire gli occhi, mentre Astrid rideva. “Stai ridendo?” Scherzò, con tono di sfida, afferrando una manciata di farina che ormai aveva imbrattato tutta la cucina e lanciandola in faccia alla ragazza. Addio cena. Heloise restò per un attimo interdetta, e poi raccolse il guanto di sfida. Era un po’ come tornare indietro. Era un po’ come tornare ad essere ciò che erano sempre stati: amici, complici, parti coincidenti di una cosa sola. Ivar indietreggiò e scappò, quando lei parve arrabbiarsi e soprattutto quando iniziò a soffiare sopra alla farina. Corse oltre il tavolo, mentre lei lo minacciava con un pugno pieno della polvere bianca. “E dai era solo un pizzico. Quanto sei vendicativa!” Disse ridendo, mentre lei faceva il giro del tavolo cercando di raggiungerlo. Corse verso il salotto, quando un tuono fortissimo, fece tremare i vetri. La luce di spense.
    Ivar si arrestò di scatto e si voltò. Astrid, che ancora correva, andò a sbattere contro di lui. La fermò, afferrandola per un braccio. Non riusciva a vedere oltre il proprio naso. Sentiva solo i loro respiri affannati dalla corsa, vicini, dannatamente vicini. Fu in quel momento, quando il buio sembrò oscurare le loro esistenze, ciò che erano stati, ciò che erano, che Ivar infranse la promessa. D’istinto la tirò a sé cingendole la vita, quasi con irruenza, e lasciò scivolare l’altra mano dietro al suo collo. La baciò, d’istinto, trattenendo il respiro per un istante e lasciando scivolare con morbidezza le labbra tra le sue. Non c’erano le promesse infrante in quel momento, non c’era Henrik. Nel buio nemmeno Marcus avrebbe potuto vederli. C’era solo lei, la donna che non aveva mai smesso di aspettare, nemmeno dopo tutto quel tempo. C’era l’Ivar oltre la corazza, che con tutte le forze tentava di abbattere quel muro che lui stesso aveva costruito. C’erano le sue labbra calde, il suo profumo di fiori, quel dannato sapore di farina. C’era la stretta allo stomaco portata dall’emozione di quel momento, che tanto aveva desiderato e che si era arreso a non vivere mai più. Era un bacio quasi disperato il suo, il bacio di un ragazzo tanto innamorato da aver distrutto tutto per lei. La lasciò andare, e si lasciò sfuggire un sospiro, rendendosi immediatamente conto che presto, le conseguenze di quel gesto avrebbero rotto l’idillio. Aveva infranto la promessa fatta a Marcus. Aveva dato sfogo ai sentimenti che aveva distrutto. E l’avrebbe spezzata, probabilmente, gettandola in preda a ricordi che non riusciva a collocare. Fare del male a lei, forse era la cosa che gli faceva più male. “Perdonami”. Sussurrò, mentre la sua voce vacillava, mentre il suo respiro si spezzava. Indietreggiò di un passo, tenendo ancora la mano dietro la sua testa. Sentiva il cuore battere all’impazzata, la morsa allo stomaco quasi bloccargli il respiro. Gli era piaciuto, dannatamente, era stato il suo istinto a condurlo a lei. Eppure, quello era troppo. Si era spinto troppo oltre, dando retta all’istinto. Aveva reso vani tutti i suoi sacrifici, quell’istinto. Si era sbilanciato, Ivar, tanto da non riuscire a fingere di non amarla.

    Forse, quando la luce sarebbe tornata, avrebbe portato via con sé anche quel suo errore, insieme al buio. Forse la luce avrebbe cancellato quel bacio, relegandolo alle tenebre, alla damnatio memoriae. Forse le tenebre avrebbero potuto imprigionare l’amore che provava per lei, ancora e nonostante tutto, e renderlo invisibile a chiunque, di giorno.

    E se due estranei avessero preso la stessa direzione? E se uno dei due avesse preso una direzione diversa? E se l'altro non avesse mai smesso di aspettarla, continuando a caminare in quella direzione. E se infine anche l'altra strada avesse condotto allo stesso crocevia?
     
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    «Ok, mi hai convinto» Ivar alzò le mani in segno di resa ed Astrid sorrise. Era già contenta per la sua risposta, comunque, per aver accettato di ripartire da zero. Non sapeva quanti e quali ricordi gravassero sulle spalle del ragazzo, poteva però immaginare la sua difficoltà nel tentare di accantonare il passato e ricominciare. Apprezzò molto il suo sacrificio e sperò di non avergli causato alcun dolore con quella richiesta o aperto qualche ferita.
    «Ehm… in realtà io non sono molto bravo, in cucina. Ma proverò ad essere d’aiuto, in qualche modo» Astrid scrollò le spalle, non le importava granché. Importante era saperlo al sicuro e non in macchina, per strada, con la tormenta che peggiorava di minuto in minuto. «Tu sai disegnare, io so cucinare, ad ognuno il suo» osservò, scherzando, poi il ragazzo le chiese la scopa, proponendosi di spazzare un po’ la polvere e i trucioli di legno. Non ebbe tempo di indicargliela che inciampò in essa e il manico lo colpì in pieno viso. Sussultò, preoccupandosi un attimo e compiendo un passo in sua direzione. Si morse il labbro inferiore, bloccandosi, rendendosi conto di aver agito d’istinto per una sciocchezza. Ivar si massaggiava il naso e stava bene, tutto sommato, e lei aveva accusato l’insensato impulso di aiutarlo. Cercò di non ridere, non sarebbe stato molto carino e forse lo avrebbe messo in imbarazzo. Dopotutto lui non le aveva fatto pesare il suo discorso insensato, era stato cortese e gentile e di questo ne era grata.
    Lo lasciò in salotto e lei andò in cucina, era decisamente più rilassata e serena. Aprì il frigo e poi la dispensa, cercando di farsi ispirare dagli ingredienti presenti. Aveva imparato a cucinare da adolescente, quasi per disperazione. Marcus era un buon padre, un grande lavoratore ma non un bravo cuoco. Suo padre e l’arte culinaria erano due mondi che mai si sarebbero incontrati, neanche per sbaglio. Per evitare di dover mangiare pasta scotta e dolce, carne fin troppo salata e cruda, riso gommoso e riccamente condito, dovendo anche mentire sul sapore, per non ferire il papà, aveva iniziato a cimentarsi con i fornelli. Partendo da cose semplici come i pancake era passata a piatti sempre più elaborati, gustosi e quella necessità era divenuta un passatempo. Cucinando per sé stessa, per Marcus, alcune volte anche per Ivar, si distraeva da ogni problema. Non che ne avesse tanti, all’epoca. La sua vita era magnifica sotto ogni aspetto.
    Recuperò gli ingredienti che servivano per cucinare delle crêpes salate, da condire poi con salumi o insalata. Prese le uova, latte e un pacco di farina ormai terminato. Poi recuperò una ciotola e una frusta che posò sul tavolo, un ripiano alto con tanto di sedie che lei ed Henrik utilizzavano per consumare i pasti. Almeno fino a quel pomeriggio.
    Alzò lo sguardo portandolo su Ivar, che riusciva ad intravedere per metà, oltre la porta aperta. Spazzava assorto e si ritrovò, ancora una volta, a fissarlo imbambolata. Era sul serio affascinante, non poteva mentire a se stessa. Per un istante immaginò di convivere e condividere ogni attimo di quotidianità insieme a lui. Fu un pensiero recondito, senza capo né coda, quasi un progetto lasciato a metà che tornava a galla. Sussultò, le gote acquistarono appena colore per la sua fantasia insensata e il cuore perse un battito. Erano come tanti piccoli scherzi, quei pensieri, che il destino si divertiva a tirare, per osservare la sua reazione e magari ridere di lei. Eppure, per quanto sbagliato fosse, continuò a domandarsi come sarebbe stato vivere ogni giorno in compagnia di quel ragazzo educato e dolce, conoscerlo meglio, essere sua complice. Scosse appena il viso, destandosi, ricordando di essere fidanzata.
    Versò una manciata di farina nella ciotola e poi ruppe due uova, iniziando a mescolare il tutto con la frusta. Compiva cerchi concentrici, assorta, scandendo il ritmo di alcune riflessioni che proprio non riuscivano ad abbandonarla. Henrik era il suo ragazzo da due anni ormai. Lo stesso desiderio di salvare e aiutare quante più vite umane possibili li aveva uniti e, prima ancora di essere fidanzati, erano amici nonché colleghi. Astrid era stata felice con lui. Era stata, appunto. Da qualche mese, prima ancora di trasferirsi a Besaid, Henrik era divenuto altalenante così come lunatici erano ora i suoi sentimenti per lui. Un giorno era un incanto, il giorno dopo una maledizione. Un momento era il paradiso e poi l’inferno. Certe volte la francese temeva che la loro relazione andasse avanti per inerzia e che per lui provasse ormai semplice affetto. Perché, dopotutto, l’inglese le era stato accanto parecchie volte, donandole tutto il suo sostegno in caso di difficoltà. Tuttavia non riusciva a provare per lui la stessa attrazione di un tempo. Henrik non era il massimo per lei, per il suo cuore, questo lo aveva sempre percepito ma anche negato, mentendo a se stessa.
    «Che cucini di buono?» non si accorse che Ivar aveva smesso di spazzare, raggiungendola in cucina. La sua domanda la distrasse e increspò le labbra in un sorriso. «Crêpes salate» domandò «Non sarà un piatto stellato ma è uno dei miei cavalli di battaglia» ridacchiò, fingendo modestia. Gli chiese altra farina mentre lei continuava a curare l’impasto. Udì poi il tonfo provocato dal pacco contro il suo viso e si girò di scatto a guardarlo, smettendo di sbattere le uova. Lo osservò per qualche secondo, aveva la farina ovunque: tra i capelli, sugli occhi, persino sulla maglia. Solo le labbra e le ciglia spiccavano sul quel candore polveroso. Sembrava… il figlio di babbo natale (?). Si morse l’interno delle guance, tentando di mantenere un certo contegno, ma, quando Ivar le intimò di non ridere, non ci riuscì, facendo esattamente il contrario. Scoppiò a ridere, piegandosi appena in avanti e poggiando una mano sul tavolo, era così buffo mentre cercava di darsi una ripulita. Poi, con aria di sfida, lui raccolse un po’ di farina, lanciandogliela in faccia.
    Restò interdetta e lo guardò, schiudendo e sgranando gli occhi in una finta espressione risentita. Distese le labbra in un sorrisetto complice e raccolse una manciata di farina, compiendo un passò verso di lui che intanto aveva indietreggiato. Fu un attimo, un sussulto del destino. Il nastro si riavvolse. Ivar corse via, Astrid lo inseguì soffiando la polvere bianca, nel tentativo di beccarlo. Ridevano spensierati. Ancora una volta erano loro, sospesi nel tempo, in chissà quale attimo perduto.
    La luce si spense e lei gli andò contro, fermata poi per un braccio. Continuò a ridere, sommessamente, con il fiato spezzato. I loro visi erano vicini ma ciò non le provocò alcun imbarazzo. Il suo cuore batteva forte, sia per la corsa, sia perché emozionato nel riconoscere un momento del passato, un momento di Ivar ed Heloise. Tutto accadde in una frazione di secondo, così rapidamente che Astrid non ebbe tempo di reagire. Realizzò solo quando si ritrovò stretta al suo corpo e con le labbra unite da un bacio. Non ricambiò la stretta ma d’istinto chiuse gli occhi, godendosi quel contatto che durò troppo poco. Ivar si scostò appena, chiedendole scusa, senza però lasciarla realmente andare.
    Lei restò in silenzio, le labbra dischiuse, il respiro sottile. Solo quando la vista si abituò al buio poté incrociare il suo sguardo, tanto chiaro da spiccare persino nelle tenebre, tanto profondo e malinconico da perdersi senza possibilità di salvezza. Il cuore pulsava così tanto da sovrastare la vocina razionale che le sussurrava di allontanarsi. La ragione aveva avuto la meglio solo una volta, quattro anni prima, portandola a perdere ciò che più amava al mondo e rendeva meravigliosa la sua vita. Il piccolo muscolo striato non le avrebbe permesso di compiere lo stesso errore, non avrebbe accettato la sconfitta, non più. Si impose, con tutte le sue forze, ed Heloise si lasciò andare, fidandosi di lui. Non sbagliava mai, il cuore. Era spaventata, moltissimo, compiva un salto nel vuoto proprio come Saffo dalla rupe di Leucade, per placare l’amore provato per il suo Faone. Non capiva, Astrid, non capiva cosa si agitasse in lei e la guidò in tutto ciò che compì.
    Avvicinò il viso al suo con sguardo basso. Lentamente e con delicatezza gli mordicchiò il labbro inferiore. Era un banco di prova, un permesso che domandò in silenzio. Le punte dei nasi si sfiorarono appena, chiuse gli occhi preda di un sentimento che non seppe definire e che la travolse con violenza. La voglia di lui, di sentirsi sua fu inarrestabile e pervase ogni parte del corpo. Si strinse al ragazzo e lo baciò, perdendo se stessa, perdendo la propria razionalità. Non le importò che fosse uno sconosciuto. Non le importò che non sapesse niente di lui. Importava ciò che l’istinto le ordinava di fare. Al diavolo la ragione, al diavolo la logica.
    Il profumo di Ivar le riempì i polmoni, inebriandola, e assaporò con dolcezza le sue labbra carnose, senza mai esserne sazia. Un lampo squarciò per un breve secondo le tenebre. Astrid, senza mai smettere di baciarlo, indietreggiò, fino a raggiungere il tavolo che avevano montato insieme, sedendosi al bordo. Intrecciò le gambe attorno al suo bacino, stringendolo maggiormente a sé, quasi a non volerlo perdere. Sembrava che quel momento lo avesse bramato da una vita, che il suo corpo non avesse aspettato altro. La farina era ovunque, sui loro visi, vestiti, e si liberò in aria in una piccola nuvoletta quando sia la felpa di lui che il maglioncino di lei furono sfilati da entrambi. Questi caddero per terra, semplicemente, come le loro inibizioni, come quel muro invisibile che li separava. Restò in reggiseno, Astrid, e smise di baciarlo per un attimo, posando la fronte sulla sua, sfiorandogli appena il viso con le dita, lasciando che i loro respiri si mescolassero. In quel momento di breve lucidità, ragione e sentimento si scontrarono, ancora. Era straziante dover far loro da giudice. La razionalità le ribadì come tutto quanto fosse sbagliato, dannatamente sbagliato e privo di senso. Il cuore, invece, continuò ad aver voglia di Ivar, del suo sapore, del suo corpo, come se ne fosse dipendente. E capì, Astrid, capì con sorpresa quanto la ragione fosse spaventata da un sentimento così forte, talmente tanto da non poter essere arrestato. Erano entrambe soggette a quel desiderio, Astrid e ragione. Non esisteva più il suo passato dimenticato, il vuoto ricolmo di sofferenza. Il senso di spaesamento. Non esisteva più Henrik, non era mai esistito in realtà. Amava l’inglese solo perché somigliava al bel falegname e ogni cosa, di lei, sarebbe stata eternamente sua. Tra le braccia di Ivar sembrava aver ritrovato la stabilità, venuta meno quel giorno che aveva rimosso tutto, che l’oblio le aveva strappato via la sua voce profonda, le sue carezze, i suoi occhi blu. Tutto ciò che le serviva per sopravvivere ed essere felice. Tra le braccia di Ivar si sentiva finalmente a casa, dannatamente al sicuro. «Non lasciarmi andare» mormorò. Era Heloise, la ragazza che il giovane aveva perduto, la ragazza bloccata in quel momento straziante, al confine di Besaid.
    Azzerò le distanze con un bacio. Ogni fibra del suo corpo non ne aveva mai abbastanza di Ivar, lo stringeva a sé quasi a voler fondersi con lui, a voler diventare unità, un piccolo atomo che non è possibile separare. Era confusa ma si lasciò annegare proprio in quel mare di pensieri ed emozioni slegate tra loro, contrastanti, incoerenti.
    Smise nuovamente di baciarlo, quando un lampo inondò di luce bianca il salotto. Entrambi si persero nei reciproci sguardi. Lei colse una sicurezza nei suoi occhi, una consapevolezza: era tutto quanto giusto. Capì che doveva essere sua, in quel momento, pur non sapendo che cosa fossero stati in passato. Scemò, lo smarrimento. Sorrise con dolcezza per rassicurarlo, per trasmettere anche a lui quel senso di pace ed appartenenza. Non aveva più paura lei e non doveva averne Ivar. C’erano loro, nel buio che avrebbe mantenuto il segreto. Sorrise, Astrid non ne capì il motivo ma Heloise si: era finalmente tornata da lui. C’erano i loro corpi che parevano conoscersi a memoria. C’erano i loro cuori che avevano acquistato lo stesso ritmo, pieni del loro amore, per il ragazzo chiaro come il sole, per lei ancora oscuro e dormiente. C’erano soltanto quei due giovani che continuavano ad amarsi. Potevano disporre del tempo che scorreva solo in quel salotto, senza pensare alle conseguenze. Lei inchiodò le iridi nelle sue e chiese di accantonare ogni paura, le sue già bastavano per entrambi. Chiese di non pensare al passato, al dolore per lui contenuto in esso. Chiese di essere suo complice, come lo era sempre stato, anche se lei non ricordava. Chiese ogni cosa, Astrid, con lo sguardo assorto e malinconico. direi che il tavolo regge, possiamo passare al divano.
    Incatenò le labbra con le sue, i baci erano disperati, tormentati. Baci che sembravano dire 'Dio quanto ti ho aspettato'. Astrid era confusa, spaventata, non capiva che nome dare a quel sentimento così impetuoso. Eppure accusava il bisogno di abbandonarsi ad Ivar, di essere sua, quasi come fosse una necessità.
    Restò sempre dolce, Heloise, non abbandonò mai la solita delicatezza. Tuttavia ogni suo gesto fu deciso, privo di esitazione o timidezza. Scese dal tavolo, l'intento era raggiungere il divano ma non riuscì. ops.
    Si distese per terra, sul tappeto, e trascinò Ivar con sé, come fa una sirena con il suo marinaio. Strinse le cosce ai suoi fianchi, affondò i polpastrelli nelle sue spalle robuste e lasciò che il corpo ben definito del giovane aderisse con il suo, fino ad eliminare ogni spazio. Non doveva esserci alcuno spiraglio, alcuna possibilità che il passato potesse intromettersi tra i due ed impedire l'unione, tanto insensata per Astrid ma dannatamente necessaria per star bene. Continuava a baciarlo, sempre, non era mai sazia di quel sapore che aveva dimenticato, mescolato con la farina e che era maledettamente buono. Quel piccolo muscolo striato rivendicava ciò che era suo, l'amore che gli era stato strappato via, infischiandosene delle conseguenze, del dolore che avrebbero provato dopo, quando il piacere di ritrovarsi avrebbe lasciato spazio a un vuoto straziante. Dovette un attimo fermarsi poiché i polmoni erano ormai privi di ossigeno. Bloccò la fronte sotto la sua, le punte dei nasi a contatto, i respiri combinati e le labbra dischiuse, sempre in cerca di un contatto, anche rubato. Aprì gli occhi, le ciglia rimasero basse. Ancora una volta si perse nel suo sguardo, ancora una volta provò benessere. C'erano risposte, negli occhi chiari di Ivar, le sue vecchie certezze, le sue promesse, i progetti e le speranze che una ragazza aveva riposto nell'uomo che amava. Pur essendo tutto intraducibile, tutto perduto, provò una sensazione di familiarità che le trasmise tanta serenità. La mancina sgusciò dalla spalla al viso del giovane, sfiorandolo piano, continuando a mantenere il contatto visivo. Avrebbe voluto dir qualcosa ma nessuna parola era degna di rompere quel momento tanto bramato. Lasciò parlare le loro anime che si riconobbero dopo essersi a lungo cercate. Lasciò parlare il sorriso dolce che piano le increspò le labbra. Pareva la quiete dopo la tempesta, l'amore dopo la voglia sfrenata di possedersi. Forse Ivar conosceva bene quel sentimento che Astrid aveva rimosso e che alimentava sempre più la sua confusione. «Resta con me» mormorò. Non "Ti amo", non "Eternamente tua". Non pronunciò nessuna delle frasi che in genere sussurrava prima o dopo aver fatto l'amore. Astrid lo amava ancora, certo, ma non era in grado di capirlo. In quel momento aveva solo bisogno di Ivar, non importava quale legame li avesse uniti in passato. Lo pregava di restare, di non lasciarla andare, perché la ferita aperta al confine di Besaid non si era mai rimarginata. Era come se Heloise gli chiedesse ora ciò che non era stata capace di chiedere due anni prima.
    Intrappolò le sue labbra carnose con un bacio, dapprima delicato e poi sempre più profondo. Inarcò la schiena, permettendogli di stringerla tra le sue forti braccia, per poi sganciare e sfilare il reggiseno. Le dita di Astrid seguirono piano la linea della colonna vertebrale e poi scivolarono lungo i fianchi scavati, fermandosi al bottone dei jeans, indossati ancora da entrambi. Ben presto andarono a far compagnia a tutti gli altri indumenti sparsi per il pavimento, insieme ai pezzi di quel muro invisibile che, ormai, non li divideva più. Almeno per quel momento. Almeno per quel piccolo attimo che il destino concedeva loro di vivere. Un ultimo sguardo, un'ultima promessa scambiata e taciuta. Astrid strinse la mano di Ivar , intrecciando le dita con le sue. C'erano solo loro, la bufera di neve bloccava ogni cosa, persona, pensiero, ricordo. C'erano solo quei maledetti sentimenti esplosi con violenza e disperazione, come se fossero stati a lungo tenuti sotto pressione. C'era la sua confusione che aumentava ad ogni bacio. C'era il suo corpo, il suo cuore che chiedevano soltanto di abbandonarsi al giovane falegname. C'era Heloise stretta tra le braccia di Ivar. Tutto era fin troppo giusto.

    Edited by .Souseiseki. - 22/3/2018, 20:57
     
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    | IVAR WESENLUND | 24 y.o | Astrid's house
    Inarrestabili, come il carro condotto da Achille, il cui moto era alimentato dalla sua furia, le sue azioni sfuggivano al suo controllo, inesorabili, come mosse da una volontà altra, e lo conducevano verso la dannazione. Erano perdizione, le labbra di lei che tanto bramava. Erano specchio dei suoi errori, quegli occhi che prepotentemente strappavano colori alle tenebre e si piantavano nei suoi. Erano come spire le punte delle sue dita che sfioravano la sua pelle tanto delicatamente da fargli desiderare che quel tocco divenisse più deciso.

    "Quando leggemmo il disiato riso
    esser basciato da cotanto amante,
    questi, che mai da me non fia diviso,
    la bocca mi basciò tutto tremante.
    Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
    quel giorno più non vi leggemmo avante."

    Avrebbe voluto fermare il tempo, Ivar, riavvolgerlo e non ripetere l’errore che aveva appena commesso. Avrebbero scatenato ricordi, le sue azioni, avrebbero aperto finestre dolorose su quel passato che Astrid aveva dimenticato. Aveva promesso a un uomo morente che mai avrebbe cercato di risvegliare quelle memorie, aveva sacrificato se stesso affinché esse venissero cancellate. Ed ora era lì, a compiere un passo indietro, chiedendosi quale sciocco istinto lo avesse spinto ancora una volta a cercare le labbra di lei, il sapore di quel bacio rubato. Era incoerente Ivar, ed ogni volta che se ne rendeva conto era ormai troppo tardi.
    Implorò gli dei che lei fuggisse, che entrambi potessero scappare da quella situazione, mentre il conflitto tra ciò che avrebbe voluto e ciò che avrebbe dovuto fare dilaniava il suo animo inquieto. Abbassò lo sguardo quando la sua Heloise si avvicinò di nuovo. Si irrigidì leggermente, quando sentì il respiro leggero di lei sulle labbra. Non farlo, ti prego, fermati. La implorò la sua parte razionale, quella che ancora credeva nella giustizia delle azioni e nell’irrazionalità dei sentimenti. Quella parte consapevole che ciò che sarebbe accaduto avrebbe fatto loro solo del male, che li avrebbe devastati più di quanto già erano. Eppure il suo corpo rispondeva al suo cuore, non si sottrasse al tocco delicato di lei. Non si sottrasse il suo cuore al suo sguardo penetrante, reso più vivido di tanto in tanto dal bagliore dei lampi. Non riuscì, la ragione, ad allontanare il brivido che percorse la sua schiena a quel contatto, la morsa che sembrava aver attanagliato il suo stomaco. Non riuscì a fermare la sua mano, che delicata andò a spostarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Non riuscì la ragione a prevalere sul desiderio che Ivar aveva di lei.
    Era un sogno quello, probabilmente, un effimero sogno atto a destabilizzarlo, un refuso della sua coscienza e dei suoi ricordi. O forse quella era la sua ultima occasione, l’ultimo istante da vivere con la sua Heloise. Aveva la possibilità di vivere un altro istante con lei, di averne un ulteriore ricordo. L’aveva lasciata andare, Ivar, ma mai aveva smesso di aspettare il suo ritorno, come Penelope sulle spiagge di Itaca. Mai aveva smesso di amarla, pur sapendo che quella nave probabilmente non sarebbe più approdata sulle sponde che aveva dimenticato. Aveva portato via il suo cuore, Astrid, il giorno in cui se n’era andata. Forse aveva inconsciamente atteso, Ivar, quel dannato momento, in cui quel cerchio lasciato a metà sarebbe stato chiuso.
    Forse si illuse solamente che un ultimo bacio sarebbe bastato a dare quiete al suo cuore. Si illuse, il falegname, che quella notte non avrebbe cambiato le cose. E si abbandonò ai caldi baci di lei, lasciando che i freni si sciogliessero, stringendola a se con leggera irruenza. Se quella fosse stata l’ultima notte da passare con lei, l’ultima volta in cui avrebbe potuto stringere la sua Heloise tra le sue braccia, allora l’avrebbe tenuta con sé fin quando l’alba non gliel’avrebbe di nuovo strappata. Aveva sperimentato sulla propria pelle quanto dolorosa fosse la sua assenza, e proprio per questo, ora, non riusciva a lasciarla andare. Serrò le labbra sulle sue, avido del suo sapore che troppo a lungo aveva dimenticato, si inebriò del suo profumo, ora tanto vicino da mescolarsi al proprio. La strinse a sé, come se nulla avesse più potuto separarli. Non c’era un domani, non c’era un poi in quel momento, non c’erano passati dimenticati o futuri incerti. C’erano solo lui e la donna che amava, i cui corpi e i cui cuori, ora, nemmeno la luce sarebbe riuscita a separare. Non c’era più ragione a guidare i suoi gesti, il suo cuore aveva preso il sopravvento. La spinse leggermente indietro, fino al tavolo che insieme avevano costruito, e che galeotto era divenuto, come il libro per Paolo e Francesca. Le sue mani rincorsero la pelle liscia di lei sotto le vesti, mentre le labbra restavano avvinghiate alle sue. Lasciò scivolare le mani lungo le sue cosce e le strinse appena, quando lei avvolse le gambe intorno al suo bacino, e si sporse leggermente in avanti. Era un continuo rincorrersi, rincorrere quell’utopia che mai avrebbe pensato di rivivere. Bramava le sue labbra, il suo corpo, il suo respiro, il battito del suo cuore. Bramava, Ivar, tutto ciò che troppo gli era mancato. E il pensiero di quanto l’assenza di lei l’avrebbe devastato di nuovo lo spinse a non lasciarsi sfuggire neanche un millesimo di quel momento, un suo respiro, una sua carezza. Aveva sfiorato la sua pelle migliaia di volte in passato, eppure stavolta era diverso, loro erano diversi. Era una ricerca disperata la sua, di qualcosa di talmente effimero che sapeva potersi dissolvere in un istante. Era questo a farglielo desiderare ancora di più, a permettergli di sovrastare la ragione, di metterla a tacere per una dannata volta. Si fermò, lei, per un istante, incrociando il suo sguardo e poggiando la fronte sulla sua. Sembrava preoccupata. Forse anche in lei la ragione aveva ancora voce in capitolo. “Non lasciarmi andare”.
    Restò interdetto, per un istante, lasciando sprofondare il proprio sguardo in quello di lei. Aveva già udito quella richiesta uscire dalle sue labbra, tempo prima. L’aveva implorato di non lasciarla andare. Non aveva dato adito a quella richiesta, a suo tempo, aveva lasciato che la ragione prevalesse.
    “No, non stavolta.” Si lasciò sfuggire, in un sussurro, lasciando di nuovo scivolare le labbra tra le sue, in un gesto quasi disperato dettato dall’istinto. Le sue mani percorsero la linea della sua schiena, dal basso verso l’alto, impigliandosi nel maglioncino che sfilò velocemente. Una nuvoletta di farina si liberò nell’aria, mentre quel capo d’abbigliamento finiva a terra e il profumo della sua pelle inebriava le sue narici. Le sue labbra scivolarono lungo il suo collo esile e delicato, scendendo lungo quel declivio e poi risalendo, alla continua ricerca del calore delle labbra di lei.
    Sapeva che non era giusto, tutto quello, sapeva che l’avrebbe per sempre tormentato, quell’ultimo errore. Eppure non importava. Era ciò che più desiderava in quel momento. Era ciò che tanto aveva atteso. Era ciò che gli era terribilmente mancato. E il suo cuore era in pace in quel momento, era dove sempre aveva voluto essere: a contatto col battito accelerato di lei, tra le braccia di lei, incatenato a lei.
    Indietreggiò, senza smettere di baciarla, quando lei scese dal tavolo e si distese a terra, trascinandolo con sé tenendogli la mano. Seguì i suoi movimenti, lui, come legato al suo corpo da fili invisibili. E si distese su di lei, senza gravarla col suo peso, lasciando che la sua pelle collidesse col la sua, mentre le loro labbra, di nuovo, si univano e si cercavano. Cresceva, ogni istante, il desiderio di lei, che troppo a lungo era rimasta solo un miraggio, un ricordo lontano. Il suo profumo, il suo sapore, risvegliavano in lui sensazioni ormai sopite e offuscate, le rendevano, vivide, reali. Sembrava irreale, il poter stringere di nuovo la donna che amava tra le sue braccia, qualcosa che era destinato a rimanere relegato alla damnatio memoriae. Eppure erano lì, entrambi, lontani da ciò che il domani avrebbe comportato. Erano dove i loro sogni li avevano sempre portati ad essere. Sfiorò le sue labbra, che si incresparono in un dolce sorriso. “Resta con me”. Sussurrò lei. Non avrebbe potuto essere altrimenti. Sarebbe forse durata troppo poco, quell’oasi di felicità in mezzo alla tempesta. Non importava. C’erano solo lui e la sua Heloise in quel momento, i loro corpi che anelavano ad unirsi, i loro cuori che, dopo tanto tempo, battevano di nuovo all’unisono. “Non vorrei essere in nessun altro luogo, ora. Non vorrei nessun altro, se non te.” Sussurrò, sorridendo a sua volta. Avrebbe voluto dirle che era sempre stato così, che nulla aveva mai potuto sostituirla o eguagliarla. Avrebbe voluto dirle che era sempre rimasto con lei, anche se lei non lo ricordava, che il suo cuore era sempre stato suo, anche quando lei lo aveva portato nel posto più lontano del mondo e l’aveva chiuso in uno scrigno di dimenticanza. Avrebbe voluto dirle che sarebbe rimasto con lei per sempre, ma questo, forse, avrebbe implicato un futuro che mai avrebbe potuto verificarsi. La baciò, di nuovo, tirandola a sé e percorrendo la sua schiena con la mano libera, per poi sganciare il reggiseno e sfilarlo con delicatezza. La poca luce non permetteva di ammirare ciò che agli altri sensi era fortunatamente concesso percepire. Percorse delicatamente quella pelle liscia e quelle curve che tanto bene conosceva centimetro dopo centimetro, mentre lei gli sfilava i jeans. Fece lo stesso, lasciando correre le proprie labbra lungo la linea del suo sterno e lungo l’addome, scivolando sopra di lei fino a raggiungere il bottone e slacciarlo, per poi sfilarle quell’indumento ormai superfluo. Si distese di nuovo su di lei, mentre la brama di averla prendeva sempre più il sopravvento. Troppo gli era mancata la sensazione di possedersi, di essere parte di un unico corpo. Troppo la morbidezza della sua pelle sotto le sue dita. Troppo la dolcezza dei suoi sussurri, il piacevole suono dei suoi respiri affannati. Troppo Ivar aveva atteso la sua Heloise, senza che l’amore che provava per lei mai si affievolisse.
    Accarezzò i suoi fianchi, per poi sfilarle l’intimo, la cui ruvidità del ricamo contrastava fastidiosamente con la sensazione della sua pelle calda e levigata. Lasciò che quell’indumento trovasse posto insieme agli altri sparsi a terra, per poi lasciar correre la sua mano lungo il suo interno coscia. Non c’era imbarazzo in quei gesti, non c’era l’inibizione di due persone che si trovavano ad andare oltre il muro del reciproco pudore per la prima volta. Era come se il tempo non fosse trascorso, come se entrambi avessero i medesimi ricordi e i medesimi sentimenti. Come se Ivar e la sua Heloise non si fossero mai lasciati davvero. Percepiva il battito del cuore di lei, scalpitare contro il proprio petto. Avevano lo stesso ritmo, quei due cuori che tanto si erano cercati e mai si erano arresi all’oblio, a differenza dei loro proprietari. Non c’erano parole necessarie ad accompagnare quei loro gesti, nulla era necessario ad accompagnare le sensazioni che questi si portavano dietro. Era tutto, spontaneo, tutto dannatamente giusto. Corse lungo una delle sue gambe e la sollevò leggermente, lasciando poi che i loro corpi aderissero, senza fretta, e lanciandosi sfuggire un sospiro più marcato. L’altra mano corse lungo il braccio di lei, cercando la sua mano per poter intrecciare le dita alle sue. Non aveva paura di farle del male in quel momento, la sua capacità sembrava lontana anni luce, quando lei era tra le sue braccia.
    C’erano solo due perduti amanti, in quel momento, che null’altro bramavano che restare uniti abbandonandosi a movimenti lenti. Non c’erano che i loro respiri mescolati, lo sguardo dolce di lei che ogni tanto incrociava, tra un bacio e l’altro. Non c’era che un amore quasi disperato, che implorava affinchè quella notte divenisse eterna, e che il giorno non si manifestasse. Non c’era paura in quel momento, non c’era rimpianto.
    Sarebbero giunte dopo, quelle sciocche e malevole sensazioni, quando l’alba avrebbe portato allo scoperto quel loro rifugio. Li avrebbero distrutti probabilmente, o forse sarebbero bruciate insieme a loro. C’era solo quel fuoco, che ardente li consumava, e che nemmeno gli dei, ormai, avrebbero potuto spegnere.
    Chiedo venia per il ritardo e per il post esiguo. Mi sto ancora riprendendo. Conta che a una certa volevo mettere le note a piè di pagina, fai te.
     
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