Quest: Tempo al tempo

10.03.18

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    Albert Einstein diceva:
    “Quella del mistero è la migliore esperienza che possiamo avere.
    È l’emozione fondamentale che veglia la culla della vera arte e della vera scienza.”
    Il primo giorno di Mercurio, quando il cielo si tinge di rosso – Luna Park di Besaid, “Spiegelhaus”.



    Seduto a gambe incrociate nell'angolo più remoto di un labirinto fatto di specchi, Dagmar provava a ricordare. Le luci fioche di quello spazio fin troppo angusto tremolavano, come fossero le flebili fiammelle di una o due candele. Aveva gli occhi chiusi, respirava profondamente; le mani posate con cautela sulle propria ginocchia, quasi volesse mantenersi ad esse per paura di crollare, precipitare in un limbo in cui avrebbe dormito senza riposare, un limbo nel quale sperava di non arrivare a perdersi mai, incapace nel trovare una via di fuga, una luce alla fine del tunnel ombroso. Nella sua mente, i pensieri ondulavano dolcemente al ritmo delle note fluide e profonde di un grande pianoforte nero. Un ragazzino dai capelli dorati muoveva con naturalezza le proprie dita su quei tasti, quasi ne conoscesse ogni segreto, ogni sussurro. Erano ricordi piacevoli, di un tempo in cui quel piccolo Dagmar aveva avuto dei sogni da realizzare, delle aspettative e ambizioni da rincorrere. Ricordava il viso di sua madre, quel sorriso dolce e sincero che lo aveva accompagnato attraverso i percorsi più tumultuosi della sua infanzia. E rimembrava la voce roca di suo padre, quell'uomo incredibilmente forte che aveva invidiato e ammirato come se nessun altro, al mondo, meritasse poi così tanto rispetto. Aveva avuto delle mani oneste, gentili, dalle quali si era dovuto ben presto separare, contro la propria volontà. Aveva sognato spesso di raggiungerli, immaginandosi accanto a loro ancora una volta, pronto a camminare fra le nubi e a guardare il mondo dall'alto, da quella tanto spaventosa quanto misteriosa prospettiva. E lo aveva fatto per davvero: aveva abbandonato il presente per lasciarsi trasportare dalla mente nei luoghi più reconditi della propria anima, rivelando a se stesso quanto poi fosse facile attraversare quella linea che separa la realtà dalla finzione, la tristezza della routine dalla gioia di un desiderio. Un tempo passato, reso quasi invisibile agli occhi di chiunque lo conoscesse. Non sapeva come o perché fosse arrivato fin lì, non aveva la minima idea di come liberarsi delle catene che gli avvolgevano i polsi, le mani, le dita, i piedi. Le catene immaginarie che andavano a stringergli anche il torace, togliendogli il respiro e costringendolo ad adeguarsi al nuovo stile di vita, al nuovo ragazzo che del vero Dagmar sembrava avere ormai ben poco.
    Dei passi risuonarono all'interno di quelle mura di latta, mentre una figura slanciata avanzava in direzione di Dagmar zigzagando fra le pareti di vetro. Fischiettava con naturalezza, come se fosse nel mezzo di una passeggiata serale in compagnia del proprio ego. Un uomo dalla pelle candida e dai capelli castani, con due grandi occhi rotondi del colore del ghiaccio. Aveva uno sguardo incuriosito mentre voltava il capo da un lato all'altro per ritrovare i propri occhi su se stesso e sulla propria figura impettita nei vari riflessi che lo circondavano e lo accompagnavano alla scoperta di quel luogo sconosciuto. Quello sarebbe stato un grande giorno, per l'uomo dagli occhi in superficie. Sotto le iridi chiare, nascondeva una conoscenza spaventosa avvolta da un mantello di mistero inadeguato a quel mondo già troppo affetto da negatività. Eppure, sebbene per molti avrebbe potuto essere asfissiante ritrovarsi costretto in quei triangoli di spazio larghi meno di mezzo metro quadrato, quell'uomo sembrava esser l'unico ad avvertire una sensazione del tutto contraria alla paura. Si fermò nel centro esatto della stanza, voltandosi nuovamente su se stesso e mantenendo il proprio sguardo sul viso nel riflesso che aveva di fronte. Portò le proprie mani alle estremità della giacca grigia che indossava, stringendone il tessuto fra le dita e raddrizzandola sulle proprie spalle. Curvò la schiena, tirandosi leggermente su e assumendo una posizione ritta. Chinò poi il capo verso destra, notando quanto si sentisse a proprio agio all'interno di quelle false mura. Chi avrebbe mai dovuto temere? Se stesso, forse? Si voltò ancora, riprendendo i propri passi e raggiungendo così il punto in cui si trovava il giovane Dagmar. Si chinò in sue direzione, una volta posizionatosi dinnanzi al corpo quasi inerme del ragazzo. Allungò un braccio e posò la mano sulla spalla del giovane. Ne avvertì le ossa sotto il palmo, a contatto con la pelle ruvida delle proprie mani. Strinse le dita attorno alla t-shirt del ragazzo, tirandolo appena verso di sé, con cautela, cercando quasi di tranquillizzarlo, sebbene per chiunque sarebbe stato un approccio del tutto errato, conoscendone le intenzioni. «Ragazzo, figliolo. Sei pronto?» gli domandò; il tono di voce fu quasi un sussurro, ma in qualche modo riuscì a colpire nel punto più profondo della testa di Dagmar, il quale per la prima volta dopo diverso tempo aprì gli occhi per osservare l'interlocutore. Dovette abbandonare il pianoforte, le note flebili di una musica triste che risuonava nella sua testa sin da quando era bambino, e che a fatica tentava ancora di conservare negli angoli più reconditi della propria mente. Scivolò via dall'oscurità della propria memoria per cadere in un nuovo spazio, quello reale che avrebbe voluto tanto lasciarsi alle spalle, cancellare per sempre. Serrò di scatto le labbra, mandando giù quel poco di saliva che gli era rimasta. Si passò poi la lingua sul palato, sbattendo ancora qualche volta le palpebre, quasi fosse in attesa dell'arrivo di qualcuno, pronto a salvarlo, portarlo via di lì, via da tutto. Ma nessuno fece il proprio ingresso, nessuno gridò il suo nome, così si limitò ad annuire ancora una volta, rimanendo nel silenzio che lo avvolgeva. L'uomo dinnanzi al ragazzo sorrise istantaneamente, lasciando che ai lati delle labbra carnose si formassero delle piccole parentesi. «So che hai paura, Dagmar, ma ci siamo esercitati a lungo per poter affrontare questo giorno, non credi? Suvvia, non aver paura, vedrai che sarà una cosa... una cosa mai vista prima.» disse, lasciando trasparire un tremolio della voce verso l'ultima parte della frase pronunciata. Era in fibrillazione, incapace di credere che tutto ciò stesse per accadere veramente. Era sicuro che tutti coloro i quali erano stati presi per l'appello, avrebbero deciso di presentarsi. Ognuno di loro era stato scelto con eccessiva cura, osservandone le mosse e studiandone gli intrecci. Ognuno di loro, o quasi, conosceva gli altri, il che avrebbe reso il tutto un po' più complicato per i suddetti, e decisamente più interessante per l'uomo dagli occhi blu. Si sollevò quindi, liberando la maglia di Dagmar dalla propria stretta, e si avviò nuovamente in direzione delle pareti a specchio per attraversarle e oltrepassare il centro della stanza, raggiungendo poi una seconda estremità, direttamente frontale al punto in cui si era accucciata la sua cavia. Dagmar aveva un'abilità piuttosto speciale, qualcosa al quale lo sconosciuto non avrebbe mai potuto rinunciare. Difatti era stato lui uno dei primi esperimenti umani a finire fra le proprie mani. Lo aveva studiato per anni, tracciandone ogni singolo cambiamento e concentrandosi su di lui più che su chiunque altro. Era stato lui a prelevarlo dall'orfanotrofio di Besaid, quando il piccolo aveva avuto solamente 7 anni. Già allora, Dagmar aveva avuto l'incredibile e prematura sviluppata abilità di creare delle illusioni. La vera particolarità, però, si nascondeva nel fatto che quelle illusioni, generavano delle conseguenze nei corpi delle vittime che restavano nella realtà. Il bambino riusciva quindi a mantenere uniti mente e corpo del soggetto, rendendo però reale anche tutto ciò che nell'emisfero parallelo dell'illusione avveniva. Così lo studioso aveva voluto fare il primo vero esperimento su se stesso: aveva chiesto a Dagmar di immergerlo nell'illusione di essere in una cucina, partendo quindi da qualcosa di non troppo difficile da immaginare, dato che nella vita di chiunque ne era stata presente almeno una. E così aveva fatto; si era ritrovato in uno spazio caldo, accogliente, una cucina dalle pareti arancio con mobili in legno verde. Si era guardato intorno, accertandosi della presenza di qualsiasi oggetto necessario alla preparazione di un pasto. Si era avvicinato alla credenza, aprendone lo sportello in vetro e tirando fuori il cubo in legno nel quale erano immerse quattro lame di grandezza e affilatura diverse. Ne aveva presa una, la più affilata di tutte, e si era procurato un piccolo taglio nel polpastrello dell'indice della mano sinistra. Aveva osservato un rivolo di sangue scorrere lungo il dito, raggiungendo il palmo della mano per poi fermarsi nel centro esatto di esso. Quando l'illusione era svanita, il taglio aveva continuato a sanguinare anche nella dimensione reale, ma fra le sue mani non vi era stato più alcun coltello. Quello era stato il principio di tutto, il motivo per il quale si era lanciato nell'oscurità dei misteri che nascondeva Besaid, alla ricerca di un qualcosa che potesse dargli delle risposte, alla ricerca delle origini di quella forza, di quei poteri, quei doni tanto spaventosi quanto grandiosi di cui solo all'interno di quelle mura si poteva godere. E mentre osservava ancora una volta il palmo della propria mano, ricordando nitidamente il percorso che il sangue aveva tracciato tempo addietro, la porta della casa degli specchi si aprì, inondando brevemente di luce esterna quel luogo oscuro, pieno di specchi opacizzati, rendendo per qualche secondo meraviglioso ciò che sembrava essere spaventoso. La porta si richiuse alle spalle di figure indistinte. L'uomo dagli occhi blu si ritirò nell'ombra, adagiando la propria spalla alla parete di latta della casa. Voltò il proprio sguardo in lontananza, su un'ombra accovacciata nel buio dell'angolo est della struttura. Era capace di distinguerne i contorni solo perché sapeva che Dagmar era seduto proprio in quel punto, in attesa di poter eseguire gli ordini.
    Non aveva idea di come sarebbe andata, ma era curioso di scoprirlo. Schioccò le dita, producendo quel lieve suono che raggiunse immediatamente le orecchie del giovane ragazzo accovacciato all'altro lato della stanza: tutto mutò, il buio divenne luce, l'ordine caos. Era giunto il momento.


    Indicazioni:
    -- Il Luna Park è insolitamente poco affollato nel momento in cui i vostri pg fanno il loro ingresso. Cercheranno la scritta ”Spiegelhaus”, leggendola nell'insegna posta sopra la Casa degli Specchi. Si ritroveranno quindi alle spalle della struttura, facendo il loro ingresso liberamente dato che nessuno li attenderà all'esterno.
    -- Una volta all'interno della casa, la luce fioca non permetterà di distinguere nessuna delle due figure già presenti al suo interno, per questo dovranno avanzare di qualche passo, prima di cadere in una sorta di limbo che li catapulterà nell'anno 1917, all'interno del celebre palazzo d'inverno a San Pietroburgo, in Russia.
    -- Nel 1917 scoppiò la rivoluzione d’ottobre, una guerra civile e politica atta a capovolgere la monarchia per l’instaurazione della repubblica sovietica. I Romanov furono sterminati, circa una ventina di persone assassinate, cancellando dalla storia un terzo della famiglia imperiale. Il palazzo d’inverno, a San Pietroburgo, fu spesso disabitato e il suo splendore distrutto dal tempo.
    I personaggi si ritroveranno nella Sala di San Giorgio, un grande salone costruito sotto lo zar Nicola I, luogo di cerimonie imperiali e feste sfarzose. Il pavimento è in marmo rosso di Cottanello, i cui colori prevalenti sono il rosa e il rosso bruno, con venature di calcite bianca o grigia. Disegna un grande rettangolo intrecciato in motivi geometrici, mentre nel centro esatto del salone si ha un grande rosone contornato da una raggiera di stelle. Tuttavia non è facile ammirare tale lavoro, poiché ricoperto da cenere mista a strati di fuliggine.
    È possibile dividere le pareti in due sezioni, una inferiore e una superiore.
    Per tutto il perimetro inferiore, si snoda una serie di colonne alternate a finestre arcuate. Queste sono coperte da pesanti tendaggi e in velluto. Pochi sono intatti, alcuni presentano squarci di notevoli dimensioni, altri hanno bordi divorati dal fuoco e sono ormai ridotti in cenere. Agganciati alle colonne, coronate da capitelli di ordine corinzio, ornati da foglie d’acanto, candelieri a muro in oro.
    A separare la sezione inferiore da quella superiore, un architrave sormontato da un cornicione merlettato. Sopra esso, alternate a finestre più squadrate e piccole, coppie di statue rappresentanti le divinità greche e le virtù, scolpite con perizia e quasi tutte intatte. Le finestre sono inserite in edicole con frontone ricurvo e lunotto decorato con motivi floreali.
    Il soffitto è liscio e contornato da una fila di cassettoni. Pendono, equidistanti, tre enormi lampadari sfarzosi, ricolmi di cristalli e dotati di almeno duecento candele ciascuno.
    L’illuminazione è scarsa, non tutte le candele sono accese, molte di esse hanno ormai consumato la loro cera, colata e raffreddatasi sul pavimento in piccole chiazze chiare. I tendaggi scarlatti rendono ancor più scuro l’ambiente. Ad angolo un pianoforte a coda nero, aperto, con alcuni tasti assenti ed altri sfondati. Non è più possibile suonarlo, nonostante vi siano ancora spartiti sul leggio.
    Non un suono echeggia nel grande salone, tutto è avvolto da un silenzio quasi assordante. Dei divanetti disposti sotto le finestre arcuate, pochi ve ne sono rimasti, scorticati e divorati dalle fiamme. Uno, presenta chiazze di sangue ormai secco e scuro.
    Tutto è rimasto bloccato a quando, in una tragica notte, undici membri della famiglia Romanov furono uccisi dai rivoltosi e, con essi, massacrati gli invitati di un ballo voluto da Nicola I.
    I personaggi si ritrovano nel centro esatto del salone, le grandi e massicce porte sono chiuse e sbarrate. Non è possibile alcuna via di fuga. [x]
    -- Per il primo giro di risposte, avete la completa libertà di descrivere le reazioni dei vostri PG nel momento in cui intorno ad essi lo scenario cambia. Nella grande stanza, oltre tutti loro, non è presente alcun PnG. In più, vi ricordiamo che avete la possibilità di postare entro 3 giorni massimo, dopodiché salterete il turno.

    Per maggiori info riguardo la quest, consultate questo topic.


    Turni: (ATTENZIONE: per necessità di gioco, è molto probabile che questi cambieranno radicalmente di volta in volta)
    1. Adam
    2. Engy
    3. Tori
    4. Ivar
    5. Fae
    6. Elias
    7. Ingrid
    8. Jason

    Qualsiasi dubbio o domanda riguardante la Quest potete porgerla in questo topic.

    Edited by Comet - 13/3/2018, 10:17
     
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    "Spiegelhaus". Casa degli specchi. La scritta sullo stabile nel Luna Park era uguale a quella sull'invito che Adam aveva ricevuto. Era un messaggio misterioso, e la curiosità lo aveva sopraffatto nei riguardi di questo enigma. Sotto sotto, possedeva ancora il sesto senso da poliziotto, e non gli dispiacque presentarsi dove gli era stato indicato per indagare. Il ragazzo era fortemenete istintivo, e se avesse percepito che qualcosa non stesse andando per il verso giusto si sarebbe difeso - difatti, oltre alla sua notevole prestanza fisica, poteva utilizzare la sua particolarità anche per proteggersi ed attaccare. Era vestito con una t-shirt verde militare, i suoi jeans neri, ed il parka grigio scuro che indossava di solito. Una volta arrivato nel parco di divertimenti, il giovane si guardò intorno. Non c'era molta gente, ed era strano. Di solito, quello era uno dei luoghi che più detestava frequentare, proprio perchè era pieno di calca, e ciò non incoraggiava un orso come lui ad inoltrarsi nel contatto umano che imponeva la vita di città. Data la presenza rada di avventori, il guardiacaccia si era aggirato indisturbato e silenzioso tra le attrazioni, fino ad arrivare a quella che avrebbe dovuto esplorare. Naturalmente, trovò particolarmente curioso che il punto d'incontro fosse proprio la casa degli specchi; il valore metaforico di quel luogo e l'inquietudine che ne derivava erano notevoli. Si poteva guardare sè stessi, non solo per come si era ma anche con lenti distorte - sarebbe stato davvero possibile vedere la propria vera essenza? Forse no.
    Fermatosi alle spalle della struttura, Adam notò l'accesso - era come se quel posto avesse vita propria e lo stesse aspettando. Non c'era nessuno fuori, e per questo il ragazzo si prese qualche attimo per ponderare le sue scelte. Voleva davvero entrare? Qualcosa nel suo istinto gli suggeriva che qualcosa non quadrava perfettamente. Il silenzio all'esterno della costruzione era assordante, e quasi vagamente innaturale. Eppure, la curiosità era troppa. Dunque, prendendo un respiro, il giovane entrò nella casa. L'oscurità gli colpì immediatamente le iridi nere, avvolgendogli le membra come fosse un mantello quasi percepibiile sulla pelle. Gli specchi si intravedevano soltanto, e per qualche momento catturarono l'attenzione del guardiacaccia, che non era abituato ad osservarsi. Era sfuggente persino con se stesso; per questo, essere messo di fronte alla sua immagine costituì un invito a fermarsi. Ancora, non c'era nessuno. Per qualche attimo, si chiese se fosse il posto giusto, dato che la stanza sembrava essere vuota - sembrava, appunto. Il boscaiolo schiuse le labbra, per chiedere se ci fosse qualcuno, avanzando di un altro passo, per poi sentirsi potentemente sballottato da qualcosa.
    Dopo qualche momento di sorpresa totale, Adam si ritrovò in una ampia sala da ballo, riccamente decorata, sfarzosa, eppure decadente. L'intera stanza era sporca, ricoperta da fuliggine e cenere. Colto dallo shock di trovarsi improvvisamente in un posto che non conosceva minimamente, lo sguardo del ragazzo rimbalzò dal pavimento di marmo rosso dalle venature bianche che quasi lo confuse nel suo motivo ornamentale geometrico, alle colonne che caratterizzavano la parete inferiore. Lo spazio sembrava essere cristallizzato nel tempo. I tendaggi pesanti di velluto cremisi sembravano essere intrisi di polvere, martoriati da una storia di violenza nelle loro lacerazioni. Non era una vista rassicurante. Sollevando lo sguardo, si potevano notare i capitelli corinzi finemente scolpiti, i candelieri a muro ora opachi, statue di divinità greche, finestre che lasciavano timidamente entrare la luce nell'ambiente che giaceva nella semi-oscurità. I lampadari che pendevano dal soffitto erano particolareggiati e i cristalli che li componevano sembravano tintinnare quietamente ad ogni singolo spiffero d'aria. Un pianoforte a coda era posizionato in uno degli angoli della sala, visibilmente provato anch'esso dagli avvenimenti che avevano scosso quel luogo. I piccoli divani erano logorati - probabilmente dalle fiamme e tinti di sangue. Man mano che si scorgevano i dettagli, quel posto sembrava sempre più lugubre e segnato dalla sofferenza.
    Mormorando una imprecazione a denti stretti, Adam finì di ispezionare il luogo, e avvertì l'ansia insinuarsi dentro di lui; non capiva dove fosse, cosa fosse successo e perchè fosse lì. Solo un attimo prima si trovava al luna park di Besaid, ora invece era in una macabra sala da ballo di un palazzo, da solo. Completamente solo. Naturalmente, la prima soluzione che gli venne in mente fu di uscire per orientarsi. Camminando per la stanza, i suoi passi pesanti echeggiavano nel silenzio spesso del luogo, che accentuava ogni singola vibrazione. Il ragazzo si fermò davanti ad una finestra, cercando di guardare fuori. Il vetro era gelido, quando vi appoggiò una mano a palmo aperto per scostare la cenere che vi si era depositata su. No, sicuramente non si trovava nella cittadina Norvegese, a giudicare dalla vista che si spianava davanti a sè. Scosso e nel panico, non riuscì a riconoscere la piazza che si estendeva davanti al palazzo, e proprio per questo era ancora più impellente il bisogno di uscire per scappare. Qualcuno l'aveva portato lì, o gli stava facendo vivere una illusione, e al giovane tutto ciò puzzava immensamente di pericolo.
    Arrivando a grandi falcate verso la porta chiusa della sala, Adam spinse un'anta, ma essa non si mosse, era bloccata. Spinse con più forza, niente. L'ansia che il guardiacaccia stava provando aumentò solo la sua tenacia, mentre cercava di aprire quel dannato portone con tutte le forze. Niente da fare, era chiuso dall'esterno. Senza muoversi, il panico che ora avvertiva era abbastanza per scatenare la sua particolarità, allora il ragazzo estese un braccio in direzione della finestra, forse avrebbe potuto romperla. Il vetro vibrò ma non si spezzò. Dannazione! Sbottò infine il giovane, con il cuore che batteva selvaggio nel petto, e la cui inquietudine piano piano si stava tramutando in frustrazione e poi in collera. Si sentiva in trappola, e vi ci era stato rinchiuso deliberatamente. Avrebbe voluto sfondarla a suon di calci - quella porta maledetta. Eppure, aveva capito che non sarebbe servito a niente; la chiusura era quasi ermetica, il legno indistruttibile e spesso. Per quanto si fosse dimenato, nessuno sarebbe stato in grado di fuggire. Il guardiacaccia aveva messo in conto che - a giudicare dalle particolarità di molte persone di Besaid - si sarebbe potuto trattare di una illusione, ma come esserne certi? Sospirando pesantemente, il boasciolo cercò di rilasciare un po' della tensione che si era accumulata nel suo corpo, tornando rassegnato al centro della sala. Nonostante tutti i suoi sensi ed i suoi poteri fossero all'erta, non aveva paura. Qualsiasi cosa gli sarebbe successa l'avrebbe accolta lottando.
     
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    In the language of this dream, in that palace of delight, we spoke with our whole selves... And my tall Nutcracker Cavalier had eyes only for me, for at least as long as that dream could be.
    (The Nutcracker)



    Chissá perchè quel giorno avesse messo proprio quella playlist lei non lo sapeva: quando la marcia numero due risuonò dalle casse, si ritrovò a volteggiare tra i tavoli, mentre portava cappuccini e colazioni varie.
    Sentiva lo sguardo degli anziani e di suo nonno su di sè, ma a lei non importava.
    Tutte le bambine avevano sempre voluto essere Delle principesse o Delle fatine, ma lei no: lei sin da piccola, un pò per colpa di suo padre e sua nonna, voleva fare l’avventuriera, la rivoluzionaria, la visionaria. Perchè soffermarsi ad un solo sogno? Se lo era sempre chiesto.
    Eppure mentre ascoltava lo schiaccianoci –e ne disegnava uno sul suo blocchetto– si immaginò lei stessa in un castello coperto di neve e con un lungo e voluminoso vestito principesco, candido come la neve che ricopriva quel luogo.
    Si ritrovò a fare un principe schiaccianoci alquanto simile all’uomo di cui si era innamorata, prima che suo nonno facesse svanire il suo sogno di neve e musica classica.
    ENGEL, COS’È QUESTA NENIA? MI FA VENIRE IL VIN SANTO ALLE GINOCCHIA…
    Nonno, è Tchaikowsky. Non offenderlo, su. Disse la barista, prendendo i soldi di un cliente che stava uscendo. Sospirò, tornando a guardare il disegno con sguardo assorto, il mento appoggiato sul palmo leggermente inclinato verso la guancia, sfiorando la pelle con i polpastrelli.
    COMUNISTI! RUSSI INFAMI!!! COMUNISTI!
    Alzò lo sguardo, annoiata dall’anziano, mentre la matita sbatteva ripetutamente sul dorso del blocco.
    Nonno, lo sai che siamo uno dei pochi paesi in cui il nazismo è ancora tollerato?
    Si erano voltati tutti, mentre la ragazza aveva ripreso a disegnare, godendosi le note del compositore russo: quello era il metodo piú veloce per zittire gli anziani che ben sapevano che la ragazza non tollerava argomenti politici discriminatori, vista la situazione nel loro paese a dir poco sconcertante.
    I passi del postino le fecero alzare gli occhi: l’uomo reggeva un pacco di buste che sicuramente dovevano essere tutte tasse e bollette da pagare. Le afferrò, ringraziando il postino e le guardò una per una: tassa della spazzatura, bolletta della luce, multa di nonno per parcheggio in divieto di sosta…
    Si fermò con lo sguardo su una busta con una calligrafia che non aveva mai visto: era abituata ormai ad osservare con minuzia ogni tipo di scrittura, l’aveva allenata per bene Adam e le lettere che si inviavano tramite quel piccolo pettirosso che gli inviava. Riusciva a riconoscere il mittente, solitamente, e quella le era sconosciuta. Appoggiò le altre buste sotto al bancone e con una certa precisione, aprí accuratamente quella che aveva tra le dita, sfilando un foglio ben ripiegato.
    Albert Einstein diceva:
    “Quella del mistero è la migliore esperienza che possiamo avere.
    È l’emozione fondamentale che veglia la culla della vera arte e della vera scienza.”
    Il primo giorno di Mercurio, quando il cielo si tinge di rosso – Luna Park di Besaid, “Spiegelhaus”.

    Gli occhi ambrati della ragazza viaggiarono sulla carta intestata, pesando la carta e ricercando un qualche marchio che tuttavia non trovò.
    Era strano: c’era qualcosa che puzzava tremendamente. E doveva scoprire cosa fosse. Essere donna era veramente un casino.

    Dreams are strangely familiar places. They are not all make-believe, but only the homely inside of yourself, like the inner lining of your favorite coat, or like the sweet kernel of the hardest nut that only the jaws of my Nutcracker Prince could reveal to me.(The Nutcracker)



    Mercoledí. Il sole stava calando, facendo spazio alla notte, tingendo il cielo di sfumature calde.
    Engy si era appostata sopra il cofano della sua jeep con il binocolo di nonno tra le dita: indossava un maglione largo, di colore bluastro, che la copriva fino a metá coscia, dei leggings caldi e morbidi scuri ed un paio di Timberland. Come al solito, aveva quel lungo cappotto color senape che si portava ovunque –non chiedetele perché, il senape è un colore che le garba parecchio–.
    Stava lí ad osservare chi si avvicinava alla casa degli specchi –Spiegelhaus– da circa un’ora, mangiando in tutta tranquillità un pacchetto di patatine, quando ecco che la sua curiositá venne catturata dalla figura imponente di Adam? sussurrò, corrugando la fronte, senza capire. Come poteva non averla avvertita? Oddio, e se aveva l’amante e quello era il loro luogo segreto per incontrarsi? Magari quel messaggio le era stato inviato per scoprire il tranello dell’uomo. O forse si stava facendo condizionare da quel film che aveva visto di recente. Ah, al diavolo, lei avrebbe scoperto cosa ci faceva il suo ragazzo in quel posto. Non appena vide la figura di Adam scomparire dentro la piccola casupola, la barista si fiondò giú dal cofano della sua gialla autovettura e sgattaiolò all’entrata. Si guardò attorno con fare guardingo e poi vi entrò facendo attenzione a non fare alcun rumore.
    Con le mani, tastava in giro per non andare a sbattere e farsi male, vista la fortuna sfacciata della sua famiglia –dannato Ivar– e alla tenebra opprimente che l’avvolgeva. Cercò di restare calma, nonostante si sentisse quasi in trappola, e piú continuava, piú sentiva il buio soffocarla. Chiuse gli occhi per calmare tutti i suoi sensi, e quando li riaprí si ritrovò in una stanza, completamente diversa da quella in cui era entrata –o quantomeno non sembrava una casa degli specchi–; si guardò attorno, mettendo un piede dopo l’altro davanti a sè, lentamente, come se potesse esservi qualche meccanismo che potesse far partire qualche trappola.
    Alzò lo sguardo, e notò le candele che emettevano un bagliore fioco: qualunque cosa stesse succedendo, era sicuramente uno scherzo di cattivo gusto.
    A farla trasalire fu la voce familiare del suo ragazzo: Dannazione! Si voltò verso le porte e lo vide, mentre cercava di aprirsi un varco nella finestra.
    Adam?
    Gli si avvicinò, avvolgendo il suo collo con le braccia, abbracciandolo e trovando un po’ di conforto.
    Dove diavolo siamo?
    Chiese, infine, studiando l’ambiente circostante: avvicinandosi alle porte constatò che erano bloccate e se nemmeno un attacco di un uomo come Adam poteva sfondare le finestre, di certo lei non poteva fare nulla.
    Solo allora si accorse di avere la borsa con sè, con il blocco da disegno e la matita.
    Lo tirò fuori e iniziò a disegnare quella che sembrava un’accetta piuttosto affilata. Quando la terminò, questa prese vita, abbastanza grande per essere impugnata. Engel la teneva stretta tra le mani e guardò Adam: Beh… è la prima cosa che mi è venuta in mente… come te la cavi a fare il remake di Shining, amore?
     
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    VICTORIANNE FAWNIE ÅRUD ☾

    Ferma dinanzi all’imponente cancello di ferro, sui cui torreggiava l’insegna del parco di divertimenti, la giovane ragazza affondò le mani nelle tasche del giubbotto di jeans, stringendosi nelle spalle per proteggere la pelle sensibile del collo da un’inaspettata folata di vento. Il cielo scuro, coperto da una spessa coltre di nubi, appariva come una sorta di funesto presagio e, in una giornata simile, il luna park di Besaid, una delle maggiori attrazioni turistiche della cittadina, era quasi deserto, come se avesse perso tutta la sua spensieratezza, trasformato da un luogo di risate e divertimento all’inquietante location di un film d’orrore di infima categoria. Victorianne storse il naso, una piccola smorfia di disappunto. Durante la sua “adolescenza turbolenta” aveva trascorso sin troppo tempo in quel luogo, talmente tanto da conoscere a memoria la maggior parte delle attrazioni. Vi era persino sgattaiolata di notte, dopo l’orario di chiusura, con qualche bottiglia di alcol consumata in un fugace quanto avventato rendez-vous.
    Una famiglia le passò accanto e, per un istante, i capricci del bambino più piccolo coprirono il rumore di un tuono in lontananza. Alzando gli occhi verso i nuvoloni scuri, la ragazza estrasse un pezzo di carta stropicciato dalla tasca destra. Aveva le dimensioni di un biglietto da visita ma, anziché contenere recapiti, sopra vi era riportata una citazione di Albert Einstein, accompagnata dall’indicazione del Luna Park di Besaid e, in particolare, della “Spiegelhaus” – la casa degli specchi. Come quell’invito fosse comparso sullo zerbino di casa Årud, privo di qualunque indizio riguardo al mittente, rimaneva tutt’ora un mistero e, se al principio tanto mistero l’aveva incuriosita, ora Tori cominciava a provare uno strano nervosismo. Conosceva almeno un centinaio di persone che avrebbero trovato divertente organizzare un simile scherzo; la sua testardaggine le aveva impedito di ignorare quelle parole, finendo per pensarci più del dovuto, quasi si trattasse di un enigma di vitale importanza.
    Il rumore di un clacson alle sue spalle spezzò il silenzio, riportandola bruscamente alla realtà. «Al diavolo!» Senza indugiare oltre, l’ultimogenita della famiglia Årud appallottolò il bigliettino nella mano destra e lo gettò a terra, entrando nel Luna Park ormai deserto. Si fece largo tra le diverse attrazioni tentando di sopprimere un improvviso bisogno di nicotina. Camminando a posso deciso, scrutò con estrema attenzione i volti delle poche persone che incontrò, sconosciuti o membri del personale provenienti dalla direzione opposta rispetto alla sua, intenti ad abbandonare le attrazioni, come se potesse cogliervi qualche indizio o – con un po’ di fortuna – smascherare l’artefice di quell’enigma. Finalmente, dopo aver superato la ruota panoramica, si ritrovò dinanzi all’entrata della casa degli specchi. Si avvicinò alla biglietteria apparentemente deserta e si sporse in avanti, tentando di scrutare oltre il vetro di plastica. «Ehi!» Chiamò, tentando di attirare l’attenzione di un eventuale bigliettaio. «C’è nessuno?» Riprovò. L’eco della sua voce, lievemente distorta da una vaga irritazione, fu l’unica risposta che ottenne. «Magnifico.» Borbottò tra sé e sé, allontanandosi dalla biglietteria e dirigendosi verso l’entrata principale casa degli specchi. «Una suspense degna dei Razzie Awards.» Non si preoccupò di limitare il proprio cinismo, certa che chiunque avesse fatto in modo di recapitarle l’invito – per chissà quale oscura ragione - potesse udirla. Si sentiva osservata, con la spiacevole medesima sensazione che, nel regno animale, le prede dovevano avvertire quando si ritrovavano nel territorio dei predatori e un’inquietudine che si sarebbe trasformata in consapevolezza solamente quando, infine, era troppo tardi. Se non altro, avrebbe reso palese la sua opinione al riguardo.
    Posò la mano sulla maniglia, tentando di aprire la porta, ma la serratura non cedette. Perplessa, Tori tentò di spingere, senza che la situazione cambiasse di una virgola. ”Ok, ora la cosa si sta facendo ridicola.” Fece appena in tempo a formulare quel pensiero prima di catturare un movimento con la coda dell’occhio. Istintivamente si appiattì contro la parete esterna della struttura, il cuore che aveva preso a batterle furiosamente nel petto. Quella situazione non le piaceva – per niente – e il suo sesto senso le stava letteralmente urlando di andarsene, comportarsi in maniera ragionevole e lasciar perdere quell’intera faccenda. Forse, per una volta, avrebbe dovuto ascoltarlo. Figuriamoci.
    Staccandosi di scatto dalla parete, si diresse istintivamente nella stessa direzione verso cui le era parso di scorgere qualcuno, ritrovandosi a compiere il giro completo dell’attrazione, sino ad arrivare all’entrata posteriore dell’edificio. Anche quel luogo era deserto, esattamente come il resto del parco e, vento a parte, il silenzio che la circondava era quasi assordante. Esitò una frazione di secondo prima di entrare; un filo di debole luce esterna illuminò il pavimento e Tori riuscì a scorgere il proprio riflesso nel primo specchio prima che l’oscurità lo inglobasse. Immobile, trattenne istintivamente il respiro, tentando di scacciare la primordiale sensazione di panico che la stava invadendo. Non vedeva nulla. Si sentiva vulnerabile e, pur non avendo visto nessuno, era certa di non essere sola. Deglutì, avvertendo la gola secca. «Hanno staccato la luce per caso?» Nonostante cercasse di dissimularlo, il suo tono di voce tremò di una nota di incertezza. Di nuovo, non ricevette nessuna risposta ma quando avanzò ulteriormente, mantenendosi vicina alla parete nella speranza di trovare un interruttore, l’oscurità iniziò a mutare, quasi si assorbisse e rimescolasse in sé stessa, e Tori ebbe la sensazione di scivolare via, leggere come una piuma, senza alcuna possibilità di opporsi. Durò solo un secondo e poi, all’improvviso, fu costretta a chiudere gli occhi, accecata dalla luce. Le sfuggì un gemito infastidito mentre si proteggeva con le braccia.
    Battè le palpebre un paio di volte, sino a quando le sue pupille si furono nuovamente adattate alla luce, e si raddrizzò, pronta a fronteggiare il responsabile di quel tiro mancino. Le parole le morirono in gola quando, scostato il braccio, si ritrovò in una stanza completamente differente dall’interno della casa degli specchi. Nessun riflesso la stava osservando o rideva di lei, bensì un’elegante salone in rovina fiocamente illuminato si estendeva davanti ai suoi occhi, cosparso di fuliggine e cenere. Tutto ciò che una volta doveva essere stato riccamente decorato e sfarzoso sembrava essere stato distrutto con incredibile violenza. Il pavimento di marmo era cosparso dei resti degli arredi come un campo di battaglia, i divanetti erano stati letteralmente sventrati, il pianoforte era stato danneggiato, numerose candele si era consumate e nell'aria permaneva un pesante odore di bruciato. Nulla era rimasto indenne. Victorianne si volse verso la parete al suo fianco, toccandola per accertarsi che non si trattasse della sua immaginazione. Avvertì la superficie liscia e gelida sotto i polpastrelli e prontamente ritirò la mano, quasi si fosse scottata. Indietreggiò, le spalle rivolte verso il centro della sala, ed osservò il proprio palmo sporco di fuliggine. Cosa diavolo stava succedendo? Dov’era finita?
    Rialzò lo sguardo sulla parete, alla ricerca di una qualche spiegazione razionale, quando un rumore alle sue spalle la fece sobbalzare. «Dannazione!» Tori spostò lo sguardo sulle due figure dalla parte opposta della stanza, responsabili dell’aver interrotto il silenzio, domandandosi stupidamente come non avesse fatto ad accorgersi prima della presenza altrui. Osservò i presenti, volti più o meno noti della cittadina, attoniti ed esterrefatti quanto lei. Tra loro riconobbe sui cugino Adam, il quale sembrava aver appena tentato di forzare la porta. Fece un mezzo passo nella sua direzione, guidata dall'istinto, salvo poi fermarsi. Anni prima gli sarebbe cosa incontro, rassicurata dalla sua sola presenza, ma il loro rapporto era esploso ed andato in pezzi esattamente come la maggior parte dei suoi legami familiari a tal punto che non sapeva nemmeno che fosse tornato a Besaid. Ad essere sinceri, se lo avesse incontrato di sfuggita per strada avrebbe persino faticato a riconoscerlo. Ora lui non era più il suo cugino preferito. E lei non aveva bisogno di farsi proteggere da nessuno. «Ehi!» Sbottò, attirando bruscamente l’attenzione ed avanzando verso il centro della stanza. Voleva poterla osservare da ogni angolazione e – soprattutto – poter tenere d’occhio i presenti. «Qualcuno ha idea di cosa stia succedendo?» Domandò, sfregando la mano sporca di fuliggine sul tessuto dei jeans. Quella situazione le piaceva sempre meno. Imprecò mentalmente e si diede della stupida, tentando di rimanere calma. Dopotutto era semplicemente stata “teletrasportata” in un luogo sconosciuto in cui – a giudicare dalle macchie di sangue sparse qua e là – si era consumato qualcosa di terribile assieme ad altre persone, sconosciuti inclusi. Perché, almeno per una volta nella sua stupidissima vita, non aveva ascoltato il suo istinto?

    Edited by murphylaw‚ - 14/3/2018, 19:42
     
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    La brezza che il mare portava con se gli sferzava il volto, mentre a passi lenti affondava le scarpe nella sabbia. Teneva sua madre per mano, passeggiavano in silenzio. Gli bastavano, quei brevi istanti, per tornare indietro. Sembrava ancora lei, in quei momenti, la donna che accendeva la luce in corridoio quando lo sentiva piangere di notte, che gli raccontava favole per farlo addormentare, che mai aveva giudicato le sue scelte. Dava ancora sicurezza, stringere la sua mano e camminare al suo fianco, sentirla canticchiare canzoni di Edith Piaf con voce cristallina. C’era ancora sua madre dietro quello sguardo velato, anche se adesso non ricordava il suo nome. “No, rien de rien, no, je ne regrette rien…” Il suo francese era decisamente meno melodioso di quello di Edith, eppure riusciva a trasmettere le stesse sensazioni. Malinconia, serenità, casa. “Che bello il mare. Ho sempre sognato di vivere in una casa sulla spiaggia, sferzata ogni giorno dal vento e dal suono delle onde. E’ così bello qui, non trovi, Ivar?”. Fu come se il suo cuore si fosse fermato, come se quell’istante lo avesse solo immaginato. “Come mi hai chiamato?” Si voltò verso di lei, quasi sconvolto, incontrando la sua espressione serena, e il suo sorriso benevolo. Era lei, di nuovo. Si era talmente disabituato a sentirle pronunciare il suo nome, che fu quasi spaventoso sapere di averla di nuovo lì, lucida. Lei gli accarezzò la guancia. Chiuse gli occhi, per un istante, abbandonandosi a quel tocco delicato. Era come se il tempo fosse tornato indietro, per l’ennesima dannata volta. “Ivar”. Ripetè lei. “Ripetilo, ti prego, ripetimelo”. La strinse forte a sé, esaltato da quel momento. “Ivar, come quel pazzo di tuo nonno.” Sapeva che non sarebbe durato, che quello sarebbe stato l’ennesimo momento di lucidità alternato a stati di amnesia. Eppure era dannatamente bello sentirle pronunciare quel nome, il suo nome. Si sentiva in famiglia, tra le sue braccia. Sarebbe sempre stato così, anche quando lei lo avrebbe dimenticato di nuovo. Si staccò da quell’abbraccio, lei, e sorrise, tristemente. “Ivar..” ripetè di nuovo. “Non so più se vedo il futuro grazie alla mia capacità, o se le mie visioni riguardano un passato che non ricordo. Vedo l’oscurità, bambino mio, ti vedo soffrire. E’ già accaduto?” Sorrise, malinconico, mascherando quelle che erano le sue preoccupazioni esterne. “E’ passato, mamma. Va tutto bene”. Mentì. Non sapeva cosa sua madre avesse visto, non sapeva cosa ricordasse. Forse le sue visioni erano ormai divenute una commistione di passato, presente e futuro, immagini isolate, difficili da collocare in una linea temporale. Sapeva che la sofferenza era passata, sapeva che ce ne sarebbe stata altra. Era quello il destino del portatore di morte. Non importava. “Torniamo a casa?” Chiese lei, con un tono quasi da bambina. “Si, torniamo a casa”. Rispose abbozzando un sorriso e prendendo di nuovo la sua mano. Lei aveva stretto la sua per una vita. L’aveva stretta quando era troppo instabile per camminare. L’aveva stretta quando nessun altro voleva farlo. L’aveva stretta per qualche istante prima di lasciarla, il primo giorno di scuola. L’aveva stretta ogni qualvolta fosse caduto, per aiutarlo a tornare in piedi. Toccava a lui, adesso, stringere la sua mano affinché non si perdesse tra le illusioni. L’avrebbe fatto, era il suo compito.

    . . . . . .



    Einstein diceva: “Quella del mistero è la migliore esperienza che possiamo avere. È l’emozione fondamentale che veglia la culla della vera arte e della vera scienza.”
    Il primo giorno di Mercurio, quando il cielo si tinge di rosso – Luna Park di Besaid, “Spiegelhaus”.


    Più rileggeva quel messaggio, scritto in una grafia a lui sconosciuta, e più i suoi pensieri vagavano, neanche fosse un enigma. Che significava? Era un invito? Se si, per cosa? O era una trappola? E se sì, chi mai avrebbe potuto tendergli una trappola? a parte Nickolaj, a lui piace accoppare la gente con le padelle(?) c’era qualcosa che lo attraeva in quelle parole, curiosità forse. D’altro canto, un campanello d’allarme lo avvertiva di non andare. Ma ovviamente, com’era costante nella sua vita, fece la scelta meno ovvia. Partì, alla volta del luna park.
    Non frequentava quel posto da anni. Da bambino ci andava spesso, con Leonard e Zoe a giocare a nascondino, poi una volta era quasi morto quindi adesso era un po’ ritroso ad andarci. Aveva anche i suoi fottuti 24 anni. Ire lo faccio per te <3 , ma crescendo, quel posto fatto di luci e musiche assordanti aveva perso ogni sua attrattiva. Portava con sé ricordi, quel luogo, di ciò che il tempo, perfido, gli aveva portato via. Dovette girare lo specchietto retrovisore per non lasciarsi accecare dalla luce del tramonto che calava su Besaid e tingeva gli alberi d’arancio. Parcheggiò davanti all’ingresso del luna park, in retromarcia, quando un rumore lo fece trasalire. Che diamine aveva colpito? Possibile che non avesse visto un muretto? Scese dal pick up, anche leggermente alterato, e andò a constatare i danni. La prima cosa che vide fu la ruota di una bicicletta, che ruotava cigolando. “Oh cazzo ho investito qualcuno!”. Fu il primo pensiero che gli balenò in testa, “Un po’ sti caccio di ciclisti stanno sempre in mezzo ai coglioni”, fu il secondo, mentre preoccupato corse verso la bicicletta. Non c’era nessuno a terra, ma una ragazza dai capelli arcobaleno lo fissava immobile, in piedi, con espressione furibonda. Fae. Certo, come poteva non essere lei? La sfiga sembrava abbattersi su di lui, non appena la incontrava. L’ultima volta che l’aveva vista l’aveva quasi uccisa, e poi aveva trascorso con lei un’allegra nottata in caserma. La sua prima nottata in caserma. Ecco, qua, ora avrebbero potuto replicare. “Fae, ciao. O cavolo, era tua? Non ti ho vista, giuro. Ma tu stai bene?” Chiese. Per fortuna la ragazza dai capelli arcobaleno era difficile da scalfire, grazie alla sua capacità. Lo stesso non poteva dirsi della sua bici palesemente rubata a Don Matteo per seminare morte pure a Besaid, la cui ruota anteriore cigolava storta e con i raggi spezzati. Guardò la bici, poi la ragazza. “Ehm, posso aggiustartela” disse poco convinto, passandosi pensieroso la mano tra i capelli, al momento troppo corti per essere legati. Era un falegname, non un biciclettaio(?). “Non so ancora bene come”. Aggiunse. Magari sarebbe bastato cambiare la ruota, se i braccetti fossero stati integri. Certo, perché la gente andava in giro con le ruote per le bici in più. Un genio, un genio del male. “E…magari posso riaccompagnarti a casa, per farmi perdonare. Non puoi tornare a piedi”. Peggio che peggio. Ve li immaginate, quei due, in una macchina? Con la sfiga che si portavano a vicenda, come minimo avrebbero bucato, fuso il motore, sarebbero andati a sbattere e sarebbero stati rapinati dai banditi coi baffi finti di Besaid(?) che poi li avrebbero denunciati per aggressione e spediti in carcere(?)cosa caspio sto scrivendo. E niente, era sempre una gioia rivedere Fae. “Che coincidenza eh? Anche tu qui…” Disse per sdrammatizzare, con un sorriso tiratissimo e imbarazzato. Non ci volle molto a capire che erano lì per lo stesso motivo. Anche lei era lì perché aveva ricevuto quello strano messaggio. Anche lei era stata folle almeno quanto lui ad aver seguito quelle indicazioni. Si strinse nella giacca a vento beige. E se li avessero uccisi e fatti a pezzi?No, sicuro gli sbirri erano appostati dentro la casa degli specchi e li aspettavano perché qualcuno aveva fatto una soffiata(?) Quell’eventualità si faceva sempre più probabile, visto l’andazzo. Ma erano in due, almeno. Lei difficilmente si sarebbe fatta male, lui avrebbe potuto difendersi nel più drastico dei modi e patteggiare per la “legittima difesa” in caso di processo per omicidio a suo carico. Alzò lo sguardo, verso la scritta “Spiegelhaus”. Il parco sembrava deserto quella sera, la maggior parte delle giostre erano spente, fatta eccezione per alcune in lontananza, su cui si avventuravano ragazzini in età scolare. Sospirò. “Beh, non sarà peggio della nottata in centrale”. Disse, scrollando le spalle e rivolgendo uno sguardo alla ragazza alla sua destra. Salì un paio di scalini e spinse la porta.
    Il riflesso della sua immagine si propagò per i vari specchi presenti, sdoppiandosi. Cercò di seguire la direzione indicata dai vuoti di quelle immagini, ma il primo “Porcoddue!” gli sfuggì di bocca poco dopo, non appena si schiantò contro uno degli specchi come un coglione. Male, a tratti malissimo. Poi, d’improvviso, la poca luce che illuminava quel luogo si spense. Come diamine sarebbero dovuti uscire, a tastoni? Che cos’era quella, una prova? Chi li aveva attirati lì aveva strane intenzioni? Beh, coglioni loro che ci erano andati. “Ehi, chiunque voi siate, accendete sta cazzo di luce, non è divertente”. Disse, abbandonando i suoi soliti modi gentili, palesemente alterato. No, non era in vena di scherzi, quella sera. Come risposta, la luce si accese, prepotente, quasi accecante. E quando riaprì gli occhi, si rese conto che intorno a loro non c’erano più specchi. “Ma cosa…” Sibilò. Probabilmente era svenuto e stava sognando. Probabilmente aveva sbattuto la testa su qualche specchio ed era morto. Beh, se quello era il posto in cui si andava quando si moriva, il paradiso era proprio un posto di merda. Si guardò intorno. C’erano grandi vetrate, sulle quali pendevano tende scure e logore. Il pavimento di quello che sembrava essere stato un ricchissimo edificio era ricoperto di macerie e polvere. Pesanti lampadari ormai opachi erano decorati da ragnartele e ruggine. Sembrava una proiezione di ciò che lui stesso poteva creare. Distruzione. I love it!
    C’erano altre persone. C’era Fae, ancora accanto a lui. “Engy!” Esclamò, non appena riconobbe la chioma rossa della cugina. Adam era al suo fianco, con un’accetta in mano. “E Kylo…”. L’entusiasmo nel suo tono di voce scemò pian piano, mentre il suo sguardo correva dal ragazzo all’arma bianca. Lo guardò perplesso. Avrebbero davvero avuto bisogno di armi? “Ma che allegra gitarella eh?” Commentò, sarcastico, mascherando il senso di inquietudine che quel luogo gli trasmetteva. Evidentemente non era stato l’unico coglione ad abboccare a quell’invito come un pesce all’amo. Evidentemente erano tutti membri un branco di imbecilli.
    E stando al commento di una ragazza dai lunghi capelli castani, lui non era l’unico a non capire dove diamine si trovassero.
    Tra le altre persone riconobbe pure Larsen. Ecco qua. Da un momento all’altro sarebbero spuntati fuori i nani e tutto sarebbe degenerato. Continuò a guardarsi intorno. Non aveva nulla di familiare, quel luogo, nulla che potesse ricondurre al messaggio che aveva ricevuto. Non sapeva nemmeno se quel luogo fosse reale. “Questo non ha completamente senso…” Commentò, riacquistando la propria lucidità. Si volse verso gli altri, quasi in cerca di risposte. Perché li avevano richiamati lì? Era un’illusione quella, o avevano viaggiato nello spazio? E chi li aveva richiamati lì, con quello strano messaggio, verso cosa li aveva condotti?
     
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    Besaid era sostanzialmente una città strana, all'interno della quale non potevano che avvenire cose del tutto insolite, proprio come quel bigliettino anonimo che aveva ricevuto e che la diceva davvero lunga al riguardo. Un invito a cui non avrebbe mai potuto dire di no. L'idea di presentarsi nel posto citato da quel biglietto da visita anonimo non avrebbe potuto fare altro che esaltarla. Certo, il mistero che aleggiava attorno a tutta quella storia la intimoriva da un lato, così come dall'altro le regalava quel pizzico di follia, la quale ormai da diverso tempo giocava a nascondino con lei. Non le mancavano quei momenti, o meglio, non in esagerata misura, ma quando ce n'era l'occasione, Fae si buttava a capofitto in situazioni dalle quali, prima o poi, avrebbe realmente faticato ad uscirne. Eppure, ormai ci aveva costruito su una sorta di corazza emotiva che, credeva, l'avrebbe protetta da qualsiasi attacco proveniente dall'esterno. D'altronde, l'unico vero pericolo per Fae Olsen era sempre stata la propria stessa persona e l'incontrollabile e sfrenata abilità nell'autodistruggersi.
    Quel giorno, fra una sigaretta e l'altra, aveva continuato a pensare a cosa potesse nascondersi dietro quelle parole di Einstain, e cosa potesse esserci di tanto misterioso in una casa degli specchi di Besaid. Di certo, una volta giunta al Luna Park e conosciuto di persona chiunque fosse stato ad organizzare quel bizzarro evento, avrebbe fatto i propri più sinceri complimenti: quell'invito era -per lei- una vera e propria genialata, da cui avrebbe uj giorno potuto prendere spunto per uno dei propri eventi o una serata a tema. Non male come inizio, aveva pensato. Dunque, incuriosita, aveva lasciato il Bolgen in sella alla bici di Dough, l'informatico che l'aiutava con le scartoffie e tutto quello che riguardava la parte informatica del suo lavoro. Un tipo timido, nerd a livelli cosmici, il quale -prima di lasciarla pedalare in direzione del Luna Park, si era accuratamente premurato di dirle che avrebbe dovuto fare estrema attenzione alla bici, dato che quello era l'unico mezzo del quale disponesse per muoversi a Besaid, da quando aveva ben deciso di schiantare l'auto contro il muretto presente per delimitare il parcheggio sotto la propria abitazione. Un grave incidente, dal punto di vista del ragazzo, che gli era costato l'auto in riparazione per almeno tre settimane. Bè, ne erano trascorse già almeno quattro, e dell'auto ancora nessuna traccia.
    Un tonfo -sin troppo vicino- la fece sobbalzare per lo spavento e la portò a spalancare gli occhi, costringendola quindi a voltarsi per puntare il proprio sguardo su quello che parve un pick-up in un certo senso familiare, che in un primo momento fu incapace di associare ad una persona in particolare. L'auto in retromarcia era andata a colpire in pieno la bici che Fae aveva preso in prestito da Dough, facendola cadere per terra e finendo su di essa andando a storcere così una delle due ruote, lasciando l'altra roteare a vuoto per qualche secondo, prima di fermarsi del tutto. Una figura alta scese dalla macchina di fretta, con aria quasi spaventata. Uno sguardo decisamente familiare, soprattutto per l'espressione che gli si continuava a leggere sul volto. Avrebbe mai sorriso, in sua compagnia? No, probabilmente sarebbe prima esploso il sole, e poi, forse, si sarebbero concessi una bella risata in comune. Serrò le labbra, andando a posare le mani sui fianchi e cercando di non sembrare più nera del dovuto. «Per un momento ho quasi pensato che sarebbe stata una giornata tranquilla e promettente. E poi hai messo sotto quella cazzo di bici. Non che me ne freghi molto, ma no, non è mia. Il che è peggio, perché me l'hanno data in prestito.» disse, un tono di voce fra l'incredulo e l'alterato. La lista delle disgrazie che la colpivano se si trovava nelle vicinanze del ragazzo si faceva sempre più lunga, tanto da farle pensare che, quel motivo di cui lui le aveva parlato la sera della festa, quello che avrebbero scoperto col tempo spiegando loro a che sarebbero serviti quei poteri, un giorno, avrebbe semplicemente potuto essere che Fae, a differenza di quanto aveva sempre pensato, sarebbe morta anche prima del tempo e forse proprio per mano di Ivar. -un'ipotesi poi non del tutto sbagliata, a pensarci su. «È tutto ok, non preoccuparti. Aiutami a farla sparire e dirò che l'hanno rubata.» gli disse, sollevando appena le spalle. Dough non avrebbe mai avuto il coraggio di urlarle addosso o mettere il muso con lei, non era il tipo. Al contrario, Fae prevedeva una reazione alquanto immatura, la quale avrebbe comportato un pianto sentito e sincero da parte del ragazzo con gli occhiali neri. Cercò di scacciarne il pensiero, provando a scostarsi dalla sensazione di impazienza che le afferrò lo stomaco quando immaginò il momento in cui avrebbe dovuto dirgli che la bici era andata. In più, a quella sensazione, si avvinghiò anche ciò che sembrava essere una strana sorta di timore, nel momento in cui lui andò ad offrirle un passaggio verso casa per il ritorno, quasi volendo farsi perdonare per l'inconveniente appena accaduto. «Ehm, sì, non sarebbe una cattiva idea, ma magari ne riparliamo, ok?» disse, ricordando in un istante alcune parole di zia Rory riguardo al malocchio e a come alcune persone se lo portavano addosso, passandolo poi attraverso un semplicissimo contatto fisico anche agli altri. E lei, quel contatto fisico, purtroppo lo aveva già avuto con Ivar. Era stato breve, sì, ma sicuramente intenso tanto da farle quasi perdere il braccio e rimanerci secca.
    Scoprì che Ivar si trovava lì per la sua stessa ragione, invitato anche lui a quella che, per essere onesti, Fae pensava fosse una sorta di festa a tema sconosciuto, un evento organizzato da qualcuno che avrebbe amato sempre l'effetto sorpresa. «Aspetterei, prima di dare per scontato anche questo.» rispose ad Ivar in relazione alla battuta riguardo la serata trascorsa in centrale. Non avrebbe mai dimenticato il momento in cui avevano udito lo sparo, le sarebbe rimasto per sempre nella mente come un eco infinito in lontananza. Lo seguì, entrando nel parco e accompagnandolo in direzione della casa degli specchi. Ad ogni passo la curiosità cresceva in lei: gli occhi guizzavano a destra e a sinistra in cerca di informazioni, o semplici indicazioni che avrebbero potuto far intuire agli invitati la giusta direzione, quasi si aspettasse -da brava organizzatrice di eventi- che l'evento venisse quantomeno ben pubblicizzavo. Ma tutto ciò che si era immaginata non sembrava esistere nella realtà, portandola a chiedersi, dunque, se le proprie intuizioni avessero poi un fondo di verità. Lo avrebbe scoperto ben presto, questo le era ormai chiaro. Seguì la figura di Ivar, salendo quegli stessi scalini per raggiungere l'entrata della Spiegelhaus, che sembró addirittura essere deserta. Alla biglietteria non aveva intravisto nessuno e, malgrado ci fosse un lieve via vai nel Luna Park, nessuno pareva aggirarsi attorno al luogo dell'incontro. Che diavolo c'era di sbagliato in tutta quella storia? Continua a domandarselo.
    Oltrepassato l'uscio retrostante alla struttura, Fae e Ivar vennero sommersi dal buio che avvolgeva l'interno insito di grandi specchiate che -naturalmente- entrambi vedevano a malapena. Non le ci volle nulla ad inciampare e finire addosso al corpo robusto del ragazzo che le camminava davanti, facendole strada. Per inerzia, infatti, Ivar andò a sbattere contro una delle vetrate, incapace anche lui di orientarsi al meglio nel profondo di quell'oscurità. «Guarda che puoi bestemmiare, non mi impressiono mica.» constatò, con un tono di voce fin troppo tremolante, per esser considerato normale. Fae si portò automaticamente le mani alla bocca, coprendola per non esplodere in una fragorosa risata che non sapeva se lo avrebbe offeso o meno. Cercò di resistere ancora qualche secondo, prima di non farcela, lasciandosi così piegare in due per dare sfogo a quella che sembrava una Fae piuttosto divertita. In quel preciso istante, però, qualcosa avvenne. Nel momento in cui si fu drizzata, i suoi occhi sembrarono vacillare nel vuoto: il buio si accartocciò su se stesso per lasciare il proprio posto ad una luce accecante. Dovette chiudere le palpebre per qualche secondo, prima di riaprirle e scoprire in che razza di luogo si trovasse. Inarcò le sopracciglia, spalancando la bocca in cerca di un respiro, di ossigeno che avrebbe potuto aiutarla a far ripartire correttamente i neuroni. In un certo senso, il fatto che mancasse una connessione fra la casa degli specchi di poco prima e quello strano salone malandato nel quale si erano ritrovati in pochi secondi, la lasciava di stucco, incapace di proferir parola. Restò quindi immobile nel punto in cui sembrava essersi materializzata, cercando con il solo ausilio della mano destra un appoggio, un punto in cui potersi posare per restare in piedi e non cedere al voltastomaco che improvvisamente le aveva fatto risalire gli m&m's che aveva ingurgitato una mezz'oretta prima. «Credo che vomiterò.» esclamò, quasi sottovoce. Mise finalmente a fuoco, inquadrando al meglio il luogo in cui sembravano essere stati catapultati per magia: si trattava di un grande salone da ballo, forse, nel quale qualcosa di macabro era avvenuto, forse non era neanche passato molto tempo dall'accaduto. C'era del sangue un po' ovunque, in più tendaggi e arredamento erano quasi completamente distrutti o bruciati. Niente, in quella sala, pareva esser ancora vivo. Era un presagio? avrebbero fatto parte dell'arredamento anche loro, di lì a qualche minuto? Eccolo, un altro crampo nel centro esatto del proprio stomaco. Tutto quell'entusiasmo con cui si era trascinata fino al Luna Park sembrava esser svanito nel nulla nel giro di qualche stupido istante. «Vorrei poterti rispondere, ma credo che qui nessuno abbia idea di cosa stia accadendo.» rispose Fae, voltandosi in direzione di una giovane ragazza dalla chioma castana. Si era guardata intorno, riconoscendo l'uragano Engy accanto ad Adam, anche loro prigionieri di quello che avrebbe tanto voluto definire uno stupido scherzo. «Engy? Anche voi qui? Ma che razza di...» non completò la frase, non riuscendo a trovare le parole adatta che avrebbero potuto definire tutta quell'assurdità. «Una gita? Io mi aspettavo un rave.» disse, sollevando appena le spalle e guardandosi intorno. C'era solo quel silenzio così assordante che, nonostante fosse lieve, s'insinuava sotto il tessuto della pelle, arrivando alle ossa e scuotendole bruscamente. Che diavolo sarebbe accaduto, ancora?
     
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  7. NanoLove
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    Well I found a new way
    I found a new way.
    C'mon doll and use me;
    I don't need your sympathy.
    I'll find a new way
    I'll find a new way, baby.
    I'm not Ulysses, I'm boy Ulysses
    No, but you are now, boy.
    So sinister, so sinister,
    Last night was wild.
    What's a matter there, feeling kinda anxious?
    That hot blood, grew cold.
    Yeah everyone, everybody knows it.


    - Ias ho ricevuto un invito strano.
    - Quella roba di Einstein e il tramonto? Non penserai davvero di andarci?
    - Sto andando.
    - Didi, cazzo, Did-
    - tu tu tu -

    Sbuffò, buttando giù l'intero telefono a forma di hamburger da cui aveva appena sentito uscire la voce di Ingrid, con più forza del necessario.
    - Perché cerchi sempre un modo nuovo di farti violentare?
    Sbottò stizzito ai semini plasticosi che stavano per staccarsi dal panino, altrettanto plasticoso, a furia di giocare al tiro all'hamburger finto.
    Prese una giacca, uscendo come una furia dall'appartamento al terzo piano, uscendo a piedi in direzione del cazzo di luna park.
    Ci avevano passato estati felici e la casa degli specchi era stata da sempre la loro attrazione preferita, soprattutto di Ingrid, soprattutto quando Larsen finiva a schiaffarsi sui vetri mentre tentava di inseguirla. Cosa che, a giudicare dalla telefonata, sarebbe accaduta di nuovo.

    Camminava svelto, stringendosi nel bavero del cappotto ad ogni folata gelida che arrivava dal mare.
    Il parco era quasi deserto ma lui non se ne stupì, per quel che ne sapeva lui quel posto poteva essere quasi abbandonato: aveva evitato accuratamente di metterci piede più del necessario negli ultimi anni, pur di non flagellarsi con i ricordi di lei, ma ora... Ora sarebbe stato diverso, lei era tornata e per qualche incredibile motivo non se ne era ancora andata via.
    La cercò con lo sguardo senza successo, puntando per un attimo gli occhi verdi sulla scritta di ferro che campeggiava sulla struttura, tirando un sospiro prima di entrare.
    Lei era più vicina, più determinata di lui a rispondere a quell'assurdo invito che puzzava di fregatura, almeno, sperando che non fosse qualcosa di pericoloso, e probabilmente era già dentro la casa degli specchi a nascondersi.
    Fosse stato per lui, non sarebbe andato nemmeno sotto tortura, ma ancora una volta era lei a spingerlo oltre ai suoi limiti. Era per questo che amava stare con lei.
    Sebbene trovasse il tutto un po' strano e anche potenzialmente pericoloso, mosse il primo passo incerto entrando nella struttura, molto più buia di come la ricordasse.
    - Oh sì, divertente Didi, spegnere le luci. Ora vuoi che mi metta anche a fare lo zombie?
    Parlò forte, certo che lei fosse dietro uno di quei pannelli a ridacchiare, portando avanti le mani e grugnendo come un non morto, trascinando le sillabe più del dovuto - Diiiiiiiidiiiiii... Diiiiiid-

    Ebbe una strana sensazione, come se avesse galleggianto per un attimo, e d'un tratto si trovò in una stanza completamente diversa dalla prima, molto più ampia, luminosa e del tutto ignota.
    Aggrottò le sopracciglia mentre adattava le iridi alla diversa luce, mentre gli veniva in mente l'idiota italiano che avevano conosciuto una volta lui e Lev, in una delle loro avventure a caccia di turiste: parlava strano, quasi cantilenante, e li aveva fatti divertire più del dovuto.
    - Oh ma do crishto stemo? Se pole buccà chi drento?
    Rise, un secondo prima di capire che non c'era nulla da ridere.
    Guardò di rimando le persone che erano con lui nella stanza (ovviamente Didi non c'era, che fosse lei l'autrice del grande scherzo del cazzo?), che lo guardavano stralunate ed evidentemente preoccupate in volto.
    - Ah. Bella non è. Disse Lu porcu su la tavolozza. Tutto me pare tranne che na partita a tre sette.
    Fissò i loro volti: Ivar e Fae, a cui si avvicinò, riconoscendo altri volti noti di Besaid, Tori, Adam, Engy. Li conosceva di vista e non riusciva a trovare un nesso che li legasse l'uno agli altri.
    - Fammi indovinare, siamo bloccati qui dentro.
    Si rivolse alla Olsen, leggendole il pensiero.
    - E non è il palazzo tipico di Besaid, vero?
    Il nuovo Sherlock si rivolse alla finestra che qualcuno prima di lui aveva tentato di pulire, non riconoscendo affatto il paesaggio esterno, certo che nessuno degli altri avesse idea di dove fossero.
    [- Ma almeno i poteri funzionano ancora, no? Non dovremmo essere troppo lontani da casa, giusto? Hey, fai si con la testa e basta. Non dire che posso parlare con te così, non ancora.]
    Guardò la ragazza arcobaleno eloquentemente, nella speranza che annuisse e che quindi il suo "vantaggio" fosse ancora tale: se le cose si sarebbero messe male, poteva esser utile fingersi l'idea di qualcun altro.

    Si guardò ancora intorno, studiando la stanza, sperando che Didi, ovunque fosse, non sarebbe planata lì... Aveva la sensazione che sarebbe stato sinistro.

    Edited by aNANOtherLove - 25/3/2018, 14:41
     
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    We're here in the jungle, running right into the fire
    we're here in the jungle, who's gonna make it out alive?


    « Signorina Frøset? Hanno lasciato questo per lei »
    La segretaria bionda appostata dietro al bancone da ricevimento della piscina osservò Ingrid con attenzione. Spingendola verso di lei con due dita, fece scivolare sulla superficie immacolata del banco una busta bianca, sui cui era impresso soltanto il suo nome con calligrafia precisa ed elegante.
    Sapeva di essere stata riconosciuta dalla ragazza perché le aveva appena riconsegnato il badge utilizzato per garantirsi l'accesso alle vasche, ma si chiedeva chi potesse averle lasciato quella busta, probabilmente contenente una lettera, in un luogo del genere.
    Fece per allungare una mano con stanchezza, reduce da uno sfiancante allenamento in acqua durato poco più di un'ora e mormorò un « Grazie », con esitazione; preferì temporeggiare, sistemandosi il borsone contenente tutta l'attrezzatura da nuoto su di una spalla, ancora incerta sul da farsi. La piscina si trovava nel centro polisportivo di Bergen, a quaranta minuti da casa e, nonostante avrebbe dovuto prendere in considerazione anche qualche conoscente di Oslo, immaginò che chiunque le avesse lasciato quel messaggio provenisse dalla sua stessa città. La situazione le sembrava talmente bizzarra da poter essere legata senza alcun dubbio ad un luogo come Besaid, con tutte le stranezze che gravitavano attorno a quel posto, tra abilità sovrumane e personaggi strambi e misteriosi.
    Si affrettò a prendere la busta, a causa dell'occhiataccia con tanto di sopracciglio incurvato che le indirizzò la segretaria, spazientita da tutta quella perdita di tempo e girò sui tacchi, calcando il cappuccio della felpa sui capelli umidi di doccia, mentre usciva all'aria aperta, spingendo le pesanti porte in vetro ed acciaio senza neanche spostare le iridi verdi dalle lettere in corsivo che componevano il proprio nome. Prevalse la curiosità, ovviamente, per cui lacerò con cura l'involucro di carta sottile, prestando attenzione a non rovinarne il contenuto — non dopo aver distrutto per sbaglio una bolletta dell'energia elettrica, aprendo la busta con troppa foga e senza l'aiuto di un coltello o di un tagliacarte.
    Nella penombra del parcheggio, a pochi metri di distanza dal proprio maggiolino scassato, si trovò ad esaminare per la prima volta il biglietto continente l'enigmatico invito che, nel corso dei giorni, avrebbe letto e riletto infinite volte.

    Albert Einstein diceva:
    “Quella del mistero è la migliore esperienza che possiamo avere.
    È l’emozione fondamentale che veglia la culla della vera arte e della vera scienza.”
    Il primo giorno di Mercurio, quando il cielo si tinge di rosso – Luna Park di Besaid, “Spiegelhaus”.



    « Credi che dovrei andarci, Vincent? » stravaccata sul divano a tre posti, puntò per l'ennesima volta lo sguardo sul cartoncino che sembrava richiamare costantemente la sua attenzione. L'aveva appoggiato sul basso tavolino da fumo non appena era rincasata dalla piscina, qualche giorno prima, e da lì non si era più mosso, nonostante se lo fosse rigirato più volte tra le mani.
    Stava guardando un film, Eternal Sunshine of the Spotless Mind, senza neanche vederlo davvero, troppo occupata a ripensare all'invito, con una ciotola di popcorn in bilico sul ventre, un piede poggiato a terra e Vincent, il gatto rosso dall'orecchio quasi completamente assente a fare le fusa da sopra la gamba distesa, che doveva aver scambiato per una nuova tipologia di cuccia; sentendosi preso in causa, le affondò le unghie nella coscia ed emise un miagolio infastidito, che Ingrid interpretò come un ‘Vai pure e levati dalle palle’ o, in alternativa, ‘Chiudi bene la porta quando esci’.
    « Hai ragione, ci sto pensando troppo, sarà sicuramente una stronzata » incastrò una manciata di popcorn in bocca, ripose la ciotola sul tavolinetto stando attenta a non rovesciarla e si districò da sotto al felino, lasciandolo da solo sul divano. Ormai si era decisa a presentarsi al Luna Park, sfruttando la vicinanza con il proprio appartamento, per cui se le cose si fossero fatte strane, avrebbe potuto attraversare il parco di corsa e tornare al sicuro fra le quattro mura di casa.
    Senza la benché minima idea di cambiarsi d'abito – di certo non si sarebbe messa in tiro per presentarsi in una dannatissima casa degli specchi – afferrò le poche cose che le sarebbero servite, ovvero il biglietto, il cellulare ed il parka verde oliva con cui si sarebbe potuta riparare dal freddo, appeso ad un gancio all'ingresso.
    Lo indossò quando ancora si trovava sulla soglia e lasciò affondare in una delle tasche il foglietto, casomai ne avesse avuto bisogno per entrare nella Spiegelhaus. Certo, neanche fosse diretta ad un party esclusivo.
    Si ritrovò a digitare il codice sullo schermo del telefono mentre scendeva rapidamente i gradini delle scale del palazzo, trovandosi ad uno degli ultimi piani e, dalla rubrica, fece partire il numero di casa di Elias. Non voleva che si preoccupasse per nulla, probabilmente si trattava semplicemente di uno scherzo poco divertente, ma almeno qualcuno avrebbe saputo da dove iniziare a cercarla, in caso fosse sparita.
    Rispose al terzo squillo e la sua voce amplificata le fece scappare un sorriso affettuoso. Lo immaginò attaccato a quel suo stupidissimo telefono a forma di hamburger, che aveva visto quando era stata nel suo appartamento, con il filo a molla della cornetta ingarbugliato in un'infinità di nodi ed intrecciato attorno alle dita.
    Prima che il ragazzo la bloccasse con una delle sue strane teorie, come Non pensi che Godzilla farebbe il culo a King Kong, in caso di un combattimento? o E se gli alieni fossimo noi, in realtà? si schiarì la voce.
    « Ias, ho ricevuto un invito strano » imprecò a bassa voce per aver mancato pericolosamente un gradino, sperando che dall'altro capo del ricevitore non si fosse sentito niente e spinse il portone d'ingresso, accennando un saluto con la mano ad Inge, la portinaia pettegola e costantemente in cerca di gossip.
    « Quella roba di Einstein e il tramonto? Non penserai davvero di andarci? » le sue parole le fecero capire che anche lui ne aveva ricevuto uno. Aveva provato a parlarne al negozio di fiori con la titolare, buttando lì il discorso con nonchalance, ma la signorina Hågge non aveva abboccato all'amo, guardandola come se si fosse presentata in pigiama e con un paio di slip in testa.
    « Sto andando » cercò di non far caso al senso d'inquietudine che le attanagliava lo stomaco, mentre procedeva per strada verso l'interno del parco e chiuse la telefonata alle prime proteste di Larsen, nascondendo il cellulare nella tasca della giacca così da non avere la tentazione di richiamarlo per scusarsi del proprio comportamento. Sapeva che Elias l'avrebbe accompagnata se solo glielo avesse chiesto, ma non le andava di farlo arrivare fin là per niente o, ancor peggio, che finisse nei guai a causa sua.
    Quando arrivò nel Luna Park, di fronte al famigerato edificio indicato per iscritto, si bloccò a rimirarlo, con il naso rivolto scioccamente all'insù verso l'insegna. A gironzolare nei dintorni c'erano veramente poche persone, strano e l'irrequietezza sembrava non volerla abbandonare del tutto. Si strinse nel cappotto a causa di un brivido; se ne sarebbe andata soltanto per quello, se ormai non si fosse trovata lì. Doveva andare avanti e saziare la curiosità una volta per tutte.
    Lanciò un'occhiata all'ambiente attorno a lei e, notando che nessuno le prestava attenzione, si affrettò a fare il proprio ingresso nella casa dall'aspetto abbandonato, infilando dapprima il capo all'interno.
    « Ehilà.. c'è nessuno? » scostò una ciocca di capelli bruni dal viso e la sistemò meccanicamente dietro all'orecchio, cercando di abituare lo sguardo alla quasi totale assenza di luce. Avrebbe potuto usare il proprio potere, il quale sarebbe finalmente risultato utile per la prima volta, ma preferiva non rischiare di esporsi troppo, per il momento, non sapendo cosa aspettarsi.
    « Bello scherzo, complimenti. Teppisti! » Ormai convinta di essere finita nella trappola di qualche coglione, si addentrò nel corridoio ed osservò distrattamente la propria figura allungarsi e rimpicciolire, allargarsi e restringersi a seconda della posizione degli specchi, finché non si sentì vertiginosamente risucchiata in avanti. Fu come trovarsi su di un carrellino delle montagne russe, in picchiata alla prima discesa; provò lo stesso senso di vuoto allo stomaco e si sentì traballare non appena venne catapultata dall'altra parte.
    « Sono morta. Mi ha ammazzato qualche disgraziato nella casa degli specchi e non troveranno mai più il mio corpo ». Primo pensiero, seguito successivamente da una sfilza di paroline ben poco femminili.
    Mise a fuoco l'area circostante e si ritrovò in un luogo completamente diverso da quello in cui si era addentrata poco prima. Nonostante l'illuminazione fosse quasi del tutto assente, la differenza era abissale. Possibile?
    Era una stanza molto più ampia e dispersiva, senza specchi a riflettere all'infinito ogni immagine. Al loro posto, vi erano delle tende ormai distrutte dal tempo, di una stoffa che già a colpo d'occhio poteva essere definita pesante e una lunga serie di colonne in marmo.
    Sbatté le palpebre un paio di volte, ancora convinta di aver lasciato il proprio corpo e di essere passata a miglior vita, finché non si accorse del gruppetto di persone già presenti lì dentro. « Magnifico, proprio magnifico » Incrociando le braccia sul petto, sulla difensiva, mosse qualche passo verso le figure di cui iniziò a scorgere pian piano i tratti.
    Sospirò nel riconoscere una macchia rossa di capelli, appartenente di sicuro a Larsen e si affrettò a raggiungere lui e gli altri nuovi compagni d'avventura. Erano tutti abitanti della città, che aveva visto sì e no un paio di volte prima d'ora, almeno nel presente, perciò si chiese cos'avessero in comune, oltre all'invito, per essere finiti lì.
    « Pensavo che non volessi venire, quando ti ho chiamato » squadrò l'amico dall'alto ( come no ) del proprio mentro e cinquantasette, dopo avergli assestato una fiancata, quindi si rivolse agli altri, sbuffando appena. Si era fatta il fegato marcio ed aveva lasciato a metà uno dei propri film preferiti per cosa, esattamente?
    « Qualcuno si è fatto un'idea di cosa possa significare? » cacciò il cartoncino fuori dalla tasca, noto ovviamente anche a loro e lo sventolò piano prima di prendere a giocarvi, storcendo gli angoli già consunti.
     
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  9. néamh
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    L’iPhone X di Jason trillava di continuo. Diretto erede di una delle più importanti imprese farmaceutiche dell’Irlanda, si ritrovava continuamente coinvolto nelle più ingarbugliate diatribe che un’impresa potesse avere: c’erano problemi con i pagamenti? Gli sarebbe squillato il telefono. Qualcuno aveva sbagliato il composto dei medicinali? Gli sarebbe squillato il telefono. Il tentativo di far giungere a destinazione il carico di farmaci falliva miseramente? Qualcuno l’avrebbe chiamato. Una delle ultime volte, quando l’avevano telefonato perché un suo dipendente aveva temperato il dito nella “temperatrice-automatica per le matite” ad un altro collaboratore, s’era detto che avrebbe cambiato la suoneria scegliendone una che gli piaceva: “Rebel Rebel” di David Bowie. Ed effettivamente quelle note di soft rock l’avevano aiutato a tenere saldi i nervi ogni volta che qualcuno lo cercava nella speranza di trovare la soluzione ad un ipotetico problema. Quando ancora l’amore l’accompagnava, ricordava che anche il telefonino di sua moglie squillava ogni due per tre, insieme al suo. A quel punto anche lei aveva deciso di eliminare il fastidiosissimo trillo base dell’iPhone, impostando una suoneria appena più piacevole che avrebbe resto loro il lavoro un po’ più dolce. La giovane Elizabeth scelse “Piece of my heart” di Janis Joplin, una delle loro canzoni. Un gesto romantico? Beh, dal punto di vista di una persona fredda come una lastra d’acciaio come lo era Jason, quello era un’incredibile dimostrazione d’amore. Ma bando alle ciance: quel mercoledì il melafonino aveva accompagnato lo schioccò di un messaggio, un SMS per essere più precisi. Se ve lo state chiedendo? Sì, a quanto pare sì: nel mondo ancora esistevano poveri sfigati che inviavano messaggi normali senza utilizzare WhatsApp. E se la memoria non lo ingannava, quando aveva comprato il suo iPhone, il dispositivo aveva dato a Jason una delle informazioni più stupide di cui potesse venir mai a conoscenza; aprendo la sezione “messaggi”, gli era comparsa una schermata così ridicola da sembrare profana: “Lo sai, puoi utilizzare gratis iMessagge. Gli altri dispositivi saranno verdi di invidia!” e fu una frase che lo inorridì nel profondo. Breve spiegazione per chi è solito utilizzare il sistema Android: gli iPhone possono comunicare fra loro senza pagare per inviare i messaggi normali; questi appaiono nella schermata colorati di blu elettrico. Quando invece si riceve un messaggio da un dispositivo Android, gli iPhone non possono utilizzare le funzionalità di iMessagge e colorano la schermatina di verde. Verde acido. Verde invidia, a detta di Steve Jobs.

    Albert Einstein diceva:
    “Quella del mistero è la migliore esperienza che possiamo avere.
    È l’emozione fondamentale che veglia la culla della vera arte e della vera scienza.”
    Il primo giorno di Mercurio, quando il cielo si tinge di rosso – Luna Park di Besaid, “Spiegelhaus”.



    Diceva questo il messaggino ( verde invidia ) che gli era arrivato alle 09:32 di quel mercoledì. Mercoledì, definibile come “il primo giorno di Mercurio”. Quello doveva essere un invito o peggio un appuntamento. “Quando il cielo si tinge di rosso” …probabilmente all’alba. Jason investì una trentina di secondi per rileggere due volte quelle patetiche righe. Un messaggio anonimo poteva dire tante cose e non dirne nessuna. La sua machiavellica mente avrebbe potuto interpretarlo con cento significati diversi ed effettivamente aveva cominciato a cercare un “perché” fin da subito ma no, non aveva tempo per queste sciocchezze. Messaggi anonimi e numeri sconosciuti gli avevano ricordato di quella volta che un’imbecille gli aveva lasciato sull’auto un messaggio in carta scritto con lettere di giornale ritagliate: “Fatti i peli del culo”. Peccato per le telecamere di sorveglianza che beccarono il mal capitato e lo smascherarono prima di subito. Signori e signore, nientepopòdimeno che il suo temibile avversario in affari, Jimmy Flangon. Che figura di merda, vero signor Flangon? Lasciare una simile porcheria fra i tergicristalli di un auto solo perché ‘verdi di invidia’ per i successi della Walsh Bryne Pharmaceutical Distributors Ltd, disdicevole. Perciò fu lecito per gli ingranaggi di Jason ritenere quel messaggio come una delle informazioni più inutili captate in tutto l’arco della giornata. Le sue ventiquattrore erano minuziosamente organizzate: sveglia alle ore 06:00, mezz’ora di corsa mattutina, colazione alle 7:30, doccia e dritto a lavoro entro le 09:00. Pausa alle 11:30, pranzo alle 14:00, ancora lavoro, allenamento di scherma alle 18:30 e infine cena alle 21:00. Dritto a letto e il giorno dopo si ricomincia. Ed effettivamente il mercoledì di Jason procedette esattamente come da sempre procedeva: non aveva saltato un impegno. Perfino i suoi pasti, calorie tenute a bada da una nutrizionista, non erano diversi da quelli che gli spettavano secondo la sua dieta. Ciò che spezzò la routine del nostro uomo d’affari preferito fu quello che al Monopoli leggiamo come “imprevisto”: il suo allenatore di scherma si era preso la punta del fioretto in un occhio. Che si fosse fatto male? Beh, questo era un problema suo. Sperava solo che riuscisse a riprendersi per le 18:30 del giorno seguente altrimenti di allenamenti ne avrebbe saltati due e questo non andava bene per niente. Non poteva mica rovinarsi il fisico ( o peggio, smussare la tecnica ) perché uno qualunque s’era fatto male. Piuttosto avrebbe trovato un altro istruttore.
    Ad ogni modo il giovane trentaduenne ricevette quella notizia poco prima del suo allenamento, mentre a piedi raggiungeva la palestra del suo istruttore. Besaid era una cittadella interessante, piccola per i suoi standard perciò aveva deciso di spostarsi in auto il meno possibile. Aveva appreso la novella quasi a destinazione e… adesso come avrebbe occupato quelle due ore? La sua ex moglie si trovava chissà dove insieme ai suoi figli e due ore sarebbero state solo una manciata di minuti rispetto al tempo che davvero avrebbe voluto dedicare a quelle due pesti. Margot e Edward, le uniche persone che nella sua vita ( attualmente ) amava. Di conseguenza la sua noia lo riportò al messaggio ricevuto quella stessa mattina, dimostrando quanto le informazioni inutili non si perdessero in una mente abituata a ricordare ogni dettaglio più strano e fondamentale. Volevano che si recasse al Luna Park? Beh, ci sarebbe andato. E indossando la sua tuta ginnica grigia, aiutato da un giubbotto nero che per nulla s’addiceva all’abbigliamento che era solito sfoggiare a lavoro, Jason si ritrovò in pochissimo dinanzi alla giostra degli specchi, “Spiegelhaus”. Aveva supposto che quello fosse il nome della giostra e la sua conoscenza del tedesco lo aiutò a confermare quella teoria: “Casa degli Specchi”. Okay, tanto valeva entrare.
    Una volta pagato il biglietto e messo piede in quell’intruglio senza fine di immagini di sé stesso, Jason non poté fare a meno di notare quanto i suoi capelli fossero fuori posto in quei riflessi. Davvero se n’era andato in giro con quel ciuffo all’aria? E perfino il suo viso sembrava stanco, un leggerissimo alone violaceo cominciava a farsi spazio sotto gli occhietti chiari. Che schifo, cavolo. Una volta a casa di sicuro avrebbe lenito la pelle con qualche crema rinfrescante. Il suo narcisismo non poteva esser messo in discussione e… fu il suo amore per sé stesso l’ultimo pensiero prima che la luce si spegnesse. Quella giornata di “imprevisti” lo portò ad una semplice considerazione personale: “Che giornata di merda, accontento l’agguato di uno sconosciuto e se ne va pure la luce mentre mi specchio. Questa è la volta buona che mi sbudellano e si vendicano per tutte le volte che li ho astrattamente inculati”. Questo prima di ritrovarsi da tutt’altra parte, in tutt’altro luogo, con tutt’altre persone.
    Gli occhi oceanini di Jason scorsero analitici e veloci lo scenario intorno a sé: una sala di pranzo immensa, vittima di un incendio o comunque di un misfatto. Luce soffusa, candele sudanti e un pianoforte nero forse troppo intatto per il degrado di quella stanza. Se ci aveva visto giusto e la vista non lo ingannava, gli era perfino sembrato di notare delle macchie di sangue in giro per l’ambiente. Quella sua analisi fu però interrotta dal vociare fastidioso di un gruppo di persone che si ritrovava a condividere con lui quella situazione tanto assurda quanto inusuale. In un primo momento il giovane irlandese suppose che quello fosse un tranello del giostraio che gli aveva venuto il biglietto; magari voleva rendere la giostra più interessante e di conseguenza aveva allestito quella specie di “teatrino” al fine di alimentare il loro divertimento. Guardandosi meglio intorno aveva però capito che quella sala si ritrovava ad essere troppo grande per vestire i panni del retro di un furgone “mobile”. Anche il silenzio che si respirava intorno ( vociare a parte dei protagonisti ) lo metteva parecchio in agitazione. Prima di esporsi e rispondere ai suoi compagni di sventura, Jason si prese qualche secondo per pensare bene e razionalmente: se quello non era operato del giostraio, chi altro avrebbe potuto trascinarlo fin laggiù? L’unica soluzione plausibile ( ed anche una delle prime che gli venne in mente ) fu la più ovvia e scontata fra tutti: Besaid era un posto pieno di sorprese, se le persone riuscivano a guarire le ferite al tocco, allora non sarebbe stato troppo complesso essere catapultati in chissà quale parte del globo. Sicuramente uno scherzo di pessimo gusto, ragazzata che gli sarebbe costata tempo prezioso e avrebbe messo alla prova i suoi nervi fin troppo saldi. L’unica frase che riuscì a captare fra la calca di gente fu quella di una donna ai suoi occhi incredibilmente bella: bassa, capelli castani, portamento regale. Non l’aveva mai vista e non se ne meravigliava, dopotutto Jason si trovava a Besaid davvero da pochissimo ed era normale che non conoscesse nessuno. Il corpicino esile e minuto di quella persona lasciò spazio alle labbra che schiudendosi andarono a domandare l’ovvietà: « Qualcuno si è fatto un’idea di cosa possa significare? » il tono seccato e di sfida con cui lei aveva posto quella domanda, lo incuriosì. Fu forse per questo motivo che le rispose per primo, scrollando le spalle e dirigendo lo sguardo verso destra in segno di rassegnazione: « Dopotutto siamo a Besaid, può essere l’operato di chiunque. O forse siamo solo morti. » scherzò, mettendosi a ridere.
    Dopo quell’uscita, lo sguardo di Jason andò ad analizzare tutti i presenti in quella stanza: il ragazzo della falegnameria, un tipo di cui Jason apprezzava il silenzio; una coppia di volgarissimi fidanzati, o almeno agli occhi del giovane Walsh lei appariva come una ragazza dalle volgari movenze e lo sguardo del suo "coniuge" sembrava affacciarsi al mondo con una sociopatia fuori dal comune. C’era anche un ragazzo bassino che non conosceva, a guardarlo bene gli ricordava il protagonista de “La Teoria del Tutto” ma probabilmente era solo una sua impressione e… altre due ragazze, una castana e una dai capelli arcobaleno. Jason e la sua riflessività non avevano sentito una parola di ciò che precedentemente il gruppo aveva detto. Probabilmente le domande base come “Ohmmioddio cosa sta succedendo?” o le esclamazioni di disperazione alla Genna di “Il diario di una nerd superstar” ( “Oddio, capitano tutte a me, che sfiga!” ) erano state già dette. E il motivo che spinse Jason ad avvicinarsi un po’ di più al gruppo fu proprio la calzante monotonia che perfino un evento così raro come quello racchiudeva: davvero le persone non avevano nient’altro da dire se non imbellettarsi nell’esporre il loro disagio? Ma godetevi la vita, poveri fessi! Quella gente ( lui compreso ) poteva lasciarci le penne da un momento all’altro a causa dello scherzo di un imbecille qualsiasi. Gli ultimi momenti da vivere erano FONDAMENTALI. Il modus operandi cinico, perverso e profondamente sadico di Jason Harvey Walsh lo portò a sfiorare accidentalmente con la spalla la ragazza dai capelli arcobaleno. Un movimento flebile, leggero, impercettibile. Le passò accanto sfiorandola con l’omero, fingendo di raggiungere il pianoforte ormai in rovina e provandone un tasto con il dito indice.
    Nel tempo aveva imparato a controllarla, la sua abilità.
    Trenta secondi dopo averla sfiorata e quella giovane ragazza avrebbe visto e vividamente vissuto tutto ciò che più al mondo la terrorizzava. Se la più grande fobia della ragazza dai capelli colorati fosse stata l’aracnofobia, allora avrebbe sentito i ragni camminarle sulla pelle. Ne avrebbe percepiti a centinaia percorrerle la spina dorsale, sfiorarle il ventre con le zampette. Agonia che si sarebbe estinta solo dopo aver raggiunto l’apice della paura, riportandola alla realtà. Realtà che attualmente, grazie alle bravate di qualcuno, sarebbe stata alterata quasi quanto il suo sogno. Avrebbe urlato? Questo non poteva saperlo ( ma andiamo, ci sperava ) e chissà, forse l’avrebbero creduta pazza. Gli dispiaceva non poter godere dello stesso scenario che vedeva lei, dopotutto lui poteva riprodurre gli incubi degli altri ma a conti fatti non poteva vederne le immagini.
    Di cosa aveva paura quella ragazza? Cosa l'avrebbe terrorizzata?
    E tutte quelle persone che si ostinavano affannosamente a respirare insieme a lui, di cosa avevano paura?

    [ Non ho idea di quale sia la paura più grande di Fae ad ogni modo ( mi rivolgo alla player) hai libero arbitrio. Se teme qualcosa di fisico allo sarà semplice descrivere l'ipotetica visione che questa potrà avere. Se invece la sua paura è qualcosa di più astratto (es. la solitudine) vivrà attimi di dolore logorante. Strette alla bocca dello stomaco, dolore "mentale" che si sfoga sul corpo come 9 volte su 10 succede. Insomma, giocatela come credi. uù ]


    Edited by néamh - 19/3/2018, 02:53
     
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    Il silenzio fu rotto da un suono. Il grande pianoforte a coda iniziò a lamentarsi. Era una melodia lenta, malinconica. La sol si. Nessuno voleva trovarsi in quel posto, neanche l’elegante strumento musicale, deprivato di alcuni suoi tasti, costretto per sempre a comporre melodie incomplete. Era una richiesta d’aiuto, mormorata con timore e dolore. Continuò a produrre suoni, quel pianoforte, pur non essendoci alcun musicista. Forse un giorno era esistito, un pianista, in grado di far vibrare i cuori dei suoi ascoltatori, di emozionarli e farli danzare su note ben legate tra loro. Tutto ciò era scomparso, distrutto, spazzato via da un massacro immotivato di poveri innocenti. Ogni colonna, ogni tendaggio, ogni oggetto rimasto pareva essere chiuso nel suo silenzio, testimone di morte e violenza.
    Il salone di San Giorgio era un tempo splendido, sfarzoso. Chiudendo gli occhi, sarebbe stato ancora possibile rivivere quei momenti che lo avevano reso il protagonista indiscusso, le danze cadenzate di ospiti ben vestiti, i colori marmorei del pavimento che si mescolavano al crema del soffitto in un unico armonioso insieme. Racchiudere tanta bellezza in un’opera d’arte sarebbe stato impossibile, poteva solo essere vissuta e ammirata con occhi propri.
    Ora, che i Romanov erano estinti, la rivoluzione in atto e San Pietroburgo piombata nel caso, nessuno abitava più tra le mura del palazzo d’inverno. Era uno scrigno vuoto. Un canto lontano e perso per sempre. Una tomba.
    Il dolce suono era scandito solo dal rumore di piccole gocce di cerca che, dai porta candele, colavano sul pavimento, in chiazze scure e solidificate. Anche le candele erano ormai spente, inermi, stanche di attendere qualcuno che non sarebbe mai più tornato. Solo poche avevano ancora le fiamme accese ma presto anche queste avrebbero perso la speranza.
    D’un tratto, uno scalpiccio. Qualcuno rise, nascondendosi dietro un drappo scuro che frusciò sul pavimento. E poi, ancora, passi frettolosi di un piedino piccolo racchiuso in una scarpina elegante. Si rifugiò dietro l’unico divanetto rimasto, macchiato di sangue. Una seconda risata cristallina si mescolò con la triste melodia che echeggiava tra le pareti fredde e ormai anonime.
    «Sophie?» chiamò qualcuno con tono basso, dolce, un po’ spaesato. Uscì dal suo nascondiglio, piano, posando la mano sul bracciolo del mobile e stringendolo forte. Una bambina osservò i malcapitati, alzando appena la testolina poiché troppo bassa per loro. Indossava scarpe in vernice nera ad occhio di bue e calzamaglie bianche. Il suo esile corpicino era racchiuso in un vestitino di velluto rosso cremisi, con la gonna il cui orlo era ornato da piccolissimi fiori in stoffa. La vita era stretta da un fiocco in raso e il bustino, arricciato, culminava con due maniche a palloncino. I capelli neri come l’inchiostro erano acconciati in una lunga treccia ordinata, tenuta ferma da un nastrino bianco. Il bel visetto a cuore non poteva essere rimirato a causa di una maschera veneziana. Solo le labbra erano visibili e non spiccavano per niente sul suo incarnato latteo, a differenza degli occhi, che era possibile intravedere da le piccole fessure affusolate. Le iridi cristalline rendevano il suo sguardo asettico, simile a quello delle bambole di porcellana. Eppure, con i suoi grandi occhi innocenti, studiava i suoi ospiti.Puntò l'attenzione su Fae e Jason e scoppiò a ridere fragorosamente per ciò che era accaduto, per la reazione della ragazza arcobaleno. Poi spostò lo sguardo su Engy e increspò le labbra in un sorriso, quasi simile ad un ghigno, pregno di tanta malizia. Lo scherzetto del ragazzo biondo, l'accetta stretta tra le sottili mani della norvegese: era l'incipit perfetto per una storia avvincente. Il sorriso scomparve, i muscoli del viso si sciolsero in un'espressione vitrea e parve assorta. Assorbì il potere mentale, di Elias o di Tori, per riversarlo su colei che aveva osato sfidarla. Le insinuò una vocina in testa, flebile ma affilata, che le intimò di posare l'arma per terra.
    «Ho perso la mia amica» compì qualche passo in loro direzione e si fermò, intrecciando le mani sul grembo, guardandosi intorno con aria quasi spaesata. Pareva essere stata strappata dal suo mondo e catapultata in una realtà non sua, nonostante questo non dimostrava alcun timore ma solo una calma inquietante. «Credo sia stata massacrata insieme a tutti quanti» l’attenzione sgusciò sui presenti e sospirò «Peccato. Ci stavamo divertendo» tornò ad avanzare e, aprendosi un varco tra loro, li superò per raggiungere il pianoforte che ancora suonava. Sfiorò piano quei tasti spinti con tristezza, chiuse un attimo gli occhi come a voler ascoltare la melodia che diveniva sempre più malinconica e quasi tormentata. Sembrava che lo strumento avesse riconosciuto la bambina e compreso le sue reali intenzioni, quindi stesse urlando ai malcapitati di fuggire. O, forse, pregava per la loro sorte.
    La piccola aprì gli occhi e stirò le labbra in un sorriso angelico, sollevando gli zigomi e creando due tenere fossette. «Giocate con me» propose. Poi quel sorriso sparì, i muscoli si sciolsero in un’espressione cupa e autoritaria. D’un tratto colpì con un pugno i tasti del pianoforte, emettendo un rumore assordante che rimbombò per tutta la sala. Lo strumento si ammutolì per un attimo, parve incassare quel colpo e gemere, quindi riprese a suonare come se stesse piangendo. Tornò ad accarezzarlo con aria mortificata. «Giocate con me» ripeté in un sibilo atono e prese lo spartito musicale e una matita che giaceva sul leggio.
    Avanzò in direzione di Engy e richiamò la sua attenzione strattonandole piano la mano, in un gesto dolce ed infantile. Le porse i due oggetti e le domandò, con un cenno, di accovacciarsi per raggiungere la sua altezza. «Sophie dice che sarebbe divertente uccidere qualcuno» sussurrò «Però vorrei prima capire come sembrerebbe. Disegnali. Morti.» ridacchiò, battendo le mani e saltellando sul posto, eccitata come se avesse appena ricevuto dello zucchero filato.
    Magari la ragazza dai capelli rossi avrebbe esitato o, peggio ancora, rifiutato. Chiunque sano di mente si sarebbe opposto a una richiesta simile che sembrava far la felicità di quella bambina. Ecco perché si rivolse a Tori, tornando d’un tratto seria e quasi imbronciata. «Costringila» disse secca, come un ordine. Non ammetteva repliche. Sarebbe stata capace di qualsiasi cosa se i suoi ospiti non avessero giocato con lei. Purtroppo, però, le regole sarebbero state del tutto fuori dal comune e la partita difficile da sostenere. Avrebbe giocato con le loro emozioni, con i più nobili sentimenti del mondo, piegandoli al suo volere per produrre solo sofferenza. Perciò era divertente, per lei, osservare la reazione di una donna costretta a riprodurre il suo amore e i suoi amici deceduti e, per ottenere un ottimo risultato, le diede anche delle indicazioni: avrebbe dovuto disegnare corpi privi di vita. Tutto ciò pareva eccitarla a tal punto che, nel dettare i dettagli, la sua voce fu incrinata da entusiasmo. Tutto era reso più divertente dal potere mentale di Tori e spesso la studiava, curiosa e affascinata. Le chiese di non fermarsi, di continuare a costringere Engy a disegnare. Che bello sarebbe stato se anche lei avesse potuto plagiare le menti e sottomettere tutti al suo volere. Un gran bel divertimento.
    Man mano che realizzava il disegno, i corpi si materializzavano distesi per terra, esanimi. Li osservò con aria assorta, portandosi un mano sotto il mento. «Che buffa, la morte. Proprio buffa. Così come le paure» si voltò in direzione di Jason, aveva smesso di sorridere. Avanzò ma non in sua direzione, bensì affiancando Adam e stringendogli la mano. Si scusò con lui, per ciò che aveva fatto, ma era stata Sophie a chiederlo. Raccontò che aveva paura della sua amica, che era sempre stata un po’ strana. Viziata come nessuno, otteneva sempre ciò che voleva. Capricciosa, spesso, quando contraddetta, reagiva in modo violento e malsano. Ricordava quando, con i suoi genitori, era andata a farle visita in uno strano edificio, buio, tetro, e Sophie era costretta a letto, da sola, in una stanza dalle pareti imbottite. Aveva avuto paura. Tanta paura. «E tu, di cosa hai paura?» guardò Jason «Mostramelo, ti prego» mormorò «Mostrami di cosa ha paura questo ragazzo. Non voglio essere l’unica.. cambiamo gioco» ridacchiò, lasciando la mano del guardiacaccia e indietreggiando di un passo. La paura è parte di noi ed è forse uno dei più forti sentimenti che possiamo mai provare. Annulla le nostre facoltà mentali, quando siamo dominati da essa diventiamo pupazzi nelle sue mani e compiamo gesti che mai vorremmo fare. È potente, la paura, così come l’amore ma, a differenza di questo, i suoi effetti non sono mai buoni.
    La bambina guardò affascinata l’uomo biondo compiere la sua magia e poi spostò l’attenzione su Adam che, piano piano, diveniva vittima dei suoi incubi peggiori. «Non basta. Ancora» ordinò la piccola a Jason in un sibilo indispettito. Non si stava impegnando, secondo lei, e il gioco non riusciva. Attese qualche secondo e poi le labbra si tesero in un sorriso soddisfatto: Adam era del tutto accecato dal terrore e in uno stato di forte pressione emotiva. Ed ecco come la paura ebbe i suoi effetti devastanti, poiché portò a far scattare il suo di potere, e ogni oggetto fu sradicato, spostato, distrutto. Divenne tutto un gran caos ma ciò non sembrò turbarla. Anzi, rideva fragorosamente, fino a lacrimare, come se le avessero appena fatto un bellissimo regalo. Era felice che quei ragazzi stessero giocando con lei. Una grossa crepa squarciò il soffitto da cui caddero calcinacci di diverse dimensioni. Le statue si frantumarono, cadendo a pezzi, i divanetti furono spostati. Alcuni tendaggi tremarono, le aste metalliche cedettero, producendo un rumore assordante che sovrastò la melodia del pianoforte fattasi sempre più disperata. Uno dei tre grandi candelabri a soffitto tremò, sganciandosi e rovinando al suolo, spaccando il marmo. Parecchie vetrate scoppiarono. Infine persino il pianoforte fu spinto contro il muro, cedendo appena e il suo suono si intensificò, triste e impaurito.
    La bambina, continuando a ridere, trotterellò portandosi tra Ivar ed Elias. Scoccò una rapida occhiata a Fae, come per controllare che fosse ancora lì e poi portò l’attenzione sul giovane falegname. «Inizia ad annoiarmi» borbottò «Fermalo» disse e poi indicò il cadavere del guardiacaccia che ancora giaceva a terra. «Lo voglio esattamente così» poi si rivolse ad Elias, prendendo la sua mano e scuotendola appena, iniziando quasi a fare i capricci. «Convincilo tu. Gli ci vuole un piccolo incentivo, no?» stese ancora le labbra in un sorriso angelico e attese che il ragazzo dai capelli rossi manipolasse il pensiero di Ivar, proprio come Tori aveva fatto con Engy. Era tutto così divertente, così dinamico. Era contenta, quella bambina, di aver trovato degli ottimi compagni di gioco. Continuò a stringere la mano di Elias e ad osservare sorpresa e catturata come costringesse Ivar a muoversi verso Adam che, ancora piegato dai suoi incubi peggiori, continuava a mandar in frantumi ogni splendido ornamento del grande salone. Lei incitava sia Elias a continuare a manipolare la volontà, sia il falegname ad avanzare. Ivar aveva ormai raggiunto Adam, pochi centimetri separavano i loro corpi.
    La bambina si allontanò da Elias e raggiunse a piccoli passi Fae, tirandola per la maglietta e costringendola a piegarsi per avere il viso vicino al suo. Le scostò i capelli arcobaleno e portò le labbra al suo orecchio, proteggendolo con una mano, come a volerle rivelare un segreto «Non voglio che muoia. A Sophie non piacerebbe. Però sono curiosa.. quanto puoi sfidare la morte?» domandò e poi indicò i due ragazzi, vicini, le distanze erano quasi annullate. Ivar lo avrebbe toccato, Adam sarebbe morto. Eppure la bambina si dimostrò magnanima e propose a Fae di intercettare quel tocco fatale, assorbendolo con il suo corpo.
    Osservò ciò che accadde con il tipico stupore infantile. La ragazza si interpose tra i due, bloccò Ivar e ammirò la morte distruggere parte della manica di Fae e poi intaccare la sua pelle.
    D’un trattò sbuffò, seccata. «Basta!» sbottò. I presenti ebbero bisogno di parecchi minuti per riprendersi da quel macabro gioco, quando questo accadde tutto cessò e il salone di San Giorgio smise di cadere a pezzi. Rimpiombarono nel silenzio, interrotto solo dal suono del pianoforte. La bambina sospirò, raggiunse Ingrid e afferrò con delicatezza il suo polso. Senza emettere fiato, quasi delusa, la condusse al divanetto ed entrambe si sedettero. Drizzò la schiena, stirò appena la sua gonna, e li osservò. Tese il braccio e aprì il palmo verso il basso, in direzione di Adam che ancora non riusciva a ritrovare il proprio equilibrio. Ancora una volta, assorbì il controllo mentale e lo usò sul giovane guardiacaccia. Gli sussurrò tacitamente, con una certa insistenza, di rilassarsi e ritrovare la calma.
    Poi sbuffò, accarezzandosi la treccia scura. «Siete stati noiosi» commentò. «Ma non trovo più la mia Sophie. Qualcuno di voi l’ha vista?» domandò , forse retorica, come se tutto fosse ripartito da zero e lei li vedesse per la prima volta. I suoi occhi chiari non sembravano segnati da alcuna sofferenza. Dondolò la testolina e incrociò lo sguardo di Ingrid. «Sono stata rinchiusa anche io, insieme a Sophie. In una camera scura. Tutti avevano paura di me» abbassò lo sguardo, quasi triste. «L’oscurità può spaventare, avrete solo una possibilità per scappare. Non è questo l’ignoto da temere, il bello deve ancora accadere» sussurrò tra se, estraniandosi totalmente, le iridi vitree e in uno stato di trance. Sorrise appena e ripeté la frase in una sorta di loop mentale.
    Un rumore metallico e poi le candele si spensero in un soffio. La stanza piombò nella più totale oscurità e la bambina rise, prima di sparire. Avrebbero dovuto cercare una chiave e con essa aprire l'unica porta, la sola via di fuga. Sarebbe stato difficile, al buio, ma forse Ingrid avrebbe potuto aiutarli. Luce ed oscurità, morte e vita, questi erano stati i loro reali compagni di giochi. Ora erano soli, avvolti dalle tenebre. La partita era terminata. Per quel momento.


    Particolarità master: specchio. Replica le particolarità altrui.

    -- Ambiente:

    - Sul pavimento giacciono i corpi dei vostri personaggi privi di vita, man mano che Engy li disegna e quindi riproduce. La stanza inizia ad andare in pezzi solo quando Adam perde il controllo. Cadono calcinacci, le statue si frantumano, i divanetti vengono spostati e uno dei tre candelabri a soffitto cade, senza colpire però nessuno. La distruzione termina solo dopo che Adam si sarà calmato.

    -- Azioni personaggi:

    - Engy posa l'accetta a terra perchè manipolata dal master.
    - Tori manipola il pensiero di Engy, Elias manipola il pensiero di Ivar.
    - Jason riproduce l’incubo di Adam.
    - Jason, Tori, Elias: continuano a manipolare la mente e a produrre incubi per tutto il turno, finché la bambina non ordina di fermarsi.
    - Engy: continua a disegnare per tutto il turno, soggetta al controllo di Tori.
    - Ivar: continua ad avanzare verso Adam e, anche quando Fae si interpone tra i due, il suo obiettivo sarà sempre quello di colpire Adam, poiché soggetto al controllo mentale di Elias. Quando cessa il controllo mentale, anche Ivar si fermerà.
    - Fae si interpone tra Ivar e Adam. Cercherà di fermare Ivar, che punta ad Adam e che quindi tenterà di scansarla. Tra i due ci sarà un po’ di resistenza, finché Ivar non le afferrerà il braccio.
    - Ingrid. La sua azione vi consentirà di fuggire. Quando le luci si spengono, userà la sua capacità per illuminare l’ambiente e permettere a tutti di cercare la chiave. Sarà lei a trovarla e sempre lei ad aprire la porta.
    - Adam. Quando cessa il potere di Jason, continuerà ad essere fuori controllo. Si fermerà quando, la bambina, assorbito il potere di Tori o di Elias, quindi del controllo mentale, lo porterà a calmarsi.

    Nb: come da descrizione particolarità, solo Adam e Jason possono vedere l’incubo.

    -- Condizioni personaggi:

    La stanza è andata in pezzi, crollando. I personaggi tentano di proteggersi come meglio possono, nascondendosi sotto i divanetti, sotto architravi o buttandosi a terra, coprendosi la testa con le mani. Sono colpiti da calcinacci o piccoli pezzi di marmo:

    - Engy, spalla. Avrà molto dolore e difficoltà a muovere il braccio con cui disegna.
    - Jason, testa. Rischia quasi di svenire per il colpo ma resta lucido, provando solo un forte dolore e stordimento.
    - Ingrid, gamba. Niente di rotto ma zoppicherà parecchio.
    - Elias e Ivar, colpiti insieme da un divanetto. Contusioni saranno presenti sui punti del corpo che hanno ricevuto il colpo.
    - Più di una vetrata è scoppiata e tutti i personaggi presentano tagli. A discrezione vostra i punti feriti.

    A livello psicologico sono tutti un po’ provati e, chiaramente, molto spaventati. Tuttavia alcuni sono più sofferenti di altri:

    - Tori ed Elias, avendo dovuto a lungo esercitare il controllo mentale, sono parecchio stanchi e sfiniti.
    - Adam, essendo stato vittima del suo incubo peggiore (la player di Adam e Jason si accordassero per mp per stabilirlo, deve essere la sua più grande paura), è confuso e molto molto terrorizzato. Calmarlo sarà difficile.
    - Ivar, soggetto al controllo mentale, costretto a toccare prima il suo amico e aver fatto del male a Fae, è molto instabile. Non riuscirà a tener a bada il suo potere.
    Infine:
    - Fae ha la manica della maglietta distrutta. La pelle del braccio è grigia e secca, quasi in stato di cancrena. Ivar ha stretto l’arto per troppo tempo e il suo processo di guarigione, che avverrà, sarà abbastanza lento. Avrà difficoltà a muovere il braccio.

    Abbigliamento:
    I vostri abiti sono sporchi di polvere. Chi ha riportato ferite da taglio, anche di sangue.

    Nb: lo stato fisico/emotivo dei vostri personaggi perdura fino a nuove disposizioni. Giocatevelo e mantenetevelo.


    Turni (Attenzione: per coerenza narrativa, i turni sono fissi. Non saranno possibili cambi)
    I partecipanti avranno a disposizione 3 giorni per postare la propria risposta. Se questa non perverrà entro il tempo stabilito, salterete il turno per poi riprendere dal successivo.

    1. Tori
    2. Engy
    3. Jason
    4. Adam
    5. Elias
    6. Ivar
    7. Fae
    8. Ingrid

    Qualsiasi dubbio o domanda riguardante la Quest potete porgerla in questo topic.
     
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    VICTORIANNE FAWNIE ÅRUD ☾

    Ormai giunta al centro della stanza, Victorianne ruotò appena su sé stessa, lasciando vagare lo sguardo, a turno, sulle quattro pareti che la circondavano. Sebbene apparisse assorta nello studiare il luogo in cui si trovavano, soffermandosi di tanto in tanto su una statua od un pezzo di mobilio che era stato distrutto con particolare foga. Al contempo, però, fece attenzione a non perdere di vista coloro che la circondavano, ascoltando le loro supposizioni e notando che nessuno sapeva con certezza dove si trovavano né chi fosse l’autore di quello scherzo. «Dopotutto siamo a Besaid, può essere l’operato di chiunque. O forse siamo solo morti.» Completato il giro, lo sguardo scuro della giovane si posò sul ragazzo che aveva parlato per ultimo, la voce sporcata da un accento straniero. Storse il naso, infastidita. Non ci trovava nulla di divertente in quella situazione ed il fatto che non sapesse di chi potersi fidare non faceva altro che innervosirla ulteriormente. Per quanto ne poteva sapere l’autore di quell’illusione (?) poteva essere uno dei presenti. «Grandioso.» Mormorò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Davvero meraviglioso.» Istintivamente, spostò lo sguardo su Adam, per assicurarsi che stesse bene. Nonostante la situazione, non aveva intenzione di rivoglgergli apertamente la parola, né di mostrare la benchè minima preoccupazione o timore, ma a dispetto di ciò che era accaduto anni prima – e che ancora bruciava, alimentato dalla testardaggine insita nel suo dna e da un vago senso di colpa – lo considerava pur sempre parte della sua famiglia. E, per lei, non vi era nulla di più importante.
    Dal nulla, il silenzio venne improvvisamente spezzato da una serie di singhiozzi, provenienti dalla ragazza dai capelli multicolore. Immobile, lo sguardo chiaro della giovane era fisso su un punto imprecisato nel vuoto, come se nella sua mente stesse avvenendo qualcosa di invisibile a tutti gli altri. Qualcosa di spaventoso, a giudicare dalla sua espressione e dalle frasi sconnesse ed incomprensibili che le abbandonavano le labbra mentre piangeva rannicchiata su sé stessa, quasi fosse in stato di shock.
    Mentre l’eco dei singhiozzi ancora risuonava nella stanza, amplificato dalle pareti spoglie e dal silenzio innaturale che era calato tra loro, le prime note di una melodia straziante e malinconica si levarono dal pianoforte a coda dimenticato nell’angolo del salone, quasi venisse suonato da mani invisibili. Victorianne rabbrividì, sfregandosi il dorso delle braccia e intrecciandole al petto. Non aveva freddo ma, ad ogni lamento del pianoforte, la sensazione di inquietudine che provava continuava a crescere, suggerendole che la situazione in cui si trovavano poteva essere decisamente più pericolosa di una scadente scenografia da film horror di quarta categoria.
    S’irrigidì ed indietreggiò istintivamente quando, insieme ad una risata infantile, colse un movimento dietro i pesanti tendaggi alla sua sinistra. Poi un rumore di passi – piccoli, veloci – ed un’altra risata prima che, sbucando da dietro l’unico divanetto integro, una bambina si palesò a tutti loro. Piccola e pallida, con un evidente contrasto tra i capelli scuri, il cremisi dell’abito e l’incarnato di porcellana, lasciò vagare lo sguardo vitreo su tutti loro. Mentre le passava accanto, Tori provò l’inquietante sensazione che la maschera veneziana celasse ben più di semplici lineamenti infantili. La sua risata metteva i brividi, divertita com’era dalla situazione. Nessuna bambina avrebbe dovuto trovarsi in un luogo simile e, soprattutto, nessuna bambina normale avrebbe tratto piacere da quella condizione. Per un istante il suo pensiero ritornò ad Alexandra; sapere che sua figlia si trovava a casa, protetta da sua nonna Edith, fu una rassicurante consolazione.
    Seguì la bambina con lo sguardo, vedendola avvicinarsi al pianoforte e pigiare i tasti che non avevano smesso di produrre la melodia malinconica che riempiva l’aria. Propose loro di giocare – o meglio, lo ordinò – prima di dirigersi verso la ragazza dai capelli rossi e porgerle lo spartito musicale ed una matita, invitandola a disegnare ciascuno di loro privo di vita. Quelle parole, dette con tanta leggerezza, ronzarono nelle orecchie di Tori senza che la giovane riuscisse a comprenderle veramente ma, prima che potesse fare qualunque cosa, la bambina si volse verso di lei, esigendo che costringesse l’altra ad accontentarla. Victorianne battè le palpebre, tentando di schiarirsi la mente. Nella sua testa i pensieri si agitavano senza sosta, rimescolandosi in una quantità di scenari indefiniti. Una parte di lei, quella più determinata e impulsiva, avrebbe voluto opporsi e fronteggiare apertamente quella bambina – o chiunque l’avesse creata – ma il suo lato più assennato e previdente le suggerì che tanta impulsività avrebbe procurato unicamente danni. La bambina sembrava sapere molte cose su di loro, compreso il funzionamento delle abilità di ciascuno, e la sicurezza con cui esigeva che i propri ordini venissero accontentati suggeriva che, in caso di rimostranze, avrebbe saputo come convincere i presenti. Deglutì e si voltò verso la rossa, il labbro inferiore che le tremava appena. Avrebbe dovuto concentrarsi per convincerla a disegnare e, data la situazione, non sarebbe stato semplice. «Sono solo disegni.» Mormorò, facendo un passo verso di lei. La sua voce divenne improvvisamente più suadente, dolce, invitante. «Vuole vedere quanto sei brava, accontetala. Se farai come dice non succederà nulla di male.» Cercò lo sguardo della ragazza con il proprio, tentando di intrecciare con lei una connessione stabile. Spesso, il contatto fisico o visivo la aiutavano a persuadere più facilmente le sue vittime, ma dare ordini diretti era generalmente controproducente. Consigli, suggerimenti e dolcezza funzionavano molto meglio. «Non sono reali, non per davvero. Sono solo linee su un foglio.» Le sussurrò, posizionandosi al suo fianco in modo da poter continuare ad incitarla mormorandole le parole all’orecchio. Di tanto in tanto, mentre i corpi privi di vita comparivano sul pavimento, spostava lo sguardo sulla bambina, senguendo ogni suo movimento. L’unica ragione per cui si era prestata a utilizzare la sua abilità era per guadagnare tempo e, magari, scoprire qualcosa di più su ciò che stava accadendo. Avrebbe preferito evitare di soggiogare chiunque ma, se fossero usciti vivi di lì, si sarebbe scusata in seguito.
    Apparentemente insoddisfatta dalla sola visione dei corpi disegnati da Engy, la bambina si era ora rivolta al ragazzo biondo, prima di stringere la mano di Adam. La sua nuova vittima preferita sembrava essere proprio lui. Per un istante, Tori si distrasse abbastanza da perdere la concentrazione. Deglutì e riportò lo sguardo sulla ragazza rossa, cercando di ignorare ciò che stava accadendo a suo cugino, a soli pochi metri di distanza. Se si fosse lasciata travolgere dalle sue emozioni non sarebbe più riuscita a mantenere il controllo della propria abilità; inoltre, la volontà della ragazza assoggettata era nettamente in contrasto con la sua e ciò la stava costringendo a utilizzare il suo potere con crescente intensità, a tal punto che iniziava ad avvertire i primi sintomi della nausea. La bocca dello stomaco si era chiusa in una morsa dolorosa e la vista cominciava ad annebbiarlesi, confondendola e facendole perdere ogni riferimento. Ciò che accadde di lì a poco lo percepì in maniera sconnessa e confusionaria. La voce della bambina che incitava il ragazzo biondo a terrorizzare ulteriormente Adam, le urla di suo cugino, oggetti spostati e sbattuti con violenza contro i muri e la risata infantile che regnava in tutta la stanza, al di sopra di ogni rumore, alimentando quel crescendo di follia e terrore in cui erano intrappolati. Il soffitto si squarciò e tutto nel salone iniziò a cadere a pezzi. Un calcinaccio sfiorò pericolosamente Victorianne, spezzando così lo stato in cui era scivolata e, al contempo, liberando la rossa dalla sua persuasione. Alzò lo sguardo appena in tempo per vedere lo sfarzoso lampadario di cristallo ondeggiare pericolosamente sopra le loro teste e, afferrata la ragazza dalla chioma rossa per il braccio, tentò di spingerla fuori dalla traiettoria dell’oggetto con tutta la (poca) forza che le rimaneva. Cadde a terra e si coprì la testa con le mani, mentre tutto intorno a loro cadeva a pezzi od esplodeva a causa dell’abilità fuori controllo di Adam, deliziando la loro sadica ospite.
    Sollevando appena il viso, vide la bambina avanzare verso gli altri presenti, prendendo per mano uno di loro e trascinandolo con sé. Sembrava che l’intera situazione – la stanza che andava in pezzi – non la scalfisse minimamente. Dovevano fare qualcosa o non sarebbero mai usciti vivi di lì. Mentre il sangue le scorreva violentemente nelle tempie, assordandola ed impedendole di udire chiaramente ciò che stava accadendo, Victorianne si rannicchiò su sé stessa, tentando di calmare il proprio respiro affannoso. Aveva usato il suo potere troppo a lungo per contrastare una volontà nettamente opposta, spingendola ad eseguire delle azioni di cui nemmeno lei stessa era desiderosa. La testa le girava e non era certa che le gambe l’avrebbero sorretta. Avrebbe voluto guardarsi attorno, cercare con lo sguardo qualcuno che potesse aiutarla o intervenire – cercare di fermare la bambina – ma se i suoi pensieri si sosseguivano con una velocità impressionante, il suo corpo rispondeva con lentezza incredibile a qualunque comando, tanto era priva di forze. Il mondo si muoveva attorno a lei senza che riuscisse a fare altrettanto.
    Mantenendo le mani sopra la testa come le avevano insegnato durante le esercitazioni per i fenomeni sismici durante gli anni del liceo – o almeno provandoci – tentò di scivolare contro la parete, in modo da proteggersi nascondendosi sotto una delle architravi le cui statue erano già andate in pezzi. Nel farlo, diverse schegge di vetro e marmo le si piantarono nella carne delicata del palmo della mano e in altri punti del corpo, ma – ferite superficiali a parte - fu abbastanza fortunata da non essere colpita in pieno da nessuno dei calcinacci. Con il cuore che le batteva violentemente nel petto, debole e completamente disorientata, si rannicchiò contro il muro e dopo pochi istanti la distruzione del salone cessò, l’ordine richiamato dalla voce seccata della bambina. Di nuovo, il ronzio nelle sue orecchie sciamò in un silenzio ovattato, interrotto unicamente dalle note del pianoforte, instancabile nella sua malinconica nenia. Perlustrando la stanza distrutta con lo sguardo, quasi faticasse a vedere ciò che le si parava davanti, Tori ritrovò la bambina seduta su un divanetto, assieme alla giovane dai capelli scuri e gli occhi chiari che, solo poco tempo prima – quanto non avrebbe saputo dirlo – aveva chiesto se qualcuno avesse risolto l’indizio sopra all’invito. Se non altro, Adam non sembrava più essere l’oggetto principale della sua attenzione. «L’oscurità può spaventare, avrete solo una possibilità per scappare. Non è questo l’ignoto da temere, il bello deve ancora accadere.» La voce della bambina risuonò come un’oscuro presagio e, dopo che ebbe ripetuto la frase come un automa, l’intera stanza piombò nel buio, accompagnata da una sinistra risata infantile. Immobile nell’angolo in cui si era rifugiata, Tori tossì, cercando di liberare la gola dalla polvere e dal nauseante odore di cera bruciata. Avrebbe voluto parlare o quanto meno cercare di alzarsi, spostarsi e rendersi utile in qualche modo, ma il suo corpo sembrava totalmente incapace di rispondere ai suoi comandi. Prese un respiro profondo e posò le mani a terra, i palmi feriti a contatto con il lercio pavimento di marmo, e fece forza, provando a mettersi in piedi. Le gambe le cedettero quasi immediatamente e ricadde a terra, strisciando contro la parete. «Maledizione!» Sbottò, insofferente. Battè le palpebre più volte, tentando di scorgere almeno il profilo di ciò che era contenuto all’interno della stanza. Istintivamente, allungò una mano davanti a sé. Il buio sembrava denso, impenetrabile, come se avesse consistenza.

    Se devo cambiare qualcosa fatemi sapere :caffè:
     
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    January is the color of her skin
    February are her lips so inviting
    Silk hair as short as her fuse
    She's been damaged, she's been misused



    Di lí a poco, si materializzò anche una ragazza che non ricordava di aver visto in giro per la cittá: era di bell’aspetto, dai lunghi capelli castani e gli occhi simili a quelli di un cerbiatto, anche se avevano perso la loro naturale ingenuitá da tempo. La ragazza fece un passo verso Adam e la barista assottigliò gli occhi: che ci avesse visto bene? Una tresca tra i due? Le iridi ambrate della donna si posarono in quelle del boscaiolo in cerca di spiegazioni, quando la bruna si fermò, facendola voltare. Ehi! Ok, forse poteva essersi sbagliata. Forse era solo una sua paranoia, ma se fosse tutto vero?
    Non era particolarmente vendicativa ma non ci teneva davvero ad essere cornificata. Qualcuno ha idea di cosa stia succedendo? Faceva sul serio? Avevano l’aria di sapere che cosa stava succedendo? Ma davvero Adam la stava “circa” tradendo con una scema?
    Poco dopo, apparvero altre due figure all’angolo opposto dove erano apparsi loro: uno era suo cugino Ivar, l’altra era la sua migliore amica. Cosa ci facevano tutti quanti in quel luogo? E se tutti loro fossero collegati, in un certo senso? Legami di amicizia o famigliari. O romantici
    Vorrei poterti rispondere, ma credo che qui nessuno abbia idea di cosa stia accadendo La ragazza arcobaleno rispose alla bruna che aveva fatto quella domanda che alle orecchie di Engy doveva suonare davvero molto stupida.
    Engy! Esclamarono suo cugino e Fae sorpresi. Lei stessa alzò la mano destra, con la matita ancora stretta tra le dita. Aveva tutto il palmo giá sporco di grafite e per questo aveva preso una colorazione grigiastra. E Kylo… Gli occhi blu di Ivar si soffermarono sull’arma che il boscaiolo teneva tra le dita ed Engel sperò vivamente che suo cugino non fosse diventato davvero cosí idiota nel pensare che il suo ragazzo potesse mai far loro del male, altrimenti lo avrebbe schiaffeggiato personalmente anche solo per averlo pensato. Anche voi qui? Ma che razza di…
    Ma che allegra gitarella eh?
    Una mano scivolò sul viso della rossa, mentre si tratteneva dall’infilzargli un occhio con la matita che teneva tra le dita. Sí, Ivar, proprio una bella gita. Ora arriva nonna e tira fuori il servizio da tè e porta pure i biscotti. Ironizzò lei, stavolta leggermente piú acidamente. In un certo senso, si sentiva come in una sorta di film di Saw l’enigmista. “Vivere o morire? Fai la tua scelta?”. Se non ricordava male, di solito in quei film, moriva sempre un sacco di gente. Era solo un film, no? Non sarebbero morti davvero… vero?
    Una gita? Io mi aspettavo un rave. In effetti, lei e Fae erano state ad un sacco di feste e rave in localitá storiche –ovviamente sempre abusivamente, sia mai che non facessero cose legali–, ma lí vi erano macchie di sangue su tutto il pavimento. Che diavolo era successo?
    Questo non ha completamente senso… No, invece un senso doveva avercelo: se erano lá, era perchè erano stati scelti. Scelti per cosa, però? Era quello che si chiedeva la ragazza dai lunghi capelli rossi, mentre si guardava in giro, come alla ricerca di qualcosa che le desse un indizio.
    All’improvviso, ecco due nuovi arrivati: quel tale con il cognome simile al suo ed i capelli altrettanto rossi apparve in mezzo alla stanza, ridacchiando; un poco piú in lá, una graziosa ragazza dalla chioma brunastra e dagli occhi decisamente molto espressivi. Come se ci fosse realmente qualcosa da ridere: Oh ma do crishto stemo? Se pole buccà chi drento? In che lingua stava parlando? Che venisse da qualche paesino del nord della Norvegia, isolato e con poco turismo? Engel aggrottò visibilmente le sopracciglia, senza capire che cosa avesse detto quel tale.Magnifico, proprio magnifico Disse la bruna con una certa ironia.
    Ah. Bella non è. Oh, bene. Un altro che ha voglia di essere simpatico come le domande di zia Gwydre a Natale.
    Fammi indovinare, siamo bloccati qui dentro. E non è il palazzo tipico di Besaid, vero?
    Ottima deduzione, Sherlock. Ora, se qualcuno ha qualche idea sul come uscire di qua, parli ora. Disse Engel, alzandosi dal pavimento, dopo aver posato l’album a terra. Infilò la matita tra i capelli, tirandoli su in una crocchia piú o meno ordinata.
    Qualcuno si è fatto un'idea di cosa possa significare? Finalmente qualcuno iniziava a fare Delle domande sensate, pensò Engel che si voltò verso la ragazza arrivata assieme al rosso.
    Non sono certa che dipenda dal fatto che siamo tutti collegati da un rapporto di amicizia, sentimentale o di parentela. Oppure, semplicemente, le nostre particolaritá. Sí, forse le particolaritá erano qualcosa che si poteva facilmente spiegare. Alcuni di loro avevano poteri davvero stupendi ed incredibili, come quello di Adam o di Ivar. E se quella fosse una trappola?
    Dopotutto siamo a Besaid, può essere l’operato di chiunque. O forse siamo solo morti. Quella voce maschile la fece trasalire dalla sorpresa: quando era arrivato? Non lo aveva mai visto. Comunque, di certo non era una bella prospettiva vedersi morti.
    Dopo quell'uscita, il biondino che aveva espresso quella frase cinica, si mise a scrutarli dall’alto in basso come facevano quegli schifosi ricconi viziati che Engel vedeva aggirarsi nei centri commerciali sventolando carte di credito d’oro e sentendosi superiori per conti in banca milionari. Aveva giá voglia di spaccargli la faccia. Desiderio accentuato soprattutto quando l’idiota borghesotto sfiorò la spalla della povera Fae e questa cadde in preda ad uno spasmo di terrore. Cosa le aveva fatto?
    Engel corse a soccorrere l’amica, vedendola in quelle condizioni, mentre il ragazzo se ne fregava, suonando il piano. Metti fine a qualsiasi cosa tu le abbia fatto, idiota. Gli intimò, mentre stringeva Fae contro al suo petto. Hey, tesoro… qualsiasi cosa tu stia vedendo, non è reale. Fae… La barista cercò di calmare la ragazza arcobaleno, con un tono calmo e dolce, accarezzandole i capelli. Rivolse di nuovo uno sguardo di fuoco al ragazzo: Senti, lurido pezzo di merda, io non so chi ti credi di essere, ma ora tu vieni qui o giuro che vengo lá e ti pesto finchè quella faccia da culo non avrá piú una forma.
    Ma proprio mentre si stava per alzare, una nenia risuonò dal pianoforte. Come un lamento. E no, non sembrava fosse opera del biondino, ma lui lo aveva toccato, quindi doveva essere colpa sua. Promemoria: mai far incazzare Engel Larrsen.
    Cos’hai toccato?

    Her eyes reflect like the rain on the pavement
    I take control, she explodes, sink into her depths
    I'm the tremble in her voice when she attempts to speak
    Fixate on the frailty



    Inquietanti risate infantili si fecero eco dietro ai drappeggi delle tende, facendo rabbrividire la barista: c’era da dire che vi erano ben poche cose a terrorizzarla, e quello che le si presentò poco piú in lá di dove si trovava, le fece sgranare gli occhi. Una bambina, vestita come una grottesca bambola di porcellana vivente, il viso nascosto dietro ad un’inespressiva maschera veneziana. Li scrutava, tenendo stretto il bracciolo del divano dalla quale era sbucata.
    Sophie? Aveva pronunciato qualche istante prima, e la giovane si chiese se oltre a quella spettrale figura vi fosse qualcun altro.
    E se li stessero osservando? Se quello fosse un esperimento per testare le loro particolarità, la loro resistenza e i loro limiti?
    La risata della bambina era anche piú inquietante, mentre posava il suo sguardo su Fae, ancora incosciente tra le braccia di Engel, e il biondino.
    Quando gli occhi vitrei di quella specie di spettro vivente si posarono in quelli della barista, questa rabbrividí, sentendo improvvisamente freddo: quel ghigno non apparteneva a qualcosa di buono, o comunque il suo istinto le suggeriva cosí.
    Ragazzi, quella bambina non promette nulla di buono. Sbrighiamoci ad aprire quella porta. Cercò di bisbigliare a coloro che le erano piú vicini.
    Poi si rivolse alla bambina, cercando di restare calma e fare quello che ogni adulto avrebbe fatto in quella situazione: Dove sono i tuoi genitori? E che posto è questo? Doveva sapere qualcosa, o almeno Engel sperava che fosse cosí. Se… Se tu ci aiuti ad uscire da qui, ti aiuteremo a trovare questa Sophie. Le sembrava un buono scambio, e di solito aveva un ottimo rapporto coi bambini. Almeno sperava cosí di riuscire a portare fuori tutti da quell’incubo –e di menare il biondo–.
    E tutto ad un tratto, il sorriso della bimba svaní e la voce di quello spettro si insinuò nella sua mente. Le comandò di posare l’arma. Non si fece molte domande, ma ubbidí, per non indispettirla.
    Ho perso la mia amica Disse, avvicinandosi a loro. Credo sia stata massacrata insieme a tutti quanti
    A Engel si gelò il sangue nelle vene: quindi, il sangue sul pavimento era il risultato di un massacro. Come faceva quella bimba ad essere cosí tranquilla, sebbene avesse solo lo sguardo spaesato? Piú la guardava, piú sentiva le sue membra rabbrividire.
    Peccato. Ci stavamo divertendo
    Li hai uccisi tu? Fu una domanda spontanea, formulata nella sua testa, troppo spaventata per cercare di parlare ancora. La bambina si avviò verso il pianoforte, sfiorando i tasti dello strumento con una certa malinconia che alle percezioni di Engel sembrava piú noia.
    Quel piccolo diavolo sorrise, in maniera tanto angelica quanto inquietante: Giocate con me. Non sembrava una richiesta, quanto un ordine. Era quasi certa che se non avessero fatto come voleva, avrebbe potuto uccidere anche loro.
    Le si avvicinò con una matita in mano, guardandola negli occhi e inchiodandola al pavimento; le membra non rispondevano, mentre la bimba le strattonava una mano, posando la grafite tra le dita che tremarono appena.
    Sophie dice che sarebbe divertente uccidere qualcuno. Le palpebre della rossa si spalancarono, inorridita: Però vorrei prima capire come sembrerebbe. Disegnali. Morti. Lo spettro saltellò un pò a destra e un pò a sinistra, come facevano tutti i bambini la mattina di Natale.

    Her eyes reflect like the rain on the pavement
    I take control, she explodes, sink into her depths
    I'm the tremble in her voice when she attempts to speak
    Fixate on the frailty



    Il cuore mancò qualche battito: sperava di non aver capito male la sua richiesta, anche perchè non aveva alcuna intenzione di disegnare i suoi amici morti. Soprattutto, non avrebbe mai e poi mai disegnato il cadavere di Adam. Scosse la testa, lentamente, come a farle capire, con una certa gentilezza, che non poteva acconsentire ad una tale richiesta. Era fuori discussione, nonostante non si trovavano nella situazione di poter rifiutare. Poteva torturarla o ucciderla, ma lei non avrebbe mai fatto una cosa del genere coscientemente.
    Voltandosi verso la brunetta “presunta amante” di Adam, la bambina imbronciata si rivolse allora lei: Costringila Le intimò e la rossa sbattè le ciglia piú volte perchè davvero non capiva come avrebbe potuto una sconosciuta poterla costringere.
    Sono solo disegni Quando la bruna la toccò, subito il suo corpo iniziò a rispondere all’ordine impartito dalla bambina, anche se la sua mente rimaneva cosciente. No, non erano solo disegni: il disegno comportava l’immaginazione e la fantasia, e il dover pensare a delle persone in contesti cosí macabri non l’aiutava di certo. Vuole vedere quanto sei brava, accontetala. Se farai come dice non succederà nulla di male. Era cretina o cosa? Le stava chiedendo di disegnare tutti loro morti. Non era una cosa normale. Non era come disegnare dei teneri cerbiattini, soprattutto se poi tutto diveniva reale. Lei doveva solo costringerla, come giá stava facendo. Anche contro voglia avrebbe dovuto farlo.
    Doveva pensare velocemente. La sua mano disegnava linee a caso che sapeva ben presto avrebbero preso forma. Non ci credeva, stava davvero facendo ciò controvoglia? Ti prego… non farmelo fare… Sussurrò, con la voce strozzata dal pianto, mentre le prime lacrime iniziavano a bagnare il viso della povera ragazza, inumidendo il foglio. Non sono reali, non per davvero. Sono solo linee su un foglio. come poteva essere cosí ingenua? Anche se tentava di essere dolce, Engel non riusciva a fare altro che percepire la sola crudeltá. L’istinto di sopravvivenza.
    Avrebbe disegnato anche contro la sua volontá.
    Cosí, il primo che disegnò fu proprio quello stronzo che aveva fatto del male alla sua cara amica. Lo disegnò con le gambe spaccate da ripetuti colpi di una mazza da baseball, accanitasi poi sulla faccia, rovinandola per sempre e deformandola in una poltiglia di sangue e cervello. Quando il corpo senza vita del biondo si materializzò, una grossa macchia di sangue si espanse dalla testa al tappeto.
    Engy serrò le palpebre, cercando di calmare la nausea e la testa che vorticava. Si prese un secondo per riprendere fiato, e poi disegnò l’idiota dai capelli rossi.
    Un cappio attorno al collo, le labbra blu, gli occhi senza vita, lo sbattere di un corpo appeso. Il corpo senza vita di Larsen apparve appeso sul lampadario, dondolando come un elegante pendolo umano.
    La sua mano continuò a disegnare: la terza vittima designata fu la bruna che la stava costringendo. Come si uccide la possibile amante del tuo ragazzo?
    Il corpo di Tori apparve sul pianoforte con un coltello da cucina conficcato in pieno petto, la bocca aperta in un’espressione di stupore e dolore, le iridi castane e senza vita che guardavano il soffitto, una cascata di sangue correva giú dalla superficie sino al pavimento.
    Perdonami! Le disse in un sussurro, tirando su con il naso.
    La bimba osservò il suo operato assorta, come un esperto di opere d’arte: Che buffa, la morte. Proprio buffa. Così come le paure.
    Gli occhi ambrati di Engel schizzarono sulla bambina che si stava avvicinando ad Adam.
    No, ti prego… Sarò piú veloce… Disse disperata, cercando di disegnare piú velocemente.
    Lo spettro sembrava avere un piano: sia per Jason che per l’unico amore della sua vita, sua grande debolezza.

    We lie awake and watch it grow
    She hesitates to grab a hold
    Her body shakes, her breath is cold
    To keep her safe is all I know



    Non sentí cosa gli disse, le sue orecchie non percepivano piú nulla se non il martellare frenetico del suo cuore. E tu, di cosa hai paura? Quella domanda lei la sentí, come se l’avesse pronunciata a poca distanza da lei. La bimba si voltò verso il biondo: Mostramelo, ti prego. Mostrami di cosa ha paura questo ragazzo. Non voglio essere l’unica.. cambiamo gioco. Fu capace di costringere anche il biondo a toccare il guardiacaccia che, inesorabilmente, cadde in una trance di orrore senza fine. La rossa tentò di ribellarsi a Tori, invano: era come incatenata, costretta e inerme nel vedere il suo amore venire torturato con le sue piú grandi paure. Ti prego… ti prego, prendi me… Le lacrime le scendevano copiose, mentre la mano sfrecciava in una danza sfrenata mentre la grafite faceva la sua magia sul foglio.
    Una magia crudele e grottesca.
    Non basta. Ancora Disse, indispettita, lo spettro all’uomo biondo.
    Adam… Sperò che lui potesse sentirla, che sentisse che era con lui e che non lo avrebbe abbandonato anche se non poteva fare nulla.
    Il suo cuore si spezzò in mille pezzi mentre il suo ragazzo veniva torturato, erano immagini che non sarebbe mai riuscita a dimenticare. Sarebbe piú riuscita a disegnare? No, decisamente no. Quelle macabre opere d’arte sarebbero stato il suo eterno addio all’arte.
    Gli oggetti iniziarono a muoversi, il soffitto a cadere e le finestre ad esplodere in mille pezzi. Svariati frammenti le si conficcarono nella schiena, facendola sanguinare e mugolare di dolore. Come se non bastasse, un grosso calcinaccio le cadde inesorabile sulla spalla, lussandogliela. Strinse i denti, sentendo il dolore intenso mentre disegnava. Niente sarebbe stato doloroso come vedere lui torturato, mentre lei non poteva fare nulla. Ti prego, lascialo stare, non farlo sentire un mostro… LUI NON È UN MOSTRO! Strillò tra le lacrime: sapeva le mille funzioni della particolaritá di Adam, ne conosceva le sfumature nascoste, era stata lei a dargli controllo su ciò, anche se ancora doveva lavorarci. Aveva imparato che era un potere incredibile, non qualcosa da temere. Gli aveva fatto capire che non era un mostro. Ora quella troia gli avrebbe fatto tornare a galla vecchie ferite. Vecchie memorie.
    Il quarto corpo fu quello della seconda brunetta, Ingrid.
    La pelle grigia e azzurrina, raggrinzita, come se fosse morta affogata. I capelli erano ornati con giunchi e ninfee. Attorno a lei si espanse una grozza pozza d’acqua.
    Engel voleva solo che quell’incubo finisse, che se vi era un modo per liberare Adam, Ivar e Fae da quell’incubo, allora avrebbe preferito essere l’agnello sacrificale.
    Il quinto cadavere fu proprio il suo: i polsi tagliati, rivolti verso l’alto. Il taglio era verticale, cosí da non darle alcuna speranza di vita.
    Si osservò, mentre la mano giá iniziava un nuovo disegno su un nuovo foglio, prendendo tempo: dover scegliere tra la sua migliore amica e suo cugino, un fratello per lei, non era facile. Sono solo disegni, non sono davvero i loro corpi. Solo disegni.
    Il sesto cadavere fu quello di Fae: overdose, lo si poteva notare dalla schiuma che le usciva dalla bocca, dal sangue che colava dal naso. Per rendere omaggio al suo spirito ilare e gioioso, l’aveva attorniata di luci di mille colori, in modo che i suoi capelli potessero risplendere sempre di sfumature diverse.
    Singhiozzò, girando pagina, ancora.
    Piú continuava e piú le faceva male: Fallo per lui. È solo finzione. Cercava di non far vacillare la sua salute mentale, in quel momento.
    Era il turno di Ivar. Come avrebbe potuto farlo morire? Non si può uccidere la morte. Sarebbe assurdo.
    Ricordò una cosa che le aveva detto quando erano andati in gita con la scuola e cosí la punta della matita produsse.
    Il corpo di Ivar apparve in una piccola barca, non piú grande di una canoa, di legno: essa ardeva, come era tradizione tra i vichinghi. Un degno funerale per il piú caro dei guerrieri.
    È l’ultimo. Concentrati.
    La matita tremò, le lacrime scesero piú copiose, mentre man mano si formava un piccolo altare di marmo Michelangelo. il suo colore preferito è il blu Orchidee blu apparvero, delicate. Dal soffitto, iniziarono a cadere petali di ciliegio.
    Lui sembrava cosí sereno, anche se il suo corpo era senza vita. Sembrava dormire. Come in quel romanzo di Maxence Fermence. Come se la neve avesse imprigionato per sempre la sua bellezza e la sua serenitá. Per Adam non vi era il ghiaccio o la neve, ma il marmo bianco e l’abbraccio delle orchidee che per l’eternitá avrebbero tenuto compagnia al suo corpo, inebriando chiunque con il loro profumo.

    Her lipstick stains like acid rain
    Dissolving away my sense of restraint
    The streetlamps burned through the cloak of the fog
    Concealing the violence, I've been stung by the wasp



    La bimba si portò tra Ivar e il rosso, ma Engel non aveva il coraggio di guardare: era troppo scioccata per ciò che aveva appena compiuto. Si sentiva colpevole, come se avesse ucciso lei quei corpi senza vita che giacevano in giro per la stanza.
    Inizia ad annoiarmi Il fiato le si mozzò in gola: cosa voleva intendere? Prima giocava con le loro debolezze e poi si annoiava? Fermalo Alzó lo sguardo sulla bambina e poi su Ivar che sembrava non voler ubbidire, visti i risultati con la cugina. La manina pallida della bimba si puntò sull’altare di marmo ove giaceva il cadavere farlocco di Adam e solo allora capí cosa gli stava per chiedere. Lo voglio esattamente così.
    No, Ivar. Adam è tuo amico! Non puoi farlo.
    Prese la mano del rosso e lo scosse, come una di quelle bambine viziate che avrebbe tanto schiaffeggiato.
    Convincilo tu. Gli ci vuole un piccolo incentivo, no? il sorriso della bimba le fece venire la pelle d’oca. Come se gli avesse chiesto di comprarle un gelato.
    No! Vi prego! Le lacrime ormai uscivano come fiumi in piena, la sua voce era disperata, rotta da un pianto senza fine.
    Ivar si mosse verso il suo migliore amico, nonchè ragazzo di sua cugina, intenzionato a porre fine alla vita del boscaiolo.
    IVAR! FERMATI! Tentò di divincolarsi dal dominio di Tori, senza alcun risultato. Girò la matita e la spezzò in due per la disperazione, conficcandosi la mina nel palmo. Anche le sue mani ormai sanguinavano, tanto quanto il suo cuore.
    Pochi centimetri mancavano, e lo schizzo che aveva fatto sarebbe diventato realtá.

    So come to me
    (No sense of restraint)
    So come for me



    A contrapporsi all’inesorabile avanzata di Ivar verso Adam fu Fae, controllata dalla bambina. Il braccio della ragazza, non appena fu toccata dalle dita del falegname, iniziò ad andare verso un avanzato stato di necrosi. Engy non poteva manco concepire quanto potesse stare quella povera ragazza, ma se non fosse stata sotto l’effetto di quella ragazza, avrebbe accettato il tocco di Hel al posto dell’amica. Al posto di Adam. Preferiva donare la sua vita per loro che vederli morire.
    Basta E finalmente ogni cosa ebbe fine. Non appena si sentí libera dal giogo di Tori, abbandonò ogni cosa e si precipitò verso Adam, stringendolo e piangendo contro il suo petto. Con la mano sana, accarezzò i suoi capelli, come per cercare di donargli un pò della serenitá che, era certa, non sarebbe mai riuscita a ridargli. Mi dispiace. È colpa mia. Non ho saputo come proteggerti. Glielo aveva promesso: ci sarebbe stata sempre, nei momenti peggiori soprattutto. Invece, era stata soggiogata, inerme, a non fare nulla.

    They come with me and disappear without a trace
    Criminal, in how I crave the way she tastes
    I'm the rapture in her head when she attempts to sleep
    It's haunting, she kills me



    Siete stati noiosi. Engel si voltò di scatto, guardando l’unico vero mostro in quella stanza. Ma non trovo più la mia Sophie. Qualcuno di voi l’ha vista? non gliene importava niente di Sophie, di quel posto del cazzo, lei voleva solo portare fuori il suo ragazzo, suo cugino e la sua amica da lá il piú in fretta possibile. Sono stata rinchiusa anche io, insieme a Sophie. In una camera scura. Tutti avevano paura di me Sai che novitá… Inspirò il profumo della felpa di Adam, ritrovando in briciolo di calma. L’oscurità può spaventare, avrete solo una possibilità per scappare. Non è questo l’ignoto da temere, il bello deve ancora accadere
    L’oscuritá calò all’improvviso, eppure Engy trovò conforto in quel buio, tra le braccia calde e rassicuranti di Adam. Lei stringeva lui e viceversa.

    No time or place to take it slow
    And my head aches but I refuse to go
    Her face as soft as snow
    She looks so lost but she feels like home
    I will wait endlessly
    I will break you carefully
    So take me harmfully
    You fit so perfectly
    I will wait
    Some hurt me again, it's not worth saving
    The heart that I've spent my whole life breaking
    The windshield cracks through the cloak of the fog
    Concealing in silence, I've been stung by the wasp

     
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  13. néamh
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    ZG264Hp
    Trentaquattro anni e mai aveva capito perché le persone riuscissero ad essere così spaventosamente prevedibili. Si ritrovavano in una situazione appena inusuale ed eccoli pronti ad urlare e a cadere vittima del panico. Ah, se solo avessero riflettuto. Questo modus operandi così ottimistico era un atteggiamento che Jason aveva avuto fin da bambino: perché preoccuparsi per qualcosa che probabilmente non aveva fondamenta? Il peggiore degli scenari poteva essere “la morte” eppure anche in quel caso lui riusciva a vederci un lato positivo: ad onor del vero si sarebbe sentito particolarmente soddisfatto se avesse tirato le cuoia in una situazione del genere! Una morte diversa da quella degli altri, fantastico.
    La stessa positività l’aveva accompagnato per tutta la vita: Jason non conosceva quella che i comuni mortali s’accingevano ad appellare come “ansia”. Per lui quel sentimento d’angoscia non esisteva e mai nemmeno una volta l’aveva provato. Che si trattasse di un qualsiasi tipo di prestazione, la domanda che il giovane Walsh si poneva di continuo era la seguente: “mi sento pronto per affrontare questa difficoltà?” se la risposta si ritrovava ad essere affermativa, allora non c’era nulla di cui preoccuparsi; se invece riconosceva a sé stesso un’incapacità incalzante, allora quella sarebbe stata un’occasione come un’altra per mettersi alla prova. Lui non ci perdeva mai, non completamente. E anche in quella stanza così tetra e mal ridotta, Jason si porse una domanda assai simile a quella che si poneva di solito: “c’è da preoccuparsi?”. Si rispose con calma e adeguatezza, infondendosi in endovena tutta la riflessività e l’ottimismo di cui possedeva: “sono in un posto che non conosco, davanti a me c’è solo l’ignoto: non ha senso avere paura di qualcosa che ancora non conosco”. Semplice. Si sarebbe posto il problema più in là.

    Le iridi oceanine del ragazzo biondo scrutarono con attenzione i tasti di quel pianoforte malandato. Nero e bianco, tutto o niente, sano o malato. Probabilmente quello strumento incarnava al 100% tutte le brutture e tutte le meraviglie della vita. Il polpastrello della mancina di Jason sfiorò con cura il portatore di musica, accarezzandone il legno laccato e constatandone tutti i danni. E mentre lui si perdeva in quelle considerazioni melanconiche, la ragazzina che aveva sfiorato come sua vittima s’era accasciata in terra. Proprio come previsto, ci aveva messo poco meno di un minuto. La storia su come Jason aveva scoperto e allenato la sua abilità si ritrovava ad essere pressoché interessante: approdato in territorio norvegese su consiglio dell’amica Isil, l’irlandese si sentì in dovere di stringere la mano a chi gentilmente gli aveva affittato la sua nuova casa. L’uomo, un agente immobiliare qualsiasi, si accasciò al suolo in pochissimo e cominciò a farneticare disperazioni: “perché i ragni? Accetto tutto, tutto… tranne i ragni!” e solo dopo un secondo tentativo fatto su sua moglie ( che si offrì volontaria ), Jason comprese e accolse il dono che Besaid gli aveva regalato: vivide visioni di paura. Considerò quella maledizione come qualcosa di così eccitante da non riuscirci a dormire la notte e i suoi colleghi di lavoro furono le sue prime vittime. Si era allenato su dipendenti e conoscenti con il solo scopo di affinare la tecnica. Il suo aspetto fresco e solare l’aveva fatto passare per un uomo innocente che non riusciva a gestire una particolarità così pesante. Ma a conti fatti si trattava solo di uno stronzo che utilizzava le persone come cavie da laboratorio.
    Metti fine a qualsiasi cosa tu le abbia fatto, idiota” …qualcuno aveva interrotto le sue riflessioni. Lo sguardo asettico e disinteressato di Jason si prese la briga di posarsi sulla figura della ragazza dai capelli rossi, sentendo nascere dentro di sé uno scetticismo che lo portò a sollevare appena il sopracciglio. “Senti, lurido pezzo di merda, io non so chi ti credi di essere, ma ora tu vieni qui o giuro che vengo lá e ti pesto finchè quella faccia da culo non avrá piú una forma” …e pensare che i tasti di quel pianoforte gli piacevano davvero tantissimo! L’attenzione di Jason fu catturata dalle labbra della ragazza, impegnandosi in una riflessione assai sconnessa da tutto il resto: “Quanti ne avrà fatti… con quella bocca?” pensandoci, una risata gli solleticò lo stomaco ma per fortuna il giovane imprenditore s’impegno nel soffocarla senza esporsi dinanzi a tutte quelle persone. « Mh? Non so di che parli. » ed effettivamente non lo sapeva per davvero! Lui non vedeva gli incubi che scatenava. Forse quella ragazza aveva fatto caso, pochi secondi prima, allo toccarsi dalla spalla di Jason con quella di Fae. Lui le era passato accanto sfiorandola appena, doveva avere uno spirito d’osservazione relativamente acuto. Beh, poco male, era contento che al mondo ci fossero persone ancora così scaltre. Lui non lo era, per esempio! Difatti quando il pianoforte cominciò a suonare, il primogenito dei Walsh si limitò a riconsiderare quei tasti che velocemente avevano impostato una melodia assai diversa da quella che si aspettava da un pianoforte. Scemo com’era, aveva ritratto la mano di riflesso. Quelle note trascendentali gli avevano ricordato l’Etude in E minor, Op. 25, No. 5, una ballata di Chopin che faticosamente aveva imparato da ragazzo, proprio fra il sudore di quei tasti. Accidenti, che giovinezza sprecata… però quella sua abilità aveva sempre fatto colpo sulle ragazze e, come al solito raccogliendo i lati positivi, gli aveva fatto comodo. Bene così.
    Nel campo visivo di Jason comparve presto una bambina. Gesù, riassumerla come “inquietante” risultava quasi come un eufemismo, lui però la trovava a tratti carina. Quel vestitino tetro, le scarpette nere e i capelli così finemente intrecciati: la rendevano bella come una bambola. Probabilmente non una creazione che avrebbe regalato a sua figlia Margot ma una di quelle bambole di porcellana da collezione che si era soliti trovare nelle vetrine delle nonne comuni. Sì, la nonna di Jason non rientrava fra le persone “comuni” ma questo è un altro discorso.

    Ho perso la mia amica. Credo sia stata massacrata insieme a tutti quanti. Peccato. Ci stavamo divertendo“ l’inquietante creatura si era avvicinata a lui, intenta ad osservare i presenti e concentrando la totale attenzione sullo strumento che come un cane sembrava averla riconosciuta dall'odore e dal tocco. Erano cambiate le note e dopo il pugno sferrato dalla piccolina ( appellativo discutibile se consideriamo la mazzata che quei tasti avevano appena incassato ), il portatore di musica dedicò a quelle persone note di sofferenza e rimpianto.

    Signori, Jason aveva due figli. In un certo periodo della sua vita sua moglie Elizabeth perfino ne aveva aspettato un terzo ma, ahimé, le cose non si erano concluse troppo bene. Come poteva uno come lui, carico di affetto paterno, ignorare la sofferenza di una bambina? Fra tutti quegli eventi tetri ed inquietanti gli venne quasi spontaneo piegarsi sulle ginocchia e raggiungere l’altezza della piccola. La mano grande dell’irlandese si tese verso la testa della sconosciuta, carezzandole i capelli e rivolgendole un sorriso assai paterno: « Massacrati? Dev’essere stato difficile per te. Giochiamo insieme? » ed ironicamente fu accontentato presto. “Giocate con me. Giocate con me “ e la bambina ( che almeno dal punto di vista della player assai ricorda le gemelle di Shining ) si mostrò entusiasta nel confermare le sue tesi: aveva scelto proprio delle persone interessanti per quel gioco di morte!
    Le richieste della piccola senza nome si rivelarono assai interessanti; dal punto di vista di un sadico infame come Jason, quel gioco dalle sfumature di eclettico terrore lo costrinsero a rabbrividire di piacere. Erano mesi, se non anni, che non provava delle emozioni così forti. Sapeva perfettamente che quella bambina tutto poteva essere tranne che un’infante ma provava il profano impulso di toccarla o accarezzarla. Il motivo? Lei lo affascinava. Alta poco più di un metro ed era stata capace di terrorizzare una stanza piena di persone. Un concentrato di malvagità che lo metteva di buon umore e che lo costringeva a patteggiare silenziosamente per lei. Chissà dove l’avrebbe portato prima o poi, la sua noia. Perennemente annoiato ed insoddisfatto di una vita che gli aveva regalato tutto, Jason interpretava quello strano sequestro come un cubetto di ghiaccio che lento gli scivolava sulla schiena. Una boccata d’aria fresca di sadismo e perversione. Un avvenimento che l’avrebbe probabilmente demolito agli occhi di quelle persone che non lo conoscevano ma che gli avrebbe regalato un ricordo di divertimento eterno.
    E tu di cosa hai paura?” fu la domanda che gli venne posta. Nel frattempo la ragazza baciata dal fuoco era stata costretta a disegnare le sagome di tutti i presenti come persone morte. Vedere la figura di sé in quelle vesti lo inorridì appena: davvero la gente, al suo funerale, l’avrebbe visto così? Doveva ricordarsi di scrivere nel testamento di assumere qualche make up artist che lo rendesse bello anche da morto. Per fortuna la bambina di Shining non intaccò la memoria dei cari delle vittime: uno come lui come avrebbe reagito nel vedere i suoi figli morti? O nel vedere sua moglie lasciarci le penne? Chissà, mai l’avrebbe saputo.
    « È una domanda un po’ difficile… credo di essere claustrofobico. » ammise senza problemi; l’abilità di Jason gli era stata donata probabilmente per due motivi ( o almeno questo aveva supposto lui nel tempo ): come contrappasso per l’incoscienza che lo caratterizzava e per forzarlo a conoscere l’importanza del sentimento e delle paure umane. Inutile dire che uno stronzo come lui non aveva cambiato parere neanche in casi estremi come quello. Consapevole dunque dell’essenza del suo potere, ogni volta che glielo chiedevano Jason non aveva problemi ad ammettere “cosa” avrebbe visto se qualcuno come lui l’avesse toccato. Gli spazi chiusi o particolarmente afosi lo mettevano di cattivo umore. All’inizio aveva avuto forti problemi con la tuta della scherma ma con il tempo ci si era abituato.
    Mostrami di cosa ha paura questo ragazzo. Non voglio essere l’unica.. cambiamo gioco” e il giovane irlandese non se lo fece ripetere due volte: « Se questo può rendere felice questa principessa, allora non ho davvero scelta. » e con la mancina, Jason sfiorò l’uomo che gli era stato indicato. Aveva i capelli scuri, un aspetto un po’ burbero ma gli stava simpatico. Chissà quale lavoro conduceva quella persona a lui sconosciuta. Non sapeva niente di lui, così come non sapeva niente della ragazza dai capelli arcobaleno che prima di conoscerlo non aveva preso atto delle sue paure ma… non era un suo problema. Secondo il profilo stoico e stacanovista di Jason, la vita era piena di alti e bassi. Sia per lui che per gli altri.
    Forzando il suo potere però, il primogenito dei Walsh si sentì così scosso da accusarne il rinculo: se qualcuno gli avesse tirato una botta in testa probabilmente gli avrebbe fatto meno male. Accusava un dolore lancinante al centro della fronte e lo dimostrò lasciandosi andare ad una smorfia del viso che gli aggrinzì la pelle. Ciò che avvenne dopo in quel salone, lo captò appena. La ragazza dai capelli colorati ed il ragazzo della falegnameria erano stati coinvolti nell’ennesimo gioco di morte. Lo sconosciuto che aveva toccato – e che adesso soffriva fra pene e paure – aveva lasciato andare il suo potere e lentamente logorato l’ambiente circostante. I suoi “compagni” erano stati colpiti da una quantità considerevole di detriti e lui ( almeno sotto quest’aspetto ) non era stato esonerato: prima di rifugiarsi sotto il pianoforte – sì, la sua prontezza non aveva mangiato pane e volpe quella mattina – era stato colpito in viso da residui non identificati. Rimase cieco per qualche minuto, privo sia del divertimento che della noia, prima che qualcuno accendesse la luce e riportasse la calma in quell’ambiente di distruzione.

    L’oscurità può spaventare, avrete solo una possibilità per scappare. Non è questo l’ignoto da temere, il bello deve ancora accadere

    Qual era quella possibilità? Ed uno come Jason voleva davvero andarsene e scappare da quello scenario che ai suoi occhi appariva come un parco giochi? Non lo sapeva, non riusciva proprio a rispondersi. Fra le tante cose, solo una era certa: quella bambina ( o chiunque incarnasse le sue vesti ) farneticava qualcosa su una certa Sophie. “Ciò che si è oggi è frutto del lavoro di sé stessi e delle stronzate degli altri”, uno dei motti di Jason. Sarebbe stato interessante scoprire traumi e paure di quell’esserino.
     
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    Adam? In quel momento di confusione e disorientamento, ecco emergere una voce familiare, un po' come fosse una bussola che indicava la via di casa. La testa di Adam scattò nel sentirsi chiamare, conosceva perfettamente quel timbro femminile - apparteneva alla sua compagna, Engel. Che fosse un'illusione? Lasciò che fosse lei ad avvicinarsi, per essere sicuro che non si trattasse di un tranello. Quando le braccia della donna gli avvolsero il collo, lui capì che era tutto vero, e che anche Engy era lì in carne ed ossa. Rossa, come sei arrivata qui? Chiese lui in un respiro, portandole immediatamente le braccia attorno ai fianchi per stringerla a sè, anche più del necessario, colto dal sollievo di non essere solo e da un forte istinto di protezione. Forse erano in pericolo, e da un lato sarebbe stato meglio che a lei fosse stato risparmiato di essere in quella situazione con lui. Dove diavolo siamo? Domandò la barista, lasciando scivolare le sue iridi d'ambra per la sala. Il ragazzo slacciò la presa dell'abbraccio e riprese a guardarsi intorno. Non lo so, un momento prima ero al luna park. Forse siamo in un castello, o qualcosa del genere. Non si può uscire, ci ho provato. Affermò lui, mentre la guardava avvicinarsi al portone senza riuscire ad aprirlo. Allora, gli occhi di lei si illuminarono. Aveva avuto un'idea. Dalla borsa prese il suo blocco da disegno e fece materializzare grazie alla sua abilità un'accetta. Beh… è la prima cosa che mi è venuta in mente… come te la cavi a fare il remake di Shining, amore?
    Durante quegli attimi, ecco comparire una ragazza dai capelli castani. «Ehi!» Che strano, sembrava di essere in una specie di incubo surreale e sinistro. Engel stava stringendo la piccola ascia nelle sue mani, quando Adam si fermò ad osservare la nuova arrivata. Gli era tremendamente familiare, tanto da incutergli timore. Quel volto, quegli occhi... Adam si ricordò di un discorso che aveva fatto con la sua amica Astrid riguardo alla perdita di memoria dovuta all'allontanamento da Besaid. Che quella sconosciuta che era davanti a lui fosse una "dimenticata"? Quella realizzazione gli fece gelare il sangue nelle vene - chi era quella donna? Ovviamente, i potenziali ricordi su di lei erano sbiaditi per sempre dalla memoria del guardiacaccia, che stava cercando con tutte le forze di capire di chi si trattasse. Conoscere la vera identità della bruna avrebbe comportato uno stress ulteriore, a cui lui non voleva essere sottoposto per non perdere il controllo. Allora, il guardaboschi sospirò leggermente, notando anche una certa irrequietezza nella sua compagna. Sembrava come se lei avesse identificato nell'altra una rivale, cosa che non sarebbe stata minimamente possibile, considerando che il boscaiolo non aveva la minima idea di chi fosse quella persona - e che non si sarebbe mai sognato di posare gli occhi su una donna che non fosse Engy.
    Nemmeno qualche secondo dopo, la ragazza dai capelli arcobaleno del Bolgen ed Ivar apparsero nella sala tetra. «Credo che vomiterò.» Bisbigliò turbata la giovane, per poi restare indietro rispetto al falegname. “Engy!” Esclamò lui, anch'egli sollevato di aver trovato un volto a lui noto. “E Kylo…” Aggiunse l'amico poco dopo, ora consapevole della pericolosità della situazione. “Ma che allegra gitarella eh?” Adam scosse appena il capo guardando comprensivo e rassicurante l'altro ragazzo, ormai sempre meno sorpreso di trovare davanti a sè altre persone che gli erano familiari - qualcosa si stava muovendo nell'ombra, manovrando tutti loro verso uno scopo ignoto. Tuttavia, egli non poteva fare a meno di fissare di tanto in tanto la sconosciuta dai capelli castani. Chi diavolo era? Quei pensieri furono interrotti dalla voce della sua amata, che attirò la sua attenzione. Sí, Ivar, proprio una bella gita. Ora arriva nonna e tira fuori il servizio da tè e porta pure i biscotti. Commentò lei, mentre Fae cercava di dare un senso a ciò che le stava succedendo attorno. «Qualcuno ha idea di cosa stia succedendo?» La voce squillante di quella ragazza castana echeggiò nella stanza, costringendo il boscaiolo a distogliere lo sguardo da lei, limitandosi a sollevare le spalle. Forse avrebbe dovuto risponderle, e chiederle se si conoscessero, ma alla fine optò per il silenzio più totale. «Vorrei poterti rispondere, ma credo che qui nessuno abbia idea di cosa stia accadendo.» Asserì con un tono dispiaciuto la barista del Bolgen, rivolgendosi alla sconosciuta, per poi voltarsi verso la sua migliore amica. «Engy? Anche voi qui? Ma che razza di...» Fae sembrava essere scossa e confusa come gli altri, incapace di trovare le parole più adatte per descrivere quella esperienza surreale; poi, voltò appena il viso incorniciato dalla sua chioma multicolore verso il giovane Wesenlund. «Una gita? Io mi aspettavo un rave.» In effetti, sarebbe stato meglio che essere chiusi in una sala da ballo ottocentesca che tanto pareva la scena di un efferato crimine.
    Neanche un paio di secondi dopo, si materializzò in quel luogo anche un giovanotto alto, con delle lentiggini, dalla corporatura fina e dai capelli rossicci. Dopo essersi anche lui abituato fisicamente allo sballottamento in quel posto, egli cominciò a parlare in modo incomprensibile; sembrava parecchio divertito dalla situazione - probabilmente non aveva ancora capito in che guaio tutti loro si trovavano. Di riflesso, le sopracciglia di Adam si aggrottarono in un'espressione perplessa. - Ah. Bella non è. Disse il ragazzo, prima di avvicinarsi a Fae ed Ivar, con cui doveva avere un legame più stretto. - Fammi indovinare, siamo bloccati qui dentro. E non è il palazzo tipico di Besaid, vero? Aggiunse lui poco dopo, mentre facevano eco a quelle parole le frasi del falegname: “Questo non ha completamente senso…”. In tutto ciò, il guardiacaccia non proferì parola, alternando lo sguardo sui presenti che man mano parlavano. Era ovvio che nessuno avrebbe saputo soddisfare la loro curiosità, e azzardare delle ipotesi sarebbe stato superfluo. L'unica cosa da fare era pensare a come sfondare quelle porte o rompere quelle finestre per andar via. Ottima deduzione, Sherlock. Ora, se qualcuno ha qualche idea sul come uscire di qua, parli ora. Engel sembrò aver letto nella mente del suo compagno, che riteneva necessario pianificare una via di fuga, piuttosto che iniziare disquisizioni che non avrebbero portato a nulla. La rossa infilò la matita con cui disegnava tra i suoi capelli color carota, tirandoseli su.
    [- Ma almeno i poteri funzionano ancora, no? Non dovremmo essere troppo lontani da casa, giusto? Hey, fai si con la testa e basta. Non dire che posso parlare con te così, non ancora.] Quella voce entrò prepotentemente nella mente di Adam, che aveva la capacità di leggere i pensieri altrui nei momenti di stress o di emozione. Naturalmente, quelle frasi non rivolte a lui vennero percepite involontariamente, arrivando alle orecchie del guardiacaccia come fossero un vento passeggero dai suoni estremamente chiari. Si trattava del ragazzo con i capelli rossi, che parlava con Fae. A quel punto, le iridi nocciola del boscaiolo si fissarono su di lui. Avrebbe capito che quei pensieri erano stati letti? Il guardaboschi non se ne preoccupò, e dato che quel giovane aveva deciso di tenere per sè la sua particolarità per il momento, lui fece altrettanto, limitandosi solo a guardarli, nonostante all'esterno nessuno avesse parlato. Gli invitati a quella specie di macabro party non erano finiti, tant'è che apparve nella sala una donna di bell'aspetto, minuta, dai capelli scuri e dal volto dai lineamenti dolci. « Magnifico, proprio magnifico » Protestò lei, avvicinandosi a braccia conserte ai presenti, che stava esaminando con i suoi grandi occhi indagatori ed espressivi. Com'era giusto che sia, anche lei si avvicinò alla persona che aveva riconosciuto per prima: il rosso telepate. « Pensavo che non volessi venire, quando ti ho chiamato ». Borbottò la giovane, dando un colpo di fianchi a quello che doveva essere un suo amico. Adam sfiatò leggermente dal naso, ora spazientito. Chi altro sarebbe arrivato? Non avrebbero dovuto stare lì con le mani in mano e salutare ogni individuo che si materializzava - bisognava scappare. L'istinto glielo diceva chiaramente, qualcosa sarebbe andato veramente storto. Eppure, se altri fossero apparsi, sarebbe stato meglio restare e aspettare che tutti fossero arrivati, prima di tentare qualsiasi azione. Nessuno sarebbe rimasto indietro. Ad ogni modo, quella situazione stava seriamente iniziando ad andargli sui nervi. Per qualche attimo, il guardiacaccia osservò Engy, affondando il volto tra i suoi capelli, su cui alla fine lasciò un bacio, un po' calmarsi inspirando il suo odore a pieni polmoni, e soprattutto per tranquillizzare lei.
    Ecco però comparire un altro individuo. Era un uomo abbastanza prestante, dai capelli biondi e con un'espressione incuriosita, ma non serena. « Qualcuno si è fatto un'idea di cosa possa significare? » Domandò la donna che era appena arrivata. Non sono certa che dipenda dal fatto che siamo tutti collegati da un rapporto di amicizia, sentimentale o di parentela. Oppure, semplicemente, le nostre particolaritá. Rispose Engel, e Adam annuì in segno d'assenso. Eppure, i suoi occhi scuri non si spostarono dalla figura dell'ultimo avventore, che si avvicinò attirato proprio dalla voce di quella ragazza mora; lei prese il suo invito dalla tasca, ed il guardiacaccia si chiese quale fosse stata la ragione che aveva spinto ognuno dei presenti a recarsi al Luna Park. Nel suo caso si trattava di curiosità, un istinto vivo e presente, che lo aveva spinto a guardare oltre la sua casa nel bosco - ma che gli aveva ricordato ancora una volta che al di fuori di quelle mura fatte da alberi e natura non sarebbe stato al sicuro. « Dopotutto siamo a Besaid, può essere l’operato di chiunque. O forse siamo solo morti. » Esordì il biondo, che sembrava visibilmente divertito dalla situazione - in maniera decisamente inopportuna. «Grandioso. Davvero meraviglioso.» Mormorò la donna dai capelli castani che Adam aveva collegato al suo passato, rivolgendo lo sguardo proprio verso di lui. In quell'istante, il giovane si sentì inchiodato da quelle iridi simili alle proprie. Doveva essere una persona che apparteneva alla sua famiglia - una famiglia con la quale lui sapeva di aver avuto rapporti dolorosi e turbolenti. Deglutendo, il ragazzo osservò il volto della donna, confuso. Non aveva davvero idea di chi fosse. Dunque, i sensi del guardiacaccia si puntarono sull'uomo che era arrivato per ultimo, e i pensieri che frammentati gli arrivavano nella mente lo seccarono non poco. Lui aggrottò le sopracciglia, incrociando lentamente le braccia spesse, mentre il damerino dai capelli d'oro si avvicinava al gruppo. Ma godetevi la vita, fessi! Sembrò quasi come se quel tizio fosse completamente noncurante del contesto in cui erano - anzi, ancora peggio, che ne fosse deliziato. Adam avvertì l'esigenza di stare alla larga da quell'uomo; a pelle non gli piaceva, affatto. Quest'ultimo si avvicinò a Fae, sfiorandole la spalla. Lei cadde qualche secondo dopo nel terrore più totale. Avendo più o meno identificato i poteri di tutti i presenti tranne che di un paio di persone lontane dall'accaduto, il boscaiolo collegò immediatamente la reazione della ragazza al biondo.
    Che cattiveria. Adam lanciò un'occhiataccia al biondino, e prima di pensare a lui, ritenne necessario occuparsi di Fae, che non stava affatto bene; aveva lo sguardo assente, come se davanti agli occhi le stessero passando immagini che la stavano sconvolgendo senza potersi liberare da quella prigione di paura. Metti fine a qualsiasi cosa tu le abbia fatto, idiota. Tuonò Engel, che naturalmente era preoccupata per la sua migliore amica, e che non si risparmiò nell'esprimere la sua esuberanza anche in quel momento, correndo ad abbracciare la sua amica. Hey, tesoro… qualsiasi cosa tu stia vedendo, non è reale. Fae… La rossa le accarezzò i capelli, piano piano, come a voler lenire i solchi dolorosi che si stavano formando nell'anima dell'altra donna. Amore. Guarda, non ti sente. Le fece notare il giovane, accovacciandosi vicino alle due ed accarezzando la schiena della compagna, con uno sguardo apprensivo verso la vittima di quella visione. Senti, lurido pezzo di merda, io non so chi ti credi di essere, ma ora tu vieni qui o giuro che vengo lá e ti pesto finchè quella faccia da culo non avrá piú una forma. Quella minaccia sembrò essere vana, mentre il volto dell'uomo biondo era adornato da un ghigno divertito trattenuto a stento. “Quanti ne avrà fatti… con quella bocca?” « Mh? Non so di che parli. » La risposta effettivamente pronunciata dall'uomo non arrivò alle orecchie del guardiacaccia con l'insistenza con la quale invece rumoreggiavano i suoi pensieri. Fu in quel momento che Adam si sollevò dalla posizione accucciata in cui era, avvicinandosi pericolosamente a quel giovane presuntuoso ed irrispettoso che ora era accanto al pianoforte - la differenza d'altezza tra i due ora era ben visibile. Il fantasma di una collera crescente si insinuò nei lineamenti del boscaiolo, che aveva tutta l'intenzione di mollare un pugno al principino davanti a lui, afferrandolo per la felpa della sua tuta da ginnastica grigia. Quanti ne avrà fatti, te lo faccio vedere i- Cos’hai toccato? Domandò Engel, interrompendo il giovane, che si voltò verso di lei lasciando andare l'altro con un gesto brusco ed un'occhiataccia, raggiungendola non appena egli capì che stava accadendo qualcosa.

    tenor
    Anche Adam percepì con chiarezza ciò che stava succedendo. Nota dopo nota, il pianoforte iniziò a produrre una melodia sofferente, privo di uno strumentista che lo accarezzasse. Era legno vivo, eppure rotto, martoriato da un dolore invisibile - come si stesse frantumando dall'interno. A fare da metronomo a quella musica di morte erano le gocce di cera che colavano inesorabili e lente sul pavimento un tempo sfarzoso. Era calato il silenzio tra i presenti. Le iridi scure e brillanti del giovane si fermarono su quel povero pianoforte, di cui quasi percepiva le ferite, per poi dardeggiare verso un drappo di pesante velluto, da cui provenivano nuovi rumori: uno scalpiccio di piedini infantili, e poi una risata cristallina - totalmente fuori posto in quel contesto sinistro. I passetti ripresero a tamburellare sul pavimento. Si trattava di una bambina, a giudicare dalle scarpette che erano visibili finchè non scomparvero dietro ad un divanetto lacerato. «Sophie?» A quel punto, Adam rivolse subito lo sguardo ad Engel, anche se per un attimo. La situazione si stava facendo sempre più inquietante. La voce della bimba risuonava come un'eco speranzosa. Finalmente, la creaturina si mostrò agli occhi dei presenti, lasciando intravedere per prima una manina pallida. La pelle era nivea, assomigliava alla porcellana più pregiata - ma portava anche la morte con sè. La fanciullina indossava in maniera graziosa con un vestitino dalle maniche a palloncino di velluto cremisi e delle calzette bianche. Fu però quando il guardiacaccia scorse il suo visetto, che fu certo che non si trattasse di una bambina normale.
    Tutto si fermò; sembravano essere tutti stati inchiodati dal pauroso incantesimo che la presenza della bimba aveva esercitato su di loro. Dopo aver riso innaturalmente di gusto nell'osservare Fae e Jason, gli occhioni vitrei della piccola si spostarono su Engel e sull'accetta che lei teneva in mano. Al che, Adam si mise sulla difensiva, fissando lo sguardo sulla bambina, che sembrava avere qualcosa in mente. Ragazzi, quella bambina non promette nulla di buono. Sbrighiamoci ad aprire quella porta. . Il guardiacaccia si guardò intorno - sapeva che non avrebbero mai potuto aprire quelle porte o sfondare le finestre. Per questo, dopo aver lanciato un'ultima occhiata alle possibili vie d'uscita si avvicinò maggiormente alla compagna, consapevole che l'unico modo per andarsene sarebbe stato capire cosa avesse da dire quella entità - che di sicuro tutto era, tranne che una bambina. Dove sono i tuoi genitori? E che posto è questo? Se… Se tu ci aiuti ad uscire da qui, ti aiuteremo a trovare questa Sophie. Engel. La richiamò lui, molto più propenso ad allontanarsi da quello scricciolo, piuttosto che avvicinarsi. L'ansia stava crescendo sempre di più dentro di lui, che in quei occhi apparentemente asettici scorgeva una malizia fuori dal comune. La rossa posò l'arma, e il suo compagno ne dedusse che lei volesse sembrare meno intimidatoria nei confronti della piccola - non collegando immediatamente quello che stava accadendo ad una manipolazione mentale.
    «Ho perso la mia amica» Iniziò a spiegare la bambina, avvicinandosi di qualche piccolo passo al gruppetto. Era evidente che la sua innocenza fosse superficiale e che nascondesse molto di più. «Credo sia stata massacrata insieme a tutti quanti. Peccato. Ci stavamo divertendo». Gli sbalzi di umore della bimba divennero sempre più repentini, in una sinfonia dissonante che si incatenava a quella del pianoforte che lacrimava note. «Giocate con me» Ordinò infine lei, e Adam si spostò con calma davanti alla compagna, per non provocare la bambina con gesti inconsulti, ma al tempo stesso percependo che qualcosa di orribile sarebbe successo di lì a poco. Non si trattava di un "gioco" - era letteralmente questione di vita o di morte. Difatti, la piccola colpì con forza i tasti già incrinati dello strumento. «Giocate con me» Sibilò infine la creatura, prendendo una matita e degli spartiti dal leggio, per poi avvicinarsi nuovamente a loro. « Massacrati? Dev’essere stato difficile per te. Giochiamo insieme? » Rimbeccò il biondino, che sembrava essere entusiasta della presenza di quella bambina inquietante. Doveva essere una persona a dir poco perversa. Come faceva a non sentire la malignità che quella piccola irradiava da tutti i pori? Forse non ci riusciva perchè era come lei? Il boscaiolo dovette per forza scostarsi, non appena la bimba gli fu vicinissimo, cogliendolo in contropiede quando lei afferrò con delicatezza la mano della sua compagna. «Sophie dice che sarebbe divertente uccidere qualcuno. Però vorrei prima capire come sembrerebbe. Disegnali. Morti.» A quel punto le labbra di Adam si schiusero, per la sorpresa, mentre quella bambina mostrava un entusiasmo malsano nel porre quella richiesta. Il cuore del ragazzo iniziò a battere più veloce, più forte. Stava per avvicinarsi all'amata che aveva gentilmente rifiutato, quando la vocina della fanciulla si spostò sulla donna castana che era tanto familiare agli occhi del boscaiolo. «Costringila» disse secca l'entità, come un ordine. Osservando quella giovane, il guardiacaccia scosse appena il capo, come a dirle di non farlo. Sapeva quanto una tale pretesa avrebbe ferito Engy. Non la si poteva condannare a vedere ciò che di peggio il suo potere poteva creare - la enorme immaginazione che la rossa custodiva non poteva essere corrotta ed infettata in tal modo. A quel punto, a lui non interessava più che rapporto avesse con quella misteriosa bruna, sperava solo che non soddisfasse i desideri di quella bambina sinistra. Non lo fare. Mormorò lui pianissimo, in un sussurro brusco e supplichevole.
    La mora invece optò per la scelta contraria, nonostante sembrasse tormentata. Forse, per paura della bambina e di quello che avrebbe potuto fare, oppure per prendere tempo per studiarla. Sottovalutare quella misteriosa fanciullina forse sarebbe stata una cattiva idea, ma Adam avrebbe lottato piuttosto che vedere la donna che amava soffrire. «Sono solo disegni.» Esordì la mora, che evidentemente possedeva dei poteri persuasivi non trascurabili. Ormai era fatta, Engel stava per cadere preda di una trance da cui sarebbe stato impossibile uscire se non le fosse stato comandato diversamente. «Vuole vedere quanto sei brava, accontentala. Se farai come dice non succederà nulla di male.» La voce ammaliante della donna avvolse i sensi della rossa, costringendola ad utilizzare la sua creatività in un modo tossico e macabro. Ti prego… non farmelo fare… La pregò Engy, alla quale Adam avvolse una spalla con le dita in un tocco rassicurante. Come avrebbe potuto proteggerla da una minaccia mentale, sottile come quella? Non avrebbe mai potuto riuscirci. Forse, era proprio quella la condanna peggiore di una persona innamorata - sapere che ci fossero cose nella vita dalle quali non si poteva proteggere l'altro. Per questo, l'unica cosa che lui poteva fare era starle accanto e farle capire che nonostante fosse un'esperienza orribile lui sarebbe rimasto al suo fianco, dimostrandole che lui era vivo, era vicino a lei e non l'avrebbe lasciata. Un'occhiata di fuoco partì dalle iridi scure del guardiacaccia diretta alla donna e poi alla bambina, che sapeva essere la fonte di tutta questa cattiveria. Forse, stando accanto ad Engel, lei avrebbe sentito di meno il peso dell'ordine a lei impartito, portandolo insieme. «Non sono reali, non per davvero. Sono solo linee su un foglio.» Vedere la rossa così scossa e disperata incrinò il cuore del giovane, che non poteva alleviare la sofferenza della compagna in altro modo se non standole accanto. Scusami, non sono riuscito a proteggerti. Bofonchiò il ragazzo, mordicchiandosi il labbro inferiore, mentre lei disegnava controvoglia i corpi delle persone presenti nella sala. Sono qui Engel. Non ti lascio. Cercò di rassicurarla ulteriormente, sedendosi per terra dietro di lei, portandosela tra le gambe - proprio come facevano quando stavano da soli nel bosco ad osservare il cielo. Le circondò un braccio attorno ai fianchi, in modo da darle almeno un po' di sollievo. Sentimi. Sono qui. Ripetè sottovoce, mentre la donna continuava a disegnare.
    Il corpo del damerino biondo si materializzò martoriato da una mazza da baseball, quello del rosso telepate impiccato che pendeva dal soffitto, ed a seguire quello della ragazza mora "dimenticata" da Adam, morta con un coltello piantato nel cuore. Perdonami! Si scusò Engel, che ormai era distrutta anche dal pianto. Dire che il guardiacaccia si stesse sentendo impotente era un eufemismo. Non poteva interrompere la persuasione, non sapeva nemmeno se quella bambina fosse reale, non poteva salvare Engy dall'inferno in cui era piombata. Gli occhi di lui erano pieni di dolore, doveva fare qualcosa, doveva fermare quel che stava accadendo. Allora con calma si alzò e posò lo sguardo straziato e velato di lacrime sulla piccola malefica, in procinto di dirle di smettere, quando proprio lei parlò, schiudendo le labbrucce livide. Che buffa, la morte. Proprio buffa. Così come le paure. Affermò, voltandosi verso il biondino ma spostandosi proprio verso il boscaiolo. No, ti prego… Sarò piú veloce… La implorò Engel, ma Adam la guardò scuotendo appena il capo. Se avesse spostato l'attenzione verso di lui, forse lei sarebbe stata risparmiata da quelle richieste macabre. Secondo dopo secondo lui si voleva convincere che ce l'avrebbe fatta ad affrontare quella bambina - meglio lui che Engy. Anche lui aveva poteri psichici, e se fosse stato necessario li avrebbe sfruttati, nonostante l'efferatezza di quell'entità che si era avvicinata a lui. Gli prese la mano, ed il ragazzo sussultò leggermente; non voleva essere toccato da lei, eppure non spostò il palmo visibilmente più grande da quella presa delicata, per paura che la bambina si potesse vendicare sulla compagna, ancora impegnata a disegnare. La piccola si scusò, incolpando questa misteriosa "Sophie" di quel che stava accadendo, raccontando aneddoti sinistri su questa amichetta. «E tu, di cosa hai paura?» Domandò la bimba in modo ambiguo - non era sicuro se lei si stesse rivolgendo a lui o al biondino, mentre Adam fece un passo indietro, per allontanarla da Engel. « È una domanda un po’ difficile… credo di essere claustrofobico. » Ammise l'altro uomo, come se parlasse con sua figlia. Non sembrava minimamente turbato da nulla di tutto ciò che stava accadendo.
    «Mostramelo, ti prego. Mostrami di cosa ha paura questo ragazzo. Non voglio essere l’unica.. cambiamo gioco» Chiese la piccola, lasciando finalmente la mano calda del guardiacaccia, privandola di quel tocco gelido. « Se questo può rendere felice questa principessa, allora non ho davvero scelta. » Un tocco. Uno solo, sull'avambraccio. Gli restavano pochi secondi, ed esattamente come Fae, Adam sarebbe caduto nel terrore. Non avrebbe potuto fermarlo, nessuno avrebbe potuto. Allora, lo sguardo del guardiacaccia si puntò subito sul volto di Engel, che avrebbe voluto guardare per sperare di ricordarsene mentre la paura si faceva largo in lui come fosse una malattia che gli scorreva nel sangue. Ti prego… ti prego, prendi me… La voce della rossa, rotta dal pianto, era un suono lontano e ovattato. Avrebbe voluto dirle che sarebbe andato tutto bene, che sarebbe finita presto, calmarla e portarla al sicuro. Avrebbe voluto dirle che l'amava. Eppure, il nodo alla gola quasi lo strozzava, dalle sue labbra schiuse non usciva alcun suono. «Non basta. Ancora».

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    Il silenzio era assordante, la luce accecante. Adam lo sapeva, si trovava a casa. Tuttavia, non la sentiva sua. Sembrava di essere in un posto sbagliato, non familiare. Aveva gli occhi socchiusi, non riusciva ad identificare nulla, se non il sole che gli bruciava le iridi. L'istinto lo allertava in ogni modo, gli ordinava di svegliarsi perchè sarebbe successo qualcosa di orribile. Apri gli occhi. Svegliati!
    Lo sguardo del ragazzo era vacuo, le iridi scure ferme su un punto indefinito davanti a sè, le labbra appena schiuse. Non riusciva a parlare, non riusciva a sentire nessuno, era rinchiuso nel terrore e nella confusione. Pian piano, il panico si impossessò di lui, trasformandosi in vera e propria paura. Il cuore gli batteva selvaggio nel petto, cercando di far uscire il suo proprietario da una trance da incubo. Il respiro gli divenne più profondo, come se l'aria non riuscisse a scorrere correttamente nel suo corpo ancora in piedi.

    Finalmente, aprì gli occhi. In uno spasmo di terrore, Adam sussultò facendo velocemente un passo indietro, cadendo quasi a terra. Davanti a sè, il volto di Engel, senza vita. Aveva gli occhi spalancati, le iridi ambrate vitree, le labbra schiuse come se avesse appena spirato. Le sue guance erano rigate di lacrime. Abbassando lo sguardo, il giovane notò con orrore che tutto il corpo del suo amore era stato ferito da svariati colpi di un'arma da taglio imponente, come fosse carne da macello. La trovò subito: un'accetta, conficcata al centro del petto della donna così forte da fermare in piedi le membra di lei all'architrave di legno alle sue spalle. Engy era stata brutalmente uccisa, e lui non aveva potuto fare niente per impedirlo. Engel!
    Quella vista raccapricciante gli spezzò il cuore. Adam iniziò a tremare, indietreggiando verso il muro, contro il quale appoggiò la schiena. Le gambe non lo reggevano più, e le lacrime iniziarono a scivolargli dagli occhi in pesanti gocce, rivoli copiosi che gli impedivano di respirare, che gli graffiavano la gola in radi singhiozzi. Aveva perso per sempre l'unica donna che avrebbe mai amato, gli era stata strappata via ed ora era troppo tardi. Fu in quel momento, che i poteri del giovane si liberarono in tutta la loro potenza, distruggendo tutto ciò che era in quella sala. Il soffittò si lacerò, le statue si frantumarono, gli oggetti decorativi si spostarono, le tende si squarciarono. Un lampadario si staccò dal soffitto colpendo violentemente il marmo del pavimento, e le finestre scoppiarono, tagliando anche il ragazzo su un braccio e su una guancia. Un pezzo di vetro gli si conficcò in una coscia. Quella sinfonia di devastazione non era altro che la voce del dolore del guardiacaccia che prendeva forma materiale.

    Adam poteva quasi sentirlo, il rumore del suo cuore che si frantumava in mille pezzi. Il dolore era insopportabile, raggiungendolo nelle ossa. Era pietrificato, mentre fissava gli occhi di Engel privi della luce che di solito ardeva in essi. Una goccia. Due. Tre. Erano dense, dal ticchettio fastidioso. Il ragazzo abbassò ulteriormente lo sguardo; provenivano dalla sua mano destra. Le dita erano sporche di rosso, tinte del sangue di Engel. Era stato lui ad ucciderla.
    Io... Sono stato io. Mormorò il ragazzo con un filo di voce, ancora appoggiato al muro. Non smetteva di tremare, preda del pianto. Appena capì di essere l'artefice della crudele morte di Engel, si chinò in avanti gridando un "no" disperato, mentre attorno a sè quella meravigliosa sala da ballo ed i suoi presenti venivano invasi dalla sua sofferenza. Purtroppo, lui non era minimamente consapevole di ciò che stava accadendo, del male che stava infliggendo alle persone attorno a lui, Engy compresa. Si stava davvero trasformando nel mostro che credeva di essere e che vedeva nei suoi incubi peggiori.
    Ancora aleggiavano nell'aria, in quel silenzio pressante, le grida atterrite della donna che cercava di divincolarsi da quelle braccia che erano state per lei un porto sicuro. Ti prego! Ti prego non farlo! Adam! No! Quelle suppliche le avvertiva all'udito come un crescendo di suoni assordanti, che lo costrinsero a portarsi le mani al volto. Perdonami! Perdonami non volevo farlo! Mormorò affranto e terrorizzato. La vista gli si annebbiò dalle lacrime. Disperato, afferrò il manico dell'arma, staccandola con un gesto energico dal petto della donna, che ora era lacerato da una voragine nel cuore. Il ragazzo crollò in ginocchio, portando con sè anche il cadavere del suo amore; il senso di colpa lo stava divorando, trasformandosi in odio verso se stesso. Adam strinse le membra senza vita di Engel a sè, piangendo contro il collo diafano di lei. Ti amo, ti amo non ho mai voluto farti del male... Continuava a chiederle scusa, ad implorarla come se lei potesse ancora sentirlo - come se fosse ancora viva.
    Proprio mentre era immerso in quella orribile visione, distrutto tanto quanto quella sfarzosa stanza, Ivar si avvicinava per porre fine alle sofferenze del suo amico in modo definitivo, costretto da Elias. Fae accusò il colpo, intercettandolo a forza e soffrendone al braccio - eppure, il guardiacaccia non riuscì a percepire nulla di tutto questo. Lentamente, mentre la ragazza dai capelli arcobaleno iniziò ad avvertire i poteri del falegname, Adam si accasciò a terra, lasciandosi scivolare sul pavimento sino a sedersi per terra. Ormai era completamente annientato dall'incubo che stava vivendo, completamente inconsapevole del fatto che fosse solo una finzione. Ti amo, ti amo non ho mai voluto farti del male... Le lacrime continuavano a scivolargli dagli occhi, silenziose, mentre con uno sguardo completamente assente il giovane sbatteva un paio di volte le palpebre, rassegnato alla tragedia di cui era stato l'artefice. I muscoli non erano più tesi, il suo corpo sembrava completamente assente, esanime - morto anch'egli, poichè aveva perso Engel; aveva perso il suo cuore. Ecco le sue più grandi paure: sapere di essere un mostro e perdere il suo amore per questo motivo.

    «Basta!» La voce sinistra di quella bambina maligna strappò violentemente Adam da quella visione, riportandolo alla realtà. Il cuore batteva così forte che lo sentiva pulsare nelle orecchie e coprirgli il petto, un dolore fastidioso lo pungeva all'altezza della coscia, un rumore bianco percuoteva l'udito del guardiacaccia, per poi assestarsi lentamente. Attorno a sè, solo distruzione, pezzi di arredamento e calcinacci ovunque, persone ferite. Era stato lui? Nonostante lo stato di shock in cui si trovava, il ragazzo volse lo sguardo da un lato, notando il suo corpo morto rappresentato su un altare. Per qualche attimo si ritrovò a desiderare di essere proprio così, senza vita. Almeno, non avrebbe potuto ferire più nessuno. Perdonami.. Perdonatemi. Mormorò lui con un filo di voce, mortificato, rivolgendosi per prima alla sua compagna, e poi a tutte le altre persone. Delle braccia lo avvolsero quasi immediatamente. Doveva essere Engel; si, era lei, gli stava lentamente bagnando la maglia con le sue lacrime. Era viva! Era viva e vegeta, ed era lì a stringerlo. Eppure, lui non reagì, non si mosse. Era ancora terrorizzato e disperato, con l'immagine degli occhi della donna vitrei e privi di luce fissa in mente. Faticava persino a realizzare che si fosse trattato di una visione, impaurito nel veder morire la donna che amava da un momento all'altro - morta nel dolore e nella disperazione per mano sua. Si sentiva così male, era così arrabbiato con se stesso - cosa aveva fatto? Più emozioni lo assalivano, ed ognuna di esse si era insinuata profondamente nell'animo fragile di Adam - dolore fisico ed emotivo, collera, shock, terrore, ansia. Lui volse leggermente il capo verso la bambina, quando con l'aiuto della donna castana gli venne sussurrato di calmarsi. Il cuore rallentò leggermente nel battito, così come il respiro nel suo ritmo; eppure, quello stato di crollo completo non accennava a retrocedere.
    «Siete stati noiosi. Ma non trovo più la mia Sophie. Qualcuno di voi l’ha vista?» La piccola mormorò, ed il suono della sua voce sembrava quasi un sussurro alle orecchie del guardiacaccia, che tornò a fissare il vuoto, cercando di riprendersi il prima possibile - ma senza riuscirci con successo. Ci sarebbe voluto del tempo. «Sono stata rinchiusa anche io, insieme a Sophie. In una camera scura. Tutti avevano paura di me. L’oscurità può spaventare, avrete solo una possibilità per scappare. Non è questo l’ignoto da temere, il bello deve ancora accadere». Fu proprio con quella frase, ripetuta innaturalmente svariate volte, che l'entità sparì, e con essa anche la luce. Lasciando andare un pesante sospiro, Adam chinò il capo, incontrando i capelli di Engel, spaventato anche solo nell'atto di sfiorarla. Aveva già visto quel che di peggio al mondo sarebbe potuto accadergli, l'oscurità non lo intimoriva più.

    Yet each man kills the thing he loves
    By each let this be heard,
    Some do it with a bitter look,
    Some with a flattering word,
    The coward does it with a kiss,
    The brave man with a sword!‎

    Some kill their love when they are young,
    And some when they are old;
    Some strangle with the hands of Lust,
    Some with the hands of Gold:
    The kindest use a knife, because
    The dead so soon grow cold.‎



    Edited by thesadporg. - 25/3/2018, 03:29
     
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    Well I found a new way
    I found a new way.
    C'mon doll and use me;
    I don't need your sympathy.
    I'll find a new way
    I'll find a new way, baby.
    I'm not Ulysses, I'm boy Ulysses
    No, but you are now, boy.
    So sinister, so sinister,
    Last night was wild.
    What's a matter there, feeling kinda anxious?
    That hot blood, grew cold.
    Yeah everyone, everybody knows it.


    Era così concentrato sull'annuire appena percepibile di Fae e distratto in parte dall'apprendere che Adam (così doveva chiamarsi) avesse appena letto quel pensiero, da non rendersi conto immediatamente dell'arrivo di una nuova persona.
    Ebbe un brivido a rizzargli i peli delle braccia e, meno di un istante dopo, seppe il perchè. Alle sue spalle, con suo sommo dolore, era apparsa Didi. Non era mai stato meno felice di vederla.
    Forse non era niente, forse era solo tutto uno stupido scherzo, forse a breve avrebbero iniziato il concerto e la festa particolarmente creepy sarebbe diventata un festone esclusivo solo per loro. Forse, o forse no.
    Abbozzò un sorriso nel vano tentativo di non farla preoccupare, evitando di rispondere alla domanda: era lì per lei, ma non glielo avrebbe detto. Non di fronte a tutti, non con il rischio che - se qualcosa fosse andata per il verso sbagliato - avrebbe dovuto sentirsi questo pensiero sulla coscienza.
    - Loro sono Ivar e Fae. Lei è Ingrid.
    Evitò accuratamente di pronunciare il nome di Didi, lanciando comunque un'occhiataccia a Fae in via preventiva: sapeva che a brevissimo avrebbe collegato i puntini e poteva già immaginare i commenti scemi da parte della Olsen... d'altronde, a parti inverse, lui avrebbe fatto lo stesso.
    Vennero interrotti dall'arrivo di un ragazzo che a pelle non piacque affatto al Larsen, a pelle ma soprattutto a pensiero. Lo vide avvicinarsi troppo distrattamente per i suoi gusti alla Olsen, per poi dirigersi al pianoforte. D'istinto buttò uno sguardo interrogativo ad Adam, l'unico a poter sapere cosa sarebbe accaduto, come a domandarsi se l'avrebbero picchiato subito o non appena Fae si sarebbe ripresa dal senso di terrore tutto suo che la stava già cogliendo.
    Lasciò lo spazio ad Engie che, sebbene non fosse stata la principessa della simpatia nei suoi confronti, sapeva essere un'amica di Fae e che si sarebbe presa cura di lei. Si avvicinò quel poco ad Adam, che non aveva nemmeno avuto bisogno di rispondere la sua silenziosa domanda, considerando il pensiero lurido che l'UomoTuta aveva prodotto sulla sua ragazza.
    [- Forse è il caso di darsi una calmata. Quello è grosso ed incazzato.]
    Avrebbe voluto scavare nella sua mente, creare nella sua testa scenari peggiori di quelli che lui aveva evocato nella sua Unicornana. Elias Larsen non avrebbe mai fatto del male ad una mosca, ma ciò non significava che non avrebbe potuto pensare di farlo, no?
    Sapeva bene di non essere esattamente spaventoso come un Adam od un Ivar: se si fosse esposto pubblicamente, l'UomoTuta gli avrebbe riso sicuramente in faccia, ma così... agire nell'ombra, sperando che gli desse retta, era sempre più efficace in questi casi.
    Non ebbe modo di scoprire se fosse riuscito nel suo intento: una musica tremenda e straziante iniziò a uscire dal pianoforte, i tasti venivano premuti da mani invisibili e pregne di dolore. Iniziò a guardarsi intorno spaesato, cercando di capire da dove quello scalpiccio provenisse. Ma, a giudicare da chi o cosalo aveva evocato, avrebbe preferito decisamente non saperlo.
    D'istinto, si trovò a cercare la mano di Ingrid. Aveva paura, poteva avvertirla sulla pelle, sommata alla sua. La strinse con decisione non appena quella bambina tetra si presentò a loro, nel vano tentativo di infonderle del coraggio che lui stesso sentiva vacillare. Guardò inorridito Engie sollevarsi da Fae e approcciarsi alla ragazzina. Si girò quindi verso Didi, le lanciò uno sguardo eloquente e si abbassò per raccogliere la ragazza arcobaleno e tentare di riportarla al presente: ora più che mai era importante che fosse vigile, quella situazione stava diventando preoccupante ogni momento sempre di più. Posò la propria fronte su quella della Olsen, terrorizzato all'idea di chiudere gli occhi ma con l'obiettivo di concentrarsi per far riprendere la sua amica il prima possibile.
    [- Fae, sono Elias. Quel che vedi non è reale, non è vero. Torna da me. Ci sono altri pericoli che stiamo correndo adesso, ho bisogno che tu sia vigile, che tu sia qui con me. Torna da me, Fae. Ti prego.]
    Riaprì gli occhi richiamato dal panico di Ingrid, realizzando che l'UomoTuta era morto. Come? Alzò lo sguardo, vedendolo però in piedi, vivo e sfortunatamente vegeto. Com'era possibile?
    Vide Engy disegnare tra le lacrime e fu attratto da un candelabro che iniziò a dondolare sotto il peso di... non potè credere al proprio cuore che sentiva martellargli il petto, nè all'epiglottide che si serrò per un attimo nel vedere sè stesso ciondolare come una macabra spada di Damocle sopra di loro.
    Depose Fae, che sembrava si stesse riprendendo piano piano, trascinando Didi verso di sè: tremava, era sconvolta.
    - Hey, Didi, Didi.. Le bloccò il viso con le mani perchè lo guardasse, incatenando gli occhi a quelli azzurri di lei. Saltò un battito, concentrandosi nelle lacrime che stavano per affiorare. Che fossero le sue o quelle di lei, non l'avrebbe saputo distinguere. - Sono qui, guardami. Toccami. Quello che hai visto non è vero, senti. La prese tra le braccia e le appoggiò la testa sul proprio cuore, perchè lo sentisse battere all'impazzata, urlandogli da sotto il petto che era vivo e che non l'avrebbe abbandonata. Le accarezzò i capelli, accucciandola tra le sue braccia e accanto a Fae, perchè non avesse la visione nemmeno di Tori, morta a sua volta sul piano.
    Non riusciva a vedere, non riusciva a sentire ciò che stava accadendo, o forse non gli importava.
    La sua testa lo stava portando a quella notte in cui, come in quel momento, la sentiva fragile sotto le sue braccia, mentre lui era incapace di proteggerla, inutile contorno al suo dolore. Avrebbe dovuto dirle addio ancora una volta?
    Nemmeno ebbe il tempo di porsi quella domanda, che accadde: una pozza d'acqua cristallina e gelida apparve sul pavimento, poco lontano da loro, proprio davanti ai suoi occhi. Sembrava dormisse, leggermente più gonfia di come era in realtà, le mani giunte sul petto. Il blu della pelle ricordava tanto quello dei suoi occhi, quella delicata tonalità del cielo in una fredda mattina di primavera, all'interno del quale avrebbe potuto affogare. E i capelli, acconciati in una corona di giunchi, la facevano sembrare una regina del mare, la più bella tra le sirene, quella il cui canto l'avrebbe condotto nei più profondi flutti... Sentì qualcosa rompersi dentro di sè, ebbe la sensazione che i suoi polmoni avessero dimenticato come respirare, che il suo cuore si fosse disintegrato in un milione di pezzi di vetro, scesi nello stomaco ed intenti a tagliargli le viscere. Didi era morta e lui era morto con lei.
    Emise dei rantolii che non sapeva nemmeno essere in grado di produrre, mentre con le mani cercava il viso di Ingrid tra le braccia, scavando nei capelli corvini, cercando il blu dei suoi occhi vividi, cercando il fiato uscire dalla sua bocca, quella bocca che per colpa di quale dio non aveva più baciato, chiedendosi se non fosse quello il momento di farlo finalmente, di dirle che nessuna vita aveva senso se non comprendeva lei.
    Un'onda d'urto lo colpì, riportandolo alla realtà: cosa sarebbe arrivato? Senza ragionare, si alzò un poco, curvandosi con la schiena a proteggerla, a proteggere Fae dietro di lei. Non avrebbe permesso che qualcosa sarebbe capitato loro: sentì delle pugnalate colpirgli la schiena, schegge. Il pavimento si stava alzando e con esso i pochi oggetti nella stanza. Cercò di abbassarle il più possibile, coprendole per quanto fosse possibile con il suo corpo di certo non possente, di certo non statuario. D'un tratto, un dolore lancinante lo colpì sul fianco, la scapola e parte del braccio: il divano era piovuto sopra di loro e le urla di Adam e di Engie si confondevano con quelle degli altri, Non è un mostro, lui non è un mostro!
    L'eco lontana del dolore della rossa gli suggerì che fosse il guardiaboschi a creare quel caos. L'UomoFelpa, di nuovo. Evidentemente, non era stato capace di dissuaderlo ad essere una merda.
    Ma lo scalpiccio, tetramente chiaro nelle sue orecchie nonostante il caos, si fece più vicino, sempre più vicino. Finchè non si fermò alle sue spalle. Annebbiato dal dolore, si trovò a voltarsi verso la bambina che era dietro di lui, che gli tendeva la mano.
    Quasi tremando le offrì la sua, nel tentativo di allontanarla dalle persone che amava, nella speranza che il suo sadico divertimento sarebbe finito con lui.
    Una strana calma si impossessò di lui, una sensazione di determinazione che non sentiva sua lo portavano a fare ciò che lei chiedeva, nonostante lui sapesse di non volerle dare retta.
    Morto. Voleva Adam morto. Morto per mano di Ivar, anzi, per mani.
    Avvertì subito la repulsione del falegname, la paura, il potere che aveva nei palmi delle sue mani.
    [- Quante persone hai toccato, senza ucciderle, Ivar?]
    Cercava di combattere con la coercizione a convincerlo. Perchè sarebbe dovuto riuscirci con Ivar e non con l'UomoTuta? Era inutile.
    [- Ivar, contieniti, controllati. Tu non lo ammazzerai, se non vuoi.]
    Non sapeva se sarebbe successo, o meglio, Ivar era certo che sarebbe accaduto, ma lui avrebbe dovuto convincerlo a toccare Adam, solo toccarlo, o lei...
    Rabbrividì, evitando di pensare a Fae e Ingrid, probabilmente strette tra loro alle sue spalle, probabilmente gli stavano dicendo di non farlo, probabilmente... Ma la sua volontà si era piegata, accartocciata come un pezzo di plastica tra le fiamme.
    [- Tu non lo ucciderai, Ivar. Tu lo toccherai, senza ucciderlo. Hai stretto quante mani nella tua vita senza che accadesse nulla? TU PUOI CONTENERTI, IVAR. TU PUOI FARCELA.]
    Vedeva il falegname camminare come un burattino sotto il suo pensiero, un pensiero che non era suo. Perchè accadeva? Perchè nessuno lo fermava? Perchè...?
    - No, Fae NO!
    Urlò, nel vedere un lampo arcobaleno dividere i due, assorbendo il tocco di morte di Ivar per Adam.
    Crollò sulle ginocchia, stremato, trascinandosi verso Fae.
    - No, no, no...
    Era viva, nonostante la pelle fosse nera sotto il tocco delle mani di Ivar, anch'esso distrutto in volto da ciò che aveva fatto.
    - Io... Perdonami Ivar, io non volevo, io non volevo.
    Parole. Parole vuote. Senza senso.
    Eppure non era finita.
    Il campo di forza si ruppe, lasciando cadere ogni cosa che aveva sradicato dal proprio posto.
    Si coprì la testa, girandosi per cercare Didi nel mucchio, vedendola sedersi sul divano insieme a quella creaturina infernale.
    Smise di respirare: avrebbe voluto correre dall'altro capo della stanza, portarla via da quella cosa orribile, proteggerla, offrirsi come vittima al posto suo ma il suo corpo sembrava troppo stanco per rispondere alla sua - ritrovata - volontà.
    Le vide sedute, una di fronte all'altra, come due piccole compagne di giochi. Vedeva il terrore che attraversava il viso di Ingrid, finchè nulla più. Il buio li aveva inghiottiti.
     
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