Quest: Tempo al tempo

10.03.18

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    | IVAR WESENLUND | 24 Y.O | Death
    La fiaba narrava di come la sirenetta, per amore, avesse rinunciato per sempre alla sua voce, pur di avere un paio di gambe che le permettessero di raggiungere l’uomo che amava. Così, Ivar aveva chiesto a quella strega chiamata destino, di poter avere i suoi ricordi, tutti, integri, in cambio della propria libertà. Quei ricordi che gli avrebbero permesso di continuare ad amare le persone che amava, anche quando i loro ricordi si sarebbero dissolti. Chissà se ne era valsa la pena. La sirenetta, alla fine della storia, si dissolveva, diveniva spuma di mare spazzata via dalle onde. Si sarebbe dissolto anche lui, probabilmente, annullato, trascinato a fondo dalla sua maledizione. La maledizione che tra tutto aveva scelto come male minore.

    Mi chiamo Ivar Wesenlund, ho ventiquattro anni, sono nato a Besaid e ho sempre vissuto qui. Ho costruito io stesso le mie catene, sono io il mio carceriere. Mi sono imprigionato qui, per coloro che ora vivono solo nei miei ricordi. Mi sono condannato, per non dimenticarli. Come Prometeo, resto incatenato a queste scogliere, ogni giorno l’aquila giunge a darmi il supplizio, ogni giorno è diverso. Mi chiedo cosa sarei ora, se avessi avuto il coraggio di attraversare il confine, se finalmente avessi abbandonato la morte per poter donare la vita, se avessi spezzato le catene. Mi chiedo come sarei se i ricordi che mi assillano non fossero stati un’ossessione. Mi chiedo dove sarei ora, se tra grandi grattacieli o su bianche distese di sabbia. Mi chiedo dove sarei se non fossi qui anche oggi, ad affrontare il supplizio che gli dei si divertono a infliggermi. In questo giorno essi hanno scelto: incubi.

    Mosse pochi passi incerti in quell’ambiente, guardandosi intorno e chiedendosi cosa fosse accaduto in quel luogo. Era rimasto immobile, tutto, intrappolato in un fermo immagine. Solo lo spesso strato di polvere depositata sembrava tradire l’azione del tempo. Sembravano essere loro l’unica cosa viva presente in quel luogo. Giunsero poco dopo anche Larsen, una ragazza che non conosceva e un tizio che, a primo colpo, gli sembrò Henrik. Osservandolo meglio però, si rese conto che era solo qualcuno che gli somigliava. A quanto ne sapeva, il medico era a Cambridge, lontano da quello strano mondo al contrario peccato. Chissà perché si trovava lì, quello strano ed eterogeneo gruppo di persone? Chissà se c’era qualcosa, oltre alla sconsideratezza, che li accomunava? Engy rispose quasi seccata alle sue domande. Evidentemente anche lei era abbastanza spaesata in quel luogo. Lo erano tutti a quanto pareva. Continuò a cercare dettagli che gli suggerissero qualcosa, mentre gli altri continuavano a porre domande, ma nulla parve essere in grado di rivelargli qualcosa. “Non sono certa che dipenda dal fatto che siamo tutti collegati da un rapporto di amicizia, sentimentale o di parentela. Oppure, semplicemente, le nostre particolaritá.” Disse Engy. Si voltò di scatto a guardarla, preoccupato. Se erano lì per le loro particolarità, allora quello era un problema. Conosceva solo le particolarità di Engy e Fae, e se con la seconda poteva intravedere un fantasioso legame, con la prima no. Poteva uccidere, il giovane falegname, distruggere qualsiasi cosa, viva o inanimata, passasse sotto al suo tocco. Se chi li aveva radunati lì avesse puntato alle loro particolarità, allora la situazione sarebbe diventata pericolosa. Sperò, con tutto il cuore, che Engy si sbagliasse, che l’arma che Kylo impugnava non fosse necessaria. Sperava, Ivar, di non dover mai ricorrere alla propria particolarità. Il rosso si avvicinò a lui e Fae, presentando la ragazza che era con lui. “Loro sono Ivar e Fae. Lei è Ingrid.” La salutò abbozzando un sorriso. Non aveva molto da aggiungere in effetti, Larsen li aveva già presentati.

    Mi chiamo Ivar Wesenlund, e il mio dono è anche la mia condanna. E’ qualcosa che non si può scegliere, la morte, è qualcosa che non si può prevedere. Si può solo accettare, quando arriva. Si può solo temere. E’ questo che so fare, seminare la morte. Non sono che un veicolo, io, attraverso cui essa colpisce. Non giunge per mia volontà, essa è imprevedibile, così come lo sarebbe in natura. A volte mi chiedo se la mia capacità non sia solo una sadica metafora della vita, una parte di un disegno più grande. Mi chiedo se sia mio compito chiudere un cerchio. Mi chiedo perché proprio a me sia toccato questo fardello, quasi una conseguenza della legge del contrappasso. A me, che sempre vorrei preservare la vita, è affidato il compito di scegliere dove e quando donare la morte. Mi chiedo quanto sia giusto, questo. Non sono un giudice, non sono onnisciente. Non posso permettermi di scegliere per qualcun altro, le mie scelte sono sempre sbagliate. Sceglierei, forse, quando e come morire. Sceglierei, per me soltanto, lascio agli altri le redini del proprio destino. Voglio credere che sia possibile.

    D’improvviso Fae ruppe il silenzio, rannicchiandosi a terra, come in preda a chissà quale delirio. Non capiva, Ivar, cosa le stesse accadendo, cosa la facesse soffrire tanto. “Fae” sussurrò scosso, avvicinandosi a lei. Sua cugina corse subito da lei, per rassicurarla, per calmare ciò che la scuoteva. Faceva male, vedere così la ragazza indistruttibile: spezzata, tremante. Forse non era così invulnerabile. Faceva male non poter far nulla per aiutarla. Ci pensò due volte, Ivar, prima di commettere di nuovo l’errore che aveva commesso alla festa. “Metti fine a qualsiasi cosa tu le abbia fatto, idiota.” Engy inveì contro il ragazzo dai capelli biondi, contro cui di seguito si scagliò anche Kylo. Che fosse stato davvero lui? Che avesse la capacità di generare dolore? Cosa lo spingeva ad essere così sadico, in una situazione del genere? Magari lo trovava divertente, magari era davvero lui ad averli radunati lì. Beh, non lo era. Non era divertente. Gli lanciò uno sguardo torvo. Non sapevano cosa avrebbero affrontato, e lui era lì, a divertirsi alle loro spalle e sulla loro pelle.
    Si inginocchiò avanti a Fae, accanto a sua cugina. Non sembrava riuscire ad udire le parole della rossa, lei. Sembrava essere in un'altra dimensione, con la mente, mentre il suo corpo restava lì, di fronte a loro. Non sfiorò la sua pelle, non ripeté l’errore. Semplicemente cercò il suo sguardo. Ivar sapeva qual era la sua paura, gliel’aveva mostrata, la ragazza dai capelli arcobaleno. Avevano paure simili, loro, entrambe legate alla morte. L’uno temeva di seminarla, l’altra temeva di non poterla avere. Non sapeva come aiutarla a superarla. Sapeva però, come avrebbe potuto affrontarla al momento. Semplicemente, non era ancora giunto il momento, affinché questa si manifestasse. “Guardami. Guardaci, siamo tutti qui. Non è ancora giunto quel momento, non è reale. Non stai camminando tra quelle rovine, quelle che vedi non sono realmente le persone che ami. Siamo qui, siamo vivi.” Parlava piano, dolcemente, quasi a volerla guidare attraverso il labirinto dei suoi incubi. Non era forse la persona giusta per farlo, non abbastanza vicina a lei da poter comprendere i suoi sentimenti. Eppure sapeva cosa significasse avere paura. Aveva condiviso con lei la sua. Forse il loro incontro non era stato casuale. Forse, semplicemente, li aveva preparati a quel momento. La lasciò alle cure di Larsen, suo amico, e si rialzò. Forse lui sarebbe riuscito a riportarla indietro, in modi che lui e Engy nemmeno conoscevano.
    Sempre lo stesso tizio biondo si avvicinò al pianoforte, ne sfiorò uno dei tasti. Ma quando si allontanò questo continuò a suonare. Era una inquietante e stonata litania. Sembrava quasi che quel ragazzo, col suo tocco, fosse riuscito a trasmettere dolore anche a quel pianoforte, a spingerlo a produrre un incubo. D’un tratto, anche una risata accompagnò quel suono. Si girò verso gli altri, chiedendosi che cazzo ci fosse da ridere. Nessuno di loro, però, stava ridendo l’ansia. “Sophie?” Chiamò, la stessa voce. Una bambina vestita di rosso sbucò fuori da dietro uno dei divanetti imbrattati di sangue. Aveva una vitrea espressione inquietante. La seguì, senza fare movimenti irruenti, e la osservò. Quello era il classico inizio di un film horror: degli sconosciuti entravano in una casa infestata. Nel corridoio appariva una bambina. La bambina andava a chiamare i suoi amichetti spettri e ammazzava tutti. Bene ma non benissimo. Cercò di ragionare con lucidità. Nonostante l’aspetto inquietante, era solo una bambina. Magari si era persa. A quanto ne sapeva poteva essere la figlia di uno dei proprietari delle giostre. I giostrai avevano sempre strani modi di vestire. Anche Engy sembrò pensarla come lui, tanto che chiese alla bambina dove fossero i suoi genitori. “Ho perso la mia amica”. Che ci facessero delle bambine, in quel luogo, da sole, era un bel mistero. “Credo sia stata massacrata insieme a tutti quanti”. Ivar sgranò gli occhi, guardandola perplesso. “Ah.” Carina. “Peccato. Ci stavamo divertendo”. Si beh, immagino. Ok, era, decisamente come vivere in un film dell’orrore. Otto persone con poteri potenzialmente mortali erano intrappolate in una specie di realtà in cui l’horror era una consuetudine. Come se la sua vita non fosse stata già abbastanza horror.
    “Giocate con me”. Rabbrividì, a quelle parole. "Col cazzo!" #cuordileone L’ultima cosa che voleva era iniziare un gioco sadico con la bambina di The Ring. Solo il biondo sembrò assecondarla. E sì, lui con quella sua dolcezza improvvisa era inquietante almeno quanto lei. Sussultò, quando la bambina si avvicinò ad Engy e alla ragazza dai lunghi capelli castani. E avvertì una profonda stretta allo stomaco, quando udì la sua richiesta. “Sophie dice che sarebbe divertente uccidere qualcuno. Però vorrei prima capire come sembrerebbe. Disegnali. Morti.” Cosa? Che razza di richiesta era? Probabilmente la bambina conosceva la sua particolarità. Probabilmente le conosceva tutte. Quello era un problema. Non intervenne, sapeva che Engy avrebbe rifiutato tale richiesta. Quello che non sapeva però, era che la bambina avrebbe trovato il modo di assoggettarli tutti alla sua volontà. Si volse verso l’altra ragazza, e le intimò di costringerla a farlo. Era dannatamente capricciosa, quella bambina. Non poteva essere reale, tutto ciò. Engy non lo avrebbe fatto, nemmeno sotto costrizione. L’avrebbe fatta soffrire, disegnare il corpo di Adam, o quello delle altre persone che amava. Eppure lo fece. Entrambe eseguirono gli ordini. La brunetta iniziò a parlare con Engy, a convincerla a fare quello che doveva essere solo uno stupido gioco. E Engy iniziò a disegnare, velocissima. A terra si materializzò il cadavere del ragazzo biondo. Rabbrividì nel vedere come la mente di Engy aveva immaginato la sua morte. Giaceva a terra, quasi irriconoscibile, con la testa spappolata. E poi comparve Larsen, appeso ad una corda, col viso ceruleo e lo sguardo vuoto. La stretta allo stomaco si fece più forte, tanto che dovette voltarsi verso il rosso per accertarsi che stesse bene. Era un’illusione, solo una stupida sadica richiesta. “Basta, smettila!” Intimò a colei che sembrava sovrastare la volontà di Engy, quando quest’ultima scoppiò in lacrime. Nemmeno lei però sembrava avere il controllo di ciò che stava facendo. Non era solo un gioco, non più. Quel gioco si basava sulle paure, sui sentimenti. Faceva star male sua cugina, quella partita, doveva terminare. Di tutta risposta, la bambina si avvicinò ad Adam, e intimò al biondo di “mostrarle la sua paura”. Così, assecondandola, egli si avvicinò a Kylo e lo sfiorò. Il ragazzo cadde a terra, così come prima aveva fatto Fae. Sembrava scosso dagli stessi tremiti, poteva leggere il terrore nei suoi occhi. Nel frattempo, tra urla e lacrime, Engy continuò a disegnare, come imprigionata dalla volontà della bambina a cui pareva impossibile sottrarsi. Scattò verso Kylo, quella storia doveva finire. Ma non fece in tempo nemmeno a muovere qualche passo che la stanza fu scossa, come da un’ondata invisibile. Le vetrate esplosero. D’istinto si riparò col braccio e tutto divenne confuso. Tutto, in quella stanza, sembrò iniziare a vorticare. Le grida, le persone, gli oggetti, entrarono tutti a far parte di un caotico insieme. Cercò di orientarsi, quando un divano lo colpì da sinistra, scaraventandolo lontano, a terra. Il colpo gli spezzò il fiato. Restò stordito, per qualche istante, con le orecchie che fischiavano prepotentemente. Capì di aver riacquistato la percezione della realtà quando sentì una morsa di dolore pervaderlo, un po’ ovunque. Ci mise un po’ per isolarne la fonte. Alcuni pezzi di vetro si erano infilzati lungo il suo avambraccio destro graffiandolo, e lungo il fianco, quando ci era caduto sopra. E quando fece leva sulle braccia per rialzarsi, percepì una fitta di dolore anche alla spalla opposta. Guardò Elias, che era poco distante da lui, cercando di riacquistare la cognizione del luogo e della situazione in cui si trovava. La stanza continuava ancora a cadere a pezzi, scossa dalla terrificante capacità di Kylo. Quando si rialzò, si accorse che la bambina era lì, frapposta tra loro. Guardò lei, poi Elias. Qualsiasi cosa avesse chiesto loro di fare si sarebbero opposti. “Fermalo. Lo voglio esattamente così”. Disse indicando il cadavere di Kylo che Engy aveva materializzato. Rabbrividì, notando solo ora la serie di corpi che giacevano ovunque in quella stanza. Tra tutti, quello dell’amico svettava su un altare bianco, adorno di orchidee blu. Sembrava dormire beatamente, il guardiacaccia, come Biancaneve. La bambina gli stava chiedendo di renderlo reale. Ciò che lo terrorizzò, che portò il suo cuore ad accelerare prepotentemente era che era in grado di farlo. “Non penso proprio”. Rispose stizzito alla bambina. Pian piano il fatto che fosse una bambina iniziò a divenire un dettaglio irrilevante. Era lei quella a dover essere fermata. “Convincilo tu. Gli ci vuole un piccolo incentivo, no?” Disse ad Elias. Ivar guardò il rosso con gli occhi sgranati, spaventato. Probabilmente Elias non sapeva cosa lo avrebbe costretto a fare. Probabilmente anche lui sarebbe stato manipolato dalla ragazzina. ”Ti prego no. Elias, no.”. Di scatto, prima che potesse fare qualcosa, corse a raccogliere l’ascia che Engy aveva lasciato cadere a terra. Se qualcuno doveva morire, quella sera, di certo non sarebbe stato Kylo. “No!” Gridò arrabbiato, volgendosi verso la bambina demoniaca. Ma quando fu vicino a lei si fermò, di colpo. Era davvero la sua volontà, a dirgli di non farlo? Far del male a una bambina? Che razza di mostro era? Come aveva anche solo potuto pensarlo? Eppure non era solo quello. Non era stata solo la propria coscienza a fermarlo. Era stato qualcos’altro. Era come se nella sua testa ci fossero due coscienze, che lottavano per prevalere l’una sull’altra. Il suo corpo però era mosso solo da una. Fu proprio quella coscienza, prevalente, a spingerlo a lasciar cadere l’ascia a terra e a incamminarsi verso l’amico, ignorando gli oggetti che continuavano a sbattergli addosso. Non riusciva e discernere quale fosse la voce o la volontà che lo guidava verso Kylo, che lo spingeva a ignorare le grida di Engy, ciò che lo circondava.
    Guardò Elias, disperato, implorandolo di fermarlo. Sentì la sua voce, nella sua testa.
    [- “Quante persone hai toccato, senza ucciderle, Ivar?”]. Tante, troppe”. Elias, a sua volta, lottava contro la volontà coercitiva. Aveva un piano in mente. Ed avrebbe potuto funzionare, se solo le sue parole non fossero entrate in collisione con l’opposta volontà che gli comunicava. Gli diceva di non farlo, lo spingeva a farlo. Era confuso, Ivar, piegato a due opposte volontà. Fu proprio questo a scatenare la sua particolarità: la consapevolezza di non aver più il controllo sui propri pensieri e sulle proprie azioni.
    [- “Ivar, contieniti, controllati. Tu non lo ammazzerai, se non vuoi.”]
    Avrebbe davvero voluto che fosse così. Era sempre stato così. Riusciva a ricacciare indietro la bestia, quando Astrid gli prendeva la mano. Riusciva ad allontanarla, il controllare le emozioni. Eppure quelle erano già fuori controllo da un pezzo. Avrebbe voluto che Elias avesse ragione. Avrebbe davvero voluto giocare al suo gioco. Ingannare la bambina e lasciarla con un pugno di mosche in mano. Eppure non riusciva a fermare i passi che lo muovevano verso quell’obiettivo. E più esso si avvicinava, più il terrore lo avvinceva.

    Mi chiamo Ivar Wesenlund, e ho il dono di uccidere. L’ho scelto in cambio dei miei ricordi, nel momento in cui ho sacrificato anche la mia libertà per essi. Ho scelto le catene, le stesse che ora mi stanno guidando verso l’abisso, verso il mio peggiore incubo. Non è solo Kylo, in questo momento, a vivere la sua peggiore paura. Lo sto facendo anche io, ma non è una visione, questa. E’ reale. Far del male alle persone che amo è ciò che temo di più. Sto per farlo, e non riesco a fermarmi.

    Procedeva apatico tra quelle macerie, passando accanto ai corpi che sua cugina aveva disegnato. Vide perfino sé stesso, in una barca in fiamme. Lo aveva disegnato come i guerrieri vichinghi di cui sua madre gli raccontava le leggende. Non provò nulla. Vide Fae riversa a terra, con la bava alla bocca. Non provò nulla. Vide sua cugina con i polsi tagliati. Avrebbe dovuto impazzire di fronte a quelle visioni, eppure quella sorta di coscienza predominante gli impedì di provare emozioni che avrebbero potuto fermarlo o distrarlo dal suo intento. L’altra parte di Ivar, invece, quella più recondita che non aveva la minima voce in capitolo, urlava disperata. Più si avvicinava al suo obbiettivo, come col paraocchi, e più sentiva la sua mortifera capacità scalpitare, pronta a colpire. Poteva percepirla, quella sadica bestia che era la morte, latrare dal fondo dell’abisso in cui l’aveva intrappolata, graffiare, irrigidire i muscoli. Sentiva le mani formicolare. Strinse i pugni. Proseguì, come un automa.
    [- “Tu non lo ucciderai, Ivar. Tu lo toccherai, senza ucciderlo. Hai stretto quante mani nella tua vita senza che accadesse nulla? TU PUOI CONTENERTI, IVAR. TU PUOI FARCELA.”]
    La voce di Elias continuava a risuonare nella sua testa, a intimargli di controllarsi. Una volontà non sua gli intimava altro. Era in trappola, Ivar, senza alcuna via di fuga. “Non riesco a fermarlo, Elias, è già fuori controllo. Fermami ti prego. Convincila che non sarà come l’Adam del disegno. Convincila che non ne varrà la pena. Fermami ti prego”. Implorava Elias. Non bastavano parole, se le sue azioni non rispondevano ad esse. Non bastavano parole se non erano recepite dalla sua volontà. Era come spaccato in due, Ivar, diviso tra ciò che lui e Elias avrebbero voluto che facesse e ciò che realmente stava facendo. Non riusciva a fermare il suo corpo che procedeva verso il patibolo di cui lui era il boia. Non riusciva a imbrigliare quella capacità che avida sfuggiva al suo controllo. Non riusciva a far sì che quei suoi pensieri, e la volontà di fermare tutto ciò, prendessero forma.

    Ho provato a intrappolare i sentimenti, affinché questi divenissero le catene della morte. Mi sono illuso che senza di essi, nemmeno il mio tocco sarebbe stato efficace. Mi sbagliavo. Non sono che una marionetta in mano a un folle scherzo del destino. Non riesco a fermarmi, e questo mi terrorizza. Mi dispiace Engy, sai che mai ti farei soffrire. Darei la mia vita pur di non vedere quelle orrende lacrime rigare il tuo viso. Se potessi lotterei al tuo fianco, come abbiamo sempre fatto, anche stavolta. Mi dispiace Kylo, amico mio, non riesco a fermarmi. Mai farei del male a te, mi conosci. Mi faccio scrupoli nel distruggere qualsiasi cosa, figuriamoci arrivare a questo. Mi dispiace amico mio, perché non sono forte come credi. Non riesco a fermarmi, non riesco a spezzare questa catena. Perdonami, amico, per quello che sto per fare.

    Allungò la mano avanti a sé, verso l’amico che era ancora riverso a terra. Solo il tremito delle sue mani tradiva ciò che Ivar provava. Paura, disperazione. Avrebbe preferito morire piuttosto che fare una cosa del genere. Se ci fosse riuscito avrebbe lasciato che la sua capacità distruggesse ogni cosa in quella stanza. Tutto, ma non le persone che erano lì dentro. Eppure, nulla poteva Ivar contro sé stesso, contro quella specie di lato oscuro che gli imponeva di uccidere Kylo, che guidava i suoi movimenti. Nulla poteva Ivar contro la morte, nemmeno lui che era nato marchiato da essa.

    Spesso mi sono chiesto come morirò. Non fa troppo paura, pensarci. Non importa come finirò i miei giorni, se accerchiato dalle persone che amo, o da solo su un marciapiede. Ciò che so, è che morirò così come sono nato, con l’anima leggera e la consapevolezza di aver fatto sempre la cosa giusta. O almeno questo è quello che credevo. Inizio a pensare, ora, che i sensi di colpa mi consumeranno fino alla fine dei miei giorni, che saranno questi ad uccidermi. Inizio a pensare che morirò da assassino, che nemmeno alla fine troverò pace, e questo mi dilania. Non mi importa come morirò, mi importa di quelli che resteranno. Engy resterà senza l’amore della sua vita, spezzata per sempre. E che ne sarà di Kylo? Che ne sarà delle persone che lo amano? Non voglio questo. Non posso lasciare che accada per la mia debolezza. Ucciderei me stesso, uccidendo lui. Moriremmo entrambi, nel peggiore dei modi. Fermati Ivar, fermiamoci. Ascolta la voce di Engy, ascolta Elias. Ascolta me. Metti fine a tutto questo.

    Restava inascoltata, quella voce, mentre allungava la mano verso la spalla di Kylo. Sarebbe durato poco. Non ci avrebbe messo molto, ad estendersi, la necrosi da quel punto. Ben presto avrebbe raggiunto il cervello, le arterie, i polmoni, il cuore. Sarebbe stato doloroso all’inizio, ma avrebbe perso conoscenza. Forse. Lui invece sarebbe rimasto cosciente. Avrebbe percepito ogni istante in la morte che si diffondeva nel corpo del suo amico. Avrebbe percepito la vitalità di ogni sua cellula spegnersi, il battito del suo cuore rallentare, il suo respiro fermarsi. Sarebbe stato lento, quello, un’agonia senza fine. Sarebbe stato terrificante, molto più che morire. “Fermami Kylo ti prego. Attaccami”. Sussurrò, impercettibilmente, mentre con tutte le forze cercava di ribellarsi, di liberarsi dal giogo che avvinceva la sua volontà. Era più forte, quella, tanto che quando qualcuno si frappose fra loro, lo indusse a cercare di scansarlo, come se fosse un fastidioso incomodo che divideva lui dal suo vitale obiettivo. Afferrò il braccio di Fae, stringendolo, senza nemmeno rendersene conto.

    Ti prego, Fae, scappa, non vedi che sono fuori controllo? Ti ho già fatto abbastanza male, ho già rischiato di ucciderti una volta. Non voglio farlo ancora. Ridiamo, del fatto che io sia la tua sfortuna e tu la mia, che sarebbe stato meglio che non ci fossimo mai incontrati. Forse è davvero così. Non è un bene, essere complementari, se io sono in grado di farti tanto male. Perdonami, ragazza arcobaleno, perdonami. Scappa, dolce Fae, prima che sia troppo tardi.”

    Sentì la morte, repentina, diffondersi dalla propria mano al polso della ragazza. Percepì il tessuto distruggersi, trama dopo trama, lo vide bucarsi, lasciando scoperta la pelle. E percepì il calore della sua pelle, sotto al suo tocco. Non riuscì a fermarsi. La sua particolarità continuava a scalpitare prepotente, ad avanzare, alla ricerca di qualcosa da distruggere. Era avida di devastazione, la bestia. Sentì la pelle di lei raggrinzirsi, il suo epitelio spegnersi poco a poco. Percepì le sue vene pulsare sempre più lentamente, le pareti irrigidirsi, il sangue smettere di scorrere ed agglomerarsi. Sentì i suoi muscoli quasi rilassarsi, divenire rigidi dapprima, e poi perdere di volume. Sentì la sua mano smettere di muoversi. Sentì le grida di lei trapanargli le orecchie e non riuscì a fare nulla. Era devastante.
    “Basta!” Quella voce fu come uno schiaffo. Sentì la morsa che lo avvinceva scemare, repentina. Tornò a percepire la realtà che fino ad allora sembrava aver vissuto come vista dall’esterno. Tornò a percepire a pieno il proprio corpo, i propri pensieri. E fu in quel momento che la paura che fino a quel momento era stata solo il lamento di una voce lontana, giunse a colpirlo come un’ondata. Guardò Fae con gli occhi sgranati, e subito lasciò andare il suo braccio. Iniziò a tremare, mentre il suo cuore accelerava, il respiro si faceva più intenso. Tornò a percepire la stretta allo stomaco. Lo colpì, forte, la consapevolezza di ciò che aveva fatto e di ciò che stava per fare. Tutto nella stanza si fermò. Tutto si muoveva caotico dentro di lui. Era come se quel caos si fosse trasferito improvvisamente dall’ambiente esterno a lui. Era ancora fuori controllo, nonostante riuscisse a percepirsi.
    “Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace…” Ripeteva, in un sussurro, guardando Fae Solo gli dei sapevano quanto doloroso potesse essere stato subire una tortura del genere. Forse nemmeno loro capivano quanto Ivar si sentisse un mostro in quel momento. “Mi dispiace Kylo, mi dispiace…” Non riusciva a dire altro, se non ripetere quelle due parole. L’amico era ancora a terra, scosso. Ma era vivo. E lui? Lo era? Sembrava essere tornato in sé, eppure non riusciva a fermarsi, non ancora. Non riusciva a fermare le proprie mani che tremavano, anche coi pugni stretti. Non riusciva a rilassare i propri muscoli irrigiditi, non riusciva a controllare il battito del proprio cuore, che sembrava voler sfondare lo sterno. Non riusciva a calmare quel respiro affannoso indotto dalla propria condizione emotiva. Non riusciva ad allontanare le immagini orribili che si susseguivano nella sua mente, mentre guardava Kylo con gli occhi sgranati.
    Indietreggiò di qualche passo, in preda a una specie di attacco di panico. La sua capacità era fuori controllo, la sentiva ancora scorrere potente contro la pelle, ancora avida di seminare morte. Nemmeno si rese conto di Elias che aveva raggiunto Fae e che aveva iniziato a scusarsi per qualcosa di cui non era colpevole, della bambina che aveva scelto un'altra vittima, dei corpi che affollavano quel pavimento, e che ora apparivano in tutta la loro ripugnanza. Indietreggiò ancora, per poi arrestarsi e cadere in ginocchio, quando urtò una delle poltrone. Una fitta di dolore al fianco destro attirò la sua attenzione alterata. Aveva un vetro infilzato appena sotto il costato, sanguinava, imbrattando la maglia bianca costellata di piccoli strappi. D’istinto, sfilò quel vetro, mugolando leggermente. Non appena lo fece, il frammento nella sua mano divenne opaco, si assottigliò, e infine si infranse. Era totalmente fuori controllo. Non facevano male, le ferite, nonostante il sangue imbrattasse il suo avambraccio e il suo fianco destro, nonostante probabilmente avesse qualche contusione anche a quello sinistro. Non faceva male quello, quanto lo faceva ciò che provava. Era terrorizzato, all’idea di aver fatto del male a Fae, di aver quasi ucciso Kylo. Risuonavano nella sua testa le loro urla: quelle disperate di Engy, quelle terrorizzate di Kylo, quelle di dolore di Fae. Tremava, ancora, perché era quello che aveva sempre temuto di essere: un mostro fuori controllo.

    Mi chiamo Ivar Wesenlund. Porto il nome di mio nonno, del mio bisnonno, dei miei avi, ma non ne condivido lo stesso dono. Porto il nome di un re invasato dal berserkr. Per una vita intera ho incatenato le mie emozioni, ho imparato a controllarle, affinché questo divenisse la mia arma per fermare la morte. Non è bastato. Ho perso il controllo, del mio corpo, delle mie emozioni, della mia capacità. Ha vinto lei, stavolta. Ha vinto la bestia. E’ libera, e continua a divorare tutto ciò che incontra. Si è divincolata, e continua a dilaniare la mia anima brandello dopo brandello, a graffiare la mia carne, a ingoiare la mia volontà. Mi chiamo Ivar Wesenlund, e ho paura di ciò che sono.

    Senza nemmeno accorgersene, poggiò la mano sul pavimento. Questo iniziò ad annerire, a spaccarsi superficialmente. La ritrasse, prima di sfondare il solaio. Più la sua capacità prendeva piede, e meno riusciva a riprendere il controllo. Tremava, ancora, perché la paura alimentava la morte. Perché la paura ne generava altra. In un breve momento di lucidità cercò Elias con lo sguardo. Lui, che era stato in grado di soggiogare la sua volontà, e che invano aveva tentato di salvarlo, forse poteva essere anche in grado di acquietarla e riagganciarla alla propria coscienza. “Non riesco a fermarlo!” Disse, disperato, con la voce spezzata da quei respiri troppo frequenti. Si appoggiò al divano, conscio che sarebbe svenuto se quell’attacco di panico non avesse avuto fine. Il legno del mobile iniziò ad annerire, il velluto che lo ricopriva perse il suo colore e si assottigliò fino a strapparsi in buchi sempre più grandi. Pure l’imbottitura iniziò a disintegrarsi, sotto quel tocco il cui effetto si estendeva a macchia d’olio. Non ci volle molto prima che il mobile, o ciò che ne rimaneva, si spezzasse e iniziasse a collassare su sé stesso. Era come liberarsi di un peso, lasciare che quella capacità attaccasse e distruggesse. Era facile, lasciarla andare. Era facile uccidere, distruggere, cancellare. Era terrificante per questo.
    Non giunse la quiete. Non giunse la parola fine a quello strazio. Non giunse la medicina in grado di farlo stare meglio. Non c’era fine a quella tortura, non c’era modo di reprimerla. Giunse solo la voce di quella dannata bambina, la sua richiesta di aiuto, la consapevolezza di non avere un limite.
    “L’oscurità può spaventare, avrete solo una possibilità per scappare. Non è questo l’ignoto da temere, il bello deve ancora accadere”
    Era vero, non era l’assenza di luce a spaventarlo. C’era un altro tipo di oscurità che lo terrorizzava in quel momento: quella che aveva dentro, quella subdola parte di sé che per una vita intera aveva cercato di incatenare, la bestia famelica che ora era sfuggita al suo controllo. Non era un limite, quello che aveva raggiunto finora. Si era fermato in tempo, ancora una volta. Non era il fondo dell’abisso quello che aveva raschiato. C’era altro da temere, oltre il velo di tenebra.
    Giunse il buio, accompagnato da quelle note discordi suonate da un pianoforte rotto. Sembrava quella la frequenza che le corde del suo animo stavano suonando in quel momento, tanto forte da impedirgli persino di muoversi, di scappare da quella trappola, di trovare il modo di aprire quella porta che, probabilmente, avrebbe portato all’ennesima tortura.
     
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    Per un momento, quando ancora tutto sembrava essere un grande punto interrogativo per tutti loro, Fae Olsen pensò che, dopo tutto, quella distruzione diramata intorno a loro avrebbe anche potuto considerarsi bella, unica. Si perse giusto qualche secondo nell'osservare ciò che restava dei tendaggi in velluto, bruciati in gran parte da fiamme spente ormai da diverso tempo prima del loro arrivo. Sembrava fossero trascorsi secoli, dal momento della grande distruzione, eppure i loro piedi calpestavano macchie di sangue ancora fresche, così come l'olfatto avrebbe voluto annullarsi nell'annusare l'aria consumata dai gas delle fiamme che ancora regnava all'interno di quelle mura altissime. Sollevò lo sguardo, intenta ad osservare le rifiniture intricate delle pareti, passando poi lo sguardo sul soffitto e rimanendo esterrefatta da tanta perfezione. Una voce familiare attirò la sua attenzione, risuonando fra tutte le altre come una campanella d'allarme. Si voltò di scatto andando a posare il proprio sguardo sulla figura magra di Larsen, dando le spalle ad Engy e Ivar, che discutevano su cosa tutta quell'assurdità potesse significare. L'amico appena arrivato aveva sproloquiato in un dialetto che Fae non aveva mai capito da dove avesse ereditato, sebbene lo conoscesse ormai da tanti anni. Ricordava fugacemente di attimi trascorsi in sua compagnia durante i quali aveva parlato quella stessa lingua, faticando a rimembrare però -effettivamente- se gli avesse mai chiesto di tradurre o spiegazioni al riguardo. Ciò di cui sembrava fosse certa era che alcune cose di Elias -così come il ragazzo stesso- le erano ancora totalmente sconosciute e, per fortuna, così sarebbero sempre restate. Ridacchiò lievemente, muovendosi nella sua direzione. L'idea che non si trovasse in mezzo a gente sconosciuta la teneva calma, a differenza forse di tutti gli altri. L'unico che ancora sembrava non aver detto neanche una parola era Adam, il quale cercava di assimilare quanti più particolari possibili, forse nell'intento di capire come venirne fuori o, addirittura, se in mezzo a loro ci fosse l'organizzatore di quello scherzo. Era strano vedere Engy innamorata di un uomo che, almeno da fuori, sembrava essere il suo esatto opposto. Le aveva rapito il cuore, e probabilmente senza riempirla di chiacchiere come in molti avevano già provato a fare con lei. Adam sembrava reale, troppo puro per covare dentro al petto il desiderio di poterle fare del male. Fae non glielo aveva mai detto, ma nel profondo del proprio cuore una vocina ringraziava costantemente quel viso costellato da due occhi scuri per l'amore e la protezione che forniva alla sua migliore amica. Fae non avrebbe desiderato altro che saperla al sicuro, e lui sembrava essere l'unico a renderla davvero felice.
    «Uh, felice che tu sia qui, Larsie.» esclamò, avvicinandosi a lui e notando sul suo viso un'espressione fin troppo preoccupata. Non avrebbe dovuto esserlo? Probabilmente fu proprio lo sguardo allarmato dell'amico a riportarla, almeno in parte, con i piedi per terra. Improvvisamente il battito del proprio cuore iniziò ad accelerare, neanche sapeva il perché. L'idea che Elias fosse spaventato le mise sotto al naso l'idea che, magari, aveva visto o sentito qualcosa e che, in fin dei conti, avrebbero davvero potuto essere in pericolo. [- Ma almeno i poteri funzionano ancora, no? Non dovremmo essere troppo lontani da casa, giusto? Hey, fai si con la testa e basta. Non dire che posso parlare con te così, non ancora.] - Annuì istintivamente, bloccandosi ed interrompendo il proprio percorso verso di lui. Rimase interdetta, odiandolo un bel po' per essergli entrata nella testa e aver testato se il suo potere avesse ancora effetto su qualcuno. Fottiti, pensò sempre con tutto l'amore del mondo. Qualche secondo dopo, nell'esatto momento in cui stava per caricare una cinquina in direzione della faccia del suo amico, una figura impietosa apparve alle sue spalle, raggiungendolo di tutta fretta e rivolgendogli la parola con un tono che Fae non poté far altro che amare. «Pensavo che non volessi venire, quando ti ho chiamato» esordì la bruna. Fae spalancò le labbra in una risata divertita. «Guarda guarda, Larsen che si becca l'ennesima strigliata da una bella ragazza. Questa sì che è una novità!» disse la stronza, avvicinandosi alla ragazza di nome Ingrid e porgendole gentilmente la mano. «Stà zitto, non abbiamo mica bisogno dell'intermediario per presentarci.» esclamò, rivolgendo lo sguardo ad Elias, di fianco alle due. «Sono Fae, Ingrid, è davvero un piacere conoscerti. Andremo sicuramente d'accordo, se queste sono le premesse.» concluse, sorridendole divertita. Sembrava avere un bel caratterino: quello che ci voleva all'ammasso di feromoni che stava loro accanto. «Qualcuno si è fatto un’idea di cosa possa significare?» chiese Ingrid, poco dopo. A risponderle fu l'ennesima apparizione: un tipo alto i cui lineamenti del viso sembravano così spigolosi da pensare che a stargli vicino Fae avrebbe potuto anche farsi male. Lo guardò incuriosita non appena ebbe proferito parola. «Dopotutto siamo a Besaid, può essere l’operato di chiunque. O forse siamo solo morti.» constatò il ragazzo, scherzandoci sopra. Fae andò immediatamente a posare il proprio sguardo su Adam: il ragazzo continuava ad osservare i presenti senza dire una parola, e quando l'arrivo del biondo sembrò destare gli altri dallo stupore iniziale di quello che stavano passando, lo sguardo di Adam sembrò incupirsi, quasi volesse scheggiare il viso dell'ultimo arrivato con il solo uso del proprio pensiero. Fae continuò a spostare lo sguardo da lui al ragazzo dalla chioma bionda, cercando di capire se fidarsi o meno, prima di essere attirata da qualcosa. Abbassò lo sguardo, piegandosi e allungando il palmo della mano verso il pavimento, passando i polpastrelli delle dita su di esso nel punto esatto in cui una macchia di sangue sembrava essersi seccata ormai da diverso tempo. Provò ribrezzo nel toccarla, per cui andò a sollevarsi immediatamente, nel momento esatto in cui gli altri sembravano ancora girarsi intorno per tutta la sala, alla ricerca di una via di uscita. Il ragazzo biondo andò a sfiorarla per sbaglio, oltrepassando la sua figura e dirigendosi verso il pianoforte. Fu un attimo: sbatté le palpebre una, due volte, prima di rendersi conto di essere stata catapultata nuovamente altrove.

    Un auto in corsa su una strada che non percorreva ormai da diverso tempo, col tentativo di distanziarsi dai ricordi che essa provocava in lei, dalla pelle d'oca attraversata da brividi impossibili da spiegare a voce alta. Il battito del cuore aveva preso ad accelerare, più veloce di quell'auto rumorosa e vecchia, ormai malconcia. Sollevò lo sguardo dalle proprie mani fino a posarlo dinnanzi a sé, dopo aver trovato il coraggio di accogliere ciò che i suoi occhi avrebbero catturato per lei e mostrandole ciò che probabilmente non avrebbe mai voluto vedere. Suo padre la guardava dallo specchio retrovisore, ma non le sorrideva come al solito. Tutto accadde un'ennesima volta, dopo averlo vissuto una prima e averlo ricordato spesso, come se quell'attimo fosse impresso sulla sua pelle accanto ad uno dei numerosi tatuaggi, impossibile da lavar via. Allungò le braccia verso il sedile anteriore, stringendo le dita attorno al tessuto dei rivestimenti e cercando di mantenersi salda ad esso, sapendo con estrema esattezza cosa sarebbe avvenuto in pochi secondi. Cercò lo sguardo di suo padre nel riflesso, trovandolo ancora lì, perso con i suoi occhi scuri nella figura di Fae, dietro di lui. Si abbandonò ad un leggero sorriso, guardando sua figlia stringere i denti per la paura e lasciar andare delle lacrime incontrollabili a rigarle il viso perlaceo. La ragazza dai capelli arcobaleno lasciò andare la presa sul sedile posto dinnanzi a lei e che la divideva dal corpo di suo padre; si gettò in sua direzione, spingendosi col busto in avanti e andando a posare le mani sul volante, accanto a quelle di suo padre. Erano fredde, secche al contatto con la pelle di lei. Rabbrividì ancora, lasciandosi andare ad altri profondi singhiozzi e chiudendo gli occhi per non guardare. Era reale? Avrebbe potuto salvargli la vita? Oppure era solo un sogno e prima o poi si sarebbe svegliata? Avrebbe davvero potuto cambiare le cose? Non le importava di vivere, se anche lui non avesse ricevuto quel dono. Avrebbe preferito morire insieme con suo padre e dimenticare tutto, tornare con lui nella casa che avrebbe ospitato le loro anime, se poi davvero ce n'era una.

    S'inginocchiò, perdendo la forze nelle gambe. Fae era altrove, imprigionata da qualche parte nella propria mente, dove covava gelosamente quelle paure fingendo che non esistessero. Chiuse gli occhi, portando automaticamente le mani al viso e premendo con le dita sulla pelle rosea, la quale divenne biancastra nei punti posti sotto pressione. Un pianto profondo nacque dal profondo per esplodere come se fosse stato da sempre lì, dentro di lei, pronto ad attendere di trovare una via d'uscita. Non si accorse dell'abbraccio di Engy. Non si accorse delle parole premurose di Ivar. Non si accorse del tentativo di aiuto da parte di Larsen. Ciò che vedeva era tutto quello contro il quale aveva combattuto per una vita intera, tutto quello che, proprio in quell'istante, quelle persone a lei vicine cercavano di sfatare.

    Non ricordava nulla, neanche come ci fosse finita di nuovo in quella macchina. Ma era lì, suo padre a distanza di un respiro. Ne sentiva il profumo così confortante e familiare, come se non ne avesse mai dimenticato le note floreali. «Papà, lascia il volante, ti prego! Papà, lascialo a me... lasciami salvarti la vita!» lo implorò, prima dello schianto. Il guardrail si distrusse aprendo un varco nel vuoto. L'uomo pianse con lei, singhiozzando come mai Fae aveva visto farlo, senza però pronunciar parola. Lo abbracciò, avvertendo le ruote dell'auto immobilizzarsi e ricordando quella presa allo stomaco che non avrebbe mai dimenticato, assieme a tutto il resto. Come quando si va sulle montagne russe e, nel momento più cruciale del giro, le navette si gettano in una discesa ripida la quale, a molti, suscita una sensazione di malessere e sconforto allo stomaco, come se si perdesse il senso della gravità.
    Divenne tutto nero e silenzioso, acquoso. Fae piangeva, ma oltre alle lacrime c'era altro: quando aprì gli occhi, si ritrovò a galleggiare in un mare scuro, che non riconosceva neanche. Intorno a lei non c'era nessuno, neanche la macchina di suo padre o il suo cadavere. Non c'erano scogli su cui arrampicarsi, tanto meno della sabbia che l'avrebbe condotta alla terra ferma. C'era solo il vuoto e una pioggia fitta che intimoriva la superficie dell'acqua gelida. Era completamente sola. Urlò per la disperazione prima di lasciarsi assorbire dalle acque fredde dell'oceano e nascondendo quindi il viso sotto la superficie. Schiuse le labbra, andando a respirare ed ingoiare sorsi d'acqua salata che con sorpresa non bruciarono in gola, neanche quando arrivarono ai polmoni. Non sarebbe morta. «Voglio andare, lasciatemi andare...» sussurrò, quasi incomprensibilmente.
    Persa: era così che si sentiva in quel mare sconosciuto, lontano da chiunque potesse accarezzarla in viso e ricordarle che prima o poi quel silenzio assordante avrebbe avuto una fine. Un'attesa che si trasformava in dolore, rancore. Una rabbia nei confronti di se stessa e della codardia che la bloccava lontana da chiunque altro. Se solo avesse scelto di dimenticare...


    «Giocate con me

    Quando l'acqua si ritirò e una sensazione di calore sembrò finalmente circondarla, aveva ancora gli occhi chiusi. Avvertì il suono di un battito accelerato vicino alle proprie orecchie, ma non era il suo. Schiuse gli occhi, rendendosi conto di essere tornata al punto di partenza. Dovette chiudere e riaprire le palpebre un paio di volte prima di poter tornare al vero presente; era in ginocchio, sorretta dalle braccia di Larsen. Aprì leggermente la bocca, cercando di inspirare profondamente ed inghiottendo quel poco di saliva che le era rimasta. Udì ciò che sembravano essere urla, una voce che conosceva fin troppo bene. Non aveva idea di cosa fosse successo e neanche come e perché tutto avesse avuto poi una fine, ma era grata di esser tornata con la mente al presente. Forse, però, non lo sarebbe stata molto a lungo.
    Andò quindi a portarsi il palmo della mano sinistra al viso per asciugare le lacrime che lo avevano rigato, prima di sollevarsi per rimettendosi in piedi. Avvertì una leggera fitta di dolore alle ginocchia, probabilmente causata dallo spavento e dalle forti emozioni che aveva provato nel vivere quelle immagini così nitide e che l'avevano portata poi ad accasciarsi sul pavimento vitreo della grande sala.
    Il viso di Engy rigato dalle lacrime fu la prima immagine che i suoi occhi catturarono: curva sul proprio blocco da disegno, stringeva fra le mani l'arma che l'avrebbe portata a distruggersi interiormente. Disegnava freneticamente i loro corpi, sotto l'acuta attenzione di una bambina apparsa da chissà dove. Aveva una voce quasi melodiosa, se solo ciò che avesse detto non fosse stato così macabro da sembrare non appartenerle. Era l'unica, insieme al ragazzo dalla chioma bionda, che sembrava non aver paura di ciò che stesse accadendo, ma al contrario ne godeva. Fae lasciò andare Larsen, che si ritrovò a voltarsi verso Ingrid, cercando di proteggerla dalla visione che si parò davanti agli occhi di tutti loro: corpi conosciuti, martoriati, apparivano uno dopo l'altro man mano che Engy terminava di disegnarli su quel blocco di carta. Il primo sembrò avere l'aspetto dell'ultimo arrivato; il viso ridotto in una poltiglia mentre il sangue sgorgava in tutte le direzioni, partendo dal suo corpo. Le ricordò carne macinata, così reale da darle il voltastomaco e portarla a voltarsi nel punto esatto in cui, qualche secondo dopo, un altro corpo apparve. Era quello della bruna giunta prima di lei ed Ivar nel tranello che li aveva intrappolati. La figura di Tori era distesa senza vita sul pianoforte, un coltello da cucina conficcato nel costato; ennesimi rivoli di sangue caddero sul pavimento, rigandolo come se non vi fosse una fine e neanche un vero e proprio inizio. Solo allora si accorse di quello di Larsen che, impiccato, dondolava senza vita dal soffitto. Lo sguardo vitreo aveva perso quella solita luce che lo animava, che lo rendeva l'idiota al quale voleva bene e dal quale, ormai, non avrebbe potuto staccarsi. Si portò le mani alla bocca, disgustata da tutto ciò che prendeva e perdeva al contempo la vita in quella maledetta stanza. Non ebbe la forza di fare nulla, neanche di avvicinarsi ad Engy e dirle qualcosa. Ma cosa? E a che scopo? Non c'erano parole, non avrebbe potuto niente, lei, contro tutto quello. Non riuscì a trattenersi, mentre una lacrima si ribellò al suo precario autocontrollo e le rigò un lato del viso. Guardò ancora una volta Adam, riconoscendo in lui una paura primordiale, come se dentro la sua testa ci fosse un caos pronto ad esplodere e solo perché qualcuno li stava costringendo a farsi del male fra di loro. «Che buffa, la morte. Proprio buffa. Così come le paure.» esordì nuovamente la piccola strega, intenta a divertirsi nel vederli combattere contro quelle abilità che, a differenza di quanto avessero forse mai pensato, erano divenute più che altro una condanna per loro. «E tu, di cosa hai paura?» guardò il biondo. E continuò con quella malsana cantilena, indicando il povero Adam. «Mostrami di cosa ha paura questo ragazzo. Non voglio essere l’unica.. cambiamo gioco» disse. Quel Jason non se lo fece ripetere di certo due volte, quasi estasiato dalle regole che la bambina imponeva loro e addirittura felice nell'assecondarla. Si avvicinò al ragazzo di Engy e, nella frazione di un secondo, la sua mano malata andò a toccare la pelle scoperta di Adam. Malato, ecco cos'era. Non avrebbe mai potuto definirlo in altra maniera. Fu in quel momento che collegò: la visione della macchina, il terrore che le aveva spezzato il fiato e il battito del cuore erano esclusivamente opera di quel decerebrato. Cosa c'era di umano in lui? Se lo sarebbe chiesto forse fino alla fine dei propri giorni. «Lurido verme schifoso!» urlò con tutta la forza che aveva, mentre Engy perse il controllo delle proprie emozioni, urlando e disperandosi per quello che avrebbe visto, per il dolore e la sofferenza che avrebbe letto negli occhi del suo uomo. Fae tentò di oltrepassare le figure di Larsen e Ingrid, pronta a fare una delle sue stronzate da testa calda, ma dovette fermarsi in quanto l'amico sembrò afferrarle il braccio per tirarla dietro di sé ancora una volta, proteggendola dal caos che stava per esplodere.
    Una forza sovrannaturale si estese in tutto lo spazio, colpendoli in pieno e creando una sorta di vortice di forza incontrollabile: erano le paure di Adam che si libravano nell'aria, accerchiando tutti loro e colpendoli con una violenza che Fae non aveva ancora mai visto. Larsen la tirò nuovamente a sé, mentre a pochi passi da loro era il dolore di Engy a farsi vivo: continuavano ad apparire corpi come se piovesse, come se una volta visto ognuno di loro, tutto sarebbe finito e sarebbero stati liberi. Li guardò, uno ad uno, combattendo dentro se stessa la paura che le faceva tremare le gambe e cercando di convincere se stessa che no, non era reale. Tutto quello non avrebbe potuto essere reale, per nessuno di loro.
    Apparve Ingrid e insieme a lei una pozza d'acqua si estese sul pavimento, andando a richiamare la carnagione bluastra che la pelle della ragazza aveva acquisito. Poi fu il torno della sua migliore amica: i polsi tagliati, lo sguardo perso. Fae pianse. Il successivo lo riconobbe come se lo avesse immaginato un milione di volte, nel proprio passato. Una ragazza dai capelli arcobaleno con la schiuma alla bocca, gli occhi serrati e un rivolo di sangue che le tagliava il mento in due, partendo dalle narici. Delle luci intorno al proprio corpo davano quella vita che il suo corpo sembrava aver ceduto al destino. Lo aveva immaginato. Aveva creduto potesse accadere. Forse era reale? Alcune schegge provocate dallo schianto delle vetrate andarono a conficcarsi nella pelle di molti loro, lei compresa. Digrignò i denti per il dolore, cercando di mantenere ancora una volta la calma e sperando che tutto potesse giungere presto al termine. Chiuse gli occhi e si voltò dall'altro lato, dove ovviamente la visuale non sembrava migliorare. E le si mozzò anche il respiro. Il corpo di Ivar, in una canoa preda delle fiamme. Aveva il viso rilassato, in partenza per un posto nel quale avrebbe trovato la propria pace, un posto nel quale non avrebbe mai avuto il timore di essere un colpevole, di essere quello da cui tutti dovrebbero scappare. Come se il pavimento le fosse stato tirato via da sotto i piedi all'improvviso, s'accasciò ancora una volta, mantenendosi alle spalle di Larsen. Adam. La morte di Adam era la rappresentazione dell'amore che ngy provava per lui. Sebbene fosse il corpo meno spaventoso di tutti, fu quello che le fece più male. Dimostrava che tutto l'amore presente in quella stanza non sarebbe mai morto, neanche se loro fossero passati a miglior vita. Dimostrava che c'era ancora qualcosa per cui lottare mi sento Silente, raga.
    «Fermalo. Lo voglio esattamente così» quella voce. Ancora una volta pronta ad ordinare qualcosa che nessuno sano di mente avrebbe mai potuto architettare. Sollevò lo sguardo, sporgendosi oltre le spalle minute di Larsen ed uscendo allo scoperto. Lo sapeva. Sapeva dove sarebbero arrivati perchè conosceva i poteri di ognuno di loro e Ivar non aveva ancora preso seriamente parte a quel gioco. Era il suo turno. «No...» sussurrò così piano da immaginare di averlo solo pensato. «Convincilo tu. Gli ci vuole un piccolo incentivo, no?» continuò il mostro che aveva le sembianze di una bambina. Fae aggrottò le sopracciglia, seguendo lo sguardo della bambina e comprendendo a chi si riferisse. «No, Elias. Non farlo, no!» esclamò, terrorizzata. Lo sguardo dell'amico era spaventato, ma in qualche modo sembrava nascondere una mente in azione, alla ricerca di una soluzione. Fae pensò addirittura che se la sarebbe data a gambe, pur di non farlo. Non respirò, assistendo a ciò che avvenne come se avesse perso la capacità di respirare, di parlare, di pensare. Tremava dalla paura, mentre nella testa un'idea andava a toccare quelle corde nascoste che facevano di lei ciò che realmente era. Non avrebbe potuto lasciare che tutto ciò accadesse, che Engy perdesse l'amore per cui aveva lottato fino a quel momento. Non avrebbe mai permesso che il suo sorriso divenisse il ritratto di una tristezza celata, di una lacrima di troppo. E mentre Ivar marciava in direzione di Adam, Fae fece un passo avanti. Si fermò, tremando. Guardò Larsen, cercando di interpretare l'espressione che gli deformava il volto. Fece un altro passo verso Ivar, che ormai sembrava essere sempre più vicino al suo amico. «No, Ivar. Adam è tuo amico! Non puoi farlo.» la voce di Engy esplodeva nel caos della sala, disperatamente. Fece ancora un altro passo; delle lacrime rigarono il viso un tempo vivace della ragazza dai capelli arcobaleno.

    «Fermami Kylo ti prego. Attaccami» la voce tremante e spaventata di Ivar.

    E poi lei, ancora. Questa volta era il suo turno, sapeva sarebbe giunto.
    «Non voglio che muoia. A Sophie non piacerebbe. Però sono curiosa.. quanto puoi sfidare la morte?»

    Intervenne. «No, Fae NO!» urlò Larsen.

    Come persa in un limbo sconosciuto, neanche si era accorta dei passi che l'avevano fatta avanzare in quella direzione. Si era ritrovata nel mezzo, a dando le spalle ad Adam ed allargando le braccia quasi a volerlo proteggere, mentre il proprio sguardo andava in cerca di quello di Ivar, di fronte a lei. Serrò le labbra trattenendo il respiro, mentre le dita bollenti del ragazzo si avvolgevano attorno al suo polso. Cercò di mantenere il proprio sguardo in quello di lui, volendo comunicargli qualcosa, qualsiasi cosa che potesse in qualche modo farlo tornare in sé, allontanarlo dal pensiero di doverlo fare, di essere il mostro al quale è stato ordinato di spaventare. Voleva essere forte per lui, ma non ci riuscì: urlò come se le stessero strappando via la pelle, come se si trovasse al centro di un rogo e dovesse restare lì a bruciare. Si arrese al dolore, strattonando il braccio bloccato nella presa ferrea di Ivar e cercando di allontanarsi da lui. Le sembrò un attimo eterno, come se fossero incatenati a quel presente ormai da un'intera vita e ormai fosse troppo tardi per staccarsene.
    «Basta!» gridò la bambina. Come tutto era iniziato, tutto sembrò terminare. Ivar si staccò da lei, allontanandosi da tutti quelli che gli stavano vicini. Adam sembrava essere tornato in sé e Engy era libera dall'obbligo del disegnare. Era tutto finito. Una calma si estese nella grande sala, mentre dentro se stessa e su quella pelle che aveva spesso odiato, il dolore sembrava estendersi piano piano, raggiungendo ogni singolo punto del suo corpo e colpendolo come se fosse trafitto da tanti piccoli spilli. Aprì gli occhi, andando a guardare il braccio nel punto in cui Ivar lo aveva stretto: la pelle si era rinsecchita, divenendo grigia almeno fino all'attaccatura con la spalla. Era spaventoso conoscere gli effetti di ciò che il suo corpo sembrava poter sopportare. Vide il grigiore farsi strada fino alla clavicola e poi fermarsi d'improvviso. Respirava affannosamente, mentre intorno i secondi sembravano passare con lentezza. Non ebbe il coraggio di sollevare lo sguardo per osservare lo scenario che la circondava. Tremava incontrollabilmente, quasi avesse perso la capacità di respirare normalmente. Aveva paura, lo sentiva. Aveva paura di alzare lo sguardo e trovarsi sola, malgrado tutti quei rumori, quelle voci. Era il suo incubo ad essersi avverato? Cosa avrebbe visto, una volta alzati gli occhi per guardare altro, oltre che la morte danzante sul suo braccio?
    «Siete stati noiosi» esordì la bambina, facendosi spazio in quel silenzio colmo di speranze perse e sogni infranti. «Perdonami.. Perdonatemi.» udì Adam, alle proprie spalle. Non ebbe ancora il coraggio di sollevare lo sguardo. La morte aveva bloccato la marcia sulla propria pelle, ma non accennava ad indietreggiare. «Ma non trovo più la mia Sophie. Qualcuno di voi l’ha vista?» continuò la psicopatica, marcando il rumore dei propri passi mentre si spostava fra le macerie che lei stessa aveva generato tramite quell'atto di violenza. «Io... Perdonami Ivar, io non volevo, io non volevo.» sollevò lo sguardo verso il punto dal quale aveva sentito provenire la voce di Elias, trovandolo inginocchiato per terra, visibilmente provato da tutta quella situazione. «L’oscurità può spaventare, avrete solo una possibilità per scappare. Non è questo l’ignoto da temere, il bello deve ancora accadere» fu la frase di chiusura di quella che tutto aveva, tranne la parvenza di essere una bambina. Un gioco maldestro, violento, al quale nessuno di loro avrebbe dovuto prendere parte. Ma sembrava essere ormai troppo tardi. «Non riesco a fermarlo!» urlò Ivar, poco distante da loro. Sedeva per terra, lo sguardo colmo di paura. Lesse nei suoi occhi un'infantile terrore, quasi come quello che aveva visto negli occhi di suo padre quando aveva capito che era finita, che avrebbe rovinato la vita di sua figlia. Non era riuscito a controllare l'auto, così come Ivar sembrava non riuscire a controllare la maledizione che viveva nei palmi delle proprie mani.
    Vels Olsen avrebbe voluto salvare la sua piccola Fae, spingerla fuori da quell'auto e assicurarle una vita, non sapendo che quel dono che aveva ricevuto dalla città le sarebbe servito a prendere il posto di suo padre, in quel preciso istante, proprio quando l'auto sembrava aver messo le ali per volare oltre quel guardrail. Il dono che le aveva permesso di crescere, osservare il mondo con lo sguardo di chi ha visto tanto ma ancora non si è stancato.
    Si ritrovò alle spalle di Ivar, attenta a non toccargli le mani. S'inginocchiò dietro di lui e lo tirò a sé con l'aiuto della mano destra, ancora quasi del tutto incapace di muovere la mancina. Posò il viso sulla spalla dell'amico, stringendo sempre più forte la presa della mano all'altezza del petto di lui. «Ce la fai, puoi resistergli. Puoi controllarlo, Ivar. Non sei solo, siamo tutti qui.» disse.
    E poi ci fu solo il buio.
     
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    We're here in the jungle, running right into the fire
    we're here in the jungle, who's gonna make it out alive?


    Ingrid non era mai stata una Cuor di Leone. Per quanto le piacesse trasgredire alle regole — quando comportarsi da adulta non era ancora un obbligo, offuscata dall'adrenalina dei vent'anni — aveva sempre cercato di stare alla larga dai guai troppo seri ma, soprattutto, dalle situazioni considerate pericolose.
    Da quando era approdata a Besaid con il proprio bagaglio di non-ricordi, invece, sembrava essersi impiantata in lei una vaga vena di masochismo; non avere memoria circa le avversità riscontrate nel passato, l'aveva portata, in primis, a ritornare nella città dalla quale era fuggita.
    In secondo luogo, si era impantanata con le proprie mani in una situazione che, con lo scorrere dei secondi, le piaceva sempre meno.
    Non avrebbe accettato un invito ‘al buio’ neppure a diciott'anni, quando il desiderio d'avventura superava di gran lunga il buon senso, eppure si era presentata al Luna Park è aveva varcato la soglia della Spiegelhaus, ritrovandosi all'interno di un salone spazioso ma in rovina, in compagnia di sconosciuti e a dover far fronte ad un misterioso grattacapo.
    Chiunque li avesse condotti in quel luogo, non aveva in mente una festa esclusiva o uno scherzo, ma ben altro; i dettagli di quell'ambiente erano stati curati con troppa attenzione perché fossero opera di un burlone qualunque, perciò si chiese se anche i presenti, contando se stessa, fossero stati scelti per un motivo ben preciso.
    Non conosceva nessuno di loro, se non forse di vista e non era a conoscenza neppure di quali fossero i rapporti che correvano tra l'uno e l'altro o le loro abilità. Soltanto Elias per lei rappresentava qualcosa di concreto, un volto amico; inoltre anche gli altri ne sapevano quanto lei e le condizioni non erano ideali per fare amicizia, perciò il ragazzo dai capelli rossi attirò per l'ennesima volta l'attenzione di Ingrid.
    Si ritrovò al suo fianco e gli si avvicinò più del solito, per il terrore infantile che qualcosa o qualcuno potesse spuntare da dietro ai pesanti tendaggi, come in un film horror, e minacciare le loro vite. Non che avessero di che preoccuparsi, considerata l'ascia che stava brandendo una delle altre ragazze.
    La scena le ricordava The Shining, perciò si augurò che la sconosciuta dai capelli di un lucente color carota ed armata non perdesse la testa per prima, facendo tutti a pezzi in un raptus di follia.
    Abbassò lo sguardo da Larsen — un giorno le sarebbe venuto il torcicollo a furia di dover alzare il viso per osservarlo — ed alzò la mancina a mo' di saluto per via delle sue presentazioni, prima di ridere sommessamente alle parole della ragazza arcobaleno.
    Tra tutti gli invitati, Fae le sembrava la più tranquilla e quasi ad agio in mezzo a quel delirio; persino Elias, di solito propenso al disagio, emanava una preoccupazione tale da farle chiedere se non avesse davvero sbagliato a presentarsi in quel posto.
    Rivolse alla ragazza un sorriso cordiale ed ampio, divertita dal tono amichevolmente irrispettoso con cui teneva a bada Larsen, quindi le strinse finalmente la mano, sporgendosi appena verso di lei per raggiungerla.
    « Il piacere è mio, soprattutto ora che so di non essere l'unica a doverlo mettere in riga. » lanciò un'occhiata al rosso e si strinse nelle spalle come per scusarsi, arricciando le labbra piene in una smorfia « Sai di meritartelo il novantanove percento delle volte, no? »
    Una volta usciti da quella stanza, all'aria aperta, si sarebbe probabilmente vendicato, ma fino ad allora si sarebbe divertita a punzecchiarlo. Dopotutto le aveva detto di non accettare l'invito, mentre lui stesso era stato il primo a presentarsi nel luogo designato per l'incontro.
    Quando Jason fece il suo ingresso, si ritrovò ad osservarlo con malcelato interesse; in mezzo a quell'allegra banda di disperati, il suo viso si era disteso ed aveva assunto un'aria annoiata e non si dimostrava per niente colpito, nonostante l'ambiente attorno a sé fosse del tutto cambiato, passando da quello di una tetra giostra piena di specchi ad una sfarzosa sala ormai decaduta.
    Fu la prima a ritrarsi da Fae quando iniziò a comportarsi in maniera strana, catturando l'attenzione di tutti gli altri. Dapprima immobilizzata per il terrore che le si leggeva sul volto, cadde poi sulle ginocchia e le andarono in soccorso Elias, assieme alla rossa, Engy.
    Ingrid si portò le mani sul viso, cercando di non lasciarsi sfuggire un urlo; se avesse ceduto al panico, molto probabilmente non sarebbe più stata capace di rendersi utile.
    Cercò di concentrarsi su se stessa, piuttosto che su tutti gli altri, respirando lentamente per non farsi sopraffare dagli eventi e, secondariamente, dalla melodia sinistra che il pianoforte distribuiva autonomamente nella stanza.
    Distratta da quella litania e dal chaos creatosi attorno a Fae e all'ultimo arrivato, si accorse dell'entrata in scena della bambina soltanto una volta che la sentì parlare.
    Doveva avere soltanto sui sei anni, ma riuscì a farla rabbrividire per il tono calmo con cui parlò loro di omicidi, nominando l'amichetta perduta.
    Ingrid si strinse immediatamente le braccia al petto, come meccanismo di difesa e si mordicchiò il labbro inferiore, sentendo la tensione attanagliarle i muscoli.
    In pochi minuti, quell'esserino malefico riuscì a creare il panico.
    Ordinò ad Engy di disegnare tutti loro morti e mano a mano che i corpi si materializzarono nella stanza, si sentì sempre più piccola ed indifesa, nonché disgustata dal sangue che affiorava dalle rappresentazioni dei cadaveri.
    Impallidì di fronte al corpo esanime di Larsen appeso ad una delle travi, mentre una voragine le si apriva sempre di più nel petto, sul quale portò una mano. Ogni dettaglio faceva apparire quell'immagine reale, come se Elias si fosse smaterializzato dal suo fianco e fosse ricomparso direttamente agganciato a quel cappio. Lo osservò dondolare dal soffitto, inorridita e pietrificata, nonostante la vista appannata dalle lacrime rendesse il tutto meno nitido e si ritrovò di fronte agli occhi del ragazzo, non più sbarrati a causa della morte, ma vivi e luminosi, affondando poi il viso contro al suo petto.
    Strinse la sua maglietta fra le dita e tirò su con il naso, ascoltando attentamente il battito accelerato del cuore. Rimase immobile, al riparo tra le sue braccia, sentendosi più al sicuro nonostante la situazione non si stesse svolgendo nel migliore dei modi. Non vide la propria figura riversa sul pavimento, di certo altrimenti avrebbe smesso di frequentare la piscina comunale, rimase semplicemente accucciata prima che scoppiasse il pandemonio, causato dalla furia cieca di Adam e pensò di aver fatto una brutta fine, dallo strano verso gutturale emesso dall'amico.
    « Non è niente, Ias, okay? Sono qua anch'io, non mi è successo niente »
    Si aggrappò un'ultima volta a Larsen prima che la lasciasse sotto volere della bambina e cercò di ripararsi come meglio poteva dai cocci causati dall'armadio su gambe che era il guardiacaccia. Si coprì il volto come meglio poteva per non finire colpita dalla pioggia di schegge in vetro e detriti, venendo quindi colta alla sprovvista da uno dei divani, il quale le finì contro con forza, spingendola all'indietro quasi fino a farle perdere l'equilibrio.
    Si trovò a trattenere il fiato quando la bambina le si avvicinò, mettendola a disagio. Avrebbe semplicemente voluto scomparire dalla stanza e, se possibile, portare Larsen con sé, impegnato a dare conforto ad Ivar dopo averlo soggiogato secondo il volere di quel mostro infante.
    Emise un gemito di terrore, mentre il proprio polso finiva stretto nella mano paffuta della bambina e si fece trascinare in silenzio, ritrovandosi a sedere sul divano che poco prima l'aveva colpita ad una gamba.
    « Siete stati noiosi, ma non trovo più la mia Sophie. Qualcuno di voi l’ha vista?»
    Scosse violentemente il capo, stringendo le mani sulle cosce per impedirsi di scappare, quindi si schiarì la voce, tenendo lo sguardo basso, per non vedere quell'abominio al proprio fianco. Avrebbe avuto gli incubi per anni, sicuramente.
    « Scommetto che Sophie tornerà presto, potremmo aiutarti a cercarla se ci lasciassi uscire di qua » la voce che le uscì non le sembrò neppure la propria, da quanto tremolava. Aveva timore per la propria vita, per la prima volta in assoluto.
    Quando le luci si spensero, portò istintivamente le ginocchia al petto, nascondendo il viso tra di esse per farsi ancora più insignificante e chiuse gli occhi, terrorizzata.
    Era l'unica a poter risolvere la situazione, data l'abilità di cui era in possesso, nonostante si sentisse troppo agitata per rendersi utile.
    Finse di trovarsi tra le quattro mura di casa, approfittando dell'oscurità e fece la cosa che le riusciva meglio, nonché quella più rassicurante: pensare a tutte le minuscole particelle di polvere presenti nel salone ed illuminarle, così da dar luce a tutta la stanza in una pioggia dorata. Ora che la rabbia di Adam si era placata, riportando la quiete, poteva cercare una via di fuga, per sé e per tutti gli altri.
    Si assicurò che nessuno di loro fosse gravemente ferito, passando in rassegna ad uno ad uno e si mise in piedi a fatica.
    Della bambina non c'era più traccia e nonostante continuasse a sentirsi osservata e in tensione, si guardò intorno. Lanciò un'occhiata ad Elias e gli rivolse un piccolo sorriso d'incoraggiamento — almeno erano ancora vivi — quindi raggiunse con passo malfermo e traballante il centro della stanza, ormai ridotto al caos.
    Non aveva idea di dove si potesse trovare la chiave che li avrebbe condotti alla libertà, ma si avvicinò al pianoforte dal quale era partito tutto. Da profana della musica e di ogni strumento musicale, aprì il coperchio in legno massiccio, sbuffando per lo sforzo; tra i fili all'interno di esso, ai quali erano collegati i tasti neri e bianchi, notò lo scintillio del piccolo oggetto in metallo. Incastrò la mano tra di essi ed estrasse trionfante la minuscola chiave, che strinse a sé per paura di poterla perdere da un momento all'altro.
    « Signori, se non avete obiezioni da fare, direi che è arrivato il momento di andarcene da questo posto di merda » raggiunse l'unica porta presente, zoppicando malamente e mise la chiave nella toppa, facendo scattare la serratura.

    Ho fatto di fretta, non ho riletto.. chiedo perdono, ma non volevo saltare il turno ahaha
     
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    Il gioco di ombre che si susseguiva ad intervalli irregolari carpiva lo sguardo di chi si trovava, suo malgrado, tra le mura del palazzo d'inverno. Gli arbusti oltre le mura sibilavano al vento notturno ed il volto della luna sorrideva dagli interstizi tra le nubi. Un susseguirsi di luci e di ombre intrecciate tra loro a formare forme ora nuove, laddove non vi era altro che un arredo d'altri tempi, vergato di un gusto che non apparteneva a nessuno dei presenti e nemmeno a chi li aveva portati lì. Gli occhi di un uomo, due biglie di ossidiana, rilucevano nella penombra accarezzati da una luce nuova, a tratti folle, dimentica dello stato di umanità che un tempo li aveva caratterizzati. Questo "esperimento" sembrava aver dato spessore agli angoli più oscuri del suo animo e mentalmente prendeva appunti come se si trovasse ad una semplice lezione, anziché nel pieno di una situazione pericolosa per chi, oltre a lui, ne era coinvolto. Questa volta lo scienziato aveva assunto le sembianze di un uomo alto quasi due metri, di costituzione rachitica, un giunco che lasciava però trasparire una gran forza. Due fari nel buio, le iridi presentavano una molteplice varietà di cromia che passava dal marrone più vivido fino al verde intenso, un pizzetto finemente curato come la capigliatura impeccabile nel suo taglio fuori moda, al di sotto di un naso aquilino, la bocca era composta da labbra piuttosto fini capaci di incresparsi in mille modi per dare una mimica facciale che, unita allo sguardo penetrante, gli trasmetteva una presenza tutt'altro che rassicurante. Un vestiario spiccatamente formale gli fasciava il corpo scheletrico, talmente magro da farlo sembrare ancora più di alto di quanto non fosse realmente. Drappeggi dagli intarsi ricercati serpeggiavano lungo ogni angolo di quella divisa da maggiordomo, per alcuni aspetti non eccessivamente diversa da quella usata in alcune case nobiliari dei nostri tempi. A fasciare le mani scarne vi erano un paio di guanti in seta bianchi come il manto di un cigno.
    La mancina si muoveva ritmicamente fendendo l'aria, come se stesse componendo una melodia che udiva unicamente lui; l'altra, come del resto metà del braccio, era ricurva e teneva saldamente quello che appariva come un pesante vassoio argentato coperto da una cappelli ovale che sembrava la metà di un uovo. Le labbra sottili si tesero in un macabro sorriso, quando constatò che i suoi ospiti erano giunti fin lì. Non se l'aspettava, doveva ammetterlo; lo avevano stupito ma non vi era motivo per cui li rendesse coscienti di quella piccola vittoria. Non li avrebbe di certo aiutati. Constatò con soddisfazione che in molti non erano usciti illesi da ciò alla quale li aveva destinati, ma ora non sarebbero stati sfregi e sangue rappreso a doverli intimidire, bensì qualcosa di ben più pericoloso: la loro stessa psiche. In un angolo della stanza, la figura raggomitolata di Dagmar era concentrata a tal punto da non avere un lembo di pelle non imperlato di piccole gocce di sudore. Senza muovere un arto, il maggiordomo attese che ciascuno dei presenti fu entrato nella stanza per poi indicare loro il centro della stessa: ad accogliere il loro sguardo, vi erano otto nidi dagli arbusti finemente intrecciati. Somigliavano a nidi di cicogne per via delle ampie dimensioni ed erano disposti circolarmente; di fianco a ciascun nido vi era un uovo grande quanto un bambino di otto anni. Erano sistemati verticalmente rispetto al pavimento in marmo, come se una forza invisibile li mantenesse in posizione eretta. In tutta la stanza aleggiava una melodia cupa e triste, ottenuta attraverso un pianoforte invisibile. Il motivetto era diverso da quello udito nel salone di San Giorgio, ma la padronanza di chi pigiava i tasti era la medesima. Ad illuminare tutto, vi erano una serie di candelabri disposti ordinatamente ai lati della stanza, anche qui per un totale di otto. Le fiamme sussurravano all'unisono e parevano danzare seguendo il ritmo del pianoforte invisibile, lacrime di cera ne vergavano l'imminente spegnimento. Il chiarore dorato di tutte quelle luci aveva dilatato le pupille del maggiordomo, conferendogli quella che sembrò una rara lucidità.
    Egli sembrava sprovvisto del dono della parola, o forse preferiva non farne uso, si limitava ad osservare quelle persone come se non fosse sicuro di vederle davvero. Una fredda brezza penetrava dalla finestra aperta posta alla sua destra e, se lo si osservava attentamente, era possibile scorgere dei lievi movimenti del drappeggio che gli sfasciava il corpo. Non fosse stato per questo e qualche leggero movimento del corpo, sarebbe parso una statua di cera notevolmente realistica.
    Indicò ai cittadini di Besaid di sedersi all'interno di ogni nido, flettendo le gambe a mò di esempio ed indicando ciascun nido con la punta dell'indice, ritmicamente. Per capire quale nido fosse destinato ad una determinata persona, era stato apposto al centro esatto un piccolo elemento rappresentativo di ogni cittadino. Il nido di Adam Kane, infatti, conteneva una piccola pistola d'ordinanza per poliziotti, la sua prima professione prima di abbandonare temporaneamente Besaid e farvi ritorno nelle vesti di guardiacaccia. Quello destinato a Engel Meliora Larrsen conteneva una piccola ciocca di capelli scarlatti, quella di Victorianne Fawnie Årud conteneva un piccolo pupazzo a forma di orso della figlioletta Alexandra, quello per Ivar Wesenlund invece un ceppo di legno. Quello destinato a Fae Lynae Olsen conteneva un taccuino sul quale era solita appuntarsi l'organizzazione ed i contatti per gli eventi che per lavoro doveva organizzare, quello di Elias Larsen un paio di corone norvegesi, a sottolineare quanto il denaro avesse influenzato la sua esistenza, quello di Ingrid Freyja Frøset dei pezzi di stoffa colorata particolarmente estrosi ed infine quello destinato a Jason Harvey Walsh una spilla sulla quale era impresso il marchio dell'azienda farmaceutica Walsh Bryne Pharmaceutical Distributors Ltd. I nidi parevano oggetti inanimati ma, nell'esatto momento in cui ci si accovacciava, si poteva percepire un tepore che faceva sembrare quelle forme naturali vive e pulsanti. Una volta seduti ci si sentiva come in una culla calda e confortevole che si modellava a seconda del corpo che ospitava; in parole povere generava una sensazione di pace e di conforto ingannevole. Il maggiordomo osservava gli ospiti con espressione impassibile; nessuno avrebbe saputo dire cosa di frullava nella mente. Attese che tutte le persone si fossero sistemate all'interno degli ampi nidi e, quando ciò avvenne, con la mano libera trasse dalla tasca dei pantaloni una piccola campana che fece tintinnare con precisione tre volte. Nell'attimo in cui il suono si diffuse nella stanza, anche la melodia al pianoforte parve subire un leggero mutamento.
    Simultaneamente, ciascun uovo posto di fianco ai nidi iniziò a schiudersi. Ma questo procedimento vecchio come il mondo non si verificò come si è soliti immaginare, poiché da esse non fuoriuscirono teneri pulcini bensì delle forme grottesche che rapidamente presero le sembianze di persone in carne ed ossa. Illusioni, ovviamente, così nitide e particolareggiate da sembrare vere: emanavano profumi, respiravano, mutavano di espressione, come fossero stati altri esseri umani nella stanza. Non si trattava di figure casuali, ovviamente, ma rappresentazioni di persone che nella realtà dei cittadini sotto esperimento, li avevano segnati nel profondo.


    -- Azioni personaggi: in primis in ciascun post vi chiediamo di narrare l'ingresso del vostro personaggio nella stanza e la sua interazione con la figura uscita dall'uovo (PNG che potrete gestire come meglio riterrete) che ha segnato oppure potrebbe segnare la vita del vostro personaggio o il personaggio stesso incontrandolo in questo momento.
    Vi chiediamo di giostrarvi al meglio l'interazione del vostro personaggio con il PNG, abbiamo cercato la figura che per ciascuno avrebbe portato maggiore scompiglio psicologico (sadiche? Always). Di seguito vi riportiamo ciò che abbiamo pensato dovrebbero dire loro, ma siccome conoscete molto meglio di noi i vostri pg sentitevi liberissimi di aggiungere discorsi che ritenete efficaci e reazioni congrue alle personalità delle vostre creature. Non deve essere tutto pace, amore e lacrime, ma qualcuno potrebbe avere reazioni anche più accese!

    - Adam: il padre
    Il padre di Adam si scuserà con lui per essere fuggito ed averlo abbandonato, dicendogli che è stato un vigliacco e che, tutt'ora, continua a pentirsi di quel gesto che ha segnato l'esistenza di entrambi. Sa che Adam non lo perdonerà mai, ma nonostante questo vorrebbe fargli sapere che lo ama ancora, anche se lui molto probabilmente non vorrà credergli. Gli consiglierà, infine, di non arrendersi mai alla paura e che, se un giorno dovesse avere un figlio, dovrà stargli accanto anche quando gli sembrerà che il mondo gli stia crollando addosso, per evitare di commettere gli stessi errori da lui compiuti.

    - Engel: sé stessa
    Engel si troverà di fronte a sé stessa, in una versione molto differente rispetto a quella a cui siamo abituati, meno trash e più tranquilla. E' la versione futura di sé stessa, come diventerà una volta lasciata Besaid, completamente senza ricordi relativi alla cittadina, ai suoi amici ma soprattutto all'amore della sua vita. Le dirà che non deve necessariamente fare sempre la "forte", che a volte mostrare agli altri le proprie debolezze potrebbe aiutarla a superarle e che, anche se la mancanza di ricordi la sta dilaniando sta cercando di trovare la forza per superare questo scoglio.

    - Tori: la figlia
    Alexandra avrà all'incirca 16 anni e sarà a sua volta incinta in tenera età, ricalcando i medesimi errori della madre da giovane. Chiederà consigli a Tori riguardo la gravidanza e le chiederà di non provare vergogna per lei, poiché è felice delle scelte che ha fatto, scelte senza le quali, a suo dire, non avrebbe mai conosciuto il mondo. Per questo vuole fare per sua figlia esattamente tutto ciò che Tori, sua madre, ha fatto per lei. Una visione di questo tipo dovrebbe sufficientemente destabilizzare Victorianne, instaurando in lei timori, dubbi, paure e molti altri sentimenti.

    - Ivar: sua madre
    Ad Ivar apparirà sua madre, ancora del tutto in salute e quindi capace di ricordare ogni singolo attimo della propria vita e di quella di suo figlio. Gli dirà proprio questo, e cioè che conserva ogni ricordo nella propria mente con estrema accuratezza. Inoltre, gli confesserà di essere fiera dell'uomo che è diventato e gli ricorderà di inseguire i propri sogni, anche se questo dovesse significare lasciare Besaid, un giorno.

    - Fae: sua madre
    La madre di Fae si scuserà con lei per essersi arresa alle proprie paure e aver permesso ai brutti ricordi di interferire con la sua vita reale, portandola così a fuggire da Besaid. Le dirà inoltre di aver provato a tornare ma che quando prese questa scelta fosse già troppo tardi: ormai aveva dimenticato la maggior parte delle cose, anche quelle basilari come le strade di Besaid e la casa in cui aveva vissuto, rimanendo quindi impossibilitata a rintracciarla.

    - Elias: il nonno
    Il nonno di Elias morì sul posto di lavoro, per questo non ha mai potuto dirgli addio personalmente. Si scuserà con il nipote per questo e lo ringrazierà per non essersi mai arreso, neanche nei momenti difficili che hanno susseguito la sua morte e che hanno portato la famiglia Larsen ad una situazione precaria. Lo ringrazierà per questo e gli dirà di continuare a prendersi cura della famiglia.

    - Ingrid: suo padre
    Il padre di Ingrid vorrà chiedere il suo perdono per tutta la violenza che in passato ha fatto subire alle donne della sua vita, lei compresa. Si pentirà di averle abbandonate, ammettendo di aver compreso solamente in un secondo momento cosa avesse perso e che valore avesse realmente per lui quella famiglia, l'unica che fosse mai riuscito a costruirsi.

    - Jason: suo figlio
    A Jason apparirà il figlio, ormai sulla trentina, che non è mai venuto alla luce a causa di un aborto inaspettato della moglie. Si presenterà spiegando al padre di essersi sposato con una donna fantastica dalla quale ha avuto, da pochissimi giorni, il primo figlio. Un maschietto in salute che sarebbe stato felice di conoscere il nonno, anche se questo naturalmente non sarà possibile.

    -- E poi? Una volta terminati i dialoghi tra i vostri personaggi ed i PNG, il maggiordomo si posizionerà al centro del cerchio formato dai nidi e, con grazia pacata, alzerà il coperchio del vassoio rivelandone ai presenti il contenuto: un indizio su dove dovranno recarsi.
    Ad accogliere i loro sguardi curiosi, infatti, vi sarà un labirinto in miniatura, una fedele riproduzione di quello che si trova fuori dalle mura del castello d'inverno e sarà proprio lì che i nostri giochi riprenderanno vita. Terminata la rivelazione, infatti, i nidi e le uova svaniranno nel nulla ed i vostri personaggi verranno catapultati come per magia nel luogo indicato.

    Turni: (Attenzione: per coerenza narrativa, i turni sono fissi. Non saranno possibili cambi)
    I partecipanti avranno a disposizione 3 giorni per postare la propria risposta. Se questa non perverrà entro il tempo stabilito, salterete il turno per poi riprendere dal successivo.

    1. Adam
    2. Engy
    3. Tori
    4. Ivar
    5. Fae
    6. Elias
    7. Ingrid

    Qualsiasi dubbio o domanda riguardante la Quest potete porgerla in questo topic.

    Edited by Comet - 19/4/2018, 21:04
     
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    Feels like we're on the edge right now
    I wish that I could say I'm proud
    I'm sorry that I let you down
    Let you down
    All these voices in my head get loud
    I wish that I could shut them out
    I'm sorry that I let you down
    Let you down.


    È colpa mia. Non ho saputo come proteggerti. Le parole di Engel riecheggiavano nella mente confusa e distrutta di Adam, che nonostante avesse smesso di demolire telepaticamente la stanza in cui si trovava, riusciva a percepire i pensieri della compagna forti e chiari - la sua abilità non si assopiva mai con lei. Appoggiando la testa al muro, il ragazzo chiuse gli occhi, noncurante della presenza della bambina, nè delle sue parole. L'immagine del volto del suo amore colto da una morte orribile che lui stesso le aveva brutalmente inferto non lo lasciava, era rimasta impressa davanti a lui come se fosse vera; per questo, i movimenti leggeri della testa della donna contro il petto e le sue carezze tra i capelli quasi non li avvertiva, come se fossero meno reali di quello che aveva visto fino a qualche secondo prima. Non era vero, non era Engy che aveva colpe; nessuno, a parte il biondino, aveva commesso azioni deplorevoli per sport. Adam aveva ferito fisicamente le persone attorno a sè, Engel psicologicamente. Ma era davvero colpa loro? No. Nessuno avrebbe potuto proteggerli da forze esterne come quella entità, o l'incubo in cui tutti erano caduti. Eppure, perchè il guardiacaccia trovava così difficile pensarlo? Forse, perchè tutti loro - lui, la rossa, Ivar, la bruna misteriosa, e gli altri avevano visto quello che di peggio le loro particolarità potevano causare. Erano diventati gli esecutori materiali di un gioco terribile mirato ad uccidere. Lo shock era stato immenso per l'anima incrinata e fragile del ragazzo, che si sentiva completamente a pezzi, agitatissimo e sperduto.
    Riaprendo gli occhi, Adam potè constatare il risultato che la sua paura aveva scatenato sugli altri. Engel fu la prima persona che le sue iridi scure e spente incontrarono. La sua spalla sembrava lussata, la sua mano era sanguinante, perforata dalla mina con cui stava disegnando contro la sua volontà; la sua schiena era graffiata e tagliata da numerose schegge di vetro. Il cuore si strinse nel petto del giovane, constatando le condizioni della donna - cosa aveva fatto? Sollevando lentamente lo sguardo dall'amata, uno scenario di pura distruzione incontrò il suo campo visivo, non solo nell'arredamento della sala, in cui ora entrava l'aria fredda proveniente dalle finestre frantumate, ma anche nei suoi amici. La donna bruna e familiare era tagliata anche lei nel palmo della mano e in altre zone del corpo, sembrava stanca ed era sdraiata per terra. Il biondo malefico era sotto il pianoforte, stordito, ed a giudicare dalla posizione delle sue mani doveva aver subito un bel colpo alla testa. Il ragazzo rosso era esausto, anche lui ferito da delle schegge di vetro sulla schiena; era sulle ginocchia, visibilmente provato dalle contusioni riportate, vicino a Fae mentre guardava l'altra donna dai capelli castani - dal suo sguardo, era facile evincere che dei sentimenti profondi lo portassero verso di lei, seduta sul divano con la bambina, terrorizzata. Il guardiacaccia compì quella ricognizione nel giro di qualche secondo, poichè lo sguardo colmo di ansia e sgomento del suo migliore amico quasi lo chiamò a rivolgergli la sua attenzione e lucidità - cosa che non poteva offrirgli, dato che era in uno stato gravemente confusionale. Ivar era appoggiato ad un divano poco distante, alcuni vetri gli perforavano la cute dell'avambraccio destro, e sembrava essere indebolito da altri dolori che per il boscaiolo non era possibile identificare. Tremava così tanto, povero Ivar. “Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace…” Ripeteva lui in flebili sussurri, mentre Fae lo stringeva a sè per fargli capire che tutto era finito - almeno per il momento. Quel bravo ragazzo, così affabile e amichevole ora si sentiva un mostro. Lui poteva capirlo, dritto nel profondo. “Mi dispiace Kylo, mi dispiace…” L'unica cosa che il guardiacaccia riuscì a fare, in preda al più totale smarrimento, fu scuotere appena il capo, come a dirgli di non preoccuparsi, puntando lo sguardo ancora velato di lacrime su di lui. Non aveva idea del motivo per il quale il suo amico si stesse scusando così disperatamente; non sapeva nemmeno perchè Engel lo stesse facendo. Non era stata colpa loro, nulla era stato colpa loro. Ivar lentamente si sfilò la scheggia di vetro dalla pelle, e fu come se l'aveva tolta ad Adam stesso. Stava soffrendo da morire, nel vedere tutte quelle persone ferite a causa sua. Ivar.. Finalmente, era come se qualcosa fosse scattata nel giovane che gli fece riprendere l'uso già di solito parsimonioso della parola. Chissà cosa doveva essere successo al falegname, che cosa lo avesse piegato tanto da avere un attacco di panico.“Non riesco a fermarlo!” Il suo tono di voce echeggiava quasi lontano alle orecchie del guardiacaccia, che stava avvertendo tutto come se fosse in una bolla, con i sensi attutiti. Fae era stata colpita da qualcosa di orribile al braccio, la sua pelle era emaciata e dalla pelle innaturalmente pallida - ecco, ora era chiaro il motivo della disperazione di Ivar. Nei mesi di conoscenza con lui, Adam aveva imparato come funzionasse l'abilità dell'amico, e ci teneva sempre a rassicurarlo, a non farlo sentire mai sbagliato. Ivar non era un mostro, Ivar era Ivar - un gentile ragazzo dalla forza enorme. Dal canto suo, Fae era anch'ella stata ferita da una grande quantità di tagli, ed era appoggiata contro il cugino di Engy, abbracciandolo con una stretta sentita attorno al petto. «Ce la fai, puoi resistergli. Puoi controllarlo, Ivar. Non sei solo, siamo tutti qui.»
    Proprio quando le parole della ragazza arcobaleno arrivarono all'udito di Adam, lui abbassò nuovamente lo sguardo verso Engel. Un nodo alla gola gli impediva quasi di respirare, mentre le ferite della donna erano davanti ai suoi occhi. Si sentiva così male, arrabbiato con se stesso, terrorizzato, in colpa. Avrebbe voluto abbracciare la sua compagna e farle sentire che era al sicuro, confortare Ivar dicendogli che lui non era un mostro e dare forza agli altri. Eppure non riusciva, non riusciva nemmeno a spostarsi ed avvicinarsi alla donna che amava. Era ancora pietrificato nel residuo della paura appena provata, nonostante la visione fosse conclusa - temeva ancora di fare del male solo pensandolo. L'oscurità era calata, ed il giovane non la temeva più. In compenso, aveva visto ciò che di più spaventoso gli sarebbe potuto succedere, e questo lo rese vuoto ed annientato. Un braccio della rossa gli si allacciò attorno alla vita, spezzando lo stordimento in cui era piombato; solo allora il guardiacaccia percepì una fitta di dolore alla coscia. I graffi sul volto non gli facevano male, ma una sensazione pungente gli fece portare nella cecità data dal buio una mano sulla ferita, tastandola molto leggermente. Ecco, un pezzo di vetro, lo sentiva. Lentamente lo afferrò e con decisione lo tirò fuori dalla carne, soffocando un sommesso lamento tra le labbra.

    Yeah, I guess I'm a disappointment
    Doing everything I can, I don't wanna make you disappointed
    It's annoying
    I just wanna make you feel like everything I ever did wasn't ever tryna make an issue for you
    But, I guess the more you
    Thought about everything, you were never even wrong in the first place, right?
    Yeah, I'ma just ignore you
    Walking towards you, with my head down, lookin' at the ground, I'm embarrassed for you
    Paranoia, what did I do wrong this time? That's parents for you
    Very loyal?
    Shoulda had my back, but you put a knife in it, my hands are full
    What else should I carry for you?
    I cared for you.


    La bambina era sparita, Adam lo poteva sentire istintivamente. La minaccia - per il momento - era scongiurata. Fu la ragazza castana, quella che il rosso osservava con tanta preoccupazione, che trovò una chiave proprio nel pianoforte che aveva pianto note per tutto quel tempo, accompagnando la sofferenza di quel gruppo di sventurati. « Signori, se non avete obiezioni da fare, direi che è arrivato il momento di andarcene da questo posto di merda » La voce scattante della donna risuonava come l'invito di un generale che incitava i suoi soldati a mettersi in marcia, scuotendo il boscaiolo dal suo stato di shock almeno un po'. Prendendo un grande respiro, lui si rese conto, mentre si alzava indolenzito, che doveva essere forte per Engel, Ivar e le brave persone che si trovavano lì; specialmente per Engy, per evitare di provocarle altro dolore. Scuotendo appena il capo, il ragazzo cercò di togliersi almeno un minimo l'agitazione di dosso, mentre il passo zoppicante della bruna era ben udibile nel momento in cui lei si avvicinò al portone della sala. Grazie alla sua particolarità, lei li aveva tirati fuori da quella stanza maledetta. Piano piano, tutti iniziarono ad uscire, alcuni più malandati di altri, ma almeno tutti vivi.
    Adam restò indietro, lasciando persino Engel per qualche minuto, aspettando che l'uomo biondo dalle fattezze atletiche ma più sottili delle proprie varcasse la soglia della porta. Solido come un armadio gli si piantò davanti, guardandolo dall'alto in basso per qualche istante. Senza mediare tra emozioni e razionalità, il guardiacaccia mollò un gancio brutale contro il naso del biondo. Questo è per Engel, Fae e per me. Guarda che mi hai fatto fare... Mormorò il giovane, la sua voce bassa e profonda che vibrava quasi come se stesse ringhiando; torreggiava sulla figura dell'altro uomo, imbrigliando flebilmente la rabbia che lo infiammava in quei momenti, ripensando a come si stava sentendo ed a quanto avessero sofferto tutti gli altri a causa sua. Non si era trattenuto come Ivar con la bambina, aveva invece assecondato l'istinto, che gli suggeriva di difendere quello che per lui contava. Ti sei divertito abbastanza. Avvicinati ai miei amici o alla mia donna e ti farò molto più male di così. Chinandosi minaccioso senza alcun timore sull'altro uomo, che aveva almeno un minimo perso l'equilibrio, il boscaiolo sentì il respiro dell'altro sulla faccia, sfiatando contro il suo naso rotto. Ormai non puoi farmi più niente. Era chiaro che il principino non fosse un avversario da sottovalutare, nè una persona di cui fidarsi; cionondimeno, Adam era completamente noncurante delle reazioni del biondo e terribilmente serio mentre lo minacciava. Il ragazzo si sentiva così profondamente incrinato nell'anima da non avere più nulla da perdere con quel damerino depravato dalle abilità nascoste. Si sarebbe occupato personalmente nel tenere alla larga quell'individuo. Era come se sentisse di avere un conto in sospeso con quella persona: aveva sfottuto Engy, terrorizzato Fae e scatenato nel più orribile dei modi i poteri pericolosi che lui faticava a gestire. Difatti, fu proprio quello stato di shock ad aver fatto scattare quell'impulso di piena collera e protezione in Adam. Forse non avrebbe dovuto colpire quell'uomo, forse avrebbe dovuto essere superiore a lui e non abbassarsi al suo livello, ma la verità era che "livello" più basso di una persona malvagia come il biondo non c'era. A stento, il guardiacaccia si era controllato nel non riversare tutti i suoi sentimenti negativi su quella persona. Non poteva, non doveva. Che avrebbero pensato i suoi amici ed il suo amore di lui? Che avrebbe pensato lui di se stesso?

    Yeah, you don't wanna make this work
    You just wanna make this worse
    Want me to listen to you
    But you don't ever hear my words
    You don't wanna know my hurt, yet
    Let me guess you want an apology, probably
    How can we keep going at a rate like this?
    We can't, so I guess I'ma have to leave
    Please don't come after me
    I just wanna be alone right now, I don't really wanna think at all
    Go ahead, just drink it off
    Both know you're gonna call tomorrow like nothing's wrong
    Ain't that what you always do?
    I feel like every time I talk to you, you're in an awful mood
    What else can I offer you?
    There's nothing left right now, I gave it all to you.


    Allora, Adam si allontanò dall'altro uomo, raggiungendo Engel immediatamente. Tuttavia, non ebbe il tempo di fare un passo fuori dalla sala da ballo, che un'altra stanza si materializzò davanti alle iridi scure del ragazzo. Una danza tra luci ed ombre, silenziosa e armonica, donava uno spettacolo tetro eppure affascinante agli avventori. Rispetto allo spazio precedente, si rivelò davanti agli occhi di tutti un posto più spoglio, come se ogni arredo inutile fosse stato rimosso, per fare spazio ad un altro tipo di decorazione, più funzionale. La finestra era semi-aperta, e le tende pesanti di velluto fluttuavano appena per via del vento che rinfrescava l'aria dall'esterno. L'oscurità dominava anche in quell'ambiente, se non fosse per la luce dorata delle candele che fioca illuminava gli spazi. Ciò che colpì le iridi del guardiacaccia fu la brillantezza di quelle dell'unico individuo nella stanza; sembrava che li stesse aspettando. Che fosse un altro spettro esattamente come quella bambina? La sua figura era composta, posata, esile ma solida. La barba e gli indumenti di quello che sembrava un maggiordomo gli conferivano un'aria autoritaria e austera. Indossava dei guanti bianchi, come se sotto quella stoffa ben stirata ci fosse uno scheletro che camminava, appena coperto da uno strato di pelle e carne. Così come la bimba sinistra, quell'uomo tremendamente anacronistico sembrava non essere reale, una temibile ed oscura caricatura di umanità. In quel momento, il boscaiolo si ricordò della grande quantità di thriller e di gialli che aveva visto e letto, e si ricordò della frase "è sempre colpa del maggiordomo". E se fosse vero? E se volesse ucciderli?
    Le narici di Adam non si erano ancora abituate alla mancanza di polvere e fuliggine - l'odore delle quali era ancora persistente e quasi attaccato ai suoi vestiti. L'udito gli venne catturato da una nuova melodia, che aleggiava nell'aria stavolta senza neanche lo strumento sofferente che la stava producendo. Essa era calma, triste, inquietante solo perchè ormai il ragazzo aveva associato la presenza della musica a qualche terribile evento imminente. Assieme all'armonia che avvolgeva la stanza, fluttuavano anche delle grandi uova, che erano poste accanto a dei nidi. Per qualche attimo, le sopracciglia del giovane si aggrottarono. Sembrava quasi una di quelle visioni che si hanno quando si è preda di una qualche droga allucinogena. Uova enormi accanto a dei grossi nidi? Davvero? Inclinando leggermente il capo, il guardiacaccia riconobbe la trama degli arbusti che componevano quegli ampi giacigli - ormai abituato a riconoscerne le forme per via del suo lavoro. Si trattava di cicogne? Tutto ciò sembrava avere una valenza metaforica alquanto sconfortante, dal suo punto di vista. Gli occhi color nocciola del boscaiolo tornarono poi sul maggiordomo creepy, che era fermo, immobile come una statua se non fosse per il movimento ritmico che il suo indice compiva, indicando ciascun nido. Quella attitudine morta, assieme alla totale mancanza di parola da parte dell'uomo, fece capire al guardaboschi che si sarebbe potuto trattare di un'altra entità, di qualcosa di terrificante e surreale, tant'è che gli venne quasi l'impulso di avvicinarsi e attraversare il corpo di quel maggiordomo con una mano, non fosse per la paura che lo fermava e gli imponeva di schermare l'amata, per quanto possibile.
    Accovacciandosi, il giunco umano indicò ai presenti cosa avrebbero dovuto fare, e allora Adam rivolse subito lo sguardo - che aveva perso parte della sua luce - ad Engel. Avrebbero davvero dovuto farlo? Dovevano davvero sedersi in quei nidi come dei pulcini troppo cresciuti? E se fossero morti? Se fosse tutta una trappola? I sensi del ragazzo lo mettevano all'erta, lo spingevano ad essere attento ed ipersensibile nonostante lo stato confusionale in cui era. Doveva cercare di essere il più lucido possibile per capire se si fosse trattata di una situazione mortale. Probabilmente, se non fossero entrati ed accomodati tra quegli arbusti, sarebbero morti lo stesso; forse quello era l'unico modo per andare avanti e scappare. Avevano forse scelta? Abbassando appena lo sguardo, il giovane sentì la mano sfiorare quella ferita della compagna, e a quel leggero movimento lui rabbrividì, ricordandosi di ciò che era avvenuto solo qualche minuto prima. La stanchezza che lo avrebbe normalmente colto dopo un'emissione tale di potere non si presentò, sostituita dall'adrenalina che il timore gli aveva instillato, pronto a farlo scattare ed ingegnarsi per salvare la sua vita e quella delle persone a lui care. Qualcosa, nell'anticamera del cervello del guardiacaccia, gli suggeriva di stare particolarmente attento, ma che non sarebbe accaduto nulla di male. Forse, quei nidi non erano altro che una chiave verso l'esterno - tanto la prova più ardua era stata superata. Forse, tutti loro avevano già sofferto abbastanza e adesso era arrivato il momento di tornare a casa.
    Mentre tutti questi pensieri aleggiavano nella mente di Adam, i suoi occhi passarono in rassegna quei nidi di cicogna, identificando in ognuno un oggetto che si legava alle identità dei presenti. Dunque, qualcuno lì li conosceva, non solo superficialmente ma aveva compiuto ricerche approfondite, per sapere, ad esempio, che il ragazzo era stato un poliziotto prima di andarsene da Besaid e perdere la memoria. Difatti, nel nido destinato a lui giaceva una pistola di ordinanza, che lui riconobbe subito. Di fianco, nel nido seguente, vi era una ciocca di capelli rossi, uguali a quelli di Engel. Almeno, se avessero dovuto sedersi, sarebbero stati l'uno accanto all'altra. La paura dell'ignoto fermò il giovane, che considerò che sarebbero potuti essere sballottati in qualsiasi luogo, dato il modo in cui gli spostamenti del gruppo erano avvenuti fino a quel momento. Nonostante queste esitazioni, il guardiacaccia capì che non c'era altro modo per proseguire se non sedersi tra quegli arbusti come indicava il maggiordomo. Allora, il bruno rivolse lo sguardo verso la compagna, fissando quelle stupende iridi ambrate nelle proprie. Amore.. Mi dispiace, per quello che è successo. Mormorò dispiaciuto, sfiorandole appena una guancia col dorso della mano, per poi andare a sedersi in quel nido misterioso. Una volta accovacciato tra gli arbusti, il corpo di Adam fu accolto in un tepore gradevole e protettivo, un po' come se si trovasse nel grembo materno. Era una sensazione che quasi riusciva a lenire il dolore e l'indolenzimento, e che se si fosse presentata in una situazione meno pericolosa, lo avrebbe indotto al torpore quasi subito. Era come se quel nido lo invitasse a rilasciare la tensione dai muscoli e dalla mente, come se lo stesse riportando ad uno stato di serenità primordiale. Un suono, argentino e ripetitivo, indusse il ragazzo a sollevare lo sguardo. Tutti si erano accomodati, e quella figura sinistra aveva suonato una campanella tre volte.

    Yeah, don't talk down to me
    That's not gonna work now
    Packed all my clothes and I moved out
    I don't even wanna go to your house
    Everytime I sit on that couch
    I feel like you lecture me
    Eventually, I bet that we
    Could have made this work and probably woulda figured things out
    But I guess that I'm a letdown
    But it's cool, I checked out
    Oh, you wanna be friends now?
    Okay, let's put my fake face on and pretend now
    Sit around and talk about the good times
    That didn't even happen
    I mean, why are you laughing?
    Must have missed that joke
    Let me see if I can find a reaction
    No, but at least you're happy.


    Tre rintocchi, e l'uovo che si trovava accanto ad Adam iniziò a schiudersi, così come le sue labbra per lo stupore. Il cuore riprese a battergli nel petto sempre più forte, senza tregua. Si era appena calmato di poco dallo shock di qualche minuto prima, e ora già riprendeva a martellare nella cassa toracica, come ad avvertire il suo proprietario che doveva stare all'erta, che qualcosa stava per succedere. istintivamente, il ragazzo si rannicchiò leggermente di più, come a volersi sottrarre dalla visione che si era palesata davanti ai suoi occhi. Una figura quasi informe e grottesca uscì dall'uovo, provocando nel giovane il riflesso di scappare o di attaccarla, quando però, lentamente, quest'ultima iniziò ad assumere forma umana. Man mano, un uomo iniziò a delinearsi, assumendo le fattezze di una persona che il guardiacaccia conosceva. Suo padre. Il sospetto e la circospezione iniziale si trasformarono in stupore, facilmente leggibile sul volto di Adam, che non riusciva a staccare gli occhi da quell'uomo di cui sapeva così poco e che eppure sentiva essere parte di lui. Papà. Quell'unica parola gli scivolò incontrollata dalle labbra, in un tono molto duro ma più languido di quanto non si aspettasse. Al ragazzo quasi parve di non sentire altro se non il cuore che continuava a battere ferocemente, e si ricordò di quando con Engel aveva visto per la prima volta Han, in un ricordo. La ragazza gli aveva riportato tutti i suoi effetti personali dalla centrale, e nella scatola c'era anche una catenina d'oro con il ciondolo a forma di dadi. Toccandola, il giovane venne immerso in una immagine che gli era rimasta chiusa nella mente, riemersa solo in quel momento: quella dell'abbandono del padre. Infondo, Adam non si ricordava di lui, e forse aveva faticato da morire nel lasciarsi indietro quell'episodio; eppure, come mai faceva così male ripensare a quel momento, e rivedere suo padre? Nonostante custodisse di lui un solo ricordo, il ragazzo lo aveva recuperato da poco, ed era inciso dolorosamente nel suo cuore. Quelle parole - "Tieni figliolo. In guerra mi ha portato fortuna, voglio che ce l'abbia tu" - pronunciate mentre Han regalava quella brillante catenina al figlio ancora piccolissimo risuonavano ancora alle orecchie del giovane. Poteva sentire ancora sul collo la freschezza e la pesantezza della collana, troppo larga e lunga per un bambino. Adam ricordava la sensazione dell'erba tra le dita dei suoi piedini, mentre giocava in giardino. "Han, che fai con quel borsone? Han! Fermo! Non sai quello che fai!" Era come se il ragazzo potesse sentirle urlate nel suo orecchio, quelle disperate preghiere di sua madre, di non perdere l'uomo che amava, di non farsi spezzare il cuore. Eppure lui andò via, varcando la soglia di casa. "Lo so benissimo, invece." Senza voltarsi indietro, il veterano era sparito, mentre gli occhioni castani del piccolo si puntarono su di lui, correndo dalla mamma. Le aveva chiesto dove fosse il papà, perchè se ne stesse andando così, impedendole di fermarlo. Gli occhi della donna erano gonfi di lacrime, che con estrema difficoltà lei cercava di non lasciar uscire per proteggere suo figlio, cosa che fece anche a parole. "E’ andato via per combattere i cattivi come faceva prima che tu nascessi, non so quando tornerà. Nel frattempo, ci sarà la mamma con te". Quella bugia non era altro che un muro, un sottile velo di menzogna che Leia sperava con tutto il cuore proteggesse il suo bambino dalla terribile verità che suo padre non volesse avere più niente a che fare con loro, che la vita che avevano costruito gli stava stretta.
    Scusami, figliolo. Per tutto... per essermene andato ed aver abbandonato te e tua madre. Il petto di Adam si muoveva regolarmente, sollevato da ampi respiri che gli servivano per calmare le emozioni che stavano prendendo il sopravvento dentro di lui, già indebolito psicologicamente. Lui restò in silenzio, mentre osservava la figura del padre. Era invecchiato, rispetto alla sua visione. Il suo volto era segnato dal tempo, eppure manteneva una corporatura asciutta, quella di uno che se la sapeva cavare, che era stato un soldato. Chissà che fine avesse fatto. Il ragazzo non ne aveva idea, a malapena riuscì a riconoscerlo. La voce di Han era come nel ricordo che il giovane aveva rivissuto, ferma e brusca, ma anche sincera, velata dal sentimento. Un nodo salì alla gola del guardiacaccia, che sentì quelle parole estranee eppure così tanto desiderate. Questa dicotomia, nel parlare con una persona che gli era sconosciuta eppure così visceralmente legata a lui lo stava facendo impazzire. Era tutto così reale, eppure era come se si trattasse di un orribile scherzo. Chiuso nel silenzio, il boscaiolo lasciava vagare lo sguardo, man mano più inflessibile ed duro verso il padre, mentre una serie di sentimenti negativi lo investirono: senso di incompletezza, malinconia, rabbia, delusione. Ho fatto un grosso errore, sono stato un vigliacco. Non è quello che ho imparato, sai, in guerra. Mi vergogno e mi pento di averti lasciato. Dovevo restare. Le parole di Han erano crude, suonavano così vere, così deliziosamente calzanti ai desideri di Adam. Fu proprio questo a fargli aggrottare le sopracciglia, sempre più irritato da quelle frasi. Credi che sia stupido? Non venire a riempirmi di balle. Il tono del ragazzo era amaramente arido, mentre scuoteva la testa. Se ti fossi davvero pentito saresti tornato, avresti portato qualcosa con te per ricordarti di noi. E invece no, tu hai preso tutto e te ne sei andato! Man mano che parlava, la collera si insinuava sempre di più nelle vibrazioni profonde della voce del giovane, che si rendeva conto di quanto determinante alla sua vita l'abbandono di suo padre fosse stato. Forse, se fosse rimasto, lui non avrebbe mai lasciato Besaid e perso la memoria - anche se ancora non si era ricordato del motivo, era certo c'entrasse con Han.
    Poi, un dubbio terribile si insinuò nel cuore di Adam. Dunque, lui non era stato abbastanza? Lui, assieme a sua mamma, aveva forse deluso le aspettative di suo padre? Che cosa avrebbe dovuto fare per farlo rimanere? Infondo, era solo un bambino. Gli occhi del veterano erano così pieni di sentimento, quasi velati di lacrime; il ragazzo distolse lo sguardo da lui incapace di reggere l'intensità di quelle iridi. Senza lasciar proseguire l'uomo nel suo discorso, il giovane sentì gli occhi inumidirsi, appena appena. Non eravamo abbastanza, non è così? Io e mamma. Non siamo stati abbastanza da farti restare. Dov'è che ho sbagliato, dov'è che ti ho deluso?! Ero così piccolo e tu hai scelto di andartene comunque. Il ruggito che uscì dalle labbra del guardiacaccia divenne sempre più tremolante, spezzato dall'emozione ogni parola che pronunciava. Forse, Han non aveva trovato abbastanza motivazioni per restare; un militare che era stato in guerra, che aveva affrontato la morte forse non era adatto alla vita di famiglia in una piccola città Norvegese. Il boscaiolo si ritrovò a pensare che forse proprio il fatto che fosse nato aveva scoraggiato il padre nel restare a Besaid.
    Abbassando lo sguardo, Adam si impose di non lasciarsi sfuggire nemmeno una lacrima, non per un padre che lo avea rifiutato. Si era seccato di lui, era andato via deliberatamente, troncando nettamente non solo i rapporti con il figlio, ma anche con la donna che lo amava. Questa prospettiva faceva gelare il sangue nelle vene del ragazzo; lui non avrebbe mai potuto abbandonare Engel, sarebbe stato come cavarsi il cuore dal petto. Evidentemente, il sentimento che univa i suoi genitori non era lo stesso, soffocato da due indoli forse troppo diverse. Ciò che faceva ribollire il sangue del giovane di rabbia era proprio che Han se ne fosse andato eliminandolo di proposito, consapevole di quel che accadeva a chi lasciava la cittadina. Aveva voluto cancellarlo dalla memoria. Fu proprio in quel momento, che il guardiacaccia si sentì mancare il respiro nei polmoni, come se stesse annegando in un mare di panico. Lui aveva fatto lo stesso. Era arrivato a Besaid per caso prendendo servizio come guardiacaccia, non aveva con sè nessun nome, nessun indirizzo, nessun numero. Non si era lasciato indietro nessuna traccia per tornare a casa. Che fosse stato anche lui come suo padre? Fu proprio questo dubbio crudele a fargli sfuggire le lacrime che iniziarono a rigargli pesantemente le guance. Perchè era andato via? Cos'era successo? Aveva spezzato per la seconda volta il cuore di sua madre? Quali ferite l'avevano portato a farlo? Tutte quelle domande lo stavano facendo vagare disperatamente nella sua memoria bloccata, non riuscendo a ricordare.
    Fu la voce di Han a strapparlo via da quei pensieri. So che non mi perdonerai mai, ma sappi che non ho mai smesso di amarti, Adam. Consapevole solo in quel momento di non aver mai sentito il suo nome pronunciato da suo padre, Adam continuò a tenere le iridi color nocciola in quelle dell'altro uomo, deglutendo a fatica mentre le sue parole lo avevano colpito al cuore come una freccia dolorosa. Non ti credo. Rispose lui, rassegnato alla realtà, con la voce ovattata dal pianto. Non mi hai mai amato, è questa la verità. Ma l'avevo capito da tempo, lo sentivo. Quelle gocce salate che scivolarono via dagli occhi del ragazzo raggiunsero le sue labbra; sapevano di dolore. Sospirando pesantemente, il giovane si ritrovò ad accettare in quei momenti l'abbandono del padre, sapendo che non avrebbe potuto farci niente, che la vita era fatta anche di ingiusta sofferenza. Io nemmeno ti conosco. Perchè allora fa così male? Gli chiese, mentre le lacrime uscivano silenziose dagli occhi scuri, probabilmente rivolgendo ad Han l'unica domanda che aveva le sembianze sbiadite di una interazione tra padre e figlio. Fu allora che l'uomo si avvicinò a suo figlio, appoggiandogli una mano sul volto in una carezza. Figlio.. Tu ed io saremo sempre legati. Anche se hai perso la memoria, io sarò sempre con te. Anche se tu credi di avermi perso, il nostro legame lo sentirai sempre nel cuore. Lo sentirai qui. Toccandosi il petto, Han indicò che il rapporto che condivideva con il figlio era primitivo, vecchio come il mondo: era il sangue che li univa, che li teneva visceralmente insieme, anche se Adam l'avesse odiato e avesse cercato di cancellare i suoi ricordi. Il ragazzo sussultò impercettibilmente nel sentire il tocco caldo del palmo della mano callosa del padre sulla guancia, umida per le lacrime che scendevano con lentezza. Eppure, non si ritrasse, ancora spaccato in due tra una innominabile collera nei confronti di quell'uomo che l'aveva abbandonato, ed un desiderio profondo di ricongiungersi a lui.
    Tra poco devo andare. Ma tu non arrenderti mai. Non ti arrendere alla paura. Ci saranno sempre dei bastardi che ti vorranno far dubitare di te stesso, e a volte la vita sarà dura, ma tu non cedere. Nel pronunciare quei consigli, il veterano lasciò scivolare con affetto la mano sulla guancia di Adam, riportando poi il braccio lungo il fianco. Fu allora che il ragazzo scosse leggermente il capo, più ricco di determinazione di prima. Non è mai stato facile, e penso neanche per te. Ma io so quello che devo fare. Io ho chi mi ama e chi non mi abbandonerà mai. Se ho una certezza, è che non devo diventare come te. L'amarezza e la delusione sgorgavano dalle labbra del giovane, assieme alle parole che stava rivolgendo a suo padre. In quei momenti, il pensiero del guardiacaccia si rivolse ad Engel, ai suoi amici e anche a sua madre. Non sapeva dove fosse, e il pensiero di riprendere i contatti ed affrontare il passato lo terrorizzava. Eppure, non voleva ripetere gli stessi errori che Han aveva commesso, e che forse lui aveva già fatto. Doveva rimediare, doveva coltivare l'amore che gli veniva regalato, non spezzarlo. Tu sei un uomo sveglio, hai capito. Non devi diventare come me. Odio fare le prediche figliolo, ma questo te lo devo dire. Se mai avrai un figlio, resta al suo fianco, anche se la situazione ti sembrerà insostenibile e ti sentirai crollare il mondo addosso. Ricordami sempre, per non rifare i miei errori, Adam. E dopo aver pronunciato quell'ultimo consiglio, la figura di Han iniziò a sbiadire, mentre teneva lo sguardo puntato su Adam, che restò immobile, ora reggendo faticosamente il peso di quello sguardo. Forse non avrebbe mai più rivisto il padre, forse si trattava solo di un'illusione, e quell'uomo in realtà non pensava nulla di quello che aveva detto. Eppure, le lacrime non riuscivano a smettere di scendere dagli occhi del ragazzo, che si sentì crescere una voragine nel petto, sempre più a pezzi. Ecco che Han andava via, per la seconda volta. Abbassando la testa, il giovane si portò una mano agli occhi, per cercare di fermare lo sgomento che lo aveva investito, eppure non sentì altro che dolore, che gli stringeva il cuore e l'addome, che si contraeva durante il pianto. Come sempre, il guardiacaccia era silenzioso, anche mentre sentiva le gocce bollenti bruciargli quasi la pelle, ma nel suo cuore la sofferenza era lancinante.
    Ancora più scosso di prima, Adam venne riportato lentamente a quella stanza, dove il maggiordomo era posizionato, esattamente al centro del cerchio fatto di nidi. Portandosi le mani sulle guance, il ragazzo se le asciugò alla bell'e meglio, cercando anche di calmarsi prendendo respiri profondi. Non sapeva cosa sarebbe successo, ma qualcuno aveva seriamente giocato con le ferite del suo passato, e questo l'aveva destabilizzato ulteriormente. Da quando aveva messo piede in quel castello, un trauma dopo l'altro, lui era rimasto profondamente provato. Nonostante ciò, sapeva che avrebbe dovuto tranquillizzarsi, che piano piano avrebbe dovuto riprendere in mano le redini delle sue emozioni, senza permettere che qualcuno si divertisse a manipolarle. Doveva ricostruirsi un equilibrio, per quanto fragile e difficile da mantenere fosse. Mentre respirava silenziosamente ma profondamente, il guardiacaccia notò il maggiordomo inquietante sollevare la cloche che aveva sul palmo della mano, rivelando un labirinto di dimensioni minuscole, come se stesse ad indicare un luogo - forse quello in cui sarebbero dovuti andare. Difatti, nel giro di pochissimi secondi, tutto svanì e il gruppo venne teletrasportato come per magia esattamente nel posto che il maggiordomo aveva mostrato loro: all'ingresso del labirinto. La prima persona che Adam cercò con lo sguardo era Engel, che si trovava al suo fianco. Fu in quei momenti, che il ragazzo realizzò che non si trattava della fine del loro percorso ma solo l'inizio. Qualcuno voleva che quel manipolo di Besaidiani arrivasse al limite ed oltre, che superasse una serie di prove per qualche motivo distorto e perverso. Adam l'aveva capito: loro erano tutt'altro che arrivati alla via di casa; quell'intreccio di foglie davanti ai loro occhi non era che un'altra fase in quel sadico gioco di morte.

    Feels like we're on the edge right now
    I wish that I could say I'm proud
    I'm sorry that I let you down
    Oh, I let you down
    All these voices in my head get loud
    And I wish that I could shut them out
    I'm sorry that I let you down
    Oh, let you down
    I'm sorry
    I'm so sorry now
    I'm sorry
    That I let you down.

     
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    Time, lonely dreams
    I have lost everything
    Seasons change, colors fade
    Lifeless flowers on the floor
    Blooming on grave



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    Rossa, come sei arrivata qui? La voce del boscaiolo raggiunse le sue orecchie come una splendida e bassa melodia: quanto era felice quando stava tra le sue braccia, in un caldo abbraccio. Poteva anche trovarsi in un incubo ad occhi aperti, ma se stava vicina ad Adam –e soprattutto vigile– niente poteva impaurirla. O quasi.
    Ti ho... In effetti era imbarazzante da dire. Seguito. Sì, non era proprio una cosa di cui andare fieri: Volevo vedere chi fosse il tizio che mi aveva spedito il curioso biglietto... ti ho visto avvicinarti alla casa degli specchi guardingo e... ti ho pedinato. Sì, ok, era da ricovero. Si nascose il viso nel colletto dell'enorme maglione, emettendo suoni acuti per la vergogna.
    Alla domanda “dove siamo?”, il boscaiolo rispose con un Non lo so, un momento prima ero al luna park. Forse siamo in un castello, o qualcosa del genere. Non si può uscire, ci ho provato. . E dire che aveva sognato qualche pomeriggio prima un castello come quello, completamente innevato, e Adam come suo principe schiaccianoci. Oddio, non è che ora riesco a materializzare anche i pensieri? #wtf
    Osservò come Fae veniva presentata a quella che veniva chiamata Ingrid, e tornò ad osservare il suo ragazzo con sguardo triste: le dispiaceva essere arrivata a tanto per pura paranoia, ed ora si trovavano lì per non si sa bene quale motivo e non sapevano nemmeno se ne sarebbero usciti. Allungò la mano e accarezzò il viso del suo compagno, come a volerlo confortare: sarebbero usciti da lì tutti assieme.
    Il biondo sfiorò la spalla della sua migliore amica e, senza che potessero fare qualcosa, la ragazza arcobaleno si accasciò a terra. Fae. Sussurrò Ivar, mentre Engy l'afferrava e la teneva stretta a sé con gli occhi lucidi. Suo cugino si inginocchiò davanti a lei e all'amica, cercando di risvegliare i sensi dell'amica. Guardami. Guardaci, siamo tutti qui. Non è ancora giunto quel momento, non è reale. Non stai camminando tra quelle rovine, quelle che vedi non sono realmente le persone che ami. Siamo qui, siamo vivi
    Fae non si muoveva, come paralizzata dalla paura tra le sue braccia, mentre la rossa le accarezzava i capelli: era stata come una sorella per lei, era normale che si preoccupasse così tanto per lei. La sua famiglia aveva accolto la ragazza arcobaleno come un membro di quel piccolo nucleo, e spesso era stata invitata a passare le festività con loro. Engel era sempre stata la più giovane della combriccola formata da lei, Fae e Ivar, in realtà, ma non si erano mai posti alcun problema.
    Amore. Guarda, non ti sente. Lo vedeva da sé che non la sentiva, ma voleva continuare a provarci, non l'avrebbe lasciata in quello stato.
    Alzò le sue iridi ambrate sulla figura di quell'idiota privo di qualsiasi tipo di sentimento: come poteva un individuo del genere camminare a piede libero senza che nessuno sapesse quanto effettivamente era pericoloso e folle? O meglio, fino a quel momento: tutti si erano accorti di che genere di persona egli fosse.
    Di rimando alle sue minacce, comunque, il biondino non battè ciglio, anzi, sembrò notevolmente infastidito da quello che la rossa gli stava chiedendo. Che testa di cazzo. Aveva pensato, mentre teneva stretta a sé la sua amica, cercando di farla rinvenire.
    Mh? Non so di che parli. Aveva detto quel verme, ma lei sapeva che era stato lui. Nessuno in quel luogo sembrava pericoloso quanto lo poteva essere lui. Lui era la mela marcia, il tumore da estirpare.
    Fu in quel momento che Adam si alzò in piedi e si avvicinò con fare minaccioso al tipo losco, ed Engy lo seguì con lo sguardo, sorpresa: cosa diavolo era successo? Insomma, lei voleva tanto pestarlo, questo era vero, ma qual'era il motivo di Adam? Per poco non le cadde la mandibola quando lo prese per il colletto: Quanti ne avrà fatti, te lo faccio vedere i-
    A raggiungere i due prima che Adam potesse mollare un poderoso cazzotto al ragazzo, il rosso che aveva un cognome simile al suo –curioso come non fossero parenti– che riuscì a calmare i due con un tempismo a dir poco perfetto. Probabilmente, sia lui che Adam dovevano avere un potere molto simile.
    Ed in quel momento, davanti ai suoi occhi, si palesò l'orrore di quel giorno.

    No way out
    Of what you’re going to be
    Float down stream
    Your body lies next to me



    Scommetto che Sophie tornerà presto, potremmo aiutarti a cercarla se ci lasciassi uscire di qua Ingrid aveva avuto la sua stessa brillante idea: se c'era una cosa che i film horror le avevano insegnato era che assecondare i fantasmi o le entità in generale era l'unica cosa che di solito portava alla sopravvivenza.
    Ah. Esclamò Ivar non appena vide lo spettro di quell'incubo ad occhi aperti: anche lei non poteva credere ai suoi occhi, sembrava il set di un film horror, uno di quelli che riesce davvero a tenerti incollato allo schermo
    Engel La voce di Adam risuonò flebile alle sue orecchie, eppure le sembrò quasi preoccupato per ciò che avrebbe potuto fare quella bambina, ma lo sentiva da sé che quella cosa era pericolosa. Era come un istinto primordiale.
    Quella melodia le aveva fatto sentire quei brividi che pian piano le attanagliavano le viscere e la soffocavano, come se una mano afferrasse la sua gola e la stringesse in una morsa stretta e senza via di fughe. Si sentì inerme quando gli occhi della bambina si posarono su di sé. Osservò come il mostro dai capelli biondi si inginocchià al fianco di quello spettro e le accarezzasse i capelli, come se fosse sua figlia: Massacrati? Dev’essere stato difficile per te. Giochiamo insieme? Davvero si comportava come se tutto quello fosse normale? Era semplicemente da ricovero in un istituto per sanità mentale. Ce lo avrebbe chiuso lei per tutta la vita. È una domanda un po’ difficile… credo di essere claustrofobico. E chi se ne frega, per me potresti anche morire, lurido pezzo di merda.
    Prima che potesse rendersi conto di quello che stava accadendo, Tori la stava costringendo a disegnare cadaveri come se fosse totalmente normale. Lo sguardo spaventato della ragazza si posò prima sul boscaiolo e solo successivamente su tutti gli altri, dispiaciuta per quello che stava per fare. Non lo avrebbe fatto volontariamente, anche perchè ogni disegno era sempre incompiuto per questo motivo. Non lo fare. Bisbigliò il guardiacaccia contro la mora, mentre la rossa si era già arresa ancora prima che la toccasse: aveva capito che avrebbe dovuto farlo se non voleva vedere il suo amore morto, o tutta la sua famiglia che ora era presente a quel gioco sadico che non aveva né un capo né una cosa.
    Basta, smettila! Ivar tentò di liberarla dalla presa di Tori, ma niente avrebbe potuto contro la volontà di quella bambina: sapeva anche lei che la ragazza che la stava costringendo a disegnare era stata lei stessa costretta a farlo. Chissà che sarebbe successo se non lo avesse fatto...
    Eppure Adam era lì che avvolgeva la sua spalla con una mano, a consolarla. E lo sarebbe sempre stato. Non era quello a farle paura, ma più qualcosa che avrebbe potuto far del male a lui in quel momento, mentre lei non poteva difenderlo. Scusami, non sono riuscito a proteggerti. Non doveva scusarsi, piuttosto era lei che doveva farlo: non lo avrebbe protetto, non lo avrebbe tenuto lontano dalle sue paure. Non avrebbe evitato che lui si sentisse un mostro. Sono qui Engel. Non ti lascio Lo so, ti sento. Non ti... Sentimi. Sono qui.
    Ma poi, quello spettro sadico ordinò al biondo di fare ciò che gli riusciva meglio, e lei non potè proteggerlo: non potè fare nulla per lui. Se questo può rendere felice questa principessa, allora non ho davvero scelta. Il fiato le si mozzò in gola, la mano lasciò andare per un secondo la matita, mentre le labbra si schiudevano per rilasciare un soffio d'aria, troppo spaventata dalla visione che gli si prospettava: non poteva fare niente per aiutare Adam, che stava per entrare in un vortice di terrore acuto. Non lo avrebbe protetto. Ogni sua paura si era tramutata in realtà.
    Lurido verme schifoso! Fae si era ripresa: il volto di Engy si spostò per qualche minuto verso l'amica, incredula, per poi tornare sul corpo inerme di Adam che era entrato nella sua visione di eterna paura, senza che lei potesse fare nulla. Era straziante.
    La bambina si rivolse ad Ivar e gli chiese di renderlo tale e quale al disegno che lei aveva fatto di lui: un bellissimo altare di marmo Michelangelo e ardesia, ricoperto di orchidee blu e petali di ciliegio in fiore. Non penso proprio Come aveva sospettato, Ivar non avrebbe mai potuto fare del male ad una mosca: era una persona buona, e non avrebbe di certo causato la morte del suo migliore amico. Si sentì, per un momento rincuorata, fino a che la bambina non si voltò verso il rosso, in modo che così lo spronasse a fare come voleva. No! Tuonò Ivar, rilassandola, per un secondo che non durò poi molto: Elias iniziò a coercidere il ragazzo senza che lui volesse farlo davvero fare quello che stava per compiere. Cercò di fermarlo, urlando, sbraitando, disperandosi per non poter contrapporsi tra Ivar e il suo unico grande amore.
    No... Fu la ragazza arcobaleno ad insistere sul rosso: No, Elias. Non farlo, no!
    Fermami Kylo ti prego. Attaccami Ivar iniziò ad avvicinarsi ad Adam, inesorabile: niente e nessuno avrebbe potuto fare qualcosa, era questo che credeva la barista.
    Si voltò verso Elias ed urlò, perchè sapeva che lui poteva sentirlo: Fermati. Fermalo. Ti prego. Se anche tu hai un cuore... Se anche tu hai amato, o ami una persona... Ti supplico, non farglielo fare.
    Invece, a contrapporsi fu Fae. Il cuore le si fermò per un tempo che le sembrò infinito: sentiva la gola seccarsi ed il petto dolerle più del dovuto, mentre la mano di suo cugino premeva sul braccio della sua migliore amica. Lo aveva fatto per lei, Engel lo sapeva. Non le sarebbe mai stata abbastanza grata. Le lacrime le si riversarono giù per il viso più copiose: <b>Fae...

    No, Fae NO! Urlò Larsen, cadendo poi sulle ginocchia: No, no, no... Avrebbe voluto abbracciare anche Fae ed Elias –in fondo, le dispiaceva di aver pensato che fosse un idiota– e poter dire loro che li ringraziava per aver sostenuto una prova così difficile.
    Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace… Continuò a sillabare Ivar verso Fae, mentre si scostava da lei: anch'egli era stato vittima di eventi a cui non si era potuto sottrarre ed Engy si chiedeva se si sarebbe mai ripreso. Mi dispiace Kylo, mi dispiace…
    Io... Perdonami Ivar, io non volevo, io non volevo. Non è colpa tua, Elias... Cercò di mandargli quel messaggio mentalmente, perchè sapeva che, in un certo senso, Larsen funzionasse come il suo Adam.

    I’m trapped inside your heart
    Don’t mind the broken parts
    But I want to see the lying thieves Underneath your stars



    Ti amo, ti amo non ho mai voluto farti del male... Lo guardò, stranita: non capiva cose le stesse dicendo, dato che non le aveva fatto alcun male. Se solo avesse saputo quanto male gli avrebbe arrecato, le avrebbe mai chiesto il perdono? Se avesse saputo che se ne sarebbe andata, le avrebbe detto quelle parole?
    E allora decise che lo avrebbe avvolto con il suo amore, allontanandolo da tutto quel male che gli era stato provocato: lo aveva circondato con un abbraccio, mentre le tenebre calavano su di loro. Perdonami.. Perdonatemi. Lo strinse maggiormente a sé, facendogli sentire che era lì, libera dal giogo di Tori, senza aver più bisogno di disegnare per soddisfare il desiderio malato di uno spettro sadico. Lì per lui.
    Non riesco a fermarlo! Voltò la testa appena di lato, contemplando la figura di suo cugino mentre si disperava, afflitto da un attacco di panico. Engel non riusciva a schiodarsi da Adam, non perchè non lo volesse, ma era sicura che ne avesse più bisogno di quanto in quel momento ne avesse Ivar.
    In quel momento, come se le avesse letto nel pensiero, Fae, ancora scossa da tutto ciò che era successo, abbracciò suo cugino come a volerlo calmare: Ce la fai, puoi resistergli. Puoi controllarlo, Ivar. Non sei solo, siamo tutti qui. Se non avesse ancora per la mente Astrid, era certa che quei due sarebbero stati una grande coppia. In passato si era ritrovata più di una volta a pensarlo, avevano un'enorme chimica, più che chiunque in quella stanza –esclusi lei e Adam, era ovvio– e anche fisicamente sembravano essere una bella accoppiata. In un certo senso, era sempre stata una fan di Ivar e Fae come coppia. Si ritrovò a pensare che Fae meritasse qualcuno che l'amasse tanto quanto lei amava Adam.
    Ingrid si diresse verso il pianoforte e all'interno di esso vi trovò la chiave che li avrebbe portati fuori da lì: era sempre stata lì, davanti ai loro occhi, e loro avevano sofferto inutilmente.
    Adam... Va tutto bene. Ora sono qui... Ti prego, stringimi. Lo pregò, mentalmente, sentendolo distante. Sapeva che aveva appena passato un momento piuttosto scioccante, tanto quanto il suo se non maggiore, ma aveva bisogno della sua presenza.
    Solo allora si rese conto che la sua schiena era infilzata da una moltitudine di schegge di vetro che le dolevano, compreso il palmo della mano squarciato dalla mina. Sanguinava. Il suo maglione aveva assunto una colorazione scarlatta e dalle sue dita gocciolava il liquido rosso.
    Signori, se non avete obiezioni da fare, direi che è arrivato il momento di andarcene da questo posto di merda
    Decise così di seguire il consiglio e di avviarsi con Adam all'esterno di quella stanza, sperando che l'incubo terminasse.

    No way out
    Of what you’re going to be
    I feel I don’t know where I’m going now I feel like I am six feet under
    ground



    Non appena raggiunse la porta, si fermò proprio su di essa nell'osservare il suo partner: stava fermo a guardare il gruppo sciamare fuori, ma Engel aveva intuito dalla direzione del suo sguardo chi stesse attendendo. Quando il biondino si avvicinò alla soglia, entrambi lo guardarono con molto risentimento, probabilmente quello della rossa più visibile di quello del boscaiolo. Le iridi ambrate erano diventate due fiamme alimentate dall'odio, mentre la mano sinistra si chiudeva in un pugno pronto ad essere sferrato. Prima che potesse fare qualsiasi cosa, la schiena ampia del guardiacaccia si frappose tra lei e quello stronzo, lasciandola con un'espressione sorpresa e le pupille leggermente dilatate.
    Senza che potesse vedere la scena, Engel sentì solo un solido crack, seguito dalla frase: Questo è per Engel, Fae e per me. Guarda che mi hai fatto fare... La voce bassa e vibrante risuonò come un ringhio nella gola del guardiacaccia, mentre sul viso della fidanzata appariva un leggero sorriso. La fronte si appoggiò sulla schiena del suo ragazzo, come a volerlo ringraziare di aver difeso sia lei che Fae. Ti sei divertito abbastanza. Avvicinati ai miei amici o alla mia donna e ti farò molto più male di così.
    Con una leggera fitta alla spalla, circondò la vita del suo uomo, come a volerlo calmare e farlo tornare il suo placido cagnolone che amava tanto coccolare e viziare. Era vero, avevano appena subito un bello shock, ma questo non voleva dire che lei non volesse proteggerlo dal divenire come lei. Certo, era un'impresa tenere buono uno come Adam, ma lei ci provava sempre. Ormai non puoi farmi più niente.
    Adam... Lo richiamò lei, cercando di tranquillizzarlo:Non sfidarlo. Penso che il nostro amico abbia capito.
    Si avvicinò al biondo lei stessa, sfilandosi dal suo ragazzone, guardandolo disgustata: Come si sta quando sei tu la vittima? E quando meno se lo aspettava, il biondo si ritrovò una ginocchiata dritta ai gioielli di famiglia. Engel guardò Jason cadere per terra, dolorante, soffiando su una ciocca rossa di capelli: Fai del male un'altra volta al mio ragazzo ed alla mia migliore amica, e ti assicuro che quello che ho disegnato sarà solo un ammonimento.
    Si voltò, afferrando la mano di Adam e camminando fianco a fianco, senza dire una parola: non ve ne era bisogno, a lei bastava che finalmente fossero insieme e che avrebbero superato tutto, persino quel brutto ricordo.
    Non fecero che qualche passo, ritrovandosi una nuova stanza davanti a loro, con un uomo pronti a farli accomodare all'interno di essa: la rossa guardò con aria sospettosa il tale vestito come un maggiordomo, puntando i piedi a terra, senza alcuna intenzione di entrare e subire qualche altra angheria. Un'altra melodia fece loro da sottofondo, e la mano sana della ragazza si strinse a quella del boscaiolo, mentre un altro attacco d'ansia stava attanagliando il suo petto e la sua gola. Qualcosa le diceva che più sarebbero andati avanti e più lei avrebbe sofferto. Non le importava dei vetri conficcati nelle sue carni o della grafite nel palmo destro della sua mano: a quelli avrebbe potuto resistere.
    Guardò dentro alla stanza e vide uno scenario che sembrava uscito fuori da un trip di LSD (voto due alla lochescion): uovae sbattute che si libravano in aria, come se in quel punto vi fosse una mancanza di gravità, sebbene fossero di dimensioni ragguardevoli.
    La mano di Adam sfiorò la spalla contusa, facendola sobbalzare per il dolore: la pelle era diventata nera, verde e viola a causa dell'ematoma, e si presentava anche abbastanza gonfia. Avrebbe dovuto metterci del ghiaccio. Lo guardò, come a volergli far capire che sapeva che non lo aveva fatto apposta, e che quindi non doveva minimamente preoccuparsi.
    Le fu subito chiaro che probabilmente sarebbero dovuti entrare in quelle uova, anche se ancora non capiva il perchè. Aveva imparato che non ci si poteva sottrarre a quel gioco malato, così, a grandi falcate, si avvicinò alle uova non appena il vecchio rachitico non ebbe di nuovo indicato i nidi. In un certo senso, le ricordava uno di quei robot spastici che si vedevano al lunapark, appunto, dalle fattezze più curate, eppure i movimenti erano proprio quelli di un droide malridotto. Si chiedeva se poteva davvero, a sto punto, dato che ormai non vi era più un nesso logico con la realtà, trovare la risposta che Philip Dick aveva posto nel titolo di un suo libro. I droidi sognano pecore elettriche?
    Ogni nido aveva un elemento che contraddistingueva ognuno di loro: Engel riconobbe la ciocca dei suoi capelli, la pistola d'ordinanza a Besaid che doveva appartenere ad Adam, un ceppo a contrassegnare quella destinata a Ivar e, infine, l'inseparabile taccuino di Fae richiamava alla sua amica.
    Rimase ad osservare il suo uovo, chiedendosi come avessero fatto a strapparle una ciocca di capelli così consistente senza che se ne fosse accorta, e la cosa le gelò maggiormente il sangue. Respirava lentamente e con respiri lunghi e rumorosi, tentando di mantenere la calma e rilassarsi.
    Si voltò per vedere che cosa stesse succedendo ad Adam, così da accertarsi che stesse bene e che nessuno gli stesse facendo del male nuovamente, ed incontrò le iridi brune del compagno: Amore.. Mi dispiace, per quello che è successo. Non potè nemmeno tentare di avvicinarlo a sé, si sentì sfiorare, ma le sue reazioni erano ritardate, come se ancora il suo cervello non si fosse ripreso dallo shock. Tutti entravano nei loro nidi, tranne lei, che continuava a fissare il punto in cui prima aveva guardato il suo unico amore.
    Il maggiordomo la incalzò, indicandole con maggiore insistenza l'uovo che le era stato dedicato, e trovandosi senza altra scelta, si sedette su quegli arbusti che ricordavano un nido di cicogna. Un senso di tepore l'avvolse, ma la sua mente continuò a vagare, a cercare Adam, in un certo senso.
    Ding. Ding. Ding Chiuse gli occhi, di scatto.
    Engel Larssen era caduta in uno stato di trance che l'avrebbe distrutta definitivamente.

    I can’t make you lose your mind
    I can’t get closer this time
    Light bulbs break down your wicker stair You can’t see me behind
    your black hair But I want you
    I want to take you home



    Come per incanto, le palpebre della barista si riaprirono, contemplando il guscio dell'uovo che pian piano si stava schiudendo. Nelle sue orecchie risuonò il primo motivo dell'atto 2 del Lago dei Cigni di Tchaikovsky (Scene near the lake), mentre ogni coccio bianco veniva via. Pian piano, fuori da quel guscio venne fuori una ragazza dai capelli biondi, lunghi e mossi, che ricadevano come morbide onde sulla sua schiena.
    Gli occhi si sbarrarono nell'osservare che quella creatura era tale e quale a lei, eccetto proprio per il colore dei capelli e la gentilezza nel sorriso, l'innocenza che un tempo aveva visto allo specchio, prima della trasformazione.
    Indossava un vestito bianco che le copriva le cosce, e il suo pallore ricordava il manto lunare. Così uguali eppure così diverse.
    È uno scherzo? La rossa chiese alla sua versione bionda, aggrottando le sopracciglia, avvicinandosi alla sua gemella. Se lo era, non era per nulla divertente.
    Vorresti che fosse uno scherzo? La voce della sua gemella risuonò gentile, mentre una mano sfiorava il suo viso, confermandole che era reale, non solo un sogno o l'effetto di qualcosa che potevano aver liberato nell'aria.
    Chi diavolo sei, allora?
    Io sono Engel Larsen. E tu? Sai non è educato chiedere agli altri chi diavolo sono se non ti presenti tu per prima.
    Engel sbarrò ancora di più gli occhi, cercando di respirare e di concentrarsi: doveva essere un sogno, molto vivido, ma soltanto quello. Poteva stare al gioco, che altro aveva da perdere. Adam... Ivar... Fae... Mi chiamo anche io Engel Larsen.
    Che coincidenza, non credi? Magari vivi anche tu ad Atene?
    Una morsa le attanagliò lo stomaco, capendo in un attimo chi fosse realmente quella versione di sé: ciò che sarebbe probabilmente diventata una volta lasciata Besaid. Con un nodo alla gola, le scesero le prime lacrime: No, io vivo in un paesino norvegese di nome Besaid. Ho un cugino meraviglioso che non ne combina mai una giusta... Si chiama Ivar. E la mia migliore amica è una pazza squilibrata, ma la amo e non la cambierei mai anche se mi fa fare certe figure di merda... Ridacchiò, ripensando a tutte le volte che Fae l'aveva messa nei guai, o si erano ritrovate ubriache a qualche festino bondage che Ma 'ndò cazzo siamo finite oooooo? ...E poi ho questo fidanzato super sexy, dolce e premuroso di nome Adam che un giorno vorrei tanto sposare.
    Il sorriso della Engy bionda si smorzò, come se fosse a disagio mentre ascoltava quelle parole: Sembra una bella vita. Sai, anche io all'inizio ad Atene non mi trovavo molto bene. Ero triste per la morte dei miei genitori, sentivo che mi mancava qualcosa, ma non capivo che cosa. E poi c'era questo lui che... Il sorriso le riapparve, radioso, come gli occhi che brillavano, come due gocce d'ambra al sole: Lui è bello, ma l'ho visto solo nei miei sogno, altrimenti me lo ricorderei. Comunque, non stiamo parlando di me, Engel.
    Io voglio sapere.
    L'altra Engel alzò le spalle, sorridendole: Non è importante. Piuttosto... Perchè continui a voler essere così forte quando c'è qualcosa che ti logora profondamente?
    Perchè devo esserlo. Non posso mostrarmi debole. Non posso per loro.
    Loro chi? Devi? Chi te lo ha chiesto? E perchè non puoi mostrare le tue debolezze?
    Perchè non voglio che gli altri si addossino altri fardelli. Perchè non devono sapere... Che parto. E che li dimenticherò. Abbassò lo sguardo sul palmo della mano, afferrando la mina e sfilandola dalla ferita. Strinse i denti e osservò il sangue zampillare fuori da quel piccolo buco auto-inferto.
    Hai paura che questo li allontanerebbe da te?
    Li allontanerà comunque e io perderò tutto. La mina premette sul polso, perforando un po' la carne e facendo fuoriuscire altro sangue. Non voglio più altro dolore. Ti prego, fa che cessi.
    Engel... La Grecia non è la tua fine.
    Ah, no? La rabbia si impossessò dei suoi occhi, puntandoli in quelle della bionda, tanto limpide e serene, a differenza delle sue: come faceva ad esserlo, sapendo che non vi sarebbe stato alcun posto in cui stare bene se non Besaid? Se non Adam... Non ricordi nemmeno chi siano tutte queste persone...
    No, hai ragione... Io non ricordo. Però, tu... Hai ammesso le tue debolezze. Sai bene che dimenticherai ogni cosa del tuo passato. Hai lasciato delle molliche di pane.
    Lo aveva fatto, per se stessa, per gli altri. Per te, Adam.
    Hai cercato una soluzione al problema.
    E se non funzionasse? La mina aprì ancora di più la ferita, ed un altro rigolo di sangue scivolò giù per il braccio, così come una lacrima le rigò il viso per l'ennesima volta. Se non tornassi da Adam?
    La bionda stette zitta, avvicinandosi alla gemella rossa: frugò nella sua borsa e tirò fuori un'altra matita e il blocco da disegno, strappando le tavole dove la rossa aveva disegnato i cadaveri degli amici.
    La mano della bionda danzò sul foglio, mentre Engel la guardava senza battere ciglio: non capiva che cosa le avesse preso, non ci capiva nulla.
    Com'è la vita lì? Sapeva che probabilmente era solo una proiezione della sua mente, ma in un certo senso, la confortava: era come se stesse cercando le ennesime conferme, perchè, in fondo, Engel Larsen aveva una paura fottuta.
    Non avrebbe mai più ricordato le corse frenetiche di lei e Ivar ad undici anni giù per le scale durante la mattina di Natale, ognuno a scartare i propri regali, e poi fuori all'aperto a giocare con i pupazzi di neve.
    Non avrebbe ricordato i mille tipi sfottuti e i mille numeri di compagni di classe inesistenti che avevano dato ai ragazzi conosciuti nei bar o nelle discoteche lei e Fae. Niente più Aerosmith, Mumford & Sons, niente più pinacolada alle cinque del mattino, mentre sorge l'alba, o l'aurora boreale al ritorno da qualche loro rave.
    Non avrebbe ricordato lui, e i suoi meravigliosi occhi affilati come quelli di un gatto, dove ci si era specchiata tutte le notti che avevano fatto l'amore. Niente più “ti amo”, o “hey, sexy, lo sai che sei bellissimo stamattina?”. Niente più risate al gingerbread. Niente più convention. Niente più passeggiate nel bosco, baci in riva al mare e i cervi.
    Niente di tutto questo. Ogni ricordo che le stava passando davanti agli occhi era contornato da una lacrima. Si portò le mani sul viso, disperandosi e sporcandosi con il suo stesso sangue: non le importava. Avrebbe preferito qualsiasi altra cosa piuttosto che dimenticarli. Piuttosto che abbandonarli.
    La mano della bionda si fermò, lasciando andare la matita sul pavimento e stringendo il blocco da disegno al petto, avvicinandosi alla rossa e posandole una mano sulla spalla sana. Guardami. Ti prego. Aveva un tono dolce e dispiaciuto al tempo stesso: come poteva qualcosa che non era ancora avvenuto poterle fare tanto male?
    Alzò lo sguardo, gli occhi carichi di lacrime che non riusciva ancora a fermare, le gote macchiate del suo sangue, il trucco sbavato.
    La bionda voltò il blocco da disegno verso di lei, e solo allora, mentre le pupille le si dilatavano e le lacrime si fermavano, capì.
    La Grecia, la partenza... Non sono la tua fine, Engel. Solo un nuovo inizio. Pian piano la figura della Engel bionda svanì, assieme alle lacrime che colavano copiose un momento prima. Il blocco da disegno cadde a terra, seguito dallo sguardo impietrito della rossa. Lo prese tra le mani e lo contemplò ancora un po', prima di rimetterlo nella borsa.
    Nemmeno si preoccupò dell'uomo che stava in mezzo ai nidi, come se stesse eseguendo un concerto: ella riusciva ad osservare il punto in cui aveva visto se stessa un momento prima, ed ancora quelle parole le si formarono nella testa.
    Solo un nuovo inizio.
    Non sapeva come sarebbero andate le cose, se effettivamente ciò che lei le aveva disegnato si sarebbe avverato, se anche lei avrebbe visto... Però il suo cuore era decisamente meno pesante: forse aveva giocato a fare la persona dura per troppo tempo e la Grecia, l'abbandono di Besaid, l'amnesia, le avrebbero dato la possibilità di poter essere fragile nei momenti opportuni. Fino a quel momento, avrebbe continuato ad essere la solita Engel Larsen che tutti si aspettavano.
    Alzò lo sguardo sul maggiordomo che ora aveva tentato in tutti i modi di attirare la sua attenzione, posizionando sul proprio palmo un modellino di un strano labirinto.
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    La barista inclinò leggermente la testa, senza capire cosa dovesse servire quel minuscolo plastico.
    Senza poter riflettere, si ritrovò scaraventata proprio nel luogo che quel droide/umano aveva mostrato loro: le sembrava come essere in “Della Morte dell'Amore”, in cui, alla fine, si scopriva di essere dentro ad una grande palla di vetro. Magari anche loro erano stati rimpiccioliti e portati all'interno di quel plastico come tante piccole formiche. Inquietante
    Voltò lo sguardo, istintivamente, e ritrovò gli occhi del suo compagno su di sé, lasciando che le sue labbra si schiudessero, come se fosse effettivamente passato troppo tempo dall'ultima volta che si fossero visti. Avrebbero affrontato anche quella prova assieme, ma prima di affrontarla...
    Engel gli corse incontro, circondando il collo del boscaiolo con le sue braccia, nonostante la spalla le dolesse da morire. Gli scoccò un lungo bacio sulle labbra e lo guardò negli occhi, sfiorandogli il naso: Ti amo. Tu non sei un mostro. Ok?
    Tu sei il mio inizio.

    Oh I want you
    I feel I don’t know where I’m going now I feel like I am six feet under
    ground
    I can’t make you lose your mind
    I can’t get closer this time

     
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    VICTORIANNE FAWNIE ÅRUD ☾

    Ombre su ombre si mischiarono dinanzi agli occhi ciechi di Tori, ancora abituati alla luce delle candele, rendendo il salone devastato ancora più inquietante e spettrale. Quel luogo irradiava infelicità, terrore, paura. E la giovane temeva che ciò che era successo sino a quel momento fosse solo il principio di ciò che una mente evidentemente contorta aveva in serbo per loro.
    Dopo qualche istante di silenzio, l’ambiente si illuminò, costringendo Tori a serrare gli occhi per il fastidio. Quando si fu nuovamente abituata alla luce, prodotta dalla ragazza seduta sul divanetto grazie a minuscole particelle luminose, lasciò vagare lo sguardo lungo la stanza, incontrando per la prima volta le copie senza vita dei presenti, macabramente uccisi in diversi modi suggeriti dalla fantasia di Engel. Inorridita, si portò una mano alle labbra per soffocare un conato di vomito. Non era mai stata particolarmente impressionabile e, anche se amava i film splatter, il sangue vero era assai differente dalla poltiglia artificiale utilizzata nel cinema. E ciò che colava dalla copia esatta di sé stessa, allargandosi in una pozza ai piedi del pianoforte, sembrava dannatamente reale. Denso, scuro… vivo.
    Si obbligò a distogliere lo sguardo, scrutando tutti i presenti come se ancora fosse incapace di comprendere ciò che davvero era successo. La bambina era sparita e tutti loro erano stati lasciati ad affrontare la brutalità di quel suo diabolico gioco. Un istante di pace prima della tempesta. La situazione sembrava essersi momentaneamente calmata – o almeno, Adam aveva smesso di contorcersi ed urlare e la ragazza dai capelli colorati era tornata sé – anche se tutti avevano riportato qualche ferita e, soprattutto, erano ancora sotto shock. In particolare, il ragazzo chiamato Ivar sembrava ancora particolarmente scosso da ciò che la bambina lo aveva costretto a fare e dalle inaspettate conseguenze che avevano coinvolto la giovane dalla chioma colorata. Nonostante non conoscesse la sua abilità – anche se, distrattamente, se ne era fatta un’idea – Tori non poteva biasimarlo. Ciò che era accaduto aveva minato tutti loro in qualche modo, eccezione fatta per lo straniero biondo che si era rivolto alla loro malvagia ospite con incredibile dolcezza. Tra tutti, sembrava l’unico a provare un certo interesse – o divertimento? – per ciò che era accaduto.
    «Signori, se non avete obiezioni da fare, direi che è arrivato il momento di andarcene da questo posto di merda.» Le parole dell’altra giovane dai capelli scuri vennero accolte con muto sollievo dai presenti che, avanzando a passi malfermi, la seguirono fuori dal salone. Appoggiandosi alla parete, Tori si sollevò dapprima sulle ginocchia e, solo in un secondo momento, avanzò in maniera malferma, con entrambe le mani contro il muro, su cui lasciò una debole scia rossastra. Sapeva di essere ferita ma, a parte un leggero bruciore, ciò che più la preoccupava era il dolore alla testa ed il lieve annebbiamento della vista. Le sembrava di percepire lo spazio in maniera distorta, quasi fosse incapace di valutare le distanze e la profondità dell’ambiente che la circondava. Per quella ragione non si allontanò dal muro. Non si fidava del proprio equilibrio ma, allo stesso tempo, era decisamente troppo orgogliosa per chiedere aiuto, senza contare che il sospetto nei confronti dei suoi compagni di (dis)avventura si era affievolito solo parzialmente, per lo più grazie alla preoccupazione che alcuni di loro avevano dimostrato nei confronti di Adam. Date le piccole dimensioni di Besaid, i loro visi non le erano del tutto sconosciuti ma la sua innata diffidenza la spingeva a rimanere in guardia, mantenere i sensi all’erta e studiare i loro movimenti con occhio critico.
    Scivolando accanto ad Adam ed Engy, gettò una rapida occhiata al ragazzo prima di attraversare la porta e ritrovarsi, così, in un’altra stanza. La temperatura più bassa l’accolse con la carezza di una fresca brezza notturna, aria pulita e leggera, priva dell’acre odore di polvere che, nel salone, le aveva irritato la gola e le narici. Victorianne inspirò a pieni polmoni, tentando di riacquistare la lucidità, accorgendosi solo con qualche istante di ritardo della figura tutt’altro che rassicurante apparentemente in attesa del loro arrivo. Un uomo incredibilmente alto, dal viso scavato e la corporatura sottile, elegantemente vestito in modo da ricordare un maggiordomo, li scrutò uno ad uno con occhi le cui iridi spiccavano con colori indecifrabili. Reggeva in mano un vassoio sopra cui era adagiata una cloche e nell’aria si udivano le delicate note di un pianoforte, una melodia differente da quella tetra e malinconica che aveva accompagnato il loro soggiorno nel salone in rovina, ma suonata con la medesima maestria. Guardandosi attorno, Victorianne notò che nessun pianoforte occupava la stanza. Non avrebbe saputo dire con certezza da dove proveniva la musica né, se per questo, chi la stesse suonando. Provava tuttavia la sensazione che qualcuno li osservasse dall’istante in cui avevano messo piede nella casa degli specchi – e forse anche da prima – e che il loro misterioso osservatore avesse altro in serbo per loro.
    Una volta che tutti furono entrati, il maggiordomo fece loro segno di accomodarsi all’interno dei nidi accuratamente intrecciati. I suoi modi erano assai più formali ed eleganti di quelli della bambina, eppure Tori era certa che, se lo avessero contrariato, avrebbe trovato il modo di convincere ciascuno di loro a riconsiderare il suo silenzioso invito. Spostato la sua attenzione sui nidi che occupavano circolarmente la stanza, Tori riconobbe all’istante il malandato pupazzo di peluche di Alexandra. Istintivamente, con il cuore che mancava un battito per il timore che potessero aver fatto del male a sua figlia, la giovane si allontanò dal gruppo, coprendo velocemente la distanza che la separava dal nido a lei destinato. Afferrò il pupazzo e lo sollevò, soppesandolo. Con dita tremanti ne sfiorò il muso spelacchiato, l’occhio sinistro crepato e l’orecchia scucita lungo il bordo, lì dove Lexi lo aveva mordicchiato a lungo quando i primi denti da latte avevano iniziato a fare la loro comparsa. Constatare che l’oggetto era reale – o almeno, tale appariva – la spaventò ancora di più. Se quello era davvero l’orsacchiotto di sua figlia, chiunque si stesse divertendo a giocare con loro avrebbe potuto arrivare ai loro familiari con altrettanta facilità. Quel pensiero la fece infuriare, soffocando momentaneamente la paura. Alexandra era la cosa più bella della sua vita, ciò che la rendeva felice e migliore. Per quanto intelligente era solo una bambina, innocente e ingenua, e nel momento in cui era venuta al mondo Tori aveva giurato a sé stessa che non avrebbe mai permesso a nessuno di farle del male. Non finchè era viva.
    Sollevato il viso di scattò, inchiodò il proprio sguardo scuro in quello indecifrabile del maggiordomo. Nelle iridi cioccolato, uno scintillio di odio e determinazione. Ciò che era accaduto da quando era entrata nella casa degli specchi era assurdo ma ora più che mai era disposta a non rimanere inerme, né assecondare il loro sconosciuto aguzzino. Voleva scoprire se davvero sua figlia era in pericolo e, sinceratasi che Lexi si trovava al sicuro, avrebbe impiegato ogni sua singola forza per scoprire chi li stava torturando e per quale motivo. Essere presa di mira, venire tormentata la spaventava ma mai avrebbe lasciato che qualcuno minacciasse la sua famiglia senza battere ciglio. “Facciamola finita con queste stronzate.” Si disse, accomodandosi all’interno del nido. Incrociò le gambe e vi depose il piccolo orsacchiotto, quasi lo stesse proteggendo. Nello stesso istante in cui si fu accomodata, una sensazione di piacevole calore iniziò ad irradiarsi nel suo corpo, partendo dal centro dello stomaco e spazzando via qualunque sentimento negativo. Un tepore tranquillizzante la avvolse, circondandola ed abbracciandola come una calda coperta, annebbiandole parzialmente la mente, placando la sua rabbia e le sue paure.
    Il maggiordomo suonò la campanella per tre vole e le uova poste accanto ad ogni nido incominciarono a schiudersi. Con il batticuore, Tori osservò la propria rigettare una figura informe e inquietante, il cui aspetto mutò lentamente. Avrebbe voluto urlare ed allontanarsi, risvegliarsi nel proprio letto e scoprire che si trattava unicamente di un incubo, invece rimase immobile, inchiodata nel nido da quell’estranea sensazione di calma e tranquillità. La creatura che aveva dinanzi si sedette proprio come lei, una massa di capelli scuri, leggermente mossi, a coprirle il viso. Quando infine lo alzò, rivelandone i lineamenti, Tori provò per un istante la bizzarra sensazione di trovarsi seduta di fronte a una copia di sé stessa. Impiegò qualche istante, nello scrutarla, per catturare le sottili differenze. Le labbra dell’altra ragazza erano più carnose, il viso più morbido a causa della giovane età e i capelli avevano piacevoli sfumature bionde, in particolare lungo le punte. Stava seduta diritta, con entrambe le mani posate sul ventre coperto da una maglietta nera, evidentemente rigonfio a causa di una gravidanza. Il gruppo che stringeva la gola di Tori si fece più pesante quando la ragazzina le sorrise, mostrando un familiare spazietto tra i denti davanti. «L-lexi?» Gracchiò, incredula. Il sorriso sul viso della ragazza si allargò ulteriormente, prima che si sporgesse verso Victorianne, stringendola in un abbraccio. Immediatamente, l’odore familiare dei capelli di Alexandra le solleticò il naso, stordendola. Che cosa stava succedendo? Com’era possibile che sua figlia fosse lì davanti a lei, adolescente ed incinta? La figura uscita dall’uovo si ritrasse, lasciandola libera dalla presa che Tori non aveva ricambiato, ed incominciò a parlare con voce concitata ed allegra. Ancora intenta ad osservarla, Tori non ascoltò ciò che stava dicendo. «Non è possibile. Tu sei solo una bambina.» Mormorò, battendo ripetutamente le palpebre come per scacciare quell’immagine. Alexandra rise, divertita. «Per te sarò sempre una bambina.» Le fece notare, roteando gli occhi al cielo. «Me lo ripeti sempre.» Aggiunse, prima che la sua espressione si addolcisse appena. Prese le mani di Tori nelle proprie e se le posò sul pancione. «Ma non sono più una bambina da molto tempo e presto sarò io a dovermi occupare di un bambino.» Boccheggiando, Tori ritirò bruscamente le mani, sfregando il palmo ferito sul tessuto dei jeans. Prese un respiro profondo e tentò di calmarsi, senza riuscirci. Una quantità infinta di pensieri si agitavano nella sua mente, alimentando le sue più profonde paure. Se ciò che aveva dinanzi non era il presente, si trattava forse di una visione del futuro? Lexi sarebbe davvero rimasta incinta nell’adolescenza, ripercorrendo i suoi stessi errori? Sarebbe stata una madre così incapace da non proteggere adeguatamente ciò che di più caro aveva al mondo? «Mamma?» La voce della ragazzina la riportò alla realtà. La osservava con la fronte corrucciata, come se stesse tentando di comprendere cosa la turbava. Le posò le mani sulle spalle e la scosse leggermente, con delicatezza. «Ti senti bene? Per favore, dì qualcosa.» La pregò, i lineamenti acerbi corrugati in un’espressione ansiosa. Tori si schiarì la voce. «Io… io non so cosa dire.» Mormorò infine, incapace di assemblare un discorso sensato. Dentro di lei si agitavano troppe emozioni contrastanti, il desiderio di starle vicino e al contempo quello che una simile situazione non si verificasse mai. A quelle parole il viso di Alexandra si adombrò, una scintilla di dolore nello sguardo. «Non sei felice per me?» Le domandò, ferita. «Credevo che lo saresti stata. Che proprio tu, tra tutti, non te ne saresti vergognata e non lo avresti considerato uno sbaglio.» Negli occhi castani dell’adolescente, così simili a quelli di Tori, fecero capolino alcune lacrime. Avvertendo un peso all’altezza del petto, Victorianne tentò di pensare a una risposta sensata. «Io non mi vergogno, non potrei mai vergognarmi di te.» La rassicurò istintivamente. Le accarezzò una guancia, con tenerezza. «Ma tu non sai cosa vuol dire essere madre. Avere un figlio non è semplice. E’ meraviglioso ma anche… difficile.» Lexi scosse il capo, allontanandosi il necessario per sfuggire al suo tocco. «E’ una femmina.» La corresse. «Ed io voglio esserci per lei, proprio come tu hai fatto per me.» Aggiunse con determinazione. Victorianne sospirò silenziosamente. Non era brava a gestire le situazioni difficili, nelle quali spesso mancava di tatto. E, soprattutto, non sapeva mentire su questioni di tanta importanza a coloro che amava. Non a sua figlia. E in una situazione simile non avrebbe potuto essere felice. Per Lexi voleva di più, avrebbe sempre voluto di più di ciò che aveva avuto lei. Non si sarebbe mai pentita di averla messa al mondo, ma sua figlia era più intelligente e più sveglia di lei, più buona e più gentile, e meritava di affermarsi in ogni suo desiderio. Ed essere una madre non era un gioco, né un passatempo. Era un mestiere a tempo pieno, che avrebbe assorbito ogni attimo della sua giovane vita sino a quando non sarebbe stato troppo tardi per inseguire i suoi sogni. Tori si inumidì le labbra, il cuore che le batteva freneticamente nel petto. Ciò che stava per dire non era semplice, né facile da comprendere per una giovane nella situazione della ragazzina di fronte a lei. Avendolo vissuto in prima persona, Tori lo sapeva perfettamente e lo accusava come una colpa. «Non sto dicendo che tu non debba essere presente nella sua vita. Esistono molte altre opzioni che io non ho mai considerat-» Con il viso arrossato per la rabbia, Lexi la interuppe prima che potesse terminare la frase. «BASTA!» Sbottò, facendola sussultare. «Ho già preso la mia decisione. Crescerò mia figlia esattamente come tu hai fatto con me. Io ne sono felice e l’unica cosa che vorrei è che tu accettassi la mia decisione e fossi felice per me, per le scelte che ho fatto e la persona che sono diventata.» Gli occhi della ragazzina si fissarono in quelli speculari della madre, mentre le mani di Lexi cercavano nuovamente quelle di Tori. Victorianne si morse l’interno della guancia, ma il sapore dolciastro del sangue non riuscì ad alleggerire la morsa che le stringeva il cuore. Non avrebbe mai voluto affrontare una situazione simile. Non avrebbe mai voluto che Lexi la prendesse ad esempio sino a quel punto. Era colpa sua, solo ed unicamente colpa sua. Non era stata una brava madre, non abbastanza. «So che non è stato facile per te. Ma so anche che non te ne sei mai pentita, e io farò lo stesso.» Aggiunse, addolcendosi un poco, senza tuttavia dare alcun segno di cedimento. Da bambina, Alexandra era sempre stata molto simile a Victorianne. Crescendo esclusivamente con la madre – e non avendo mai conosciuto suo padre – ne aveva assunto alcune caratteristiche, facendole proprie. La testardaggine – o temperanza – era una di esse. Rivedendo sé stessa nella ragazza che aveva davanti, Tori si portò le mani al viso, combattuta. Il timore che sua figlia commettesse i suoi stessi sbagli era sempre stato presente, nascosto nel profondo del suo animo, ma fintanto che Lexi era una bambina, Tori non vi aveva dato troppo peso, tentando di educarla nel migliore dei modi possibili per evitare che commettesse qualche sconsideratezza. Ciò che aveva davanti, tuttavia, incarnava uno dei suoi timori più grandi: una situazione da cui era impossibile sfuggire, a causa della quale sua figlia avrebbe sofferto qualunque fosse stata la sua decisione. Straziata dalla situazione, si sfregò gli occhi con i polpastrelli, tentando di scacciare le lacrime. Non voleva piangere davanti a sua figlia, non voleva che Lexi si sentisse responsabile di quelle lacrime. Quando si fu schiarita la vista, alzò il viso per aggiungere altro ma Lexi adolescente era sparita, lasciando al suo posto il nido vuoto. Tra le gambe incrociate, giaceva ancora il suo piccolo orsacchiotto malandato. «Lexi?» Chiamò, con una nota di panico nella voce, senza ricevere alcuna risposta. Solo in quel momento la stanza sembrò riapparire, dapprima oscurata dalla presenza uscita dall’uovo. Stordita, Victorianne si asciugò gli occhi umidi con la manica del giubbotto di jeans e, guardandosi rapidamente attorno ancora in cerca della figlia, notò che anche gli altri sembravano essersi ripresi solo in quel momento, ognuno abbastanza scosso da ciò che aveva affrontato. Al centro del cerchio, il maggiordomo sollevò infine il coperchio della cloche, mostrando un modellino che, da quella distanza, Victorianne faticò a riconoscere come una sorta di piccolo labirinto. Cosa centrava un labirinto con tutti loro? Era forse collegato a ciò che avevano visto? Avrebbe forse trovato sua figlia all’interno di quel luogo? Prima che qualunque domanda potesse essere espressa verbalmente, lo scenario attorno a loro cambiò di nuovo e, al posto della stanza con i nidi, i giovani si ritrovarono esattamente all’ingresso del labirinto rappresentato dal modellino. Confusa, Victorianne si rialzò in piedi. Il pupazzo di Lexi era sparito ma l’immagine di sua figlia sedicenne era ben impressa nella sua memoria. La morsa al petto non era svanita, così come il senso di colpa e di impotenza. Voleva solo andarsene di lì e riabbracciare sua figlia, assicurarsi che fosse sana e salva e dirle quanto la amava e che l’avrebbe amata sempre. Soffocando un singhiozzo, si passò una mano sul viso per dissimulare il proprio stato d’animo e si guardò attorno. Doveva rimanere lucida. Solo il Diavolo poteva sapere cosa li attendeva all’interno del labirinto che si ergeva dinanzi a loro. «Se qualcuno ha un’idea brillante questo è il momento di farsi avanti.» Esclamò, tentando di darsi un tono, senza tuttavia riuscire a mascherare completamente la voce vagamente incrinata dal tumulto di emozioni che la visione uscita dall’uovo le aveva provocato.
     
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    *Cof cof*
    Si avvisa la gentile clientela che Liz non riuscirà a postare con Ivar, come ci ha comunicato poco fa,
    pertanto proseguiremo con il turno di Fae.
    *ripone il microfono*

    Tenete duro :bunny:

     
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    Aveva la strana sensazione di trovarsi in un sogno. Tutt'intorno a lei c'era uno strano silenzio opprimente, contornato dai passi dei suoi compagni ancora scossi e accompagnato da sussurri lievi, come se i presenti non avessero il coraggio di parlare a voce alta, in tremante attesa della ghigliottina che avrebbe tagliato loro la testa, presto o tardi.
    «Signori, se non avete obiezioni da fare, direi che è arrivato il momento di andarcene da questo posto di merda» fu la voce chiara di Ingrid a svegliarla da quel tormento, riportandola al presente e dandole la certezza di essere ancora viva e che tutto quello non fosse solo una proiezione della sua mente.
    Si alzò dal pavimento, aiutando Ivar a sollevarsi e rimettendosi in piedi mantenendo il proprio braccio ancora inerme lungo il fianco. Gli occhi della ragazza catturarono la figura di Adam che si dirigeva verso Jason, fermandosi poco distante da lui e rifilandogli un pugno dritto in faccia. «Questo è per Engel, Fae e per me. Guarda che mi hai fatto fare...» lo ammonì, con un tono di voce che non avrebbe ammesso alcuna replica, alcuno scherno. Si sentì in qualche modo grata ad Adam per quel gesto, ma fu del tutto incapace di avvicinarsi a lui per ringraziarlo di persona. In quel momento, Fae si sentiva in qualche modo svuotata di qualsiasi positiva sensazione, come se qualcuno le avesse aperto il torace e ne avesse tirato fuori quel poco di buono che custodiva nel cuore. Non sapeva il perché, ma quella sensazione di debolezza fisica sembrava essersi riversata anche sulla sua mente, coprendola ed annullandola quasi completamente. Non accennò neanche un sorriso, malgrado avesse trovato carino il gesto. In un certo senso, tutta quella situazione cominciava a stancarla, portandola a detestare le tetre scintille di rabbia che scaturivano da ognuno di loro, desideroso solamente di tornare a casa o in un luogo che avrebbero ritenuto sicuro. E stranamente, Fae non riusciva a trovarne alcuno; che diavolo le prendeva? Sentiva la rabbia ribollire sotto la cute, come se volesse fuoriuscirne e danzare all'aria aperta, trascinandosi dietro il suo corpo morto o quello che ne rimaneva. «Ti sei divertito abbastanza. Avvicinati ai miei amici o alla mia donna e ti farò molto più male di così. Ormai non puoi farmi più niente.» continuò Adam, rivolgendosi al ragazzo dai capelli biondi. Eccole: furono quelle le parole che parvero colpirla maggiormente: Ormai non puoi farmi più niente - cosa avrebbero affrontato, ancora? In un certo senso, non le importava. Non avrebbero potuto farle nulla che avrebbe potuto atterrirla più di quanto già lo fosse, ed era quasi sicura che la maggior parte di loro credesse lo stesso. Dopo che ebbe compiuto qualche passo per avanzare all'interno della stanza successiva, Fae udì la voce di Engy, anche lei rivolta a Jason. «Fai del male un'altra volta al mio ragazzo ed alla mia migliore amica, e ti assicuro che quello che ho disegnato sarà solo un ammonimento.» gli disse, con il solito tono alla Engy, che mai e poi mai avrebbe confuso con quello di altri. Era così, la ragazza dai capelli rossi: indomita, avrebbe sempre lottato per quelli che amava, e Fae non avrebbe potuto essere altro che felice di questo. Ma in quel momento, come qualche secondo prima, si sentì così terribilmente vuota da non riuscire a ringraziare neanche lei per quelle parole, per quella lealtà. Perché sì, era proprio di lealtà che si trattava. Engy non avrebbe mai fatto nulla per farle del male, così come Fae era consapevole di non poter riuscire a staccarsi da lei. Avevano litigato, ogni tanto, ma per qualche assurda ragione erano tornate sempre entrambe sui loro stessi passi, chiedendosi scusa per le brutte parole e regalandosi sorrisi come se fosse la cosa più naturale del mondo. E Fae in quel momento avrebbe tanto voluto avvicinarsi a lei e posarle una mano sulla spalla, ricordarle che se fosse stato il contrario, lei avrebbe esattamente fatto lo stesso. Non le dispiacque per Jason e i suoi capelli dorati, poiché vederlo mentre veniva preso di mira da Adam ed Engy la rincuorò, in un certo senso. Avrebbe potuto sentirsi cattiva, per questo, ma la rabbia continua a dondolarsi dentro il suo petto, indomita come quella della sua migliore amica, con l'unica differenza che lei l'avrebbe custodita a lungo per poi farla esplodere in una volta sola, incapace di sapere esattamente quando.

    Nella sala successiva sembrava esser calata la notte: la lucentezza degli arredi eleganti e luminosi che fino a poco prima li avevano regalato la visione di una stanza grande e di altri tempi, ora sembrava essersi dissolta per lasciare spazio a dei grandi nidi posti accanto a uova di media altezza, decisamente innaturali per esser vere. Non osò immaginare cosa potesse esserci dentro, ma seppe con certezza che presto avrebbero dovuto scoprirlo. La figura di un maggiordomo attendeva tutti loro all'interno di quella stanza, poco distante dai nidi. Li osservava con attenzione, impedendo a se stesso anche di batter ciglio. Un brivido scosse la schiena di Fae, spingendola a portarsi la mano sana verso quella annerita, ancora in fase di stasi e non del tutto guarita. Non aveva idea di quanto ci avrebbe impiegato, ma prestava estrema attenzione a non muoverla e non guardarla, come se facendolo potesse ricavarne fitte di dolore.
    Il maggiordomo muoveva lentamente una delle due braccia, mentre l'altra restava immobile, sollevata a mezz'aria mentre teneva in equilibrio sul palmo della mano un vassoio coperto da una cloche. La ragazza dai capelli arcobaleno non seppe immediatamente collegare tutto ciò che le si presentava dinanzi alla vista, ma restava immobile ed in silenzio aspettando che qualcosa o qualcuno la spingesse a far qualcosa. Avrebbe voluto urlare, mandare al diavolo quel maggiordomo del cazzo e farsi arrestare per omicidio. Sì, avrebbe davvero voluto farlo, ma l'uomo prese ad indicare i rispettivi nidi, facendo intuire loro di avvicinarsi e guardare, così da collegare le cose: avrebbero dovuto sedersi all'interno di essi, trovando in quelle cucce umane qualcosa che potesse rappresentarli, tanto da comprendere quale appartenesse a chi. Osservò Adam e Engy salutarsi, prima di avvicinarsi ai rispettivi nidi. Quello di Adam conteneva una pistola, quello di Engy una ciocca rossa. Guardò ancora, riconoscendo un pupazzo nel nido verso il quale si diresse Tori in tutta fretta. Ne osservò la figura sedersi al suo interno e afferrare l'oggetto con estremo stupore e spavento. A che diamine di gioco avrebbero dovuto prendere parte, in quella sala buia? Spostò lo sguardo altrove, sbirciando all'interno del nidi successivi: un ceppo di legno per Ivar, un paio di corone norvegesi per il suo amico e dei pezzi di stoffa dai molteplici e sgargianti colori per Ingrid, con molta probabilità. Quello per Fae, invece, conteneva un taccuino che usava spesso per i suoi impegni di lavoro. Restando in silenzio, si avvicinò al nido e si costrinse ad entrare, imitando tutti gli altri compagni. Trattenne il braccio ancora dolorante, mantenendolo con l'altra mano e cercando di non farlo andare a sbattere contro il legno spinoso che aveva alle spalle. Il nero che poco prima aveva avuto all'altezza della clavicola era sparito, ritirandosi fino alla spalle e restituendo alla pelle sotto il collo quel colore naturale e roseo che aveva normalmente. Non appena il suo corpo venne immerso nel calore di quella strana poltrona, serrò l palpebre e la mente sembrò staccarsi dal suo corpo, regalandole una strana sensazione di leggerezza. Non aveva idea di che cosa significasse, del perché tutto ad un tratto si sentisse stranamente a casa, ma in un certo senso sembrò essere addirittura la parte migliore della sua giornata, fino a quando una voce non andò ad interrompere il flusso dolce dei suoi pensieri. Non una qualsiasi, non una voce sconosciuta; era qualcosa che arrivava da momenti passati, dai ricordi che cercava di mantenere lontani di giorno e che abbracciava di notte. «Fae.» la chiamò sua madre. La ragazza aprì gli occhi trovando dinanzi ad essi qualcosa di incredibile, che mai avrebbe pensato sarebbe accaduto.
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    Era proprio come la ricordava, tranne per le rughe che gli anni avevano disegnato sul suo viso. E quegli occhi, quegli stessi occhi che aveva sognato spesso la notte e che aveva sperato di incrociare nuovamente, un giorno, ora la scrutavano con amore. Il respirò le morì in gola, immobile, così come le sembrò fermarsi il cuore. Non avrebbe potuto essere reale. Non avrebbe potuto essere davvero la donna che l'aveva messa al mondo, poiché aveva deciso di abbandonarla ormai troppo tempo prima. Cercò qualcosa da dire, ma la sua lingua sembrò non voler collaborare, quindi si drizzò con la schiena e rimase muta.
    «Che hai fatto al braccio?» le chiese la donna dai capelli dorati appena sbucata dall'uovo. Allungò un braccio verso la figlia ormai cresciuta, cercando di andare a toccare il braccio annerito. Solo allora Fae riuscì a sentenziare qualcosa, giusto per cercare di capire che diavolo stesse accadendo e perché. «Che cazzo di scherzo è ques- Non mi toccare!» s'interruppe immediatamente, ritraendosi con il busto e allontanando il braccio dalle dita della madre, pronte ad accarezzare la ferita. «M-mi dispiace...» le disse, assumendo un'espressione colpevole, quasi fosse stata lei a farle del male. Ritirò la mano, posandola sulle ginocchia accanto all'altra. Serrò le labbra, ingoiando una o due volte prima di riuscire a dir qualcosa, malgrado la figlia sembrò anticiparla. «E' una presa per il culo? Tu non sei qui... tu non puoi essere qui. Tu non sai chi diavolo sono io. Non mi conosci affatto.» esclamò Fae, adirata. Scosse il capo più volte, come a non poter credere che tutto ciò fosse reale. Pensò d'esser pazza, di stare immaginando ogni cosa. Si portò la mano sana al capo, nascondendo delle ciocche ribelle di capelli dietro l'orecchio.
    «Fae... certo che ti conosco. Come potrei non farlo? Non abbiamo molto tempo, volevo dirti alcune cose.» riprese la donna dinanzi a lei, accovacciandosi appena e sporgendosi verso sua figlia. Avrebbe voluto abbracciarla, Fae lo sapeva, ma era consapevole del fatto che tutto, nei suoi movimenti e nelle sue gesta, avvisava sua madre di starle ben lontana, di non provare a toccarla ancora una volta. «Smettila di parlare, che diavolo ci sta accadendo? Non dovremmo essere qui... tu non dovresti essere qui.» sbraitò ancora, arrabbiata come raramente accadeva. Non sapeva il perché, ma non riusciva a mantenere il controllo sulle proprie emozioni, le quali non facevano altro che condurla all'ira, ad un'implosione interna che l'avrebbe lasciata stremata. E quell'incontro non avrebbe fatto altro che incentivare tutto quello. Perché qualcuno aveva avuto quella schifosa idea di giocare con i loro sentimenti? Non era bastato metterli l'uno contro l'atro, guardare ognuno di loro fare del male all'altro? Non era bastato distruggere il loro autocontrollo e far credere loro di essere dei mostri? No, non era bastato. Adesso giocavano con i ricordi, tagliavano via quello che era stato per sostituire la realtà con la finzione, con quello che non sarebbe mai potuto accadere per davvero, e Fae lo sapeva. Sua madre non avrebbe mai potuto sapere che il nome di sua figlia era Fae e che era stato scelto da suo padre. Era tutta una finzione.
    «Fae, guardami. Sono io. Mi dispiace davvero per non esserci stata, non sapevo come tornare da te. Avrei voluto riabbracciarti, te lo giuro. Avrei voluto combattere contro me stessa, contro questa dannata città, per tornare dalla mia bambina. Ma... » cominciò, ma fu nuovamente interrotta dalla ragazza, la quale si spinse velocemente verso di lei per poi fermarsi a pochi centimetri dal viso che un tempo aveva conosciuto. «Ma cosa? Non mi interessa delle scuse, del fatto che tu non sia potuta tornare da me. Mi interessa sapere come cazzo hai fatto a lasciarci le disse, cercando invano di nascondere un tentennamento nel tono della voce. «Mi dispiace, Fae... io... non ce l'ho fatta. Faceva troppo male.» ammise la donna, abbassando lo sguardo sul pavimento che le divideva. Il rumore di uno schiaffò esplose nella tranquillità della stanza; non ce l'aveva fatta, aveva cercato di resistere a quegli impulsi, di resistere alla rabbia, ma l'aveva sbrigliata e lasciata andare. Aveva sollevato la mano destra e aveva colpito il viso di sua madre. «E pensi che a me non ne faccia? Pensi che io sia invincibile?» le domandò, lasciando che un lacrima solitaria le rigasse il volto. La donna sollevò ancora lo sguardo, portandosi una mano sulla parte del volto colpito e coprendolo, mortificata. Pianse come se non avesse atteso altro, come se avesse cercato quel momento di liberazione da ormai troppo tempo, durante il quale aveva custodito la propria tristezza dentro il petto, fingendo che non esistesse. «No, no... sono stata una debole, lo so. Ammetto i miei errori, Fae. Ma giuro che ci ho provato... ho provato a tornare, sentivo mi mancasse qualcosa, qualcuno. Come se avessi lasciato una parte di me indietro, nel passato. Sentivo il dovere di ripercorrere quei passi vuoti, cercare le molliche di pane lasciate sulla strada. E ci sono arrivata, a Besaid...» s'interruppe, incapace di continuare per i pesanti singhiozzi. Il cuore di sua figlia si ruppe in mille pezzi, ma lei on avvertì nulla. Non aveva idea di chi fosse quella donna, ne aveva perso le tracce ormai da troppo tempo. Forse l'avrebbe abbracciata, se solo fosse stata in sé, ma in quel momento tutto sembrava un incubo dal quale sarebbe voluta solo scappare senza trascinarsi dietro nulla di tutto ciò. «Era solo troppo tardi. Meggy ha pianto, vedendomi. Mi è corsa incontro, mi ha abbracciata. Per un momento mi sono sentita quasi completa, ma... io, bé, non capivo. Non sapevo chi fosse. Ho solo appurato in lei uno sguardo conosciuto, familiare. Zia Rory avrebbe voluto chiamarti, chiederti di raggiungerci, ma tua sorella non l'ha permesso. Ha detto che ti avrebbe fatto del male vedermi e sapere che non avrei potuto riconoscerti.» continuò, fra le lacrime. Continuò a farle del male, dicendo quelle cose. Sapeva di quella storia, sapeva che aveva provato a tornare a casa, senza restare. ”Troppo tardi”, le avevano detto. Aveva dimenticato quasi tutto, ormai. Lo sapeva perfettamente, e capiva quanto quelle parole fossero veritiere, seppur dette da una figura che non era reale. Era ciò che le continuava a far più male: la consapevolezza che sua madre potesse aver provato quella sensazione di perdita e che nessuno avesse fatto nulla per aiutarla, per riportarla a casa. Era stato il motivo per il quale aveva litigato con sua sorella, qualche anno prima. Fae ci aveva provato, ma anche per lei era stato troppo tardi per andare a cercarla. Si sentì in colpa, strappata in due nel centro del petto. «Smettila! Basta!» urlò ancora, portandosi una mano alle labbra, per coprirle e lasciarsi andare ad un lieve e trattenuto pianto. «Potrai mai perdonarmi?» le domandò sua madre, posando le proprie mani calde sulle ginocchia della ragazza. «Non serve a niente, ormai.» disse Fae, continuando ad immaginare quanto fosse stata dura per lei affrontare tutto quanto. «Sei diventata così bella, indipendente e coraggiosa. Guardandoti capisco tutto quello che ho perso.» le disse sua madre, sorridendo amorevolmente. Ma Fae tentava comunque di mantenersi distante da lei, da quelle parole, cercando di distaccarsi dall'illusione che ciò potesse essere reale. Non avrebbe voluto arrendersi, ammettere di sperare in quella realtà, in quelle parole. «Io non so niente di te, invece. So solo che mia madre era una donna meravigliosa, e che la paura l'ha cambiata. So che la sua mente ora è libera, e vorrei tanto essere come lei, liberarmi di tutto quello che mi schiaccia.» affermò decisa, tentando ancora di fermare le lacrime e alzando la propria mano all'altezza della fronte, puntando il dito indice nel centro esatto d'essa. «Lo sento qui, in questo punto, il peso dei ricordi che vorrei lasciar scivolare via al vento. Tu sei uno di quelli. Ma poi ci rifletto, e penso che non potrei mai, per alcuna ragione al mondo, abbandonare il ricordo di papà. Anche se fa male. Anche se ancora non dormo bene la notte. Anche se a volte mi sento colpevole. Lo tengo stretto, perché è quello che mi rimane.» continuò, questa volta con un tono poco più pacato. «Mi dispiace. Avrei voluto essere di più, avrei voluto combattere i miei incubi, Fae. Non sono stata quello che ti aspettavi, ma sono fiera che tu sia cresciuta più forte di quanto posso esserlo stata io. Mi sento più tranquilla, malgrado tutto.» disse Cinthya, annuendo con il capo. «Mi hai costretta tu ad esserlo.» rispose la figlia, abbassando lo sguardo e cercando di non cedere ancora al pianto. Ricordò delle lacrime che avevano rigato il suo volto quanto finalmente aveva capito che sua madre non sarebbe tornata da quel viaggio. Era stata seconda notte più lunga della sua vita. «Allora una cosa positiva in tutto questo forse c'è... devo andare, ora. Ti voglio bene, mia piccola Lynae. Mi mancherai per il resto dei miei giorni, ovunque io sia e qualunque sia la mia nuova vita. Se ti avessi avuta al mio fianco forse tutto sarebbe stato più semplice per entrambe.» ammise la donna, curvando le labbra verso il basso e passandosi il dorso della mano sotto il naso, per asciugarlo e cercare di non cedere nuovamente alle emozioni. «Resta così, fallo per me. Non farti schiacciare da quel peso di cui parli, non farti atterrare dalle cose brutte che ti circondano. Un giorno sarai madre, forse. Ti prego Fae... non raccontar ai tuoi figli che vi ho abbandonate, che avevo paura di quello che mi avrebbe riservato la vita senza vostro padre. Racconta loro di quanto sia stata felice di avere te e tua sorella. Di quanto amassi tuo padre, tanto da essermi dissolta nel nulla dopo averlo perso...» raccontò, cercando di non piangere pensando alle ultime parole. Cercò di avvicinarsi per abbracciare Fae, ma la ragazza si ritrasse ancora una volta, incapace di restare calma e lasciarsi andare a quelle parole d'amore che spesso aveva sognato di sentirle dire. «Va' via, sparisci. Non sei reale!» urlò ancora, allungando il braccio in sua direzione e spingendola lontana da lei. Sarebbe stato quello, il modo in cui avrebbe ricordato sua madre? Perché avevano deciso di giocare con le loro vite? Perché avevano deciso di rovinare ciò che di buono c'era nelle loro vite? «Mamma...?» la vide dissolversi nel nulla, sparire. Si sporse in avanti, quasi volesse afferrare il nulla che aveva preso il posto dello sguardo triste della donna. Che aveva fatto? Perché le aveva detto di andare via? Perché non le aveva chiesto di restare insieme? «Mamma!» gridò ancora, fra le lacrime. Non rimase nulla, neanche il profumo che aveva riconosciuto sulla sua pelle. Così come non rimase nulla di Fae Olsen in quel momento.
    Quando anche lei, come tutti gli altri, venne catapultata nel labirinto, l'unico pensiero che aleggiava nella sua mente era il ricordo degli occhi di sua madre; un dei tanti che avrebbe fatto ulteriore peso sulla sua mente. Era la sua maledizione: poter ricordare le cose che un tempo le avevano fatto del bene.
     
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    Well I found a new way
    I found a new way.
    C'mon doll and use me;
    I don't need your sympathy.
    I'll find a new way
    I'll find a new way, baby.
    I'm not Ulysses, I'm boy Ulysses
    No, but you are now, boy.
    So sinister, so sinister,
    Last night was wild.
    What's a matter there, feeling kinda anxious?
    That hot blood, grew cold.
    Yeah everyone, everybody knows it.


    Ed eccole, le due ragazze a cui teneva di più sulla faccia della terra, a fare comunella contro di lui. Si sarebbe potuto aspettare qualcosa di diverso? Roteò gli occhi al cielo alle punzecchiature di entrambe, non nascondendo un mezzo sorriso: terribile che si fossero conosciute in quella circostanza, ma non poteva non essere felice che si fossero piaciute subito. Dell'alleanza immediata contro di lui, invece, avrebbe fatto volentieri a meno.
    Ma aveva poca importanza: inquietudini su inquietudini si sarebbero sommate una dietro l'altra, deviando completamente la loro attenzione. Paure, morti, coercizioni e lacrime, troppe lacrime li avrebbero distolti da quel momento di normalità che si era creato tra loro.
    Vedersi morto, vedere loro morte, coprirle con il proprio corpo pur di proteggerle, trovarsi costretto ad usare il proprio potere per fare del male gratuito, utilizzando Ivar come un burattino, pur di tenere lontano quel mostro da Fae e Didi...
    Larsen era diviso tra ciò che voleva essere e ciò che gli stavano dicendo di fare, la riconosci questa sensazione Elias?
    Non poteva sottrarsi al volere della bambina malefica, anche se aveva tentato con tutte le forze di raggirarla: Ivar, però, non sembrava in grado di dargli retta.
    [- No, no, NO!] Urlava, pur restando zitto. Urlava nella propria testa, in quella di Ivar che lo implorava di fermarlo. Urlava e non sapeva nemmeno a cosa quel NO si riferisse: era la bambina a volere che Ivar non si fermasse? Era lui a volerlo convincere che poteva controllarsi? O lo stava implorando di fermarsi?
    Non aveva più senso, ormai. Fae aveva agito, fermandoli entrambi.
    Si sentì svuotato, sfinito, come sul punto di svenire. Cosa aveva più senso?
    Didi.
    Quella sola presenza gli diede la forza di combattere per rimanere vigile, per non arrendersi a quella realtà che lo stava uccidendo, e non per via delle schegge conficcate sulla sua schiena. C'era una piccola Didi alle sue spalle da proteggere, ora che Fae si era sacrificata per loro.
    Eppure, era ancora viva, eppure ancora c'era una speranza di sopravvivere a quel macabro gioco.
    Si scusò, sentendo il vuoto echeggiare nelle sue parole: la colpa era sua e lui non poteva farci niente. O forse si?
    Ivar incrociò il suo sguardo, ne lesse il panico ancor prima di sentirlo nella propria mente. Qualcosa per rimediare c'era, ma le forze lo stavano abbandonando sempre di più, non poteva garantire che ci sarebbe riuscito.
    Si avvicinò al falegname, ciondolando come se fosse ubriaco, senza nessuna paura.
    [- Ascoltami, Ivar, ascoltami. Io mi fido di te. Io so che ti calmerai, io so che puoi farcela.]
    Camminava verso di lui, lo guardava fisso negli occhi, cercando di non pensare al caos che si stava generando attorno a loro: se non si fosse contenuto, sarebbero morti tutti, Didi sarebbe morta. E questo era inaccettabile. Piuttosto, sarebbe morto lui, nel tentativo di contenere Ivar e il suo disgraziato potere.
    Un passo davanti l'altro, lento, noncurante, mentre una determinazione che raramente conosceva si faceva spazio dentro sè stesso. L'aveva provata pochissime volte prima, nei reali momenti di necessità: quando, ad esempio, aveva portato a spalla la bara vuota di suo nonno, quando suo padre era troppo distrutto all'idea di farlo. Quando, poi, aveva preso in mano la situazione della sua famiglia e - in un lampo di genio che lui stesso non si sapeva spiegare da dove fosse uscito - aveva deciso che vendere sarebbe stato il suo lavoro, aveva scelto l'azienda più facoltosa di Besaid per la sua ascesa professionale.
    Si raddrizzò, avendo una strana fiducia in sè stesso, come quando aveva chiuso l'affare con gli americani, come quando aveva la certezza che se la sarebbe cavata in qualche modo.
    [- Ivar, sto venendo da te. Sto per toccarti. Sto per toccarti e so che non mi farai del male, perchè non vuoi. Perchè anche se ti faccio fare dei nani assurdi, tu mi vuoi bene. E tu non fai del male alle persone a cui vuoi bene. Tu sei una bella persona, Ivar. Tu non sei il tuo potere.]
    Era ai suoi piedi, si inginocchiò di fronte a lui, mentre ogni cosa intorno a loro moriva. Sarebbe morto anche lui? Non aveva importanza. Ridusse lo spazio tra sè e il falegname, appoggiando la fronte su quella del Wesenlund, come prima aveva fatto con Fae. Non sapeva se in quel modo il suo potere fosse più agevolato, sapeva solo che era l'unico modo che funzionasse, delle volte, per calmare sua madre quando andava in ansia, Levi quando si arrovellava nella sua rabbia, Didi quando aveva paura di suo padre.
    Chiuse gli occhi, prese un respiro, era ancora vivo.
    [- Mi senti, Ivar? Sono ancora qui, sono ancora vivo, ti sto toccando e sono ancora vivo. Perchè tu non puoi farmi del male, perchè tu non vuoi. Perchè tu sei forte, sei più forte della morte che ti abita dentro.]
    Aggiunse le proprie mani, sulle braccia di lui, a maggior riprova delle sue parole. Si sarebbe calmato?
    Sentiva il respiro regolarizzarsi, seppur ancora accelerato. Stava funzionando, o almeno così pareva. E lui si sentiva stremato da quello sforzo.
    Lasciò Ivar alle cure di Fae, ansioso di verificare che Didi fosse sana.
    Ebbe una fitta al cuore nel vederla seduta con la bambina malefica e morì di ansia quando calò il buio. Si diresse a tastoni nel buio verso di lei, cercandola, finchè a metà percorso ogni granello di polvere prese ad illuminarsi. Chiuse gli occhi, ringraziando ogni divinità perchè quello era il chiaro segno che era viva, che stava bene abbastanza da usare il proprio potere. Rimase per un istante affascinato dalla bellezza di quel che lei sapeva fare, riassaporando un soffio della pace che le sue aurore sapevano infondergli. La vide poi venirgli incontro, cercando qualcosa. Si avvicinò a lei, seguendola nel suo cercare, tentando di aiutarla. Ma lei sembrava sapesse cosa stava facendo e difatti, dopo qualche minuto trovò la chiave.
    Zoppicava visibilmente, mentre invitava tutti ad andarsene da lì. Lui le cinse il fianco, aiutandola a camminare, accertandosi che dietro la porta che incredibilmente scattò, non ci fosse altra morte ad aspettarli.
    Forse non era morte, ma la scena non era di certo invitante: piombarono di nuovo nel buio, mentre un'unica figura dominava la scena. Strinse Didi a sè in un gesto meccanico, non avrebbe voluto lasciarla e non si fidava assolutamente di quell'uomo che, nemmeno qualcuno gli avesse tagliato la lingua, faceva dei gesti strani per indicare loro di entrare in quei nidi. Guardò Ingrid come per chiederle cosa ne pensasse: non aveva più forze per leggere i suoi pensieri. Assurdo, per la prima volta nella vita, non sapeva esattamente cosa stesse pensando. Avrebbe voluto che fosse così per sempre, avrebbe voluto scoprirla come e quando lei avrebbe voluto farsi scoprire, naturalmente.
    Gli altri, che li avevano raggiunti, iniziavano poco a poco ad entrare come indicato dal servo muto e Larsen fu ancora una volta mosso contro la sua volontà, ma stavolta per pressione sociale, a seguire le istruzioni. Accompagnò Didi al suo nido, guardandola negli occhi un attimo.
    - Usciremo di qui, Didi, te lo prometto.
    La lasciò andare dolcemente in quel nido, per niente convinto a separarsi da lei. La vide sistemarsi, andando poi ciondolante nel suo. Buttò un ultimo sguardo al maggiordomo, prima di entrare. Sarebbe stata un'altra tortura?
    Ma invece fu colto da una bella sensazione di tranquillità e pace, avvertiva un tepore che -nonostante tutto- impensieriva parte del suo cervello: erano all'inferno, da dove veniva quel senso di tranquillità?
    Una campana suonò tre volte e lo strano uovo in quel nido si schiuse, rivelando suo nonno.
    Larsen arretrò più che gli fosse possibile, spaventato: era uno scherzo? Suo nonno era morto, esattamente come aveva visto morta Ingrid solo pochi minuti prima.
    Ma guardando gli occhi lucidi di suo nonno, si chiese se non fosse in qualche modo reale: così simili ai suoi, lo scrutavano, velati da una patina di lacrime trattenute a stento.
    - Elias. Riconobbe con difficoltà quella voce, rotta dal sentimento, come mai l'aveva sentita prima. Noah Larsen era sempre stato un uomo tutto di un pezzo, uno che aveva pensato al dovere, alle cose serie, uno che raramente si dava ai sentimenti e la cui pacca sulla spalla era il segno di maggior approvazione che chiunque potesse volere.
    - Io devo ringraziarti, Elias, per la bara, per come hai preso la situazione in mano, per come sei diventato grande quando i grandi intorno a te sono diventati piccoli e hanno avuto bisogno di te.
    Suo padre era tornato da quel naufragio, vivo per miracolo, grazie al sacrificio di suo nonno. Elias non l'aveva mai osato dire a voce alta, ma sentiva il dolore ed il senso di colpa di suo padre corroderlo da dentro: si era lasciato avviluppare da qualcosa di cui non era responsabile, aveva gettato la spugna, abbandonando l'equilibrio già precario della famiglia Larsen in mano a suo figlio, sentendosi indegno di vivere. E lui, la pecora nera, il rosso malpelo che tanto aveva fatto dannare sua madre per le sue marachelle, lui che agli occhi di tutti era solo che un fallito infantile, era riuscito a sobbarcarsi non solo la bara vuota di suo nonno, ma tutta la loro situazione economica, le loro dinamiche personali, dimostrando che si erano sbagliati su di lui.
    Questo, cognitivamente, Elias lo sapeva, ma sentirselo dire anche solo da un ologramma della persona che più aveva visto come modello al mondo, lo rese vulnerabile.
    - Non ho fatto niente, nonno. Ho fatto quel che dovevo. Tentò di giustificarsi, ancora timoroso dall'abbracciarlo, anche se avrebbe voluto tanto.
    - Hai fatto molto di più. Hai protetto la tua famiglia, tutte le persone che tu reputi famiglia. So della taverna, data in gestione ai nostri vicini, per aiutarli economicamente. Sapevi che non avrebbero accettato soldi per niente e ti sei inventato questo giochetto, non è vero? Arrossì violentemente, così che pelle e capelli si fondessero in un'unica macchia vermiglia.
    - Mi è sembrata la cosa più sensata da fare...
    Ricevette una pacca sulla spalla da suo nonno, lo guardò negli occhi e incassò l'unico gesto di reale rispetto che avesse probabilmente ricevuto da lui.
    - Sei stato sveglio, buono, e io sono orgoglioso di te. Sono orgoglioso che tu porti il mio nome. Ma ora, ora dovrai usare tutta la tua astuzia, tutto il tuo cuore, per sopravvivere, per salvare anche lei. Non farti abbattere, Elias. Non farli vincere, mi raccomando.
    Lo vide sparire, mentre qualcosa gli diceva che era il momento di abbandonare quel nido, per affrontare ciò che sarebbe venuto. Aveva ancora una mano tesa verso la figura ormai scomparsa di Noah, quando decise di sollevarsi e uscire da quel rifugio: gli altri stavano facendo lo stesso e solo quando tutti furono fuori, il maggiordomo sollevò la cloche, mostrando loro un labirinto che, in pochi secondi, si materializzò intorno a loro.
     
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    We're here in the jungle, running right into the fire
    we're here in the jungle, who's gonna make it out alive?


    Aveva trovato la chiave. Era riuscita a salvare, almeno per il momento, i suoi compagni di sventure; eppure non si sentiva un'eroina.
    Si sentiva, piuttosto, una gran stupida. Aveva messo a repentaglio la propria vita nonostante la brutta sensazione provata alla bocca dello stomaco non appena aveva messo piede nella casa degli specchi e, ancora prima, quando aveva preso per la prima volta l'invito tra le mani. Se non avesse dato retta a quel maledetto pezzo di carta, da gran cocciuta qual era, niente di tutto questo sarebbe successo.
    Se solo avesse dato ascolto ad Elias. Aveva cercato di dissuaderla dal presentarsi ed Ingrid lo aveva ringraziato riattaccandogli il telefono in faccia — quanto tempo era passato da quella chiamata? Si sentiva stanca e spossata, come se fosse rinchiusa in quell'incubo da giorni, piuttosto che qualche ora, al massimo.
    Così facendo, disobbedendogli come una bambina, lo aveva a sua volta coinvolto in quel gioco pericoloso contro la sua stessa volontà; perché dal tono della sua voce era stato chiaro che non si volesse presentare, eppure quando era arrivata lui era già lì.
    Aveva pensato ingenuamente che, a metà dell'evento ‘sponsorizzato’, lo avrebbe chiamato per rinfacciargli la sua assenza e per metterlo al corrente di tutto il divertimento perso, facendolo pentire di non essersi presentato.
    L'unica a pentirsi, in quel momento, era proprio lei. In tutti gli anni di vita che ricordava, questa forse era la peggior scelta che avesse mai fatto. Non si era mai sentita così terrorizzata, prima d'ora. Una piccola parte di sé, aveva paura proprio per se stessa.
    Innanzitutto era una ragazza ed era consapevole di non avere un aspetto minaccioso, sia a causa dell'altezza irrisoria, che del fisico minuto. Non si era mai allenata per l'autodifesa ( se fosse volato uno schiaffo nel raggio di un miglio, probabilmente sarebbe stata la prima a prenderlo ), aveva cancellato dai ricordi gli unici atti di violenza conosciuti in ventisei anni e il potere acquisito le sarebbe servito a ben poco. Poteva manipolare la luce, ma non era ancora ferrata in materia e il massimo a cui si era spinta, per adesso, era rappresentato dal cambiare le particelle per rendere invisibile qualche parte del corpo o qualche piccolo oggetto. Sai che utilità.
    Non si sentiva ‘cazzuta’ come Engel, né spavalda come potevano sembrarlo Fae o Victorianne.
    Ma per quanto le dolesse la gamba, lanciandole fitte di dolore ad ogni movimento e seppure fosse impaurita di non riuscire a tornare a casa tutta intera, era Elias a preoccuparla maggiormente.
    Era fisicamente messo peggio di lei, riportando più ferite di un semplice colpo ad un arto ( se la sarebbe sicuramente cavata con un innocuo livido ) dovute alla pioggia di detriti causata dalla furia cieca di Adam, dalla quale aveva cercato di proteggere lei e Fae, facendo loro da scudo con il corpo. Ad intimorirla però, era soprattutto il lato mentale.
    Quando si erano rincontrati per la prima volta dopo anni, Elias non aveva esistato a metterla al corrente circa la sua abilità. Le aveva ricordato della telepatia e della possibilità di manipolare il pensiero; in quell'occasione, si era resa conto di quanto potesse pesargli quella situazione, non avendo potere decisionale su di essa e di quanto lo intimorisse poter rimanere solo. Per Ingrid non costituiva un problema avere qualcuno nella propria testa quasi sempre, ma per cento persone come lei, ne esistevano altrettante a cui avrebbe sicuramente dato fastidio, costringendole ad allontanarsi.
    Aveva visto la preoccupazione nei suoi occhi, il timore di venire abbandonato da un momento all'altro, perciò si chiese fino a che punto avrebbe influito quella giornata sulla sua vita, dopo aver costretto Ivar ad 'attaccare' Fae, entrambi contro la loro volontà, mossi come burattini da un'entità superiore e molto più pericolosa. Aveva piegato la sua mente a proprio piacimento, così come Tori aveva dovuto fare con Engy per farle disegnare tutti i loro cadaveri.
    Mai, fino a quel momento, le particolarità che si potevano ricevere a Besaid le erano sembrate l'arma a doppio taglio che si stavano in realtà rivelando.
    Ci rimuginò sopra mentre tutti presenti sfilavano di fronte a lei oltre alla soglia della porta finalmente spalancata; ognuno di loro era ferito più o meno gravemente. Esibivano tutti tagli, escoriazioni e contusioni, il braccio di Fae era ancora dipinto di un orrido color cancrena che poco si intonava all'arcobaleno dei suoi capelli e molti degli indumenti sarebbero stati da buttare, per colpa dei tagli e del sangue di cui erano inzuppati.
    Per tutto quel tempo, le iridi chiare di Ingrid rimasero agganciate alla figura del suo amico, fin quando non lo sentì stringerla; si ammorbidì contro al suo fianco, sorretta dal suo braccio ed inalò forte, prima di sospirare. I suoi vestiti erano impregnati di sudore e di polvere e, per quanto quell'odore acre le pungesse le narici e fosse ben lontano dal solito profumo di pulito a cui si era abituata, riusciva a farla sentire più protetta e meno spaventata.
    Strinse la sua maglietta con forza, decisa ad allentare la presa soltanto se fosse stato necessario e con la mano libera richiuse la porta con un tonfo, volendo lasciarsi alle spalle tutte le vibrazioni negative emanate dalla stanza in cui era avvenuto tutto quel male.
    L'ambiente in cui si ritrovarono era ugualmente buio e non meno tetro; avrebbe preferito trovarsi di nuovo all'esterno, all'aria aperta nel bel mezzo del Luna Park — in cui non avrebbe mai più messo piede, comunque — ma ormai erano in ballo e sarebbero dovuti arrivare alla fine di quel percorso infernale.
    Lanciò una lunga occhiata all'uomo che, silenziosamente, li stava aspettando, indicando a ciascuno un grosso nido e successivamente ad Elias. Non riusciva a distinguerlo nitidamente, ma scrollò le spalle e, controvoglia si sganciò da lui non appena si ritrovarono di fronte alle rispettive postazioni.
    « Ed io ti prometto che non ti proporrò mai di venire a fare un giro sulle giostre » gli rivolse una parvenza di sorriso ed avanzò verso il nido. Al suo interno, scorse dei lembi di stoffa piuttosto lisa, quasi si trovasse lì da chissà quanto tempo.
    Si abbassò per osservarla meglio e si mise a sedere, prendendola fra le mani; era un tessuto familiare al tatto, non riusciva a distinguerne il colore ma avrebbe giurato fosse di un intenso blu notte ed era tempestato di minuscole stelline bianche. Lo avvicinò al viso ed era talmente presa da quel senso di ‘casa’ che emanava da non accorgersi neppure che intorno a lei l'aria si era fatta più fredda, mentre le figure circostanti perdevano nitidezza.
    « Sai, a casa ci sono ancora quelle lenzuola in camera tua, non l'ho toccata da quando.. beh, lo sai »
    Ingrid alzò il capo, tanto mestamente da dover strizzare gli occhi a causa di un capogiro.
    Per quanto si sforzasse di mettere a fuoco la vista, niente attorno a lei aveva contorni definiti; erano spariti tutti i nidi e, assieme ad essi, erano spariti anche gli altri.
    L'unica figura ben visibile, nel mezzo della stanza sbiadita, era quella di un uomo ormai attempato. Non ricordava di averlo mai visto prima d'ora, ma dentro di sé sapeva perfettamente chi fosse.
    La sua fronte era increspata da piccole rughe a causa dell'espressione concentrata, ma rimaneva tutto sommato di bell'aspetto, per quanto le sembrasse trascurato. Portava la barba incolta e i capelli, macchiati d'argento, gli ricadevano sul viso in ciocche disordinate. Le ricordava vagamente Levi, il giorno in cui l'aveva conosciuto con Larsen e si chiese se quello non fosse l'aspetto standard di chiunque si portasse appresso dei fantasmi.
    Sapeva di assomigliargli, avevano lo stesso taglio degli occhi e la stessa piega delle labbra piene, ma non lo avrebbe mai ammesso.
    Avevano anche lo stesso incarnato, nonostante quello di Ralf fosse molto più pallido. Forse perché era morto? Morto stecchito e sepolto a chissà quanti metri da terra, lei lo sapeva bene. Si chiese se quella visione non fosse opera della mente malata di Jason. Aveva mandato in pappa il cervello dell'amica di Elias e adesso si stava prendendo gioco anche di lei.
    Eppure gli era stata alla larga, aveva evitato di sfiorarlo, inoltre dopo il pugno che Adam gli aveva riservato, sarebbe stato stupido a fare di nuovo lo stronzo con qualcuno di loro.
    Scattò in piedi, ignorando la fitta di dolore e stropicciò con rabbia la stoffa fra le dita, portandosela al petto.
    « Non è possibile, sei morto » scosse il capo e chiuse gli occhi. Sua madre le aveva sempre detto di chiuderli stretti stretti, in caso di incubo e che una volta riaperti, puff, sarebbe tutto svanito.
    Quando li riaprì, lui era ancora lì. Allungò una mano per toccarla e questo la fece indietreggiare spaventata; non ricordava niente di ciò che le aveva fatto in passato, ma il terrore era ancora lì, pronto a farla scattare come una molla.
    « Non toccarmi. Sei morto, sei morto, tutto questo non è reale » per quanto si sforzasse di crederci e per quanto continuasse a mormorare quelle parole, la sua figura rimaneva chiara e fin troppo vivida.
    « Ingrid.. non voglio farti del male, non più » avanzò di un passo, mentre sul suo viso prendeva forma una smorfia contrita. « Mi sono comportato male, sono stato un mostro, non meritavate niente di ciò che ho fatto e mi dispiace »
    Quell'uomo le aveva tolto tutto. Per colpa sua aveva perso tutto ciò che aveva, si era dovuta allontanare e, per anni, aveva pensato di essere sbagliata; non aveva ricordi, non aveva un'infanzia o un'adolescenza su cui scherzare o di cui imbarazzarsi, come ogni altro adulto normale.
    Glielo disse, mentre la rabbia le montava dentro. Le aveva rovinato l'esistenza e adesso gli dispiaceva. Troppo facile.
    « Devi starmi lontano, devi andartene, uscire dalla mia testa e tornartene tre metri sotto terra »
    Le veniva da piangere e, se non si fosse sentita stupida ad urlare contro ad un fantasma, probabilmente lo avrebbe fatto; doveva mantenere la calma, respirare e cercare di non finire in frantumi per l'ennesima volta.
    « Forse non mi perdonerai mai e lo capisco, ma sappi che non vi ho mai dimenticate, dal momento in cui ve ne siete andate. Avrei dovuto rimediare, ma ormai era troppo tardi. Sei sempre stata la mia bambina e ho sempre pensato a te con orgoglio. » Lasciò che la sua mano le si stringesse attorno alla spalla, mentre la sua espressione si addolciva con affetto e trattenne il respiro fin quando la pressione delle sue dita non svanì, assieme alla sua immagine. Tutto intorno a lei aveva ripreso a scorrere, i rumori le riempivano di nuovo le orecchie e i nidi erano spariti.
    Era sparito perfino il pezzo di stoffa che aveva tenuto saldamente fino ad allora, a cui si era aggrappata per non sentirsi soffocare.
    Si circondò il busto con le braccia, ancora scossa, mentre la stanza cambiava ed un labirinto prese pian piano forma intorno ai loro corpi messi emotivamente a dura prova.
     
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    Un grande labirinto.
    Un intreccio di siepi e percorsi senza uscita.
    Terra, umidità e nubi fitte che si distendono su quello che avrebbe dovuto essere un tappeto azzurro.


    Tristezza
    Entrati nel labirinto, i vostri pg procederanno inizialmente camminando e cercando di trovare una via di uscita. Poco dopo, il cielo si incupirà, divenendo scuro quasi fosse notte, mentre un vento gelido li coglierà alla sprovvista. Si fermeranno quando troveranno dinanzi a loro un grande albero spoglio posto di fianco a quello che sembrerà un varco fra le siepi che potrebbe condurli oltre. I rami di questo però prenderanno vita poco a poco, staccandosi dal tronco e prendendo la forma di uno spaventapasseri fatto d'ossa rinsecchite dal tempo; un cappello di paglia sul capo ossuto e privo di pupille, così come il resto dello scheletro, coperto per metà da una lunga giacca in panno danzante al vento. Il suo nome è Bubak, il protagonista di alcune legende che si tramandano ormai da secoli in Repubblica ceca. La figura spettrale si avvicinerà al gruppo, fermandosi poco distante da esso e schiudendo le labbra ossute per urlare. Un pianto disperato, assordante, che procurerà un dolore emotivo e quasi straziante ai presenti. Si sentiranno persi e avranno la sensazione di non avere più alcuna ragione per vivere. Sarà come avere una profonda ferita sul cuore che non permette loro di respirare, così proveranno quindi lo stesso dolore del Bubak.
    Tori ed Elias dovranno tentare la sorte, avvicinandosi alla figura e cercando di comandare quella mente oscura, imponendogli di non piangere, cercando in qualche modo di farlo sentire accettato.
    Quando il Bubak si sarà calmato, lo scheletro andrà in mille pezzi, lasciando libero il passaggio.
    - Tori ed Elias saranno estremamente stanchi, tanto da accasciarsi al suolo; qualcuno dovrà reggerli. (invitiamo i player dei due pg ad accordarsi con altri due pg presenti nella quest)

    Pazzia
    Raccolti Tori ed Elias e superato il grande albero e quindi il varco fra le siepi, si ritroveranno al centro di un grande spiazzo adibito a festa, all'interno del quale degli invitati li accoglieranno applaudendo non appena il gruppo avrà fatto il proprio ingresso, mostrandosi a loro con abiti da ballo finemente ricamati e ognuno di loro farà vanto di una bellezza forse d'oltremondo, per questo i vostri PG ne resteranno momentaneamente affascinati, quasi incantati. Si sentiranno parte di quella festa, esattamente come tutti gli altri già presenti. Al centro della piccola piazza circondata dalle siepi alte del labirinto vi sarà un chiosco in marmo bianco, fra le cui colonne si ergerà la più bella fra quelle figure, la quale avanzerà di qualche passo, scendendo i tre scalini ed avvicinandosi al gruppo sotto lo sguardo felice e attento di quegli invitati posizionati attorno a loro. La donna si avvicinerà a Jason, fermandosi a mezzo metro da lui e sporgendosi verso di esso con il viso. Sarà in quel momento che quelle figure attorno a loro inizieranno a contorcersi, portandosi le mani alle tempie ed emettendo versi inumani. I vostri PG non capiranno cosa accade, mentre Jason prenderà a contorcersi esattamente come fanno le figure che fino a quel momento li avranno osservati in silenzio. La donna e i suoi invitati cambieranno aspetto, trasformandosi in umani con un teschio di cavallo al posto del viso. La chiamano Cegua nel folklore del Nicaragua, e dicono porti la mente umana alla pazzia, senza alcuna via di ritorno. Ella gli sussurrerà parole che neanche lui capirà, come se parlasse in una lingua straniera e sconosciuta, ma Jason saprà perfettamente riconoscere l'abominio di quei suoni spaventosi e ne avrà paura. Questo gli farà perdere momentaneamente il senno: perderà il controllo del proprio potere, che userà su quest'entità. La Cegua inizierà a delirare emettendo versi spaventosi, come se qualcuno stesse conficcando più e più volte un'ascia nel torace di una bestia, e lasciando fluire il proprio potere nelle menti dei vostri Pg, che si sentiranno persi e pazzi.
    Gli invitati attorno a loro prenderanno ad avvicinarsi al gruppo, il quale avrà a sua volta perso la piena lucidità della situazione. Ogni Pg proverà uno strano senso di instabilità e frenesia, e molti di loro avranno paura di perdere nuovamente il controllo dei poteri. Mentre la lotta astratta fra Jason e la Cegua procederà, i Pg intuiranno che più Jason spaventa la Cegua e più loro perdono il controllo, quindi sarà Ivar a scaricare la tensione avvicinandosi alla donna con la testa di cavallo e usando il proprio potere su di lei. Una volta disintegrata la Cegua, la sensazione di instabilità che ognuno dei Pg ha provato svanirà -così come il resto degli spettatori che fino a quel momento li ha circondati- e Jason si riprenderà più tardi rispetto ai suoi compagni.
    - Jason sarà ancora fuori di sé, e probabilmente dirà cose senza senso per un bel po' di tempo durante il cammino successivo, mentre Ivar sarà provato fisicamente per lo sforzo. Tutti gli altri faranno comunque fatica a restare tranquilli, avvertendo nella mente ancora una sensazione di caos e paura.

    Paura
    Dopo aver sconfitto la Cegua, il gruppo proseguirà oltrepassando un altro varco nelle siepi; una volta superato, si ritroveranno ad un bivio. Il sentiero alla loro sinistra li porterebbe in un vicolo cieco, quello alla destra proseguirà per qualche altro metro, fermandosi poi dinnanzi ad un foro nel terreno, all'interno di quale dovranno infilarsi per poter proseguire. Si ritroveranno in un passaggio sotterraneo -tutti i vostri pg si sporcheranno gli abiti di fango- al termine del quale s'intravederà una luce che simboleggerà l'uscita de raggiungere.
    Sarà in quel frangente che appariranno due Wendigo e bloccheranno loro il passaggio: non potranno retrocedere né avanzare. Creature a quattro zampe fatte di rami e terra con lo scheletro di un cervo al posto del muso. Avanzeranno nella loro direzione con lentezza. Ingrid proverà a rendere ognuno di loro invisibile, riuscendo ad ottenere un ottimo risultato che, però, durerà solo qualche minuto, durante il quale i Wendigo saranno spaesati ma continueranno a cercarli, passando attraverso ai corpi senza però riuscire a vederli. Uno di loro si avvicinerà pericolosamente a Tori, la quale sembrerà essere l'unica a non essere stata completamente “coperta” dall'abilità di Ingrid. Adam interverrà, cercando di concentrare le forze che gli rimangono per sradicare i corpi dei due cannibali.
    - Prima di riuscire nell'impresa, una delle due creature ferirà Tori ad un braccio graffiandola con uno degli affilati artigli. La giovane perderà una lieve quantità di sangue e il dolore non le permetterà di muovere in alcun modo il braccio ferito.
    - Ingrid non sarà capace di usare il proprio potere per un po' di tempo dato l'enorme sforzo compiuto per riuscire a proteggere gli altri. Dopo aver sconfitto i Wendigo, difatti, alternerà momenti in cui i compagni non potranno vederla, per colpa della perdita del controllo sulla propria abilità; a tratti sarà quindi invisibile a chiunque.
    - Adam si sentirà estremamente stanco e a stento riuscirà a procedere.

    Dolore
    Sconfitti i due Wendigo, il gruppo proseguirà sul proprio cammino raggiungendo l'uscita del Tunnel ed approdando in un grande spazio delimitato da un unico muro di siepi a forma circolare, il quale non sembrerà presentare una via d'uscita. Quando ognuno di loro si sarà lasciato alle spalle il tunnel, il terreno franerà chiudendone l'uscio e impedendo loro di tornare indietro. Stranamente, sarà solo in questa parte del labirinto che un sole cocente accoglierà i vostri Pg; dalle siepi cresceranno poi fiori coloratissimi i quali daranno un'accogliente veste a quelle pareti normalmente di un verde smorto. Un fresco odore primaverile inonderà le loro narici, facendoli illudere d'essere arrivati al termine di quell'assurdo viaggio. E sarà nel momento in cui quella familiare sensazione di pace e tranquillità si sarà infilata sotto la loro pelle che, silenziosamente, un serpente di grandi dimensioni si farà strada nel grande spazio venendo fuori dal terreno. Il Rokurokubi avrà l'aspetto di una donna dal collo lunghissimo il cui viso sarà indemoniato. Si avvicinerà ai presenti, avvolgendoli con il proprio collo e finendo per attorcigliarsi al corpo di Fae e morderla in diversi punti, dalle cui ferite prenderà a berne il sangue; Engy sarà l'unica a poter sconfiggere la creatura, disegnando sul suo blocco un'arma efficace che riuscirà a vincere sul Rokurokubi. Le siepi si ritireranno nel terreno e così il labirinto scomparirà, facendo ritrovare i Pg in un luogo spoglio: poco distante da loro ci sarà una figura ad aspettarli.
    - Ognuno di loro avvertirà una fresca sensazione di tranquillità non appena avranno varcato l'uscita del Tunnel.
    -Engy ha carta bianca per quanto riguarda l'arma che disegnerà e deciderà di maneggiare per sconfiggere la creatura. Non deve necessariamente ucciderla, ma almeno metterla "fuori uso" quanto basti. Comunque non sarà facile per lei affrontare la creatura: dovrà colpire la testa o quanto meno riuscire ad allontanarla dal corpo dell'amica; dovrà quindi prestare attenzione a non colpire l'obiettivo sbagliato. [!!! Altri Pg potranno aiutarla nell'intento]
    -Fae sarà spaventata e per il trauma subito durante l'ultima ora, l'abilità che le permette normalmente di rigenerare i propri tessuti avrà problemi a "funzionare"; per questo le ferite prenderanno a rimarginarsi lentamente, per poi finire con il riaprirsi al minimo movimento del suo corpo.
    -La figura sarà quella di un uomo dall'aspetto normalissimo, ma nessuno di loro sarà capace di riconoscerlo;


    Turni: (Attenzione: per coerenza narrativa, i turni sono fissi. Non saranno possibili cambi)
    I partecipanti avranno a disposizione 3 giorni per postare la propria risposta. Se questa non perverrà entro il tempo stabilito, salterete il turno per poi riprendere dal successivo.

    1. Tori
    2. Elias
    3. Ivar
    4. Ingrid
    5. Adam
    6. Engy
    7. Fae

    Qualsiasi dubbio o domanda riguardante la Quest potete porgerla in questo topic.
     
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    VICTORIANNE FAWNIE ÅRUD ☾

    Le sue parole caddero nel vuoto. Ognuno momentaneamente prigioniero dei propri pensieri, tutti i presenti apparivano troppo scossi da ciò che l’uovo aveva mostrato loro – chi più, chi meno evidentemente – ed al contempo storditi dal labirinto che si era materializzato dinanzi a loro. Le siepi accuratamente sfoltite e modellate apparivano sinistre, immobili e imponenti. Considerando ciò a cui erano scampati, qualunque tipo di minaccia poteva celarsi al suo interno, eppure rimanendo lì, incerti e spaventati, non sarebbero riusciti in alcun modo a cambiare le cose. Chiunque stesse offrendo loro simili difficoltà, assistendovi come ad un interessante programma d’intrattenimento, doveva avere qualcosa di ben preciso in mente. Il modo in cui le “prove” erano state studiate – dall’evidente conoscenza delle loro abilità e debolezze, ai piccoli dettagli delle loro vite, ritorti contro di loro come un’affilatissima arma a doppio taglio – dimostrava una pianificazione quasi maniacale, dove ogni dettaglio era stato investito di immensa attenzione. Ed era proprio quella consapevolezza che spaventava Tori: quanto a fondo il loro aguzzino sarebbe stato capace di spingersi? Gettò una veloce occhiata ai propri compagni, notando che – se non altro – le illusioni presentate loro dall’inquietante maggiordomo non sembravano aver procurato ulteriori danni fisici rispetto a quelli riportati nell’antico salone in rovina. Per quanto misera, fu una vaga consolazione. Il labirinto che si estendeva dinanzi a loro era un ostacolo complesso e avrebbe sicuramente richiesto di camminare a lungo. «Se per voi va bene credo che sarebbe meglio non separarsi.» Interruppe il silenzio, riscuotendo chi ancora sembrava perso nei propri pensieri. Avevano atteso abbastanza. Restare fermi lì non avrebbe portato a nulla. Fece scorrere lo sguardo su ognuno dei suoi compagni, soffermandosi solo un secondo di più su Adam. Suo cugino non era certo ridotto bene; se ciò a cui lo aveva sottoposto la bambina lo aveva turbato psicologicamente, la cosa che più preoccupava Tori era la ferita alla gamba, così come il braccio di Engel ed i danni visibili che il resto dei suoi compagni aveva riportato. «Potremmo avere bisogno delle abilità di tutti.» Aggiunse, facendo un passo avanti verso l’entrata del labirinto. Per un istante, un deja-vu la colpì, ricordandole una delle leggende epiche che più aveva amato nel corso dell’infanzia: il mito di Arianna e Teseo, l’eroe che affrontava il Minotauro all’interno del labirinto. «Cerchiamo di stare all’erta e l’ultimo si guardi alle spalle.» Concluse, facendo il primo passo all’interno del labirinto. Anche se dall’esterno poteva sembrare tranquilla, in realtà il cuore le batteva furiosamente nel petto. Dover affrontare qualcosa di ignoto e potenzialmente pericoloso la spaventava ma Tori preferiva non darlo a vedere; una crisi di panico generale era l’ultima cosa di cui tutti avevano bisogno. Se si fossero concentrati ed avessero proseguito con calma, pensando lucidamente prima di fare qualunque cosa e studiando il labirinto con attenzione, forse avrebbero avuto una possibilità. Ma per farcela era necessario che si aiutassero l’un l’altro e, se vi era qualcosa in cui Tori era brava, era l’affrontare imprevisti e svolte inaspettate.
    Iniziarono ad avanzare lentamente, scrutando con circospezione le biforcazioni in cui si dividevano le siepi, parlando tra loro sottovoce e immobilizzandosi ogni qualvolta il silenzio risultasse sin troppo sospetto. Il cuore di Tori batteva talmente forte che la giovane avvertiva il rumore del sangue che le pulsava nelle tempie in maniera accelerata, quasi coprendo qualunque altro rumore. Di tanto in tanto si voltava verso i compagni, controllando che ognuno di loro fosse ancora in grado di proseguire. Non erano avanzati di molto quando il sole venne improvvisamente offuscato da una serie di nuvoloni. Nel giro di poco, sopra di loro si stagliava una coltre talmente oscura – e apparentemente densa - da tramutare il giorno in notte. La luce si affievolì e le siepi del labirinto apparvero ulteriormente sinistre, potenziali reincarnazioni di pericoli e inganni. Al contempo, un abbassamento della temperatura venne accompagnato da un vento gelido, raffiche implacabili che si abbattevano sui presenti, insinuandosi tra i rami e le foglie delle siepi, producendo minacciosi fruscii. Rabbrividendo, Tori abbottonò la giacca di jeans, stringendo le braccia al corpo per riscaldarsi. Quel cambiamento improvviso non poteva certo essere un buon presagio.
    Complice l’oscurità, il gruppo si ritrovò costretto ad avanzare con maggiore cautela, ulteriormente disorientato all’interno del labirinto. Sebbene nessuno ne parlasse, un silenzioso misto di sentimenti contrastanti alleggiava nell’aria, producendo un clima di tensione. Quella situazione stava mettendo alla prova l’autocontrollo di ognuno, minando i loro nervi con un profondo senso di impotenza, rabbia e frustrazione. Camminarono ancora – per quanto tempo, Tori non avrebbe saputo dirlo – sino a quando l’alternarsi di biforcazioni e vicoli ciechi li condusse nei pressi di un albero spoglio, imponente persino accanto alle alte siepi intrecciate ad arco. Quel cambio di paesaggio – un elemento insolito dopo un continuo ripetersi di siepi – venne accolto con sorpresa e, inevitabilmente, un briciolo di speranza. Forse significava che erano sulla strada giusta. Forse l’uscita era più vicina di quanto avessero pensato.
    Ben presto quella speranza si trasformò in orrore. Avevano fatto solo qualche passo in direzione dell’arco quando i rami dell’albero incominciarono a muoversi ed agitarsi, pur essendo troppo solidi per lasciarsi sferzare così dal vento. Improvvisamente dotati di vita propria, si fusero in una figura spaventosa, uno scheletro la cui pelle – sottile come un foglio di carta – aderiva incartapecorita alle ossa del volto, raggrinzita e deteriorata dal tempo. Il corpo – o meglio, il mucchio d’ossa e rami – era ricoperto da una giacca rovinata, i cui lembi pendevano dall’essere come cappi da una forca, malinconicamente agitati dal vento. Sulla testa portava un cappello di paglia simile a quello di un contadino che tuttavia non riusciva a nascondere la caratteristica più spaventosa: le grandi orbite oscure, buie e prive di pupille. La creatura fece un passo verso di loro e Tori si irrigidì, indietreggiando istintivamente di un passo. Quell’essere le ricordava una storia che i suoi fratelli le avevano raccontato spesso da piccola, divertendosi a spaventarla. Non ne ricordava chiaramente i dettagli ma il solo ricordo – unito alla presenza del Bubak – bastava a risvegliare in lei la medesima paura che aveva provato durante l’infanzia, rifiutandosi di dormire senza una luce accesa per paura che, nel buio, i mostri divenissero reali. Il Bubak aprì la bocca rinsecchita, contorcendo il viso in una smorfia, e da quella cavità si levò un urlo fragoroso ed angosciante. Qualunque altro rumore, persino il boato del vento, venne inglobato e coperto dal pianto che si originava nel profondo della sua gola ossuta, emanando grida strazianti e diffondendo attorno a sé il proprio dolore come un virus. Assistendo a quel pianto, una sensazione di profonda infelicità incominciò a farsi largo dentro Victorianne. Le emozioni che aveva provato sino a quel momento – paura, rabbia, impotenza – si assopirono, sparendo come neve sotto il sole, sostituite unicamente da una crescente disperazione. Assuefatta, la giovane si portò le mani al viso. Grosse lacrime avevano iniziato a rigarle le guance, annebbiandole la vista. Tutto ciò che la circondava le procurava dolore, una afflizione straziante ed insostenibile, una sofferenza tale che ogni istante, ogni singolo respiro, veniva percepito come una profonda coltellata all’altezza del petto. Il desiderio di mettere fine a tutto ciò si presentò come un’alternativa rassicurante. Il silenzio, la pace. Nessun labirinto, nessun pianto, nessun dolore. Bastava solo uccidersi, smettere di vivere. La sua vita non era stata altro che dolore. Delusioni. Sofferenza. Dopotutto lei non voleva farlo, non se ciò significava continuare ad essere vittima di quell’angoscia incontenibile. Farla finita sarebbe stato così semplice… facile come nei corpi disegnati da Engy, le copie di loro stessi che l’aveva costretta a realizzare… L’immagine di sé stessa, rivolta esanime sul pianoforte in una pozza di sangue, venne sostituita dal ricordo della copia priva di vita di Adam, il disegno per cui Engel aveva opposto maggiore resistenza. Come un lampo nel cielo, quel ricordo squarciò la disperazione che l’attanagliava. Durò solo un secondo ma fu abbastanza, una inaspettata boccata d’aria fresca quando si rischia di soffocare. Combattendo contro il dolore che minacciava di sopraffarla nuovamente, Tori fece un passo verso il Bubak. «Non piangere…» Sussurrò, quasi inudibile. Avanzò ancora, ogni passo reso insormontabile dalla costante necessità di concentrarsi su ciò che le era venuto in mente senza lasciare che i suoi sentimenti prendessero il sopravvento. Se era riuscita a convincere Engel a disegnare i cadaveri della persona che amava e di alcuni dei suoi più cari amici, forse sarebbe riuscita almeno ad affievolire quel pianto quel poco che bastava per permettere a qualcun altro di intervenire. Si portò le mani alle orecchie, tentando di indebolire in qualche modo l’effetto del lamento del Bubak. «Non piangere, ti prego. Non ce n’è bisogno.» Alzò appena la voce, avanzando ancora. Avrebbe voluto poter spiegare ciò che aveva in mente, chiedere aiuto a qualcuno dei presenti, ma se facendolo avesse perso quel briciolo di lucidità che stava lottando per mantenere, allora ogni suo sforzo sarebbe stato vano. Ormai a pochi passi dalla creatura, ricordò che non era stata l’unica che, nel salone in rovina, era stata obbligata dalla bambina a persuadere i presenti. Voltandosi appena, cercò con lo sguardo il ragazzo dai capelli rossicci, Elias. Lo fissò intensamente per qualche secondo, continuando a rivolgersi al Bubak pregandolo di interrompere il lamento. Se possibile, la sua voce era ancora più dolce e suadente di quella che aveva usato con Engy, ma le sue parole sembravano non ottenere il risultato sperato, sovrastate dalle grida dello scheletro. «Calmati.» Ripetè. Distolse lo sguardo da Elias e si volse nuovamente verso il Bubak, scossa da un moto di incertezza nel notare quanto la distanza fra loro fosse ridotta. In risposta al suo tentativo di calmarlo, il grido del Bubak si era fatto più intenso e se avesse voluto avrebbe potuto colpirla facilmente con una delle sue lunghe braccia deformi. Deglutì e prese un profondo respiro. Ciò che voleva fare – ciò che doveva fare – era più semplice a dirsi che a farsi. L’idea di avvicinarsi ancora e – soprattutto – di guardare negli occhi quella creatura la terrorizzava. Ma se voleva che la sua abilità potesse raggiungere il suo massimo effetto, allora avrebbe dovuto farlo. Avrebbe dovuto avvicinarsi, incatenare i suoi occhi in quelli colmi di dolore del Bubak, e avrebbe dovuto toccarlo. A quel pensiero, Tori premette ulteriormente con i palmi contro le orecchie. Avanzò, sino a ridurre la distanza tra loro a una ventina di centimetri e, di scatto, alzò lo sguardo e lo fissò nell’oscurità degli occhi della creatura. Per un istante, le parve quasi di affogare nel dolore, la gola stretta in una morsa invisibile. Parlare fu difficile e doloroso, tanto che le prime parole si udirono appena, tremanti. «Calmati. Se non ti calmerai non smetterai mai di soffrire.» Iniziò, ripetendo parole di conforto in una nenia rassicurante. Con lo sguardo fisso su di lei, il Bubak sembrava aver momentaneamente dimenticato che non erano soli e, allo stesso modo, persino Tori si era completamente estraniata dalla presenza dei compagni, completamente concentrata sulla creatura che aveva dinanzi. Dovette ripetere il suo comando più volte, presentandolo come un invito, un consiglio sincero e preoccupato, prima che il lamento si affievolisse abbastanza da permetterle di togliersi le mani dalle orecchie. L’opprimente sensazione di dolore scemò un poco, parzialmente sostituita da un vago senso di nausea. L’intensità della concentrazione necessaria per contrastare quella creatura stava già iniziando ad indebolirla. Senza smettere di fissarlo, Tori allungò una mano nella sua direzione. Lo fece con lentezza, in un movimento controllato e privo di esitazione. Non poteva permettersi di tentennare. Se avesse atteso troppo o si fosse distratta, il suo precario controllo sul Bubak sarebbe andato in frantumi.
    Avvicinò la mano ad una delle braccia dell’essere e la sfiorò delicatamente con le dita, producendo una lieve carezza consolatoria. «Va tutto bene. Va tutto bene. Soffrire è normale, fa parte della vita. Anche noi abbiamo sofferto.» Il Bubak parve reagire positivamente al suo tocco, socchiudendo appena le labbra. Il lamento si indebolì ulteriormente, segno che il contatto fisico e visivo avevano rinforzato non poco il suo ascendente persuasivo. «Non combatterlo, accettalo. Se lo accetterai starai meglio.» Lo consolò, continuando ad accarezzargli il braccio rinsecchito, un misto tra un arto mummificato e dei rami contorti. Il tono di voce della giovane era cambiato, all’udito di coloro che non ne erano soggetti risuonava come una sorta di sdoppiamento, quasi due persone stessero parlando contemporaneamente, con un tono di voce leggermente diverso. Le voce le tremò appena verso la fine della frase e Tori comprese che non sarebbe riuscita a resistere a lungo. Doveva utilizzare la sua abilità sino a superare i limiti esplorati sino a quel momento, ora prima che la debolezza avesse la meglio e il Bubak riprendesse lucidità. Prese un respiro profondo, tentando di calmarsi. Era terrorizzata per ciò che stava per fare e la paura non avrebbe fatto altro che ostacolarla. «Così, bravo. Ti sei sfogato, ora rilassati. Lascia che il dolore svanisca, ritrova la calma.» Lo incoraggiò, iniziando a percepire un vago sentore di nausea. «Va tutto bene. Ci siamo noi con te.» Dentrò di sé, pregò silenziosamente che qualcuno avesse avuto un’idea geniale per contrastare il mostro, prima di sporgersi ulteriormente verso la creatura sino ad abbracciarla. Reprimendo un moto di terrore e disgusto, gli sussurrò il resto delle parole all’altezza dell’orecchio. «Non sei solo Mormorò, accarezzandolo da sopra il tessuto della giacca di panno. Il pianto già debole si affievolì ulteriormente, sino a scomparire. Trattenendo il fiato, Tori attese qualche secondo, quindi sciolse delicatamente l’abbraccio. Ora che il pianto era sparito – e con esso anche la maggior parte del dolore – la vicinanza con l’imponente creatura la colpì come uno schiaffo. Immobile, sostenne lo sguardo della creatura con determinazione; non poteva fare altro – il momento della verità era giunto. Poi, improvvisamente, la creatura si scompose in mille pezzi, disgregandosi ai suoi piedi. Incredula, Tori si ritrovò a fissare un punto nel vuoto. La tensione accumulata sino a quel momento, unita al dolore e agli effetti collaterali dovuti all’uso prolungato della sua abilità le si riversarono addosso nel medesimo istante. Il mondo attorno a lei oscillò pericolosamente e la vista le si annebbiò, permettendole di cogliere unicamente il profilo di Elias con la coda dell’occhio prima di crollare per terra. Incapace di ragionare lucidamente, si ritrovò priva di forze, scossa al contempo da brividi di freddo e vampate di calore. Sentiva il bisogno di vomitare ma il groppo alla gola le impediva persino di deglutire. Ogni suono le arrivava ovattato e davanti agli occhi le sembrava di avere lo schermo di un televisore danneggiato, dove le immagini sfocate si alternavano ad un grigio completo.
    Qualcuno la afferrò, tentando maldestramente di sollevarla, ma pur tentando di collaborare Tori non riuscì a far forza sulle gambe. Dovette riprovarci un paio di volte, aiutata da mani e visi che non riusciva a riconoscere, prima di ritrovarsi in piedi. «Portatemi… ah. Via di qui.» Biascicò, con voce debole e impastata. Non riusciva a capire cosa le succedeva attorno, ma udiva le loro voci come un unico misto incomprensibile e lontano. L’unica cosa che poteva fare era tentare di camminare, appoggiandosi impacciatamente a chiunque la stesse aiutando. Volente o nolente, in quel momento dipendeva completamente dagli altri. Era costretta a fidarsi.

    ***


    Non riuscì a capire quanto tempo passò prima che gli altri decidessero cosa fare. Lentamente, lo stato di debolezza e semi-incoscienza in cui era caduta migliorò, permettendole se non altro di riconoscere le voci ed i contorni delle figure presenti. Solo in quel momento si accorse che il suo braccio era attorno al collo di Fae, riconoscendo la figura che la sorreggeva proprio grazie ai colori sgargianti dei suoi capelli. «Grazie.» Mormorò, mentre iniziavano a camminare, domandandosi in un angolo della sua mente per quanto tempo Fae potesse reggerla da sola. Per quanto Tori fosse longilinea, l’altra era sicuramente più alta ma anche molto magra.
    Tentando di essere il meno di intralcio possibile, Victorianne incespicò insieme a Fae attraverso il varco fra le siepi. Una volta superato il passaggio si ritrovarono al centro di una piazza riccamente decorata, attorniati da persone elegantemente vestite. Ancora stordita, Tori si guardò attorno confusa. Erano usciti dal labirinto ma dove diamine erano finiti ora?
    Una volta che tutti ebbero attraversato l’intreccio, gli sconosciuti incominciarono ad applaudire. La sensazione di dolore lasciata dal Bubak venne progressivamente sostituita da una sorta di allegria ed eccitazione, la medesima che vedeva riflessa nei volti e nelle gesta dei presenti elegantemente vestiti. Con impazienza, le parve di attendere il principio di chissà quale festoso evento, quando infine, da sotto un chiosco di marmo bianco, una donna si alzò per avvicinarsi a loro con portamento regale ed aggraziato. Persino da quella distanza era possibile intuirne la bellezza.
    Scesi gli scalini, la donna si soffermò accanto al ragazzo dall’accento straniero – Jason – lo stesso che aveva trattato con tanta dolcezza la bambina mascherata del salone. Tori la vide sporgersi verso di lui, avvicinando il viso, ma non riuscì a scorgere altro poiché, d’un tratto, la donna si portò le mani alle tempie ed iniziò a muoversi in maniera convulsa, emettendo suoni raccapriccianti. Il più vicino a lei, Jason, incominciò a imitarla e i suoi lamenti si levarono in contemporanea a quelli di lei, quasi fosse stato contagiato da un virus invisibile. Anche le persone che li circondavano cominciarono a mutare, emettendo lamenti terrificanti. Spaventata e incapace di pensare lucidamente, Tori strattonò Fae sino a ritrovarsi schiena contro schiena con i compagni, mentre gli sconosciuti che li circondavano continuavano a contorcersi, portandosi le mani al viso. La sensazione di allegria provata sino a quel momento si tramutò ancora una volta in terrore quando, al termine della macabra trasformazione, un teschio di cavallo sostituì i visi degli sconosciuti. «Cosa diamin-» Non riuscì a dire altro. La donna accanto a Jason cominciò a sussurrare qualcosa ed il giovane cominciò ad agitarsi, il viso mortalmente pallido e distorto da un’espressione di terrore. Poco dopo, la stessa donna – o quello che ne restava – riprese ad emettere versi incomprensibili, pronunciando parole in una lingua sconosciuta in maniera febbrile. Sembrava aver perso il controllo di sé stessa e più Jason si agitava, più la Cegua ne risentiva ugualmente, in un circolo vizioso mortalmente pericoloso.
    Pur incapace di comprendere le parole della donna, Tori avvertì il terrore crescere esponenzialmente dentro di lei, salvo poi mutare violentemente in un senso di profonda ed ingiustificata ilarità. Il suo battito cardiaco mutò e, senza motivo alcuno, le venne voglia di ridere. Incapace di trattenersi, riuscì a soffocare solo il principio di una risata, prima di scoppiare. Il suono che le uscì dalle labbra non fu una risata piacevole e melodiosa, bensì un riso incontrollato e artificioso, morboso e maniacale. Assieme a lei, altri tra gli sconosciuti mostrarono segni di ossessiva ilarità e, man a mano che si avvicinavano, la risata di Tori sembrava aumentare a dismisura. Rise sino alle lacrime, il ventre che le doleva per lo sforzo ed il fiato corpo, accelerato, che le impediva di parlare. Era troppo debole per tentare di usare di nuovo la sua abilità contro la donna – che sembrava essere l’origine di tutto – ma, quando uno degli uomini fattosi più vicino prese a ridere istericamente, l’espressione divertita sul viso di Tori divenne mortalmente seria. Rivolgendogli un’occhiata di puro disprezzo, i lineamenti della giovane si contorsero in preda all’irritazione. «Silenzio.» Tuonò perentoriamente, fissandolo nelle cavità oculari vuote. L’uomo smise immediatamente di ridere, immobilizzandosi senza emettere un fiato. Ciò non bastò a placare il profondo fastidio che provava ma la consapevolezza di aver appena usato il suo potere lasciandosi guidare da emozioni che non riusciva a controllare risvegliò prepotentemente la paura e, in particolare, il timore di poter involontariamente fare del male a qualcuno.
    Spaventata, ritirò bruscamente il braccio da dietro il collo di Fae, quasi volesse tenersi a distanza per timore di potersi rivolgere a lei. Quel movimento improvviso le procurò una fitta alla testa, procurandole una visione distorta della profondità. Tori battè freneticamente le palpebre e tentò di schiarirsi la vista per capire cosa diamine le stava succedendo. I deliri sconnessi della donna si erano fatti sempre più alti, aumentando progressivamente assieme al comportamento instabile di Jason. Nonostante il timore e l’irritazione, nel guardarli rise di nuovo, con un nervosismo crescente e contagioso. Si muovevano e si agitavano come burattini, contorcendosi come un ragno in una pozzanghera. Era impossibile trattenersi: erano così spaventosamente divertenti.

    Mi sono fermata qui altrimenti non finivo più, scusate :beer:
    Come va a finire con la Ceuga, i Wendingo e la donna-serpente li infilo nella prossima puntata :bunny: stay tuned :hero:

    Al solito: se devo modificare qualcosa, let me know. Ah, non ho detto troppo sulle azioni degli altri pg perchè essendo la prima non volevo scrivere cavolate, fate di Tori ciò che volete :gentleman:
     
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  14. aNANOtherLove
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    Well I found a new way
    I found a new way.
    C'mon doll and use me;
    I don't need your sympathy.
    I'll find a new way
    I'll find a new way, baby.
    I'm not Ulysses, I'm boy Ulysses
    No, but you are now, boy.
    So sinister, so sinister,
    Last night was wild.
    What's a matter there, feeling kinda anxious?
    That hot blood, grew cold.
    Yeah everyone, everybody knows it.


    Riprese Didi da dove l'aveva lasciata, infilandosi sotto il suo braccio e sorreggendola.
    Ringraziava il cielo di avere la scusa della zoppia per poterla stringere a sé: probabilmente avrebbe voluto averla così vicina anche se non avesse zoppicato. Il contatto con la sua pelle, il suo calore addosso, erano solo l'ulteriore conferma che quel che aveva visto poco prima (quanto era passato?) era solo un'orribile immagine irreale. Lei era lì, accanto a lui, la poteva sentire respirare.
    Asserì con la testa alla proposta di Tori di non dividersi, stringendosi ancor più sul busto di Ingrid per rendere più agevole la presa, iniziando a camminare per quel che poteva essere un passo non troppo difficoltoso anche per lei: procedevano comunque piano, prestando attenzione ad ogni rumore, reale o immaginario che fosse, in allerta costante.
    Ma il male si mostrò diversamente da un rumore: una coltre scura si abbatté su di loro, facendo calare l'oscurità, ed un vento sferzò le loro figure, rendendo ancor più difficile procedere.
    Ma ci fu poco da avanzare: davanti a loro, quello che sembrava un potenziale varco nelle siepi fittissime del labirinto, era indicato da un albero rinsecchito che, al loro avvicinarsi, diede vita ad un'oscura creatura piangente. Gli sembrò come se non avesse senso esser vivo, come se ogni tristezza del mondo fosse concentrata in quel pianto e si riversasse su di loro: guardò d'istinto Ingrid, capendo subito (anche se non la sentiva) che provava la sua stessa sensazione... che fosse quella creatura immonda a rinchiuderli in quella spirale di disperazione? Sentiva la voglia di morire farsi spazio dentro di sè, la speranza per qualsiasi cosa bella abbandonarlo, l'angoscia avvilupparlo come un serpente boa con la sua preda... ma non poteva cedere. Qualcosa di bello al mondo c'era. Ed era aggrappata a lui, stretta al suo petto, appoggiata al suo fianco.
    Incrociò gli occhi di Tori: avevano avuto la stessa idea, suggerita involontariamente dalla bambina malefica. Avrebbero costretto lo spaventapasseri a smettere. O almeno, ci avrebbero provato.
    Tori fu la prima a parlare, avvicinandolo piano piano. Elias, a malincuore, lasciò lentamente la presa da Didi e fece altrettanto. Ebbe bisogno di tutte le sue forze e le andò a cercare negli occhi di lei, un'ultima volta. Non le disse nulla, ma strofinò il viso sulla sua spalla prima di staccarsi del tutto e tentare, come avrebbe fatto finchè avrebbe avuto vita, di proteggerla.
    Si rivolse dunque al mostro, guardandolo fisso, avanzando lentamente.
    [- Calmati.]
    Era difficile stabilire un contatto, aveva già abusato del proprio potere troppe volte e troppo intensamente in quel lasso di tempo.
    [- Non serve a nulla sfogare così il dolore. Per farlo passare, lo devi accettare.]
    Erano cose senza senso, parole che gli venivano alla mente senza che le avesse cercate, lette in uno dei libretti new age del cazzo di sua madre lasciati vicino alla tazza del cesso, su cui aveva messo le mani un paio di volte per poi tornare a preferire il retro dei bagnoschiuma, nel momento del bisogno.
    [- Accetta il dolore, fallo tuo, e passerà. Noi ti capiamo, anche noi soffriamo con te.]
    Non avrebbe mai detto che quelle puttanate gli sarebbero mai servite a qualcosa, ma quella creatura di legno poteva rispecchiarsi nella cultura new age respiriana o come cazzo si chiamava, per cui una volta sua madre era stata incastrata a un convegno e vivaddio aveva capito che si trattava di un'immensa cagata di proporzioni colossali.
    [- Accettalo, ascoltalo e lascialo andare. Noi siamo qui con te. Noi lo accettiamo, ed accettiamo te.]
    Erano arrivati così vicini dalla creatura che la potevano toccare e, sebbene fosse l'ultima cosa che avrebbe voluto fare, seppe che doveva toccarlo. Si fece coraggio, seguendo l'esempio di Tori e abbracciando il mostro, ripetendo le sue stesse parole per risultare ancor più convincente: [- Non sei solo.]
    Restarono lì qualche secondo, anche se per Elias Larsen si trattò di una vita intera, abbracciati al groviglio di rami vestito col frac, finchè il pianto non si spense. Restarono lì, anche più del dovuto, rendendosi conto forse non subito che quel mostro sotto le loro braccia era sparito. Spalancò le iridi quel poco per registrare che ce l'avevano fatta, prima di cedere alle gambe e cadere a terra. Era svenuto? Era morto?
    Non ne fu molto cosciente, ma sentì in un angolo remoto delle proprie sensazioni qualcuno sollevarlo, farsi carico del suo mucchio d'ossa e trascinarlo - in qualche modo - altrove. Non ebbe nemmeno cognizione di dove, inizialmente.
    Fu come svegliarsi da una dormita troppo lunga dopo la sbornia più sonora che avesse mai potuto prendere: distinse piano piano i tratti del viso di Ivar, più vicini di quanto li avesse mai visti. Era il falegname, infatti, a trascinarlo all'interno di una strana festa. Erano usciti vittoriosi? Intorpidito com'era, non riusciva a realizzare la strana sensazione di fascino che quegli invitati scatenavano in lui, li guardava piegando la testa come un gatto pieno di interesse, cercando di realizzare cosa cazzo ci facessero in mezzo a quel labirinto di merda, non prestando attenzione (non subito almeno) alla donna in mezzo alla folla che lambiva l'Uomotuta. Quel che accadde dopo fu molto confuso, ma ebbe un effetto strano su di lui: improvvisamente sentì le forze riprendersi, aveva necessità di ballare con Ingrid, come se fosse un bisogno irrinunciabile. Si staccò dunque da Ivar, guardandolo come se fosse assurdo il fatto che lo tenesse in piedi come se fosse un sacco di patate. - Grazie, NanoCreator! Da dove veniva tutta questa vitalità? Si rivolse verso Ingrid, ma ogni cosa prese a colorarsi di colori sgargianti, cambiando di forma. Chi era Ingrid? Doveva assolutamente ballare con lei. Un tip-tap forse? Nah, forse era meglio un tuca-tuca.
    ...
    Accadde qualcosa che non seppe distinguere, in quel marasma di immagini colorate con gli evidenziatori: seppe solo che finì, con un Ivar finalmente felice di aver usato le sue mani.
    Fece fatica a ricomporsi, ma era necessario riprendere il percorso: non dovevano rimanere in quell'assurdo luogo più del necessario. Controllò a vista Ingrid, non avendo più il coraggio di offrirsi come supporto... era troppo instabile e non voleva rallentarla più del dovuto. Passarono attraverso un nuovo varco, trovandosi di fronte ad un bivio: si guardarono spaesati per qualche istante, poi qualcuno optò per la destra. Procedettero ancora per qualche metro, trovandosi infine di fronte ad un buco nel terreno.
    - Bene, ci mancava solo dover strisciare come vermi.
    Si concesse un commento sarcastico, mentre si calava nel buco ( Attento al buuuuco!!! Quale buuuuuco?)
    e si lasciava investire da un'ondata di speranza dettata da quella luce lontana all'altra estremità di esso. Bello, tutto molto bello, ma quei mostri che si crearono tra loro e le due vie d'uscita non sembravano essere altrettanto belli. Impanicò, guardandosi intorno sperando che qualcuno avesse con sè ancora l'accetta disegnata prima da Engie... ma Ingrid si superò di nuovo. La guardò affascinato rendere invisibile ognuno di loro, andando nel panico perchè non sapeva esattamente dove fosse, mentre quei cosi passavano tra loro senza vederli, cercandoli e ferendo qualcuno.
    [- Didi? ]
    Buttò là la sua vocina, cercandola, senza sapere se - considerato l'abuso che aveva fatto del suo potere fino a quel momento - sarebbe riuscito a raggiungerla o a captare un pensiero di risposta. Ma qualcuno (probabilemente Adam) li mise ko.
    Tornarono tutti visibili, a parte Ingrid che di tanto in tanto spariva. Le prese la mano quando la vide, parlando apparentemente al muro dietro di lei.
    - Non lasciarmi per nessun motivo al mondo, anche se non ti vedo devo sapere che non sei rimasta indietro.
    Il tono era serio, ma serio come suo nonno quando lo minacciava durante le loro passeggiate nel bosco, temendo che si perdesse tra gli alberi.
    Giunsero quindi alla fine del tunnel che, una volta che tutti loro furono usciti, crollò su sè stesso: ora si trovavano al centro del labirinto, potevano respirare, un sole cocente li illuminava e i loro cuori potevano sentirsi un momento più leggeri. Un momento, è ovvio, perchè una donna serpente si presentò a loro, andando ad attaccare Fae.
    Ebbe un moto di ribellione, ma si trattenne dal muoversi per non lasciare la mano di Ingrid. Si guardò intorno, cercando di trovare il modo di aiutarla.
    - No, Elasticgirl di merda, la-scia sta-re Fae!
    Prese a dare calci alla porzione di collo che gli era vicino, scandendo le sillabe ad ogni calcio, nella speranza di distrarre la creatura dalla povera Unicornana, finchè Engie non riuscì in qualche modo a metter fine a quello strazio, liberando la ragazza Arcobaleno dalle grinfie di quella Elastic-serpente-girl di merda. Ora? Cosa si sarebbero dovuti aspettare? Majimbù?
    Le siepi si ritirarono nel pavimento, lasciandoli in un luogo spoglio, adornato solo da un tizio, uno qualunque, lì ad aspettarli.
    Chiccazzera?
     
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    | IVAR WESENLUND | 24 Y.O | Death
    Narravano gli antichi del lamento di Io, cagionata in un corpo non suo per volere degli dei meschini. Narravano la sua sofferenza, nel percepire il proprio corpo mutare e divenire quello di un quadrupede, le sue dita mobili divenire zoccoli che mai più avrebbero accarezzato la pelle di qualcuno. Narra il poeta degli amori, dell’agonia della bella Io, la cui voce fu annientata in un lamento. Narra di come il suo dolore non potesse esprimersi che in un inespressivo muggito.

    Non era solo la sua capacità ad essere sfuggita al suo controllo: tutto, in Ivar, sembrava impazzito. Il suo cuore non rispondeva all’ordine che gli imponeva di calmarsi, il suo petto si muoveva troppo rapido, mentre i polmoni ricercavano ossigeno per alimentare quella macchina. E le sue emozioni non erano che caos, in quel momento, come gocce di mercurio attratte da magneti opposti. Era questo Ivar, il caos, cagionato in un corpo che sembrava volersi sgretolare, come una statua colpita dall’ira degli iconoclasti.

    Narrava, l’esiliato, dello strazio di Eco, il cui corpo si distrusse divenendo specchio del suo animo. Divenne pietra, la ninfa, roccia in balia delle tempeste e dell’erosione. Divenne solo voce di rimando, la fanciulla che di parole era vissuta, e che per esse aveva ricevuto la condanna. Si lasciò consumare, Eco, dal dolore e dai sentimenti.

    Sentì il braccio di Fae cingergli il petto, la sua fronte contro la sua spalla. La sua voce rassicurante accarezzargli l’udito. Sembrava lontana chilometri, quella voce, era dannatamente vicino il suo corpo. Forse, da quella posizione avrebbe potuto sentire il suo cuore scalpitare incontrollato, tentare l’autodistruzione. Forse lei più di tutti poteva percepire quanto straziante fosse vivere in un incubo. Non era stato frutto dell’utopico potere del biondo, quell’incubo, né una mera illusione. Era reale quello, almeno quanto lo erano loro. Era reale la mano di Fae poggiata sul suo cuore, era reale quella dannata ricerca di quiete, era reale la furia di Kylo. Era stato reale quell’incubo, che inesorabilmente lo aveva spinto sull’orlo del baratro. Non si era fermato stavolta, non aveva fatto dietrofront di fronte all’abisso. Ci si era buttato, senza esitazione, spinto da chissà quale forma di curiosità. E l’impatto, alla fine della caduta, era stato devastante. “Ce la fai, puoi resistergli. Puoi controllarlo, Ivar. Non sei solo, siamo tutti qui.” Che fosse quella la famosa motivazione che andavano cercando? Che fossero in grado di riportarsi indietro ogni volta, quando tutto crollava? Che il loro essere opposti fosse l’unico modo per mantenere un precario equilibrio? Non era stabile, l’ago della bilancia. Le aveva fatto del male, tanto male. E chissà quanto ne avrebbe fatto a Kylo se solo lei non si fosse sacrificata per fermarlo. Alzò lo sguardo, mentre il battito del suo cuore non accennava a rallentare. Erano tutti provati da quella situazione. Ognuno di loro aveva dovuto affrontare qualcosa di orribile. Engy sanguinava, e non solo esternamente. Poteva leggerlo nel suo sguardo, quanto anche la sua anima sanguinasse. E in Kylo riusciva a leggere la sua stessa paura, la stessa consapevolezza di essere un mostro, oltre che vittima degli eventi. Poteva leggere lo sgomento nella posa flessa di Larsen, nonostante i suoi pensieri tentassero ancora una volta di riportarlo alla ragione. [“ Ascoltami, Ivar, ascoltami. Io mi fido di te. Io so che ti calmerai, io so che puoi farcela.”]. Sentiva la sua voce guidarlo, scissa dalla propria coscienza stavolta. Avrebbe voluto ascoltarla, avrebbe voluto obbedire stavolta, così come aveva fatto anche quando non voleva. [“Ivar, sto venendo da te. Sto per toccarti. Sto per toccarti e so che non mi farai del male, perchè non vuoi. Perchè anche se ti faccio fare dei nani assurdi, tu mi vuoi bene. E tu non fai del male alle persone a cui vuoi bene. Tu sei una bella persona, Ivar. Tu non sei il tuo potere.”] Non erano solo i pensieri di Elias che Ivar percepiva. C’era anche la sua paura. La paura che potesse far del male alle persone che amava, alla donna che amava. Faceva ancora più paura l’idea che anche qualcun altro potesse temere ciò che lui stesso temeva.
    Si avvicinò lui, pericolosamente, mentre Fae alle sue spalle cullava i suoi respiri col suo calore. Lo doveva a loro. Doveva a loro il mettere fine a quel caos. Doveva a loro, se non altro, il riprendere il controllo su quello stato di devastazione. Adam era vivo, tutti loro erano vivi. Avrebbe dovuto fermarlo, prima che fosse troppo tardi.
    [“Mi senti, Ivar? Sono ancora qui, sono ancora vivo, ti sto toccando e sono ancora vivo. Perchè tu non puoi farmi del male, perchè tu non vuoi. Perchè tu sei forte, sei più forte della morte che ti abita dentro.”] Non rispose a quei suoi pensieri con altri pensieri. Semplicemente aprì gli occhi, incrociando il suo sguardo rassicurante. Lo sguardo di un ragazzo che aveva reputato folle all’inizio, tanto da essere degno d’interesse. Lo sguardo di un amico che aveva imparato ad apprezzare e ad amare, per la genuinità del suo animo e la dolcezza dei suoi gesti. “No che non voglio, pazzo nanomane. Non potrei mai.” Abbozzò un sorriso, piuttosto forzato, all’amico che con tutte le sue forze e, nonostante le ferite, era riuscito a riportarlo indietro.
    La sentì allontanarsi, la sua mortale capacità, ricacciata indietro dalla necessità di aiutare gli altri che sempre lo aveva accompagnato. E strinse finalmente la mano di Fae, ancora aperta all’altezza del suo cuore, quando ebbe la certezza che non avrebbe più potuto farle del male. Appoggiò la tempia alla sua, lasciando che il proprio respiro si tranquillizzasse, che la sensazione di precipitare scemasse. “Grazie”. Sussurrò, stringendo ancora di più la sua mano e sovrapponendo il proprio avambraccio al suo. Magari il tempo avrebbe portato via il dolore che egli stesso aveva inflitto. Non si voltò a guardarla, fin quando non seppe di essere tornato allo status quo.

    Riuscì a rialzarsi, quando Ingrid mostrò loro la chiave, che li avrebbe condotti forse a un’uscita, o forse semplicemente all’ennesimo supplizio. E si voltò verso Fae, stavolta, per aiutarla a rialzarsi. Il suo sguardo non poté non cadere sul suo braccio, su ciò che lui aveva causato. Non poté non pensare a ciò che aveva fatto a Kylo, a ciò che sarebbe potuto accadere. “Scusami”. Sussurrò di nuovo, con un filo di voce, potendo finalmente incrociare quello sguardo che fino ad allora la sua furia cieca gli aveva impedito di vedere. E si chiese se un giorno, tutto quello avrebbe avuto fine. Una fitta di dolore al fianco lo risvegliò, come se fino ad allora fosse stato sotto l’effetto di anestetici. Mugolò, portandosi la mano alla ferita. Non era troppo profonda, poteva percepirlo. Non era nulla in confronto a ciò che a Fae aveva inflitto.
    Il braccio di lei sembrava non appartenerle. Era come un innesto, di quelli che si fanno alle piante per produrre degli incroci. Un corpo morto attaccato a quello di una persona viva, come un parassita. Si chiese se sarebbe mai guarita, quella sua lesione. Si chiese se fosse possibile guarire dalla morte. Si chiese se lui stesso, da quella ferita non visibile, sarebbe mai guarito. Proseguirono, oltre la porta che solo Ingrid era riuscita ad aprire. Sospirò, raccogliendo le forze prima di varcarla. Non sapeva cosa li avrebbe attesi oltre, se la liberta o l'ennesima tortura. Ciò che sapeva era che stavolta avrebbe combattuto con tutte le forze per non lasciarsi sopraffare. Non avrebbe ferito a qualcuno, non più.
    Si voltò, alla ricerca di Adam e Engy, che sembravano essere rimasti indietro. E quando li vide tornare, insieme ad un ammaccato biondo, capì. Le rivolse uno sguardo ammonitore: nonostante pensasse che davvero se lo meritasse, non era quello il momento di litigare tra loro. E poi il biondo sarebbe potuto tornare utile...magari Elias o l'altra ragazza avrebbero potuto aizzarlo contro la nuova - eventuale- bambina di turno.

    . . . . . .



    L'ambiente intorno a loro mutò. Sembravano esserci più spiragli da cui poter fuggire, a terra svettavano degli strani grovigli di rovi. Un uomo, se così poteva definirsi, li attendeva compiaciuto. L'abito ridondante copriva il corpo di un uomo altissimo, candidi guanti celavano le sue mani. Ancora una volta una melodia inquietante accompagnò la sua presenza. Era come se quegli incubi, quei personaggi, fossero materializzazioni di quelle melodie. O forse erano esse ad essere specchio dei loro sadici pensieri. Strinse i pugni. Stavolta non si sarebbe fatto scrupoli ad attaccare per primo, se questo fosse servito ad evitare a Kylo, a Engy, a Fae e a tutti gli altri di soffrire. Ma non si mosse quella figura, che studiava le loro reazioni in silenzio. Semplicemente indicò loro quella specie di nidi, accanto a ciascuno dei quali c'era un grande uovo. E in quel momento capì. Quella era la seconda prova. Come al torneo tre maghi. Coincidenze? Io non credo, un abbraccio Avrebbero davvero dovuto sedercisi? Si mosse di scatto, quando Adam fece per avvicinarsi. Insomma, nessuno pensava che da quelle uova sarebbe potuto uscire qualcosa di orribile, o peggio, che la mamma(?) delle creaturine nelle uova sarebbe potuta tornare da un momento all'altro? Nessuno aveva visto Alien?#wat. Ognuno di quei nidi sembrava recare il segno che identificava ognuno di loro. Una pistola per Kylo, una ciocca di capelli rossi per Engy, un ceppo di legno, forse per lui. Sbuffò, beffardo. Evidentemente chi aveva organizzato quello scherzo non li conosceva poi così tanto bene. Quei segnaposto non erano che qualcosa che chiunque avrebbe potuto sapere di loro. Si avvicinò, a quello che sembrava essere il suo, gettando uno sguardo a Fae. Lei lo avrebbe riportato indietro, se qualcosa fosse andato storto. Non appena si sedette, una strana sensazione di calore lo avvolse. Era rilassante, dannatamente. E perdere la lucidità non era una cosa buona in quella situazione. L'uomo suonò la campanella, tre volte, nello stesso istante in cui Ivar si rese conto di non poter fuggire da quella che era divenuta una culla e una prigione. E tutto si confuse e divenne distorto.
    L'uovo iniziò a schiudersi, e da esso uscì un'ombra, solida, corporea, come lava. Si agitò, quasi scossa da una coscienza, e rapidamente prese forma tangibile. Divenne un corpo, riprese colore, sorrise. Sua madre.

    Doveva essere un'illusione, quella, una subdola quanto bellissima illusione. Non era quella che era abituato a vedere, lei, ma quella che ogni volta si sforzava di ricordare. Non c'era l'espressione smarrita sul suo viso, il suo sguardo non era velato di tristezza. Indossava una gonna anni sessanta, una camicetta bianca...aveva dimenticato quanto amasse quello stile, lo avevano dimenticato entrambi. Non parlò, Ivar, troppo preso dal cercare di capire di che genere di illusione si sarebbe trattato. L'avrebbe vista morire, come aveva fatto guardando le figure materializzate da Engy? Era quella la tortura? Era davvero lì, o era solo una proiezione della sua mente?
    Parlò lei, vedendolo esitare. "Ivar, bambino mio..." Non poté fare a meno di schiudere le labbra, sentendola pronunciare il suo nome. Era così raro che accadesse. "Forse dovrei smetterla di chiamarti così, sei un uomo ormai..." Sorrise lei, benevola. Era consapevole che quello fosse un sogno. Però, fino a quel momento, era un bel sogno. "No, non smettere, non smettere di chiamare il mio nome, con qualsiasi appellativo al seguito tu voglia". Sorrise, di rimando. Era come essere tornati indietro, nel momento in cui lei era ancora la sua ancora, in cui i ruoli non erano stati invertiti, in cui le mura del castello erano ancora tutte in piedi. "Non dirmelo. Da bambino odiavi quando ti chiamavo così davanti agli altri". Non aveva più parlato della sua infanzia, almeno non come se lui ne fosse stato partecipe. Ogni tanto narrava storie riguardanti suo figlio, e ne parlava come se lui non fosse nella stessa stanza. "Ripetevi che eri grande, anche se a malapena arrivavi alla mensola dei biscotti, ricordi?". Quella parola lo colpì nel profondo, come una coltellata. Ricordi? Era lei ora a chiedergli di ricordare, lei le cui memorie erano svanite nell’oblio, lei che non serbava più ricordi da perpetuare. “Si.” Rispose, con un filo di voce. “E tu…tu ricordi. Come?” Sorrise lei, guardandolo con gli occhi non più velati dall’oblio. “Ricordo tutto. Ricordo il tuo primo giorno di scuola, l’orribile spilla che ti avevo appuntato sul petto. Ricordo i nomi di tutti gli animaletti che abbiamo accolto in casa, e che non hanno fatto una bella fine: Tinky, Blue, Rismo, Capitain Bombon…” Rise. Erano davvero dei nomi stupidi. “Ricordo quando avevi una cotta per Zoe, per Loki, eri sempre così agitato. Ricordo Bjorn…” Il suo sguardo si velò di tristezza, all’improvviso. “Ricordo quella maledetta mattina in cui mi sono svegliata e mi sono accorta che non respirava, la sua mano fredda stretta nella mia. Ricordo di aver smesso di percepire il mondo intorno a me, di averlo scrollato, di aver sperato che tutto ciò non fosse reale. Ricordo di aver gridato, ricordo te che correvi nella stanza e tentavi di rianimarlo. Ricordo il tuo sguardo sconvolto, quando ci siamo resi conto di averlo perso per sempre.” Avvertì una stretta allo stomaco soffocante. Lei ricordava, l’unica cosa che era felice avesse dimenticato. “Mi dispiace non esserti stata accanto in quel momento, ti ho lasciato da solo ad occuparti di tutto, anche per me. E sono fiera di questo, anche lui lo sarebbe. Sono fiera dell’uomo che sei diventato, così tanto simile a lui”. Una lacrima solcò il suo viso. Non sapeva cosa dire, come reagire. Non aveva mai pianto per suo padre, mai si era abbandonato a tale debolezza. Si era fatto forza, per sua madre, ed aveva incatenato il dolore, relegandolo ai meandri del suo inconscio, racchiuso come i mali nel vaso di Pandora. E lì, anche stavolta, quel dolore sarebbe rimasto, relegato al silenzio, affidato a un oblio che mai sarebbe giunto. “Hai sacrificato così tanto per me, per continuare ciò che lui aveva iniziato. Non devi più farlo, sei libero, bambino mio. Non ci sono più ricordi che devi conservare per me, nessuna catena che ti leghi a questo posto. Vattene di qui, realizza i tuoi sogni. Diventa il grande chirurgo che hai sempre voluto essere, porta in alto il nome dei Wesenlund. Ti abbiamo dato ali per volare, capacità per diventare tutto ciò che vorrai. Sfruttale. Non restare incatenato qui, vai, tesoro mio. E sappi che dovunque andrai, noi saremo fieri di te”. Sorrise malinconico, il giovane falegname, che tutti i sogni aveva dato in pasto alla fiera famelica, pur di conservare quei ricordi che a lei mancavano. Allungò la mano, accarezzando il suo viso. “Ho costruito io le mie catene, io le ho scelte. Quelli erano solo sogni, mamma. Ho scelto te, ho scelto questo, non me ne pento.” Aveva rinunciato ai suoi sogni, quel ragazzo di ventiquattro anni, sogni che erano rimasti tali. Aveva percorso strade diverse. Forse anche quello era un sogno, un bel sogno, una luce, in mezzo alla cupa tempesta. “Troverò la mia strada, anche se non è quella che abbiamo sempre immaginato”. Sorrise, lei, ancora. Sapeva che ce l’avrebbe fatta. Sapeva che sarebbe stato più difficile, eppure era consapevole che sarebbe sopravvissuto a tutto. “Non so cosa mi aspetta, non so cosa perderò e cosa troverò, ma accetto il viaggio.” Concluse sereno, citando in parte le parole che lei gli aveva detto quando aveva scoperto di essere malata di Alzheimer. Interruppe quel lieve contatto, mentre lei sorrideva, e tutto svanì.

    Sospirò, ritrovandosi nella situazione iniziale, in piedi vicino a ciò che restava di quell’uovo. Non era stato traumatico, quello. Era stato come chiudere un cerchio, e acquisire la consapevolezza che, in quella sua tormentata vita, non tutto era sbagliato. Volse lo sguardo alla sua destra, verso l’uomo che da abile spettatore li osservava silente. Poi quel luogo svanì, lasciando il posto alle spire di un labirinto scisso dal tempo.

    . . . . . .



    Narravano le leggende di Minosse re di Creta, che per screzio degli dei fu punito dalla nascita di un figlio metà uomo e metà toro. Per esso, il sovrano costruì un labirinto, e a lui, ogni anno, sacrificò sette fanciulli e sette fanciulle. Finchè un giorno giunse colui che all’ecatombe mise fine, non esente da superbia e sogni di vanagloria.

    Un dedalo di siepi si aprì davanti a loro, occludendo la visione di una via d’uscita. Avrebbero dovuto tentare la sorte e attraversarlo, o restare intrappolati per sempre nella casa degli specchi. “Se qualcuno ha un’idea brillante questo è il momento di farsi avanti”. Si voltò verso Tori, e scosse la testa. Non gli veniva in mente nulla, se non la cosa più ovvia: affrontare gli ostacoli e tentare di uscirne. Nessuno di loro aveva la capacità di volare e cercare l’uscita più semplice, e nemmeno lui e Adam insieme sarebbero riusciti a distruggere l’intero labirinto. “Cerchiamo di non separarci”. Cosa ovvia, quella, ma non troppo scontata, date le insidie che fino ad allora avevano affrontato, e che li avevano minati non solo a livello fisico, ma anche mentale.
    Camminarono, tra i grovigli solidi di quell’intricato percorso, fino a giungere a uno spiazzo, oltre il quale si apriva l’unica via percorribile. Al centro, un maestoso albero spoglio si ergeva statico, come primo guardiano di quell’ennesima prova era il platano picchiatore, coincidenze? Ormai abbiamo capito che non esistono coincidenze. C’era troppo silenzio, troppa quiete. Qualcosa gli diceva che era tutto troppo semplice. E infatti l’albero iniziò a muoversi, e dalle sue spire si materializzò una specie di spaventapasseri. Beh, sempre meglio della bambina del cazzo pensò, forse troppo frettolosamente. Non erano di legno le sue braccia, non era un sacco la sua testa. Erano ossa umane, tenute insieme da chissà quale collante. Cadde a terra in ginocchio, riparandosi le orecchie, quando quel mostro iniziò ad urlare. Era un grido straziante il suo, penetrante, ben oltre l’udito. Era come il lamento di uno spirito dall’oltretomba, il gemito di Orfeo per Euridice, il lamento funebre per Ettore. Era come se quel grido disperato potesse racchiudere tanta tristezza da riuscire a liberarla, trasmetterla, incanalarla. Si insinuò, quel senso di disperazione struggente, sotto al suo sterno, nelle sue membra e nella sua mente. Provò a scacciarlo, Ivar, a convincersi che ciò non fosse reale. Eppure non era come scacciare immagini o voci dalla propria mente. Era qualcosa di più profondo, tanto difficile da definire da essere impossibile da estirpare. E più passava il tempo, più quel lamento si faceva acuto e lacerante. “Ti prego smettila”, si trovò ad urlare, a quella creatura. Faceva male, dannatamente. Era come se quel grido fosse un condensato dei mali del mondo, giunti a colpirli e a ferirli nel più profondo dell’animo, come lame infuocate puntate nel petto. Avrebbe dovuto fare qualcosa, lo sapeva. Di nuovo percepì la sua capacità farsi largo, alimentata da quel grido dilaniante, richiamata come i topi dal pifferaio magico. Sentì le voci di Elias e di Tori cercare di persuadere quel mostro a smetterla, cercare di convincerlo ad accettare la propria sofferenza. Come era possibile, convivere con tale fardello? Com’era possibile fermarlo? Non seppe cosa accadde nel breve lasso di tempo in cui tutto divenne confuso, tanto da impedirgli di respirare. Si rese conto solo, quando improvvisamente il dolore cessò, del cerchio di distruzione che aveva creato intorno a sé, poggiando le mani a terra. Corse con lo sguardo oltre quel limite. Nessuno ne era stato colpito, per fortuna. Volse lo sguardo poi verso la creatura ora silente, che andò in pezzi sotto il tocco di Tori ed Elias. Si rialzò in fretta, correndo nella loro direzione, quando entrambi caddero a terra. Si inginocchiò di fianco al rosso. “Ehi, nanomane, ehi!” Lo chiamò, schiaffeggiandolo “delicatamente”. Il ragazzo era svenuto, tuttavia, non sembrava essere ferito. “Ehi Lars, sei stato magnifico. E non importa se non mi senti, non te lo ripeterò di nuovo”. Cercò di riportarlo indietro, come lui aveva fatto prima. Peccato che Ivar non avesse il potere di insinuarsi nella sua mente. Avrebbero dovuto proseguire, prima che il mostro fosse tornato, così si passò il bracciò del rosso intorno al collo e lo tirò su di peso. “Cazzo, ti facevo più leggero”, gli sussurrò, ancora una volta sperando di scatenare in lui una reazione. E quando anche Tori fu raccolta da terra, proseguirono, verso quella che sperò essere l’uscita si, credece bello.

    . . . . .



    Giunsero ad un nuovo luogo aperto, dove furono accolti da uno scroscio di applausi. “Ma che cazzo…” si lasciò sfuggire il francesismo(?). Insomma, che cavolo c’era da applaudire? Erano quasi morti. Era completamente surreale quella scena, quella situazione. Figure dalla bellezza eterea si libravano intorno a una specie di gazebo, vestite in abiti ridondanti, accompagnati da una musica festosa. Adagiò Elias a terra, perdendosi per un momento ad ammirare quelle figure perfette, immerse in un atmosfera che ricordava la corte di Versailles. La pelle di quelle dame pareva porcellana, i loro abiti fatti di nuvole, le loro labbra e i loro occhi dipinti da un artista esperto. Era come essere immersi in un quadro di Monet, in cui i colori si mescolavano in maniera armoniosa, rendendo gli abiti delle ballerine una perfetta continuazione del paesaggio retrostante.
    “Grazie, NanoCreator!” Disse Elias, improvvisamente ripresosi dal suo stato comatoso. Sorrise, nel vederlo stare meglio. “Buongiorno principessa! Dormito bene?” Rispose sdrammatizzando, prima che anche il rosso potesse accorgersi di quella situazione e buttarsi a capo fitto in mezzo a quella festa. Sentì una strana e innaturale euforia pervaderlo, mentre quelle figure presero a danzare intorno a quel gazebo, al centro del quale svettava la più bella di tutte quelle entità eteree. Scese le scale, con grazia, e si avvicinò al biondo, mentre tutti gli invitati si fecero in disparte per osservare la scena. Sussurrò qualcosa al giovane, qualcosa che solo luì potè percepire, e come di riflesso, tutti si accasciarono a terra, in preda agli spasmi, ed emettendo grida che ben poco avevano a che vedere con la perfezione che fino ad allora avevano ostentato. Di nuovo grida, di nuovo caos. Una di quelle figure prese il suo braccio e lo trascinò a terra, come in cerca di aiuto. Sgranò gli occhi, quando essa mutò. Il volto da bambola si allungò e divenne scarno, tramutandosi nel teschio di un cavallo. Era la cosa più orribile che avesse mai visto, molto più anomala della morte che egli stesso riusciva a seminare. Era viva, riusciva ancora a muoversi, eppure la sua testa era vuota, come una specie di maschera sotto la quale però non c’era nulla. Dovette volgersi verso i suoi compagni, per assicurarsi che loro non avessero subito la stessa terrificante mutazione. Anche la donna al centro mutò, iniziando a lottare con Jason, e ad urlare, come prima aveva fatto lo spaventapasseri.
    Il caos lo investì, accompagnato dalle sue grida. Fu come essere in preda a sensazioni tremendamente contrastanti: paura ed euforia, rabbia e divertimento, dolore e tumulto. Troppo per essere affrontato tutto insieme. Si ritrovò di nuovo con le ginocchia a terra, le mani tremanti. Di nuovo la terrificante consapevolezza di aver perso il controllo lo investì. Quello era il richiamo perfetto per la bestia, che dal profondo del suo inconscio scalpitava per venire a galla e distruggere tutto ciò che incontrava. E non c’era Elias a fermarla stavolta. Chiedeva sangue, reclamava un piaculum. Più di uno, se fosse stato possibile. Era eccitata, quella parte di sé che aveva relegato nell’abisso, felice di essere finalmente libera. Ed era terrorizzato, Ivar, dall’idea di non riuscire a fermarla. Dalla consapevolezza di essere lui e soltanto lui l’artefice di ciò che sarebbe accaduto. Cercò di appigliarsi ai propri ricordi felici, agli sguardi delle persone che amava, alla propria razionalità. Non bastò. Era consapevole ormai, che il caos avrebbe potuto essere contrastato solo con altrettanto caos. Afferrò il braccio della creatura che prima lo aveva trascinato a terra, e serrò le dita sul suo polso. Lo guardò annerire, rapidamente, lasciando che la sua capacità fluisse libera ed avida. Guardò le sue vesti e le sue carni avvizzire, quel fottuto teschio sgretolarsi. E rise, sadico, compiaciuto di fronte a tanta violenza. Urlava, l’Ivar di nuovo rimasto intrappolato dietro quel velo. Stavolta però, era stato lui stesso a scegliere le proprie catene. “Allontanatevi!” Urlò, quasi disperato, in uno sprazzo di lucidità, ai suoi compagni. Se qualcuno avesse provato a fermarlo, stavolta, ci avrebbe lasciato le penne. Continuava ad urlare, quella figura, eppure il suo potere sembrava rendere più leggero quello strazio. Era quasi divertente, veder morire quelle figure una dopo l’altra, sentirle spegnersi sotto al suo tocco, vederle cadere come birilli. Non provava pietà per quelle creature, sentimento che normalmente avrebbe provato, in quella situazione. Non si saziava, la sadica bestia, che alimentata da quel senso di perdizione continuava a reclamare vittime. Nemmeno percepiva la stanchezza, Ivar, che inesorabile si faceva strada tra quelle che per lui erano ormai solo marionette fatte di ossa e sangue. E ringhiò soddisfatto, quando infine giunse a quello che era il suo obbiettivo: il capo. Diede una spallata a Jason, scansandolo come se fosse un superfluo pupazzo di stoffa. Prese la mano di quella creatura, che ancora si disperava, e di nuovo lasciò che la morte fluisse inesorabile. Urlò più forte, lei, e questo gli dava soddisfazione. “Fa male, vero? Oh, non è ancora niente”. Rise sadico, per poi prenderle l’altra mano e fare lo stesso. Sentiva aumentare il suo potere, insieme al suo dolore. Eppure nulla poteva, esso, sulla mente già impazzita del falegname, se non spingerla ancor più verso la perversione. “Smettila di urlare, hai rotto le palle”. Sentenziò, piuttosto divertito, per poi poggiare la mano sul suo petto. Sentì il battito del suo cuore scalpitare, e poi interrompersi di colpo. Tutto annerì sotto al suo tocco, il teschio si frantumò. Cadde a terra, ciò che restava di quella creatura. E poi fu il silenzio.

    Fu come svegliarsi da un incubo, di soprassalto. Il sorriso sadico che recava dipinto in volto lasciò il posto ad un’espressione terrorizzata. Di nuovo l’incubo si era avverato, di nuovo era stato lui a crearlo. Guardò ciò che restava della Cegua, ai suoi piedi, e poi si voltò, contemplando la distruzione e lo stuolo di corpi ormai irriconoscibili che si era lasciato dietro. Solo in quel momento si rese conto di ciò che aveva fatto, invasato dalla furia cieca del berserk. Non era poi tanto diverso dal suo avo, come il quale aveva temuto di diventare. Non era che un mostro, e lo aveva sempre saputo. Smise di respirare, per un istante, cercando con lo sguardo i suoi compagni uno ad uno, temendo di aver coinvolto anche loro in quel suo delirio di onnipotenza. C’erano tutti, a quanto pareva. Li contò, come si fa per le cose a cui tieni e che hai paura di perdere. Tutti loro erano vivi. E lui? Lo era ancora. Percepiva il battito del suo cuore aumentare esponenzialmente, il calore pervadergli le guance, le mani tremare di nuovo incontrollate. Cadde a terra, d’improvviso, come se tutte le sue forze fossero di colpo venute meno, trascinate via dalla bestia che sembrava aver ripreso il suo posto nell’abisso, ormai sazia. Un senso di apatia e sconforto lo pervase, contemplando ciò che era stato in grado di fare. Era quello ciò che era, una macchina creata per distruggere.
    Riprese a respirare, a fatica, mentre la testa continuava a vorticare. Non riusciva a produrre pensieri coerenti, a muoversi fluentemente. I suoi muscoli erano irrigiditi, come se avesse corso per chilometri e chilometri, la testa pulsava dolorosamente. E caoticamente i sentimenti cercavano il loro posto senza riuscire a trovare la giusta collocazione. Era consapevole, stavolta, che nessuno sarebbe riuscito a riportarlo indietro.
    Allontanò chiunque provò ad avvicinarsi, e si rialzò da solo, barcollando. A malapena riusciva a mettere un piede dopo l’altro, e incespicò un paio di volte. Ma non avrebbe permesso che qualcun altro venisse ridotto come gli invitati a quella festa. Nessuno di loro sarebbe stato l’ennesima vittima di quella follia.

    . . . . .



    Proseguì, arrancando insieme agli altri, fino a un punto in cui il terreno si apriva in una voragine. Si lasciò cadere nel buco, seguendo gli altri, e rotolò rovinosamente fino alla fine, rantolando per qualche istante prima di riuscire a rialzarsi e gemendo per il dolore causato dalla botta. Era devastato. In normali condizioni si sarebbe messo a sdrammatizzare, ma al momento non riusciva nemmeno ad emettere un fiato. Ancora mostri si misero sulla loro strada, stavolta con la testa di cervo e il corpo informe. Non sapeva se sarebbe riuscito a far fuori anche quelli. Non voleva, forse. La sua capacità era ancora fuori controllo, andava e veniva ad intermittenza, così come la sua lucidità. Intervenne Ingrid, che sembrò materializzare una specie di scudo davanti a loro. Le creature si aggirarono tra loro, annusarono l’aria. Li percepivano, ma non li vedevano. Rimase immobile, sperando che nulla tradisse la loro presenza, e cercando tra i meandri confusi della sua mente un modo per fuggire di lì. Una delle creature scattò, forse attratta da qualcosa, e si scagliò verso Tori. Cercò lo sguardo di Adam e ammiccò. Adam capì male e scattò il bacio #wat. L’amico annuì. Non c’era mai stato bisogno di parole, tra loro. Forse avrebbe potuto leggere nella sua mente le sue intenzioni. In fretta, raccolse un sasso e lo lanciò nella direzione opposta a dove si trovava la ragazza. Il rumore echeggiò in quell’antro buio. Forse ciò sarebbe bastato per allontanare abbastanza le creature da lei da permettere ad Adam di intervenire senza far del male anche a Tori. Funzionò, o almeno così parve. Bastò, almeno, per permettere all’amico di scatenare la sua furia su quelle creature immonde. Avrebbe voluto risparmiargli quell’agonia, aiutarlo in un modo migliore. Al momento però, non aveva altri mezzi.
    “Scusami”. Sussurrò al ragazzo, al quale non potè fare da sostegno, se non morale. Vide Larsen agitarsi, per poi rendersi conto che Ingrid era scomparsa. La cercò con lo sguardo. Appariva e svaniva, come un ologramma. Ma era in buone mani, lo sapeva. Non servivano doti telepatiche per rendersi conto di quanto il rosso la amasse.

    . . . . . .


    Finalmente l’aria fresca li pervase, all’uscita dal tunnel. Il sole picchiava cocente, in una radura fiorita. Possibile che fosse già mattino inoltrato? Non sembrava essere passato così tanto tempo. Di nuovo un luogo irreale, troppo armonioso per non contenere insidie. Come il giardino dell’Eden infatti, anche quello celava il suo serpente. Era tutto troppo tranquillo per essere vero.
    Una donna emerse dalla boscaglia. Il suo collo si allungò in maniera esagerata, fino a divenire di una lunghezza incalcolabile e di una flessibilità inumana. Dava i brividi. Li avvolse, come le spire di un serpente, e la sua testa si diresse verso Fae, mordendola con violenza e in profondità. “No!” Urlò d’istinto, mentre la creatura si avventava sulla ragazza con tutta la sua violenza. Corse nella sua direzione, non sapendo bene cosa fare per liberarla da quella presa. Prima ancora che potesse inventarsi qualcosa, Engy trovò il modo di abbattere quella creatura, che si accasciò a terra, svuotata delle forze. Corse da Fae, ormai libera da quel giogo, che giaceva a terra sanguinante. “Andrà tutto bene vedrai, tu guarisci in fretta”. Disse, per infonderle coraggio, guardando le sue ferite rimarginarsi per un istante, e poi riaprirsi. “Oh cazzo!” Imprecò. Che fare? Il sangue usciva a fiotti dagli squarci che il mostro le aveva provocato sulla pelle. Cercò di tamponare le ferite, prima con la mano, ora che ormai la sua capacità sembrava essere rientrata nei ranghi, poi sfilandosi in fretta la giacca e cercando di tamponare il più possibile almeno le ferite più profonde. “Andrà tutto bene, ce ne andremo di qui, ok? Resisti.” Se fosse veramente diventato un chirurgo, magari avrebbe saputo cosa fare. Da falegname, purtroppo, avrebbe potuto fare ben poco, se non cercare di trascinarla fuori di lì e portarla all’ospedale più vicino. Le siepi si aprirono, di fronte a loro, rivelando la figura di un uomo in piedi. L’ennesimo pupazzo di quel gioco sadico, pronto a giocare con le loro vite. Questo era decisamente troppo.

    Narravano gli antichi, della furia cieca di Achille, che piaga e flagello fu per i Troiani, e che solo le lacrime del vecchio re Priamo riuscirono a placare. Narrano gli antichi, dei giochi degli dei, che delle vite dei mortali si facevano diletto. Perchè loro da essi erano stati creati a loro immagine, e come loro creature, ad essi, dovevano rispondere.


    Edited by Iwar - 27/4/2018, 02:22
     
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