Life is no Nintendo game but you lied again

Nikolaj & Lucy- Colloquio

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    Decerebrati. Ecco da che tipo di persone era circondato. Inutili, inetti parassiti senza cervello, un bel gruppo di scimmie ammaestrate incapaci persino di svolgere il più semplice dei compiti. Che cosa li pagava a fare? Si protese sulla grande scrivania di vetro, il busto quasi a sfiorarne la superficie e l'indice della mano destra che andava premere il tasto grigio del telefono dell'ufficio. Sembrava quasi volesse ucciderlo, quel povero tasto. «L'idiota che mi ha scambiato per un uomo paziente, è un idiota!» Lasciò la presa, la schiena avvolta dalla giacca firmata che aderiva di nuovo e perfettamente allo schienale della poltrona economica. Non ci fu neanche bisogno di contare fino a cinque che ecco la porta aprirsi a rivelare un omino minuto, magro come un chiodo e con un principio di gobba imminente. Non poteva avere più di venticinque anni, ma una decina di più s'era posata sulle spalle ricurve e il viso appesantito; l'intera figura di quell'uomo lo disgustava, forse persino di più della sua inettitudine caratteriale. Se fosse dipeso da lui, avrebbe di certo scelto una, la più carina, tra e tante candidate che si erano offerte per il ruolo. Come Janet, o forse era Jennifer? Insomma, quella che c'era prima di quel coso che lo stava fissando impaurito e ansimante, neanche la sua scrivania fosse venticinque piani più in basso. Janet- Jennifer sì che era una segretaria degna di quel nome! Alta, formosa e tonica con indiscutibili abilità nascoste a cui il curriculum vitae non rendeva giustizia. Era un peccato che a lungo andare l'avesse annoiato a morte, così come l'altra dozzina di donne e ragazze che aveva assunto negli otto mesi in cui era al comando. A guardare ora quel derelitto umano, l'uomo quasi si pentì di aver cacciato via la cara vecchia Janet -Jessica. E Mikael si era messo in mezzo presentandosi alla sua scrivania con quell'essere informe e maleodorante, spacciandolo per il suo nuovo segretario. Se non fosse stato un pezzo importante del consiglio e l'unico da cui avrebbe potuto imparare ancora qualcosa su quel mondo pressoché nuovo per lui, nonché l'ultimo legame tra lui e il nonno defunto, Nikolaj l'avrebbe defenestrato seduta stante. Dal quarantacinquesimo piano sarebbe stata una tale caduta nel vuoto da far impallidire di invidia quella famosissima del 1618 a Praga, evento scatenante della guerra dei trent'anni. «Cos'è questo?» Aveva preso in mano il tablet che giaceva davanti a lui e lo stava sventolando in aria come se il poverette potesse non averlo in qualche modo notato. Aveva sillabato qualcosa, il eunuco, che per la sua debolezza non era giunta alle orecchie del capo. «U.. Un...» gli fece il verso con tono cattivo, storcendo il naso in segno di disgusto. «Non capisco quello che dici, Dahlsen.» Sentiva l'indignazione serpeggiare nel suo sistema circolatorio come una belva affamata. Sin dal primo sguardo che aveva posato su quegli occhietti neri da insetto, Nikolaj aveva deciso che rendergli la vita un inferno sarebbe stata la sua missione personale.L'avrebbe fatto pentire ogni secondo per avergli negato la vista di un paio di gambe scoperte e sensuali ogni mattina, costretto invece al triste spettacolo dei pantaloni sgualciti e troppo larghi del sottoposto. Il povero Dahlsen iniziava solo ora, dopo appena un mese dalla sua assunzione, a comprendere in che guai seri si era cacciato: quelli come lui se li mangiava a colazione insieme alla brioche. «E' Dahl...solo D...» un'occhiata gelida congelò le parole dell'uomo in gola. «Ehm... è un Tabl..Tablet signore. » Per qualche secondo il tempo sembrò fermarsi, l'uomo che fissava il segretario con le sopracciglia inarcate in un'espressione sorpresa e le labbra appena schiuse in un un folle sorriso. Sarebbe parso sul punto di fare una battuta divertente; ci si sarebbe aspettato persino che si alzasse a prendere l'uomo sottobraccio iniziando una pazza danza irlandese per poi recarsi al pub di fronte a bere una pinta insieme, da vecchia amici. Anche Dahl sembrava aspettarsi la stessa cosa, a giudicare dall'incerto sorriso che si andava dipingendo sul volto scarno, ancora non del tutto sicuro di che piega avrebbero preso gli eventi. Effettivamente Niko si alzò ma lo fece talmente di scatto da far sussultare la scrivania mentre il tablet volava dalla sua mano al pavimento dove si frantumò a pochi centimetri dai piedi del segretario. «Ho chiesto un fottuto I-pad, non un tablet qualunque. Lo capisci, Dahlsen?» Aveva alzato il tono di voce e questo fece saltare il piccolo uomo un'altra volta. Non c'erano più dubbi che la rabbia forse l'espressione che gli disegnava il volto scarno, gli occhi ridotti a fessure e una linea retta al posto delle labbra. «Questa non è una ludoteca ma un luogo di lavoro! Compramene un'altro e esci fuori di qui. Non voglio vedere la tua patetica faccia per tutto il resto della giornata. » Il segretario aveva raccolto quanti più pezzi di tablet poteva e se l'era data a gambe levate lasciandolo, finalmente, solo. Allora si concesse di adagiare le regali natiche sulla sedia, allungando le gambe come a stiracchiarsi dopo un tranquillo pisolino ristoratore. Un sorriso sinceramente divertito affiorava lentamente come un pesce a appena sotto la superficie dell'acqua. Nikolaj Mordersonn amava la solitudine quanto la rifuggiva, l'animo perennemente squarciato dall'antitesi dei suoi diversi umori. Persino passarsi l tempo a tiranneggiare Dahl gli regalava una gioia che gli sarebbe dispiaciuto perdere quando si fosse finalmente deciso a licenziarlo. Non ancora, però. Avrebbe dovuto farlo soffrire un'altro po' prima di annoiarsi definitivamente di lui. E poi Johansen non l'aveva ancora pagata abbastanza per averglielo imposto come assistente. Nikolaj non dimenticava facilmente le offese ricevute e non le perdonava praticamente mai. Finiva col passarci sopra, dopo un po', come un bambino stanco di strepitare e piagnucolare tutto il giorno su una cosa, passa al capriccio successivo. Quello stesso sorriso di poco prima si stava già affievolendo, simulacro svuotato da ogni reale sentimento di felicità. Quale sarebbe stata la sua fonte di divertimento successiva? Si spinse con i piedi e la sedia si mise a girare su sé stessa e lui con essa, una trottola impazzita alla deriva. Tenne gli occhi aperti fino a quando il bianco delle pareti si fuse in un'unica, immensa distesa di neve davanti ai suoi occhi che piroettava in un'infinita nuvola bianca. Con due piedi bene piantati a terra si arrestò, lasciando un po' di tempo al mondo per smettere di oscillare. Il primo passo fu vacillante e gli tornò in mente Jakob. Quel dannato gemello era costantemente con lui nonostante non solo non l'aveva più attaccato addosso, ma era anche morto. Certi giorni se lo sentiva quasi spingersi contro il suo fianco, e in quei giorni la lunga cicatrice pizzicava come un ossessa. Tutto questo lo faceva diventare matto. Arrivò all'angolo della stanza dove un tavolino di vetro si ergeva portatore di qualche bottiglia di splendidi liquori. Si versò un fondo di brandy in un bicchiere di vetro, due cubetti di ghiaccio sarebbero bastati. Tutto era assurdamente di vetro, in quel posto. E di un bianco che feriva quasi gli occhi ad osservarlo troppo a lungo. Il suo ufficio si trovava al quarantacinquesimo piano del grattacielo e godeva di una vista mozzafiato. Circondato da finestre due due dei quattro lati, non solo si affacciava sulla città, ma si poteva anche gustare la vista delle montagne circostanti e del freddo mare norvegese. Abbastanza grande, comprendeva un'immensa scrivania, un mini bar, due divani, una poltrona e una grande libreria a muro. Tutto di quel luogo dava la sensazione di un posto asettico, come se fosse popolato da robot piuttosto che da esseri umani. Non che lo disprezzasse anzi, la maggior parte dei giorni si vantava di quel mobilio che qualcun altro prima di lui aveva scelto. Quella mattina però aveva deciso che no, non lo amava affatto e anzi, si sentiva irritato da ciò che lo circondava. «Dirò a Dahlsen di pitturare a nuovo le pareti e di riammogliare il tutto.» pensò con convinzione mentre faceva tintinnare i cubetti di ghiaccio nel liquido ambrato. Prima di lasciarsi andare a quella che poteva sembrare un insolita degustazione a quell'ora mattutina, Nikolaj tirò fuori il grande Iphone dalla tasca dei pantaloni eleganti e dopo qualche click sulla app che collegava gli apparecchi elettronici al telefono, le note di Beethoven risuonarono per tutto l'ufficio. Si avvicinò alla parete resa finestra dal soffitto al pavimento, così vicino al vetro da far in modo che il suo respiro si condensasse su di esso in piccoli cerchi opalescenti. Rimase lì ad osservali apparire e scomparire per un po', lasciandosi avvolgere dal suono del piano e dal calore che il brandy diffondeva nel suo corpo. La mano sinistra era distesa lungo il fianco e le dita della mano si muovevano come spinte dalla forza dell'abitudine a suonare un pianoforte invisibile. La musica classica era l'unica cosa che ancora riusciva a sorprenderlo ogni volta che ne ascoltava le note, l'unica cosa di cui non si annoiava mai. Era anche l'unica a cui permetteva di solleticare le corde più profonde del suo cuore, lasciandola insinuarcisi dentro ad osservare ciò che esse custodivano. Due piani più in alto, il grande pianoforte nero poggiava i piedi sulla sua testa come uno stoico soldato perennemente sull'attenti. Poteva quasi sentirlo affondare nel pavimento, minacciandolo di cadergli in testa trascinandosi dietro il peso del suo passato. Non l'aveva più toccato, non da quando Jakob non c'era più. Suonare era stata l'unica cosa che li aveva accomunati, l'unico momento in cui sembravano essere sulla stessa lunghezza d'onda. Era stato proprio il gemello ad insegnarglielo, ed aveva dovuto insistere un bel po' prima di convincerlo a posare l'indice sul tasto bianco. Dallo scocco della prima nota, fu subito amore. Avevano un talento particolare loro due: suonavano a quattro mani come se fossero nati con quel talento nel sangue. Si fece scivolare uno dei due cubetti di ghiaccio in bocca e lo morse forte, quasi sperasse fossero i ricordi che stava addentando. Non sentì proprio il timido bussare alla sua porta, ma roteò gli occhi non appena avvertì la vocina infantile dell'assistente. «Mi... mi scusi Signore. C'...c'è Miss Johansen...al piano terra...» Non si voltò nemmeno, in fondo aveva detto di non voler vedere quella faccia per tutto il resto della giornata. Stava per chiedere di che diavolo parlasse ma la risposta lo colpì come un fulmine a ciel sereno. Si voltò quasi saltando, una persona completamente nuova rispetto a quella che aveva quasi aggredito il povero Dahl non più di venti minuti prima. Con tutto quell' incazzarsi e quei stupidi ricordi, si era quasi dimenticato della parte più bella della giornata, quella che gli avrebbe regalato la distrazione successiva sulla quale impuntarsi per un po'. Finì in un soffio il poco brandy rimasto, lasciando il bicchiere su uno dei tavolinetti bassi vicino ai divani prima di sedervici sopra accavallando le lunghe gambe. Estrasse dalla tasca il telefono e digitò qualcosa, un inquietante sorriso sbiego che gli tagliava in due il volto « Falla accomodare al bar sulla terrazza, il signor Jorgen l'aspetta lì. In quanto a me, arriverò tra una mezz'ora: sono impegnato. » Appena finì quelle parole cliccò il tasto di invio del messaggio quando ormai quell'ambiguo sorriso si era allargato a dismisura. Era abituato al comportamento che le persone assumevano quando gli si trovavano davanti. C'era chi reagiva come Dahl, facendosela sotto ad ogni suo sguardo e chi invece si spacciava per la sicurezza fatta persona sperando di sorprenderlo. Erano, senza pochi giri di parole, tutti dei grandissimi lecca culo e sebbene Nikolaj fosse abituato e non avrebbe saputo come comportarsi altrimenti, aveva finito per trovare tutti così noiosi. Non appena sentivano il suo cognome li si vedeva cambiar faccia, rivoltarsi come calzini per sfoggiare un meglio di sé che in realtà non esisteva. Erano in pochissimi a tenergli testa, a non avere paura di lui e a non mostrargli rispetto quando lo incontravano. Di solito erano tutti molto bravi a girargli intorno sorridenti, fingendo di amarlo quando sapeva esattamente che lo detestavano. In tutti i colloqui che aveva sentito, non c'era stata una persona che l'aveva affrontato senza balbettii e frasi ruffiane create al solo scopo di entrare nelle sue grazie e farsi assumere in quella prestigiosa istituzione. Aveva persino senti persone dire quanto amassero lavare i cessi e lo schifo degli altri, pur di fare una certa impressione su di lui. Da voltastomaco. «Jorg-- Chi è Jorg..? Non capisco.. Impegnato.. Lei non ha meeting fissati per og--» Nikolaj si alzò nuovamente di scatto, rassettandosi la camicia nera e la cravatta che aveva inavvertitamente allentato dopo la sfuriata contro l'assistente. «Fammi la grazia di non porti quesiti e di fare solamente ciò che ti dico, inutile derelitto umano. Se fossi tua madre mi vergognerei di averti messo al mondo.» Detto fatto l'uomo lasciò l'ufficio e Nikolaj lo seguì solamente qualche istante dopo perso per far tacere Mozart. Si diresse con passo deciso verso uno degli ascensori, salendoci al volo e premendo il tasto numero 46. Quello era il piano della mesa, rilegata ad un quarto dello spazio, il restante era a sé stante a formare un bar di lusso che si affacciava nel vuoto. Avevano infatti fatto costruire una vera e propria terrazza panoramica che girava tutt'intorno e che veniva coperta d'inverno per impedire alla neve e al feroce vento di distruggere tutto. Era un luogo incantevole, secondo solamente alla sua suite imperiale che si estendeva per tutto il piano superiore, l'ultimo. Non appena le porte dell'ascensore si aprirono, le narici di Nikolaj vennero stuzzicate da odori di croissant appena sfornati e caffè. Dopo aver intimato al barista di fingere di non conoscerlo, si andò a sedere al suo tavolo abituale, quello con vista sulla città, un bicchiere di whisky davanti per riempire l'attesa che, fortunatamente, e non durò troppo. Se c'era una cosa che odiava, era aspettare. La riconobbe non appena le porte dell'ascensore rivelarono la sua figura di donna. Aveva visto delle foto dal su fascicolo, uno dei tantissimi che conservavano lì dentro, e aveva immediatamente pensato che possedesse una bellezza insolita. Si alzò e le andò in contro, un sorriso più malizioso che cordiale a mostrare i denti bianchissimi. « Miss Johansen? » si finse incerto, come se non fosse sicuro di aver davanti la persona giusta. Dopo aver passato mesi in cui l'essere vivente che entrava nel suo ufficio più di frequente era Dahl, lei in quel luogo incarnava una profezia di serate ben più piacevoli da passare. «Il capo non aveva mentito sulla sua bellezza. Jorgen, molto lieto di conoscerla. Prego, si accomodi. Mr Mordesonn le ha riservato il tavolo migliore. » In quel momento poteva essere chiunque voleva e la cosa quasi lo faceva sbellicare dalla risate. « Caffè? Succo d'arancia? Il capo ci tiene a farle mettere qualcosa sotto i denti prima di iniziare il tour.» Ordinò entrambe le bevande e qualche dolcetto prima di tornare a sedersi di fronte alla donna per poi iniziare a spogliarla con gli occhi di quell'ingombrante, sebbene delizioso, vestito che indossava. Accavallò le gambe lanciando uno sguardo al grande orologio che portava al polso. « Mr Mordersonn arriverà molto presto. Nel mentre che ne dice di divertirci un po'?» Aveva leggermente inclinato la testa verso destra e la osservava con curiosità che non provava neanche a celare. « E' proprio sicura di voler lavorare qui? Ho iniziato da poco anche io e mi è stato detto che il capo è un vero Don Giovanni, stronzo per di più.» Non che volesse conoscere la psicologia umana o altro, semplicemente a volte era molto più divertente ricevere reazioni e opinioni oneste dalle persone. Assaggiò il liquido alcolico, reprimendo una risata. Ci sarebbe stato da divertirsi.



    Edited by constellations - 25/3/2018, 20:53
     
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    «Mi sento a disagio con quella bambina.» La donna che aveva proferito quelle parole indossava un camice niveo e teneva tra le mani una cartelletta contenente alcuni fogli spiegazzati. «Tu? Un medico avente anni ed anni di onorata carriera che dice questo nei riguardi di una bambina?» proruppe sardonico l'uomo di fronte a lei, il volto corrucciato nel vano tentativo di comprendere come una madre potesse parlare in quel modo della propria figlia. L'aveva messa al mondo, doveva in qualche modo esserle legata in maniera indissolubile. Eppure... «Sembra quasi adulta sebbene esteriormente dimostri i suoi anni. A volte mi fa paura.» Con un gesto repentino del braccio, il medico fece intendere al collega che considerava il capitolo chiuso. Chapter II: una stanza d'ospedale spoglia come il tronco di un albero a foglie caduche in pieno inverno, ospitava unicamente un piccolo armadio, un'imponente finestra sbarrata mediante travi di metallo corroso dal tempo, un comodino provvisto di un libro dalle pagine strappate ed un letto sul quale era riversa una figura femminile. La sagoma di colei che un tempo era stata un medico rinomato nel suo ambiente, era accartocciata su sé stessa come una foglia; tra le mani scarne teneva un pupazzo a forma di scimmia che rispondeva al suo sguardo spento con i medesimi occhi vitrei. «La mia bambina...» la sua voce, un tempo così allegra e strillante, ora era poco più di un sibilo nel quale non albergava alcun tipo di emozione. Strinse l'animale inanimato, come se si aspettasse da lui una qualche reazione. Nell'aria risuonava una melodia triste composta da strumenti musicali a fiato e a percussione, voluta dalla donna stessa in uno dei rari momenti di lucidità. Sulla soglia della porta, una bambina con le trecce perfettamente intessute osservava la scena con gli occhi sbarrati, incerta se avanzare verso quell'essere che un tempo era stata sua madre oppure restare in quel punto, al sicuro. Alla fine il desiderio di ricevere un gesto d'amore da un involucro privo di emozioni prevalse, e con passo lesto raggiunse il lettino. Marianne Richardson impiegò qualche minuto prima di accorgersi di un'altra presenza oltre a quella che stava fissando; ma non diede segno di darle alcuna importanza, senza volgere lo sguardo verso di lei nemmeno quando ella la chiamò a gran voce, con tono implorante e stridulo. La donna si ostinò ad ignorarla, chiamando il pupazzo con il nome della figlia. Ma il pianto di quella vera cominciava a farsi impattante e dovette instillare nella donna qualcosa perchè, ad un certo punto, con uno scatto repentino si voltò verso di lei ed allungò le braccia rachitiche e le mani si strinsero attorno al collo latteo della bambina. «Smettila mamma, non voglio morire!» le grida di una Lucille di appena sei anni si riversarono nella stanza in netto contrasto con il motivo triste prodotto dalla piccola radio sistemata per terra. Le piccole dita cercarono di allentare quella presa quasi metallica della donna. In apparenza poco più che uno scheletro ancora in vita, dimostrava di possedere una forza inaspettata, forse riconducibile alla follia che le aveva avviluppato la mente ormai da diversi anni. «Il papà odia la mamma, non gli serve più e se n'è sbarazzato nel modo più brutale. Per questo non ha più motivo che resti in vita e tu dovrai seguirla nella sua scelta.» Il respiro della bambina, già ostacolato dal pianto e dalla continua mancanza di ossigeno, a quelle parole si fece ancora più affettato. Perchè la mamma voleva farle quello? Aveva fatto qualcosa di sbagliato? Eppure, le era sembrato di essere stata una brava bambina; impeccabile in ogni cosa. Sono un disturbo, sono indesiderata. «Io non sono la tua bambola! Mi gestirò completamente da sola, non avrò bisogno dell'aiuto di nessuno!» La presa si strinse ulteriormente. Con la coda dell'occhio, Lucille notò il pupazzo a forma di scimmia abbandonato sulle lenzuola sgualcite: i suoi occhi vitrei parevano scrutare la scena con distacco ma la bocca cucita formava un sorriso che sembrava farsi beffa delle sue disgrazie.
    Chapter III: un'altra stanza bianca, l'ennesimo spazio spoglio e privo di vita, ad eccezione di due figure sedute su un paio di sedie di plastica separate da un lungo tavolo in mogano. La psicologa si sforzava di apparire distesa e padrona della situazione, ma né il tema trattato né la persona che aveva di fronte, per quanto piccola, la mettevano a suo agio. Le mani imperlate di sudore erano intrecciate da quando aveva chiesto alla bambina di parlarle di quanto era accaduto e, di tanto in tanto, nei suoi movimenti si potevano scorgere delle unghie smaltate di un intenso rosso scarlatto. «Quella volta la mamma pendeva dal soffitto. Mi sembrava felice dunque io non potevo che esserlo per lei...era da tanto che non la vedevo così.» Non erano parole che avrebbe dovuto dire una persona, tanto più una bambina di quell'età. Non sarebbe dovuto essere così eppure il destino l'aveva portata a proferirle con un distacco che l'agghiacciava. Dopo di lei, avrebbe dovuto avere a che fare con il fratello gemello, se possibile ancora più inquietante. Era meno scosso dall'accaduto, o almeno così pareva essere, forse per differenze caratteriali o perchè non aveva vissuto le stesse esperienze della sorella. «Non voglio nessuno, non c'è nessuno che mi protegga, nessuno che mi sia indispensabile. Sarò completamente autonoma, non avrò nessuno al mio fianco. Però..non lo vorrei!» Lucille si prese il capo tra le mani, oscurando le piccole orecchie con i palmi lievemente ossuti. Secondo il padre aveva smesso di mangiare ma, dal tono con il quale glielo aveva rivelato, non sembrava esserne tanto turbato. Sembrava troppo preso da sé stesso e dal suo dolore per preoccuparsi dei figli. L'unico gesto caritatevole che Miss Halvorsen gli aveva visto fare nei loro confronti, era stato trovare qualcun altro che desse loro un minimo di supporto psicologico. Stando poi a quanto le avevano riportato i due figli, dalla morte della consorte l'uomo, o quel che ne restava, come un orso si era rinchiuso nella sua tana e per mesi non aveva messo piede. Erano stati i vicini e un paio di parenti ad aiutare i due gemelli ad andare avanti, premunendosi unicamente di preparar loro da mangiare, fare la spesa e lavarli. Nessuno li aveva portati all'asilo e le lacune che ne sarebbero derivate, i due avrebbero dovuto colmarle da soli, quando lo Stato avesse imposto all'uomo di mandarli a scuola. Per allora, si augurò la psicologa, forse si sarebbe ripreso e le cose sarebbero iniziate a migliorare in quella famiglia spaccata. [ ... ]
    Le palpebre serrate mostravano una luce mutevole che rispecchiava i movimenti attorno a lei; quando spalancò le iridi chiare, il suo campo visivo incontrò solo un colore: il bianco. Ancora una volta. Quel colore pareva perseguitarla allo stesso modo in cui facevano i suoi ricordi di infante, quando per la prima volta il suo mondo si era distrutto e con esso anche la sua anima. L'ambiente asettico e freddo del Mordersønn Institute rispecchiava le fantasie di chi sino a quel momento, come Lucille, ne aveva visto solo l'involucro esterno, che svettava al di sopra di qualsiasi altra costruzione di Besaid. A molti cittadini quell'edificio incuteva timore, per altri invece era fonte di grande curiosità, una curiosità che in pochi avrebbero avuto l'onore di togliersi e la giovane donna rientrava in quella ristretta cerchia. Da tempo serbava il desiderio di fare un salto di carriera che avrebbe portato non solo un'innegabile gloria al suo ego già sconfinato, ma anche numerose conoscenze in ambito lavorativo che le avrebbero permesso di essere ancor più competitiva con i suoi futuri colleghi, una delle ambizioni alle quali puntava maggiormente. Non nutriva dubbi sull'esito di quel colloquio, in parte perchè conosceva le proprie competenze, in parte perchè conscia dei livelli ai quali era giunta la propria autoaffermazione e non avrebbe permesso a niente e a nessuno di arrestare la sua avanzata, nemmeno se questa persona portava il nome di Nikolaj Mordersønn, capostipite di uno dei più grandi imperi finanziari degli ultimi anni. Non avrebbe commesso errori poiché la sua costanza rasentava l'ossessione ed i dettagli erano la guarnizione di un dolce infinitamente succulento che portava impressa la parola assunzione marchiata a fuoco nell'ambizione di Lucille Johansen. Non l'aveva scalfita nemmeno l'avviso che la informava che non avrebbe interloquito subito con colui che sarebbe divenuto il suo capo, ma al contrario avrebbe dovuto sprecare tempo prezioso in compagnia di un suo sottoposto. Poco le importava, visto che l'avviso le era arrivato direttamente dal cellulare del Sig.Mordersønn; che fosse il numero personale o quello del telefono aziendale non aveva importanza perchè Lucy si era premunita subito di salvarlo, certa di poterne fare buon uso nella misura in cui, una volta assunta, si fosse vista costretta a ricattare in qualche modo quell'uomo. Si, era una persona calcolatrice Lucille e prima di agire cercava di figurarsi qualsiasi possibile variante di quello che considerava un proprio progetto e non si sarebbe fatta scrupolo alcuno se dall'altra parte della scrivania vi fosse stato uno dei peggiori mitomani ricconi della circolazione, come lo avevano dipinto alcuni giornali.
    Anzi, questo piccolo dettaglio l'aveva portata ad affilare ulteriormente gli artigli, ora ancorati alla borsetta a tracolla nella quale aveva disposto con ordine maniacale documenti, saggi, ricerche, curriculum, attestati e premi vinti che avrebbero avvalorato la sua figura di lavoratrice incallita, qualora la buona dialettica e l'intelletto non fossero stati sufficienti per la causa. Assieme a questi, i necessaire di ordinanza tutto al femminile. Non escludeva l’ipotesi secondo cui, a cavallo di un discorso e l'altro, si sarebbe trovata costretta ad accavallare le gambe e ad incurvare leggermente il busto; quell'ambiente poteva rivelarsi una gabbia di leoni tanto quanto quello dell'alta moda, quando si ambiva a simile obiettivi. L'ultimo dettaglio era stata la mise: la moda d'altronde le interessava. Giocare con i tessuti, consistenze, trame e pattern era qualcosa che rientrava nella sfera artistica e creativa che non aveva avuto modo di sviluppare in ambito lavorativo e che, pertanto, rientrava unicamente tra i suoi diletti. Le lunga chioma color grano era raccolta in una composta coda alla francese, conclusa con un vezzoso nastro nero chiuso a fiocco, a cui poche ciocche frontali sfuggivano, sbarazzine, incorniciando l’ovale del volto. Una sottile riga cat-liner, che enfatizzava lo sguardo felino, il mascara e la sfumatura borgogna scelta per colorare le lebbra piene, erano stati gli unici vezzi che si era concessa, assieme ai sottili cerchi argentati che facevano capolino sulle dita affusolate e i due rigorosi simil diamanti Swarovski ai lobi. I passi calzati di sandali neri dal cinturino in vernice, dal gusto spiccatamente sixties e dal tacco vertiginoso, percorsero il lungo corridoio che l'avrebbe condotta ai cinque ascensori disposti uno di fianco all'altro con precisa simmetria. Il ticchettio che il suo passo cadenzato produsse fece voltare alcuni dei presenti, le cui figure erano fasciate in camici di quel dannato bianco che regnava sovrano in quell'ambiente spiccatamente moderno. A fasciarle il corpo sinuoso, vi era un abito dalla scollatura a barca -col cavolo che si sarebbe messa una di quelle scollature vertiginose manco fosse una pornostar in piena serata- piuttosto aderente ed avente una fantasia fiorata che lasciava trasparire un ricamo perlato di fondo unito alle pennellate che formavano dei fiori variopinti. La bordatura dell'abito giungeva poco sotto l'attaccatura delle cosce, cosa che lo rendeva effettivamente un abito piuttosto corto, ma poco le importava. Non erano molte le occasioni che aveva di indossarlo e la corsa importante era che servisse alla causa. Un leggero giubbotto grigio copriva le spalle altrimenti rimaste nude, sebbene la giornata soleggiata avesse promesso una calura spiccatamente insolita per quella stagione dell'anno. Le era stato raccomandato di raggiungere il piano 46, dove sarebbe avvenuto il suo incontro con Mr Jorgen che si aspettava essere uno di quei soliti leccapiedi dei boss tutti impettiti e laccati sino alla punta dei capelli aventi l'unica pretesa di apparire di più quando la sostanza non riuscisse a nascondere. Con espressione rassegnata si chiuse in quell'angusto abitacolo perfettamente pulito -e bianco-pigiando il tasto 46, vedendolo illuminarsi di bianco e sentendo il pavimento abbandonare la suola delle scarpe. L'ascensore, nonostante i 47 piani, era sorprendentemente veloce e raggiungere la meta fu tanto veloce da lasciarla leggermente frastornata. Ecco perchè aveva sempre detestato certe giostre dei luna park, visto che le bastava un semplice ascensore per sentirsi mancare!
    Ebbe appena il tempo di maledire "l'arnese" che si trovò catapultata in quella che verosimilmente pareva una ricostruzione fedele di una scena di 007 dove l'opulenza ed un arredamento moderno regnavano incontrastati ed i dettagli facevano da sovrani incontrastati. Il bianco pareva restare il colore predominante, ma Lucille si disse che avrebbe potuto sopportare quell'affronto in nome di una lauta paga e di riconoscimenti che l'avrebbero proclamata "figura di spicco" tra i ricercatori. La sua fervida immaginazione iniziò a galoppare come un puledro da corsa per poi andarsi a schiantare di fronte al ricordo di dove si trovasse e cosa si apprestasse a fare. Avanzò di qualche passo con il suo incidere sicuro persino su quei trampoli pagati un occhio dalla testa, osservando con aria curiosa quell'ambiente momentaneamente nuovo. Volti sconosciuti le rivolsero occhiate interessate, facendola sentire al centro dell'attenzione com'era giusto che fosse. Un delizioso ed inebriante profumo di paste appena sfornate le solleticò le piccole narici e i caldi raggi del sole le accarezzarono la pelle diafana quando superò la parte adibita a mesa per raggiungere quella che pareva una terrazza panoramica che dava sul mare di Besaid. Ma nemmeno quella vista incantevole riuscì ad arrestare la sua avanzata, il suo obiettivo aspettava solo che se lo agguantasse con forza e non era intenzionata ad attendere oltre quel momento. Peccato che, a dividerla dal suo obiettivo, c'era colui che da quanto aveva inteso doveva essere il leccapiedi-calze-scarpe del capo. Mentre si domandava se avrebbe dovuto ripiegare sul traduttore automatico -era statisticamente provato che i leccapiedi dei boss biascicavano impacciati, balbettando ed imbastendo frasi di cortesia di fronte ad una bella donna come Lucy si reputava- notò una figura distinta andarle incontro, arrivando addirittura a chiamarla per nome. Ma che caz...? La sua faccia da poker rimase impassibile, oscurando la notevole sorpresa di veder sopraggiungere un gran pezzo d'uomo. «In carne ed ossa.» confermò con un sorriso a trentadue denti, il suo miglior biglietto da visita. Solo quando lo sconosciuto la raggiunse poté notare quanto fosse alto. Il suo sguardo si illuminò all'istante. Tratti ben cesellati ed uno sguardo sicuro quanto il suo si sposavano alla compostezza ed all'abbigliamento elegante e formale; abiti costosi non c'era alcun dubbio. La regola d'oro di un buon dipendente imponeva di non scoparsi il proprio capo ma, che ricordasse, nel manuale non veniva fatta menzione dei colleghi; o se c'era Lucy doveva aver strappato la pagina. «Il capo non aveva mentito sulla sua bellezza. Jorgen, molto lieto di conoscerla. Prego, si accomodi. Mr Mordesonn le ha riservato il tavolo migliore.» Poteva dirsi un buon inizio? Altroché! «Il piacere è tutto mio.» dovette ammettere e se quel Jorgen si fosse aspettato un velato rossore sulle sue gote dopo quel complimento poteva direttamente gittarsi nelle acque dell'oceano Atlantico settentrionale. Lo seguì sino a raggiungere il fantomatico tavolo migliore, accomodandosi e sistemando la borsetta sulla spalliera della sedia. Era un gesto poco fine? Le buone maniere imponevano che si facesse in altro modo? Nessuno gliele aveva insegnate; quelle che conosceva le aveva apprese da sola.
    L'interesse che quegli occhi striati di verde trasudavano rappresentavano una lusinga nella quale si sarebbe potuta crogiolare per ore. «Caffè? Succo d'arancia? Il capo ci tiene a farle mettere qualcosa sotto i denti prima di iniziare il tour.» Lo stemperamento banale del silenzio rotto dalla sua voce vellutata e piuttosto bassa, aveva fatto si che Lucille lo collocasse istantaneamente come figura sospesa nel limbo acquoso ed indefinito della sua approvazione. Sin lì poteva spingersi, per il momento. «Beh, se Mr. Mordersønn ci tiene che io metta qualcosa sotto ai denti non basteranno di certo un caffè o un succo d'arancia, dico bene?» a quelle parole seguì una nutrita lista di paste e croissant con i quali avrebbe gradito deliziarsi, senza porsi il minimo scrupolo se tale lista fosse eccessivamente lunga o se la facesse passare per un biafra all'ultimo stadio, d'altronde pagava l'azienda quindi era fermamente intenzionata a non porsi il minimo scrupolo. Come una macchina che si apprestava a fare una radiografia di chi aveva di fronte (cosa, a quanto pareva, palesemente contraccambiata) Lucille notò la cravatta allentata: forse in quella struttura non badavano troppo all'etichetta e dunque aveva speso minuti preziosi della propria vita per imbellettarsi per niente. Ma la sua cura per i particolari e l'attenta osservazione la portò ad individuare anche un'altra cosa, ossia che doveva aver appena bevuto. Non tanto da fargli perdere la concentrazione o le attenzioni nei suoi confronti, ma abbastanza affinché un'attenta osservatrice come lei (dote utile che sperava venisse colta in favore del posto di lavoro) se ne accorgesse. D'altronde vivendo con suo padre fino alla maggiore età particolari per altri invisibili e riguardanti quel mondo fatto di bollicine aveva imparato a coglierli, come una leggera patina nello sguardo ed un vago sentore alcolico nell'alito. Poteva azzardare a dire che si trattasse di Brandy? O di Cognac? Tuttavia non fece commenti a riguardo, preferendo lasciare che l'udito venisse accarezzato da parole come "presto" e "divertirci". Annuì con aria propositiva scoccando la lingua impertinente che, una volta tanto, aveva avuto il decoro di tenere a freno. Gli lasciò comunque intendere che il divertimento non sarebbe mancato, d'altronde era insito nella sua natura cogliere qualsiasi occasione per portarla a proprio vantaggio, ed entrare nelle grazie del sottoposto di Mr. Mordersønn rientrava tra queste. Oltretutto era innegabile che apparisse una buona compagnia, tanto di aspetto quanto di parlantina. «E' proprio sicura di voler lavorare qui? Ho iniziato da poco anche io e mi è stato detto che il capo è un vero Don Giovanni, stronzo per di più.» Sbeng. Di nuovo? Un altro capo di quello stampo? A quelle parole la mora sbatté le palpebre, facendo finta di non aver compreso bene e mostrando un finto imbarazzo. «Non sarebbe la prima volta che un mio superiore cerca di farmi qualche avance. Di solito mi limito a staccare qualche arto o a dilaniare quelle labbra deformate in aberranti sorrisi stucchevoli che mascherano desideri primordiali. Quando sono di buon umore.» sentenziò con la naturalità di un felino di fronte ad un topo bianco. Aveva captato una nota stridula nella frase di Mr Jorgen: "mi è stato detto". Dunque si era forse sbagliata? Impossibile. Le pareva impensabile che Mr Jorgen avesse iniziato da poco a lavorare lì, pareva a suo agio in quell'ambiente come se vi avesse trascorso talmente tanto tempo da esserne entrato in simbiosi. Probabilmente doveva aver avuto numerose esperienze in ambienti altrettanto altolocati e prestigiosi, nel medesimo settore, prima di approdare lì. Magari avesse avuto anche lei tale fortuna! Eppure...com'era possibile che il capo di quell'impero finanziario, la culla di sapienza di Besaid, un Eldorado per gli scienziati, avesse mandato un uomo assunto da poco ad accoglierla?! Quello era un affronto bello e buono! Accavallò le gambe di velluto, portando le braccia verso l'alto e sistemandole sul ripiano ligneo. Bianco pure quello. Era oltremodo accigliata, ma cercò di non darlo a vedere. «In parole povere so come difendermi da questi derelitti che vanno solo compatiti in quanto incapaci di trovarsi una donna se non sfruttando la propria posizione professionale. Si, di norma cavo gli occhi e stacco gli arti, d'altronde trovo che azioni come guardare e toccare siano da abolire per questi individui.» Stava insultando Mr Mordersønn? Certo che si se le dicerie sul suo conto si fossero rivelate corrette. E non le stava udendo per la prima volta dalla bocca di Mr Jorgen, quindi poteva presumere che contenessero un fondo di verità. Stava per proferir nuovamente parola quando le loro ordinazioni giunsero al tavolo- Amava i dipendenti precisi e veloci! Un invitante profumo di caffè andò a sostituire il lieve sentore alcolico che le aveva irritato le narici. Il suo sguardo avido si spostò dalle iridi boschive del giovane, probabilmente suo coetaneo, alla tazzina e, con grazia, andò ad immergervi due cucchiaini di zucchero. Intanto che aspettava che si sciogliesse -non lo mescolò- andò ad addentare una brioche croccante appena sfornata. Se tanto devo attendere, almeno faccio qualcosa di costruttivo pensò, mentre passava a tre invitanti bignè alla crema. Prese a mangiare con gusto, senza preoccuparsi se il suo sempre florido appetito facesse sorgere qualche quesito come riuscisse a mantenere quel fisico magro ed aggraziato. «Tornando al discorso di prima, la risposta è si, sono assolutamente sicura di volere questo impiego e visto che lei è riuscito nell'intento, avrebbe magari qualche consiglio da darmi affinché possa nutrire anch'io qualche speranza?» una punta di timida titubanza colorò ciò che non era una laconica richiesta personale, bensì un faccino dolce che, solitamente, sortiva l'effetto sperato di farle ottenere una risposta soddisfacente. No, non intendeva sfruttarlo per il proprio tornaconto (forse un pochino), era più che altro desiderosa di abbandonare il consumato bon-ton da manuale in favore di discorsi che avrebbero puntato all'autostima di Mr Jorgen, facendolo così propendere per un aiuto che poteva non essere unicamente rispondere alla sua domanda. «Il tour sarà lungo? Con ben 47 piani di grattacielo immagino che mi toccherà incontrare Mr Mordersønn al calar del sole, per quando avremo finito! O sarà lui stesso a farmi da guida? Sarebbe un vero peccato privarmi troppo presto della sua compagnia.» Indagare con discrezione e nonchalance. L'azione più consona da fare in una situazione come quella, visto che Lucille non credeva davvero che avrebbe incontrato Mr Mordersønn tanto presto come le era stato assicurato. Piuttosto aveva preso l'arrivo di quell'uomo come una sorta di prova, voluta magari dal capo stesso. Se così fosse stato avrebbe dovuto mordersi almeno venti volte la lingua per quanto aveva detto riguardo il suo essere un marpione, ma riflettendoci lo avrebbe detto anche se avesse intuito da subito che si trattasse di un primo step, antecedente quello finale e definitivo; lei diceva sempre cil che pensava e il più delle volte senza filtro alcuno. Dopo ciò che aveva passato, tendeva ad essere molto diffidente, specialmente in casi curiosi come quello.

    Edited by BesaidHead - 6/2/2019, 09:06
     
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    Due grandi occhi cerulei lo guardavano dall’alto come un paio di stelle incollate al soffitto. Gocce simili a rugiada straripavano dai bordi di quei piatti astrali che lo fissavano, un’espressione indecifrabile riflessa nel blu di quel mare in tempesta. Pochi centimetri più in basso qualcuno aveva disegnato una bocca perfetta, con quelle labbra di pesca stiracchiate in un sorriso rilassato di chi ride anche con gli occhi. Sentiva la necessità di stare vicino a quella diafana figura, speranzoso che anche solo la metà di quella gioia che sembrava emanare come il sole fa con i raggi del sole gli si trasmettesse per osmosi. Si era stretto a lei e aveva poggiato il capo sul suo petto. Sotto le mani, sulla guancia, sui vestiti, tutt’intorno e ovunque, c’era lei. Persino nell’aria sembrava perdersi, come se anche l’agente atmosferico desiderasse farla un po’ sua. E Nikolaj ne era geloso. Quella fragranza gli entrava nelle narici, un miscuglio tra il costoso profumo e l’odore della sua pelle, un marchio di fabbrica che ancora nessuno era riuscito ad imbottigliare. Ricordava di aver pensato di essere finalmente felice, da solo nella sua pelle abbracciato alla madre. Uno strattone contro il fianco e l’idillio finì così come era iniziato, velocemente e senza alcun preavviso. Voltata la testa, un occhio che si apriva prima dell’altro come a volerci andare piano, con cautela, ed ecco quel viso identico al suo che lo fissava di rimando, il corpo che lo spingeva di lato nell’avido tentativo di accaparrarsi un po’ di quelle attenzioni e un po’ di quel profumo.
    Nikolaj avrebbe voluto poter imbottigliare quella fragranza per averla sempre a portata di mano, solo per sé. L’avrebbe aperta di notte, quando gli occhi guardinghi del gemello non si sarebbero potuti posare su quel segreto come facevano con tutti gli altri, e se ne sarebbe versata una goccia sulla mano facendo attenzione a centellinarla, ottava meraviglia del mondo. Una singola lacrima sul polpastrello dell’indice sinistro per aver sempre quel profumo addosso. Poi, improvvisamente, la presenza contro il suo fianco era tornata a farsi sentire, un corpo che si sarebbe fuso con il suo se non fossero già due fiori aperti su un unico gambo. E quell'oceano si era andato a tuffare negli occhi di quell'indesiderato vicino di casa che non si era scelto, lasciando Nikolaj solo in compagnia di quel sentimento nascente che presto avrebbe saputo appellare, come un vecchio amico incontrato per caso, con il nome di odio. Una delle tante insidie dell'infanzia è che non è necessario capire per soffrire.

    Un battito di ciglia e il baratro buio dell'oblio inghiottì quei ricordi di un tempo lontano, lasciando l'uomo a fissare tutt'altro tipo di finestre sul mondo, tuttavia avvolto ancora dallo stesso profumo che sembrava essere tornato dal passato appositamente per dargli la caccia. - Coco madamoiselle. - Non era una domanda, sembrava persino risentito, come se il possedere quella fragranza fosse un affronto alla sua persona. Sembrava rivolgersi più ad un fantasma invisibile piuttosto che alla donna di fronte a lui, come se, per colpa di quell'odore che aveva smosso acque che era meglio non disturbare, Nikolaj non fosse ancora del tutto tornato nel nostro mondo, ma bensì la sua mente fosse ancora intrappolata in un ricordo. Non gli piaceva perdersi indietro nel tempo, aveva da dichiarato guerra a certi demoni che si nascondevano da quelle parti.
    Benché fossero dello stesso colore di quelle del sogno ad occhi aperti, quelle iridi possedevano una certa malizia e una quasi irritante insistenza che l'uomo aveva visto solamente nello specchio, quando rimirava la sua naturale bellezza. "Gli occhi sono lo specchio dell'anima" - chiunque aveva detto quella strozzata sarebbe dovuto morire male, molto male. Tuttavia, se vi fosse stata anche la più piccola possibilità che ciò fosse vero, Miss Johansen non doveva essere poi troppo male. Di certo non l'aveva immaginata così. Conosceva il suo aspetto fisico grazie alle ricerche che faceva effettuare sul background di ognuno dei dipendenti, o potenziali tali, che incontrava sul suo cammino. Era la prassi e tutte quelle noiosissime norme di sicurezza, ma Nikolaj lo faceva anche - e sopratutto - per avere un'idea dell'apparenza del candidato. Per lui che tanto idolatrava e perseguiva un ideale di perfezione tanto malsano quanto ossessivo, risultava persino impossibile trovarsi di fronte ad una bruttura senza provare un leggero ma nauseante senso di ribrezzo. Capite dunque come l'avesse scelta essenzialmente per le sue doti fisiche - a cosa serve il curriculum vitae? - che non avevano di certo deluso le aspettative. La figura possedeva le vitali "doppie s" - sottigliezza e sodezza, - con un viso dai lineamenti dolci dai quali sguazzava però un'aria piuttosto impertinente che lo intrigava. Era sempre stato abituato ad ottenere qualsiasi cosa desiderasse, che fosse essa appartenente al mondo animale, vegetale o inanimato. Per lui non c'era mai stata alcuna distinzione nel modo in cui trattava le tre categorie sopra citate, nessuna regola o riguardo per quelle caratteristiche che distinguevano i cosiddetti umani dalle bestie e ai primi tanto cari: i sentimenti. Aveva fatto dell'evitare di preoccuparsi delle sue emozioni una missione di vita, figurarsi quanto potevano contare per lui quelle degli altri. Tuttavia, una parte si era stancata di ricevere sì da ogni dove senza che lui dovesse fare il minimo sforzo, punte di proiettili lanciati alla velocità della luce. Sentirsi dire di no, comunque, non gli piaceva e non lo accettava mai. Come faticare per far suo ciò che voleva. Ed ecco che l'uomo si perde così nuovamente in quel uroboro demoniaco del serpente che si morde la coda. Niente lo allietava completamente, non c'era via di scampo. Proprio a voler essere pignoli - lo desiderava oltremodo - le avrebbe rimproverato solamente l'altezza. Ne aveva viste di peggiori. Nani da giardino travestite da donnicciole che si divertivano a schiacciargli le ernie del disco. Dal canto loro però, c'era da ammetterlo, erano piuttosto carine: averle così piccole tra le mani gli faceva venire voglia di giocarci come fossero bambole di pezza. Lucy era abbastanza alta per essere una donna, anche se ovviamente vicino a lui risultava comunque un elfo. In fondo sarebbe stato difficile trovare una creatura femminile alta più di un metro e novantatré.
    «Beh, se Mr. Mordersønn ci tiene che io metta qualcosa sotto ai denti non basteranno di certo un caffè o un succo d'arancia, dico bene?» Storse lievemente la bocca che si ridusse ad un segmento retto spostato a sinistra. Vederla lanciarsi sul cibo a quel modo incrinò lo spasmo d'eccitazione iniziale, causando in lui una certa delusione che si allargava ad ognuno dei successivi bocconi., come una ferita più volte colpita dalla stessa arma maledetta. Come distruggere un capolavoro in pochi secondi. Le narici si erano ristrette come quando qualcosa non ci soddisfa pienamente. Come spesso accade ogni cosa che da lontano luccica si imbruttisce osservandola da più vicino. - Immagino passi gran parte del suo tempo in palestra per far fronte al suo appetito... vorace. - Si inumidì le labbra con il liquore, per poi proseguire come se nulla fosse. - Anche se pensandoci, al giorno d'oggi fa più miracoli la chirurgia del duro lavoro. Complimenti. - Quell'allusione ad un possibile - quanto improbabile - ricorso a metodi chirurgici per rimuovere il grasso in eccesso lo avrebbe di certo reso odioso agli occhi di lei. "Tanto meglio così", pensò ciondolando pigramente il piede avvolto nella lustra scarpa di cuoio. Non era ancora sicuro di come si sentisse nei suoi riguardi. Di certo ne era intrigato, ma al contempo c'era qualcosa che infastidiva le note più profonde della sua anima.
    «Non sarebbe la prima volta che un mio superiore cerca di farmi qualche avance. Di solito mi limito a staccare qualche arto o a dilaniare quelle labbra deformate in aberranti sorrisi stucchevoli che mascherano desideri primordiali. Quando sono di buon umore.» Un sorriso machiavellico illuminò il volto scarno di Nikolaj. - Non mi era mai capitato prima d'ora di trovarmi di fronte ad un esemplare di donna cannibale. Il concetto e l'immagine che mi sono fatto di lei nell'atto di pulirsi i denti con una falange umana usata a mo' si stecchino è indubbiamente affascinante. - Cordiale - Tuttavia, mi auguro per lei di non doversi trovare a fare i conti con Hannibal Lecter. Mi domando cosa accadrebbe se si arrivasse a ciò. - ma sinistro, proprio come gli ripeteva sempre il nonno. Una mano affusolata penetrò tra la giacca e la camicia, chiudendosi immediatamente intorno quello che si scoprì ben presto essere un pacchetto di sigarette. Ne aprì il coperchio rosso con una calma quasi irritante, i polpastrelli che tastavano alla ricerca di quella che sarebbe andata a morire tra le sua labbra. Trovata la malcapitata, se la incastrò tra le labbra prima di far scomparire il pacchetto nuovamente nell'interno della giacca. Un accendino che era comparso insieme con un clic mandò a fuoco la testa della sigaretta, che al primo tiro crepitò come una piccola fornace fluttuante a mezz'aria. C'è chi avrebbe pagato, per una morte simile. Ben ancorata fra l'indice e il medio, la portatrice di cancro venne allungata verso la candidata. - Vuole? Deve sapere che è vietato fumare, qui dentro. Significherebbe mettersi nei guai al colloquio per un lavoro che non le è stato ancora assicurato. Sarebbe un pessimo inizio ma indubbiamente eccitante, non trova ? - Mettere alla prova le persone, farle sentire a disagio, spingerle con le spalle contro ad un muro, era tutti passatempi che Nikolaj aveva perfezionato nel corso degli anni.
    «In parole povere so come difendermi da questi derelitti che vanno solo compatiti in quanto incapaci di trovarsi una donna se non sfruttando la propria posizione professionale. Si, di norma cavo gli occhi e stacco gli arti, d'altronde trovo che azioni come guardare e toccare siano da abolire per questi individui.»
    - Mi trovo a dover dissentire con lei. Lo sa che entrambi i sensi agiscono in sinergia? Se provate ad immaginare una fredda lastra di metallo, non vi sembra quasi di avvertire la stessa sensazione che provereste toccandola? E se provate a visualizzare un corpo caldo e nudo vicino a voi, cosa succede nel vostro cervello?- Seguì una lunga pausa che l'uomo dedicò ad assaporare l'effetto che le sue parole avrebbero potuto avere sulla donna di fronte a lui. Poi il lungo corpo era tornato a rilassarsi elegantemente contro lo schienale imbottito della sedia sulla quale era seduto, una mano che volava ad afferrare una piccola pasta ricoperta di glassa. Non l'aveva neanche guardata prima di farvici sprofondare la dentatura a fondo, gli occhi resi grigi dal passaggio di una nuvola solitaria e tutti concentrati ancora su Miss Johansen. - Uno studio si sta svolgendo a riguardo proprio qui, in questo grattacielo. Ai soggetti sottoposti allo studio sono stati mostrati dei filmati con le immagini di mani nell'atto di toccare oggetti differenti. A seguito della visione di ogni video, al centro del quale vi era un oggetto dalle caratteristiche diversi, le aree del cervello corrispondenti al tatto si attivavano come se gli esaminati avessero realmente toccato l'oggetto che avevano però soltanto osservato. Non toglierei il diritto alla vista e al tatto neanche al più infimo degli uomini. Mi dia pure del sentimentale. - Quasi gli sfuggì una risata, tale era dissonanza tra quell'aggettivo e la sua persona. Quasi si poteva avvertire il frastuono creato da quella energetica onda d'urto, come se il barista lì in fondo avesse appena cozzato contro un intero servizio di bicchieri di cristallo.Nel pronunciare l'ultima frase aveva appositamente indugiato con lo sguardo sulla scollatura della donna nel - forse vano - tentativo di metterla a disagio o, più semplicemente, nello sfidarla a provare a sbranarlo. Dire che s stesse divertendo, era poco. C’era un che di inafferrabile in lei, qualcosa che non sembrava del tutto messo lì per compiacere il prossimo. Alla fin fine, chi avrebbe dovuto impressionare? Non di certo un semplice assistente che la stava intrattenendo mentre il capo era impegnato in un meeting importantissimo. Non era poi così male muoversi nei panni di Jorgen, l’avrebbe di certo preso in considerazione per future assunzioni. Come un Pascal di Besaid, Nikolaj arrivò addirittura ad accarezzare con la mente l’idea di un futuro in cui tutti lo credevano morto. Sarebbe stato impossibile, certo, erano troppe le persone che lo conoscevano. Sarebbe potuto fuggire come avevano fatto quei codardi dei suoi genitori, ma era fin troppo attaccato al suo impero per lasciare tutto agli avvoltoi che gli giravano intorno, pronti ad avventarsi sulle sue carni al primo passo falso.
    «Tornando al discorso di prima, la risposta è si, sono assolutamente sicura di volere questo impiego e visto che lei è riuscito nell'intento, avrebbe magari qualche consiglio da darmi affinché possa nutrire anch'io qualche speranza?»
    Si prese tutto il tempo necessario per pensare ad una risposta soddisfacente, mentre spegneva la cicca non finita schiacciandola nel piattino davanti a lui. Non è così semplice come sembra, propinare quel genere di accorgimenti per far colpo sulla sua stessa persona mentre si finge di essere qualcun altro. Comporta una certa dose di auto - analisi che Nikolaj non era desideroso di effettuare, soprattutto in una così piacevole istanza. Si era sporto in avanti, il bicchiere di liquido degli angeli che faceva oscillare in cerchi concentrici, stretto fra il pollice e l'indice della mano destra. Sembravano due amanti intenti a scambiarsi pegni d'amore o, piuttosto, due criminali che pianificavano il prossimo grande colpo. - Se fossi in lei, gli direi di no. - Quelle poche e forse ancora incomprensibili parole gli scivolarono dalle labbra quasi senza controllo. Era destramente curioso di scoprire se la donna possedesse realmente quel coraggio che cercava in tutti i modi di dimostrare attraverso i gesti e le parole, o se invece fosse - come si aspettava - tutto fumo e niente arrosto. La stava mettendo alla prova, sicuro che non avrebbe resistito neanche due giorni. Le donne sono come le castagne che si vendono per strada: quando le compri, sono tutte calde e profumate, ma quando le togli dal cartoccio si raffreddano subito e ti rendi conto che la maggior parte è marce. Si schiarì la gola, grattando le corde vocali come sassolini ribelli. - Vede, Miss Johansen, Mr Mondersonn è un uomo che possiede tutto e come spesso accade a chi non ha più niente da ricercare, si annoia facilmente.- Non era sicuro di apprezzare la piega che quel suo stesso consiglio stava prendendo, come se non fosse lui a scegliere le parole, ma qualcun altro. - Per lui la vita è una partita a scacchi, un susseguirsi di mosse e strategie. La avverto, non sarà semplice: non accetta le negazioni molto facilmente, di fatto non ha mai perso in vita sua. E possiede uno strano fascino che seduce in maniera lenta ma inesorabile. - Sembrò soppesarla con lo sguardo come a valutarne mentalmente le chance di sopravvivenza. - Sarà interessante stare a vedere quanto durerà qui dentro. Ammesso che il capo la reputi all'altezza da restare in prima istanza. - Era il colloquio più strano a cui aveva mai partecipato e per questo il più interessante. L'aveva stupito il fatto di non essere stato immediatamente riconosciuto da Ms Johansen. Forse in casa sua non aveva la televisione, forse non leggeva neanche i giornali. Inizialmente la cosa gli aveva fatto aggrottare le sopracciglia, quasi come se il suo bel faccino fosse risentito dal non aver lampeggiato com un insegna al neon nella scatola cranica della fanciulla. In fondo non ci aveva creduto neanche lui che quel giochino dello scambio di persona potesse durare a lungo. Eppure erano già quindici minuti che parlavano e se la donna avesse qualche dubbio non lo dava di certo a vedere. Per un istante si domandò, mentre la fissava, che cosa stesse accadendo in quella testolina tutta capelli. Di norma era del tutto disinteressato a ciò che le persone pensavano perché non lo tangeva in alcun modo. Eppure quella era una situazione del tutto straordinaria, fuori dalla norma, così come forse la persona che si era ritrovato di fronte. «Il tour sarà lungo? Con ben 47 piani di grattacielo immagino che mi toccherà incontrare Mr Mordersønn al calar del sole, per quando avremo finito! O sarà lui stesso a farmi da guida? Sarebbe un vero peccato privarmi troppo presto della sua compagnia.» Finse di rimanere colpito dalle sue parole, come se davvero ci fosse ancora qualcosa in grado di scalfirlo. - Non si sta forse divertendo con me? - Un espressione da cucciolo bastonato che andava a intenerirgli quel volto duro e perennemente canzonatorio. - Un vero peccato, perché io sto godendo enormemente della sua compagnia. Ma immagino che nessuno regga il confronto con Mr. Mordersonn: persino costretto ancora ad una semplice idea nella sua testa, la personalità del capo offusca ognuno di noi. - Sospirò come fanno i dolenti di cuore, o almeno così aveva sempre immaginato suonassero quei patetici disgraziati. Poi, improvvisamente, si riprese e parve riacquistare energia di spirito - Oh no, non vedrà il palazzo nella sua interezza ma solo i piani che le interesserebbero nel caso venisse assunta.-
    Con un cenno della mano fece capire al barista di portare il conto. Non gli era mai capitato di dover pagare a casa sua, me the show must go on. Calato nella parte del galantuomo, Nikolaj afferrò lo scontrino e lasciò che lo sguardo si alzasse per un attimo su quello, forse lievemente interdetto, di Lucy. - Ho dimenticato la tessera dei dipendenti a casa, quindi bisogna pagare. Ma non si preoccupi, è ovviamente tutto a carico dell'az-- Si era bloccato a scrutare il contenuto del portafoglio di pelle nera, un finto imbarazzo che tentava di colorargli le pallide gote. - Ho solo spicci purtroppo. Sono sicuro non le dispiaccia contribuire. Alla fin fine, ha mangiato quasi tutto lei. - Aveva lasciato cadere qualche corona, neanche la metà di quella cifra tonda scritta sul pezzo di carta che le aveva fatto scivolare sul tavolo. Nel portafogli non aveva di fatto nulla, questo perché Nikolaj Mordersonn non girava mai con le banconote in tasca ma bensì con almeno quattro diverse carte di credito. Si alzò allora come se niente fosse, le lunghe gambe che si tendevano come quelle di un fenicottero in giacca e cravatta. - Prego, da questa parte. Mi segua. - Si incamminò a passo sicuro e senza rispondere al saluto del cameriere al suo passaggio. Tenne aperte per la donna le porte dell'ascensore mentre una vocina metallica ma stranamente sensuale annunciava il piano su cui stavano. Dopo averle mostrato il piano trentatré, quello destinato alla biologia marina di competenza della donna, Nikolaj si ritrovò di nuovo accanto a lei nell'ascensore di un bianco accecante e asettico. Aveva la consapevolezza del corpo dell'altra vicino al suo, il gomito che quasi sfiorava quello di lei mentre la scatola metallica li portava su, sempre più su in alto in quel razzo proteso contro il cielo quasi a volerlo sfidare. - Più in alto si va, più interessanti si fanno le cose. - Sussurrò quasi a fior di labbra quella verità al sapore di segretezza e peccato, una tessera nera fuoriuscita da chissà dove che produceva un "bip" a contatto con lo schermo. I grandi numeri continuavano a salire mano a mano che passavano misteriosi piani all'apparenza deserti. Alla fine la gabbia in cui erano temporaneamente imprigionati si aprì, liberandoli proprio all'ultimo piano. Le fauci dell'ascensore aprivano direttamente nella suite privata di Nikolaj, un paradiso per gli occhi dei più avari. Chiunque avrebbe potuto capire che si trattava della dimora di un uomo ricco che amava circondare la sua persona di una bellezza ostentata ma non volgare - Solo due persone hanno accesso a questo posto e non posso garantirle che entrambe siano a conoscenza di questa piccola intrusione. - L'uomo fece un passo in avanti calpestando il pavimento di marmo purissimo. Poi si voltò verso Lucy, il classico enigmatico sorriso appena accennato su quel volto da Joker. - Quale sarà la sua prossima mossa, Miss Johansen? - Aveva allargato le braccia, l'ennesima sfida a tuffarsi nel suo mondo.



    Edited by constellations - 7/4/2018, 13:54
     
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    Com'era possibile che Lucille non avesse riconosciuto in quelle fattezze apparentemente impeccabili Nikolaj Mordersønn, il detentore di un impero finanziario eguagliato unicamente da multinazionali di alto livello? La risposta era da ricercare nella sua istruzione, che l'aveva vista impossibilitata a trovare risposte attraverso i maggiori mezzi di comunicazione di massa, come la televisione, i giornali o la radio. Nulla di tutto questo veniva contemplato da suo padre, il quale era avvezzo a ben pochi passatempi e detestava quei veicoli di comunicazione traslata, che mal riflettevano la realtà dei fatti. Ai suoi figli diceva sempre "se volete sapere qualcosa, mettete un piede fuori casa e andate nel mondo ad interessarvi in prima persona" e il Mordersønn Institute, notoriamente oscurato agli occhi dei curiosi, non aveva permesso alla povera Lucy che un'occhiata velata dall'esterno ed a poche nozioni che era riuscita a racimolare da conoscenti. Avrebbe potuto cercare video su youtube, guardare a sua volta il telegiornale o sfogliare qualche pagina di testate giornalistiche locali, ma non essendone abituata non si era data pena di farlo. Per questa ragione ricambiava lo sguardo curioso del suo interlocutore proponendogli il medesimo interesse che avrebbe riservato ad uno sconosciuto che, nel suo caso specifico, trovava spiccatamente interessante. Non si poteva dire che le sue fattezze non fossero piacenti e che la sua elevata statura e fisico asciutto non lo facessero passare per un modello ben agghindato, ma al colpirla era stato quasi principalmente il modo in cui si era rivolto. Aveva notato, e su questo punto non si sarebbe posta in errore, di essere come una preda in fase di studio, ai suoi occhi. Non era la prima volta che suscitava un simile effetto in un essere umano di sesso maschile, ma era senz'altro la prima volta che ciò avveniva con una tale insistenza e meticolosità. Ne dedusse che o era una sua consuetudine farlo con qualsiasi ragazza oppure doveva aver instillato in lui la stessa curiosità che, auspicava, avrebbe mosso anche nel suo superiore. Non era trascorso poi molto tempo da quando si erano incontrati, eppure non riusciva a fare a meno di domandarsi quanto ancora avrebbe dovuto aspettare prima di ottenere il suo agognato colloquio.
    Era una persona pratica e molto materialista, il suo scopo quel giorno era uno ed uno soltanto e sentiva che la questione le stava sfuggendo di mano; si trattava solo di una manciata di tempo, ma il fatto di sentirsi in stallo la innervosiva. Stare in compagnia di Mr. Jorgen era estremamente piacevole e confidava ci sarebbero state altre occasioni per farlo, con la mente più distesa e non preda dalla smania di ottenere quel posto di lavoro. Ovviamente nessun sintomi di tale nervosismo trasparì dal suo volto, nè da ogni altra parte del suo corpo che rimase impeccabilmente sciolto nella sua maschera di agio ostentato. Era una parte quella che aveva recitato sin da bambina e faceva parte di quel ben più ampio spettro di accettazione del prossimo che si obbligava ad ottenere in qualsiasi situazione, indipendentemente da chi aveva davanti.
    Quando ad un certo punto l'uomo di fronte a lei individuò il profumo che si era spruzzata in dosi smodate prima di metter piede fuori casa, Lucille s'irrigidì, sorpresa. Non era abituata a quel tipo di reazione che si badi bene era individuabile solo da uno specialista di micro espressioni e gesti, alla Lie to me. Normalmente aveva sempre la situazione in pugno, ma quel dettaglio non l'aveva preventivato e, in qualche modo, colpì un nervo scoperto. Nemmeno lei riuscì a darsi una spiegazione del perchè quelle parole la turbarono tanto, ma ci riuscirono con troppa facilità perché non si mettesse subito in allerta, come un felino che avverte il pericolo e rizza il pelo pronto a fronteggiare il nemico. Se quello era il preludio, si domandò se anche colui che avrebbe dovuto essere 'obbligatoriamente' il suo futuro capo si sarebbe dimostrato una spina nel fianco come il suo sottoposto. «Touché.» mormorò a denti stretti, cercando di apparire calma e padrona della situazione; allungò il braccio nella sua direzione, ruotando il polso sottile affinché l'uomo potesse avere ulteriore conferma di aver individuato quale profumo aveva usato. O forse inconsciamente indotta a ricercare una vicinanza che quel tavolo per il momento non permetteva.
    Perchè quell'affermazione? Desiderava farle intendere di non essere uno sprovveduto? Di saper andare ben oltre una banale conversazione tra due sconosciuti, o far colpo su di lei mostrandosi informato su un argomento -i profumi- verso il quale una normale ragazza avrebbe gongolato come un'oca giuliva? Perchè nel caso specifico di Lucille qualsiasi argomento prettamente femminile come scarpe, vestiti, profumi, smalti, trucchi, moda e gossip non erano che elementi di una corazza con la quale costruiva la sé stessa ideale, agli occhi di chi desiderava tenere in pugno. Per esperienza qualsiasi uomo o, in quel caso specifico un ipotetico capo, si mostrava più ben disposto trovandosi di fronte una ragazza curata, attenta alle ultime mode (carpite da amiche ben informate, non ovviamente da pubblicità televisive o riviste scadenti) anche in fatto di profumi piuttosto che ad una carpa baffuta con occhiali spessi quattro dita, vestiario da nonna preistorica e dialettica elementare. Morale: i dettagli facevano tutto e l'apparenza era un punto da tenere a proprio favore.
    Ad ogni modo, aveva creduto erroneamente di poter perdere terreno una sola volta e di aver dato troppo peso a quel piccolo dettaglio. Ma avrebbe dovuto tenere a mente una lezione importante, imparata negli anni ma che evidentemente avrebbe dovuto imprimere maggiormente nel suo intelletto: mai dare occasione al nemico di pungerti una seconda volta. Stava sorseggiando il caffè bollente quando delle nuove parole intrise di saccenza le ustionarono la gola. Immagino passi gran parte del suo tempo in palestra per far fronte al suo appetito... vorace. Anche se pensandoci, al giorno d'oggi fa più miracoli la chirurgia del duro lavoro. Complimenti. Il rumore delle tazzine che si scontravano sui piattini e le voci dei presenti attutirono un sonoro sospiro che fuoriuscì dal nasino di Lucille. In una veste caricaturale, sarebbe potuta somigliare ad un toro incazzato. La cosa maggiormente irritante, oltre all'espressione che aveva accompagnato quel veleno, era la velatura che lasciava spazio all'ipotesi che non la stesse realmente accostando a quelle psicotiche megere che si sottoponevano al bisturi come gesso nelle mani di un artista. Prego, fa di me ciò che vuoi. Se c'era una categoria di donne che Lucille Johansen detestava, era proprio quella; non le fu facile stavolta mascherare il suo sgomento per quel velato paragone. Era certa, inoltre, che l'intendo di Mr. Jorgen fosse solo quello di irritarla e diamine se ci stava riuscendo! Ma come ogni guerriero, la giovane donna amava le battaglie, specialmente se il duellante era un suo pari come sembrava essere Mr Jorgen, dunque si sentiva disgiunta dal desiderio di affondargli il volto in una tinozza di olio bollente, al fine di deturpare quel ghigno strafottente, e il desiderio di prendere quelle labbra impertinenti e avvicinarle alle sue, in maniera decisamente poco decorosa, e mostrargli che non erano state soggette a botulino o bisturi e perfettamente in grado di adoperarsi in movimenti fluidi e ben calibrati. Per ovvi motivi, non fece nulla di tutto ciò, ma cercò di deglutire in maniera normale e riprendere il filo del discorso come se si fosse trattato di un argomento che non minava la sua integrità. «Temo di doverla deludere, Mr Jorgen, questa volta è in errore. Non ho mai messo piede in una palestra e questo vitino di vespa non è stato modellato da abili esteti. Semplicemente il mio metabolismo m'impedisce di prendere peso sebbene, come avrà notato, non ponga freni al mio appetito. Se proprio devo spendere il mio tempo libero in qualche modo, non lo faccio sperperando il denaro in luoghi come quelli, ma in occupazioni decisamente meno dispendiose e più salutari.» sebbene il garbo restasse intriso in ogni parola che produceva, questa volta un gelo palpabile accompagnò la sua spiegazione. Si prese il suo tempo per dare aria ai polmoni e quando si decise a chiudere le “fauci”, le riaprì un secondo dopo per addentare con maggiore voracità un povero croissant, quasi volesse sfidare l'uomo a dire ancora qualcosa a riguardo.
    Terminò il suo banchetto stando bene attenta alle successive mosse del norvegese, certa ormai di potersi aspettare qualsiasi cosa. Forse era insito nel suo carattere, forse il capo di quell'immenso grattacielo gli aveva imposto di “testare” la sua compostezza, magari a fronte di un carattere non proprio facile da pare di quest'ultimo, ma qualunque fosse il motivo ne aveva fatto una questione personale e come sempre, si trovò a sentirsi in una sottospecie di gara che era fermamente intenzionata a vincere. Tuttavia, mi auguro per lei di non doversi trovare a fare i conti con Hannibal Lecter. Mi domando cosa accadrebbe se si arrivasse a ciò . Stava ancora pesando, schematizzando la situazione appena vissuta e facendo un elenco di possibili svolte di quell'incontro, quando captò quelle parole. Prese il tovagliolino di carta e si pulì con grazia ostentata la lebbra sottili e le punte delle dita incrostate da pasta sfoglia. «La priverò del piacere di abbandonarsi all'immaginazione, esponendole come andrebbero le cose qualora dovessi incontrarlo: semplicemente, lo avrei per cena.» sentenziò, alludendo alla frase finale del film Il silenzio degli innocenti. Hannibal Lecter sarebbe stato il suo amico, a scelta di Mr Jorgen decidere se essere tale o, al contrario, divenire suo nemico e pagarne le conseguenze. Non voleva essere una dichiarata minaccia, ma un avvertimento sul fatto di tenere a freno la lingua, perchè si era già incamminato su una corda sospesa nel cielo, e sarebbero bastate poche sillabe perchè lei decidesse deliberatamente di farlo cadere.
    Fortunatamente il loro dialogo prese una piega differente e, curiosamente, non si stizzì nell'apprendere che lui non era concorde con quanto aveva detto e quando le propose l'esempio della lastra di metallo, provò socchiudendo le iridi chiare ad immaginare la sensazione della fredda superficie a contatto con la sua pelle scottata dal sole. L'effetto fu il medesimo che probabilmente Mr Jorgen aveva auspicato. Ma quando si trovò a dover immaginare la seconda casistica, ciò che “vide” con la mente la stupì. Evitò di rispondere alla domanda, stupendosi inoltre di vederlo propendere per un esempio che una persona come la sua amica Astrid avrebbe reputato troppo intimo e confidenziale per essere esposto ad una persona appena conosciuta. Però curvò le labbra in un sorriso d'intesa: difficile che la sua immaginazione fosse così distante da quella che, probabilmente, albergava in lui. Anime affini? Su quell'aspetto forse si, se poi avessero avuto altro tempo a disposizione, quel giorno così come in futuro, magari avrebbero appurato di esserlo anche su altri. Si domandò quale ruolo ricopriva all'interno di quell'Istituto, una mente tanto brillante avrebbe potuto avere nozioni di qualsiasi campo e, chissà, magari lo avrebbe avuto come collega.
    Ascoltò con altrettanta attenzione quanto ebbe da rivelarle riguardo all'uomo che si apprestava ad incontrare, per lei una pagina bianca di un libro ancora tutto da sfogliare. Senza quasi rendersene conto il suo corpo si allungò leggermente verso di lui ed ogni suo senso si acuì attento. Ma ciò che apprese non le piacque per niente, o almeno non del tutto: odiava i ricchi viziati che avevano tutto dalla vita e che, per tale ragione, perdevano interesse anche nelle cose più valide solo perchè gli venivano servite senza che dovessero sforzarsi per ottenerle. Lei rappresentava l'esatto opposto. La sua intera persona era il risultato di sforzi indicibili fatti in primis per sopravvivere alla propria situazione famigliare tutt'altro che facile, e per modellarsi al fine di evitare ciò che la impauriva maggiormente: l'essere indesiderata, non necessaria, sfruttata ed infine abbandonata. Quei timori erano conosciuti a lei soltanto e mai ne avrebbe fatto parola con nessuno. Mai.
    Tuttavia condivideva il modo di affrontare la vita da parte di questo damerino, lei stessa era un prodotto di strategie, mosse calcolatrici ed intelletto portato all'estremo. E detestava perdere, perciò faceva in modo che ciò non accadesse quasi mai, a meno che proprio non le fosse impossibile impedirlo. Quando il suo interlocutore smise di parlare, accolse le sue parole annuendo col capo, in modo lento ma sicuro. «Allora credo di Mr Mondersonn troverà pane per i suoi denti.» fece roteare la lingua tra le labbra, prendendosi il tempo necessario prima di ultimare la frase. «Nonostante non sia nata nel suo stesso agio e la mia vita non sia minimamente comoda come la sua, ammetto di viverla con la stessa meccanica d'azione. Con questo non voglio dire che troverò facile negargli qualcosa, ma che a mia volta non amo perdere, e che le sfide mi elettrizzano, piuttosto che incutermi timori. Se riuscirò a diventare parte integrante di questa realtà che mi affascina da quando il primo mattone di questo grattacielo è stato incastrato sul suolo di Besaid, farò di tutto per restarvi. Ma alle mie condizioni.» L'ultima frase non fece altro che rimarcare quanto aveva già detto appena avevano iniziato a dialogare.
    Mal sopportava quei capi che, approfittando della loro posizione, sfruttavano le proprie dipendenti per prestazioni personali, perciò non avrebbe fatto nulla che non avesse lei stessa desiderato. Se un rifiuto fosse stato necessario, avrebbe trovato un altro modo per non farsi sbattere fuori da quel posto di lavoro.
    Indubbiamente un pomposo viziato che non riceveva mai dei No nella vita, non avrebbe digerito bene un allontanamento dalle sue grazie, ma se lo avesse ricattato a dovere si sarebbe potuta garantire il posto di lavoro. Anche se odiava arrivare a questo, odiava ancora di più chi per primo si mostrava sporco sul piano professionale. Per alleggerire il discorso domandò se il tour fosse stato lungo, d'altronde sebbene quella compagnia si stesse rivelando particolarmente piacevole, il suo intento in quel grattacielo era quello di ottenere un posto di lavoro ambito dalla stragrande maggioranza dei cittadini di Besaid. Attendere era snervante, oltre che controproducente. Così come era curioso che Jorgen nominasse così spesso il suo capo; forse provava una sorta di invidia nei suoi confronti, d'altronde il denaro purtroppo apriva non poche porte e se a questo si aggiungeva un potere incontrastato su quella struttura, era normale che potesse suscitare una certa invidia. Non oscurò la propria delusione nell'apprendere di non poter vedere ogni angolo di quel luogo, cosa sicuramente impensabile ma che rientrava comunque nelle sue intime speranze, ma negò il fatto di non provare piacere nella compagnia di quella persona così inusuale, difficile da catalogare come aveva fatto in precedenza con la maggior parte delle persone che aveva incontrato sul suo cammino, e non meno misteriosa.
    Ma dovette mordersi il labbro per non sbottare quando, con una fittizia educazione, la invitò a pagare di tasca sua ciò che inizialmente aveva detto essere a carico dell'azienda. Una cosa del tutto normale, meno che in quel caso. Iniziò a tremare dalla rabbia, facendo un rapido calcolo di quanto avrebbe dovuto sborsare. Era anche piuttosto tirchia e dover pure pagare per un uomo appena conosciuto non rientrava tra le cose che era solita fare, anzi, di norma era l'esatto contrario. Controllò l'esattezza dei suoi calcoli approssimativi gettando un'occhiata allo scontrino e trasse le corone necessarie dal portafogli turchese, precisa fino all'ultimo centesimo. «Non c'è problema, sono cose che capitano.» ma che non dovrebbero accadere. «Sono certa che se dovessi essere assunta, il lauto stipendio che si vocifera prendano i dipendenti di questa Compagnia ripagheranno quest'infima spesa.» Lo disse con semplicità, poiché il denaro non era mai stato una cosa che le interessava. A quel punto, con ancora le mani seminascoste dalla plastica, incanalò una cospicua concentrazione e fece apparire una piccola illusione che era certa sarebbe stata individuata solo dagli occhi avidi di Jorgen. Diverse corone norvegesi apparirono dal nulla, più numerose rispetto a quelle che aveva speso per quella colazione, e fecero il loro ingresso nei piccoli compartimenti del portafogli. «Ops.» ridacchiò, come se fosse una bambina che aveva appena rivelato un segreto all'amichetta del cuore.
    Seguì dunque l'uomo che si districò nei cunicoli apparentemente tutti uguali dell'edificio fino a raggiungere l'ascensore. La sua altezza era ancora più marcata dal colore predominante di quel luogo, il bianco più puro, sporcato dai colori delle loro figure. Quando si trovarono soli nella cabina dell'ascensore, Lucille avvertì una strana agitazione. Una forza immaginaria lo attraeva a lui, come se fosse una calamita avvicinata ad un imponente frigorifero. Il cuore iniziò a batterle nel petto come la musichetta del film Jumaji, sempre più insistentemente. Non capiva se era solo la sua fisicità ad attrarla o quella personalità amabile e detestabile allo stesso tempo. Cercò di mantenere un certo distacco, incerta su sé stessa. I numeri sul display si susseguirono talmente rapidamente che Lucy non ebbe il tempo di leggere a che piano erano arrivati e si stupì della rapidità di quel mezzo. La tecnologia era davvero il cuore pulsante di quel luogo.
    Ricordò di aver notato una tessera nera tra le mani del suo accompagnatore e di essersi domandata se fosse la fantomatica tessera dipendenti che, a quel punto, aveva finto di non avere con sé, ma ciò che accolsero il suo sguardo le fece presto dimenticare quel piccolo dettaglio. Sembrava essere uno spazio privato notevolmente pregiato e lussuoso in ogni dettaglio. Ovunque posasse lo sguardo sembrava di avere a che fare con elementi d'arredo appena acquistati, dove la polvere non osava posarsi tanto erano eleganti nel loro chiarore, in perfetta sintonia con il bianco predominante. Solo due persone hanno accesso a questo posto e non posso garantirle che entrambe siano a conoscenza di questa piccola intrusione. Due persone? Il capo e...lui? Erano forse gay? Uno che sosteneva di essere dipendente di quell'impero da poco tempo? Non quadrava, così come non le era sembrato avvezzo a determinati tipo di piaceri. Inoltre se sosteneva che forse nessuna di queste due persone sapeva della loro intrusione poteva toglierlo dalla lista dei potenziali incursori. Una miriade di ipotesi e domande bombardarono la mente di Lucille, portandola forse vicina alla verità, forse lontana. Quale sarà la sua prossima mossa, Miss Johansen? Per un attimo non rispose, troppo rapita dalle proprie elucubrazioni e da quel mondo sfarzoso ma non eccessivo. Mosse qualche passo, avvertendo i tacchi produrre un suono buffo contro le mattonelle di marmo. Sembrava Alice che si inoltrava nel mondo delle meraviglie, studiandone ogni dettaglio.
    Ed uno di questi la colpì. Tutte le persone provviste di un ego smisurato amano mostrarsi, più o meno in modi classici o più particolari. Appesa al muro ed incorniciata con una cornice in avorio, vi era una fotografia che ritraeva una moltitudine di persone impilate come soldatini di fronte al grattacielo ancora in costruzione. Al centro di queste, una figura risaltò all'occhio allenato della giovane donna: un giovane Jorgen, affiancato da una figura più in là con l'età e dall'espressione piuttosto austera. Le aveva detto di essere stato assunto da poco, eppure conosceva già così tanti dettagli nel suo capo...Lucille spostò rapidamente lo sguardo, facendo finta di puntarlo ordinatamente su altri dettagli di quella dimora, simile in tutto e per tutto ad una mini abitazione. Quando la sua mente ebbe finito di lavorare all'impazzata, si sedette su una scrivania in vimini, dove plichi di fogli erano stati impilati in maniera maniacale. Inclinò il capo verso destra, mentre osservava il suo accompagnatore sotto una nuova luce. «Le opzioni sono molteplici. Potremmo verificare quanto mi ha appena paventato sugli interessi di Mr Mordersønn, così potrà appurare anche che non scherzavo quando dicevo che preferisco fare di testa mia. Oppure potremmo smettere di girare intorno alla questione, giocando se vogliamo in maniera davvero deliziosa ma forse troppo duratura, non crede? E giungere al nocciolo della questione.» alzò la borsetta a tracolla e la sistemò sulle cosce accavallate. «Qui ho tutta la documentazione possibile che attesta che sarei il candidato ideale per lavorare in questa struttura. Dunque la domanda è: a livello personale, sono riuscita a convincerla, Mr Mordersønn?» domandò assottigliando lo sguardo e mostrandogli un sorrisetto di sfida che lasciava intendere una cosa: una certa strizza l'aveva, dopotutto poteva trattarsi di un uomo che amava divertirsi a spese del prossimo senza preoccuparsi di farle dispiacere se le sue scelte non sarebbero state quelle sperate. Ergo se non le avesse dato il posto. Dall'altra parte riteneva che, forse, se erano giunti fino a quel punto forse una qualche speranza poteva ancora nutrirla.
    L'aveva però portata in quella che sembrava la sua suite privata, dove a giudicare dal costosissimo baldacchino sistemato nel lato opposto della stanza, amava schiacciare un pisolino o intrattenersi con le dipendenti - stando a quanto le aveva riferito. Non aveva nemmeno omesso la parte in cui citava “ possiede uno strano fascino che seduce in maniera lenta ma inesorabile “, rimarcando quanto sembrava si aspettasse di ottenere. L'aveva portata lì per ostentare la propria ricchezza? Per farla arrendere a richieste alle quali, come ricordava, lei stessa aveva detto non avrebbe mai ottemperato? Col rischio che la prima negazione della sua vita avrebbe corrisposto ad una mancata assunzione?
    Avrebbe rischiato, come sempre.

    Edited by Comet - 8/4/2018, 22:08
     
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    Anonymes!

    Il processo - conscio o inconscio - di ricordare non lo affascinava particolarmente anzi, aveva sempre cercato di rifuggire quegli antichi luoghi dimenticati da Dio e dagli uomini, pronto ad abbandonare qualsiasi di quei tanti minuti appartenenti a quella che sembrava essere la vita di qualcun altro. Nella sua incessante battaglia contro ciò che lo aveva ferito, Nikolaj sapeva che non tutto ciò che luccica è oro. Alcuni di quei ricordi, infatti, brillavano come piccoli raggi di sole nell'oscurità che la solitudine e il disprezzo avevano creato. Il volto di sua madre, quello di Frida, la piccola ma preziosa collezione di modellini d'automobile, gli occhiali sbilenchi di Jakob: sembravano cavalieri che lottavano a spada sguainata nel tentativo di difendere quel poco che a Nikolaj restava di sé. E' difficile cercare di salvare qualcuno che non vuole essere salvato. Non c'era giorno che questi cavalieri dell'apocalisse non cercassero di riportargli qualcosa alla mente, di farlo di nuovo loro amico, e l'uomo rispondeva indietro con l'ostinata caparbietà di chi non ha nulla da perdere. Nonostante niente sembrasse turbarne l'austero volto, quella era una battaglia assai difficile e risucchia - energie, una marea di sanguisughe che puntualmente provavano a dissanguarlo. Per questo qualora un agente esterno di qualsivoglia forma e natura metteva lo zampino in quel dramma tutto personale, l'uomo cambiava repentinamente attitudine. Di solito questi ficcanaso assumevano le gradite forme di un corpo femminile che, forse nella vana speranza di ricevere ciò che cercavano, avevano stupidamente deciso di fare della sua salvezza la loro missione di vita. Ma c'erano stati anche momenti in cui, come quello che stava vivendo, la persona non aveva intenzionalmente tentato di portare a galla una parte di lui che aveva mandato all'inferno già da tempo. Il solo errore della sua interlocutrice era quello di aver scelto proprio di far suo quel profumo che apparteneva ad uno dei ricordi più luminosi di cui Nikolaj possedesse. Non aveva pronunciato il nome di quel marchio per far colpo su di lei - stranamente - ma piuttosto l'aveva fatto quasi inconsapevolmente, come se il bambino di quella manciata di momenti rimembrati avesse provato a liberarsi prendendo la parola sul presente. Fortunatamente era Nikolaj Mordersonn a comandare in quella porzione di tempo e si trovavano nel suo mondo, nell'impero che la giovane versione di sé neanche avrebbe sognato di, un giorno, gestire. Lo sorprese un poco la rapidità con cui la donna aveva reagito, irrigidendo qualsiasi muscolo del corpo come a volersi mettere sull'attenti. In fondo stavano conversando da poco più di dieci minuti e non si poteva certo dire che l'uomo si fosse mai preoccupato di conoscere a fondo qualcuno.
    Nonostante fosse un tipo molto attento ai particolari - in fondo la perfezione non è altro che un insieme di dettagli e minuzie perfettamente assemblati fra di loro - con le donne non aveva mai speso troppe energie. Nella sua versione un po' misogina del mondo, erano pochi i segnali di cui doveva prendersi la briga di stare attento e, di solito, avevano sempre a che fare con l'assicurarsi una serata piacevole o concludere un affare da centinaia di corone. Non c'era mai stato altro spazio, nella sua fin troppo busy agenda, per spaziare nel vasto campo dello spettro umano. Per lui era tutto questione di bianco o di nero, di un buon affare o di una truffa. Si era arrogato da tempo il diritto di conoscere le donne e ciò che volevano basandosi sulla convinzione che andassero solamente in cerca di soldi e di sesso perché, di fatto, era quello il tipo di donna che di solito lo circondava. Quell'irrigidimento da parte di Lucy, tuttavia, lo colse alla sprovvista e si ritrovò stranamente a desiderare di scoprirne la causa ad ogni costo. Sarebbe corso a sbirciare nei vasti archivi di cui si disponeva sempre per sapere vita, morte e miracoli degli altri, se solo essi avessero potuto fornirgli qualche risposta soddisfacente. Quegli interminabili cassettoni di metallo sterile, così pieni di conoscenze fisiche e palpabili, risultavano vuoti in quanto a sentimenti. Per quelli, Nikolaj si sarebbe dovuto affidare solamente a sé stesso. Così decise di ignorare quell'avvenimento, quel guizzo di sorpresa visibile ad un occhio allenamento e, altrimenti, impercettibile. Nella sua testa si erano affollate diverse teorie, ma non era sicuro di nessuna di esse e questo lo faceva impazzire.
    Ignorò quell'istintiva reazione che sembrava di autodifesa, come se al solo nominare la fragranza la donna si fosse spaventata - se sì, perché? - come faceva con ogni fastidiosissima cosa che sfuggiva al suo controllo. Aveva sempre creduto di saper prevedere azioni e parole di chi lo circondava ma, più probabilmente, aveva sempre incontrato persone con uno spessore caratteriale pari a quello di un cucchiaino da caffè. Questo lo aveva spinto ad annoiarsi facilmente di chiunque. A questo punto del colloquio di solito Nikolaj s'era già fatto un'idea precisa dell'intervistato che si svelava alla stessa velocità con cui apriva le gambe verso di lui. Tuttavia Lucy -Ms Johansen - era ancora un misterioso cubo di Cubrck dalle facciate colorate nell'ordine sbagliato. E come non gli capitava da anni, Nikolaj si ritrovava a volerlo risolvere.
    «Temo di doverla deludere, Mr Jorgen, questa volta è in errore. Non ho mai messo piede in una palestra e questo vitino di vespa non è stato modellato da abili esteti. Semplicemente il mio metabolismo m'impedisce di prendere peso sebbene, come avrà notato, non ponga freni al mio appetito. Se proprio devo spendere il mio tempo libero in qualche modo, non lo faccio sperperando il denaro in luoghi come quelli, ma in occupazioni decisamente meno dispendiose e più salutari.»
    Il sorriso tornò a spuntare lieve sul viso duro dell'uomo, addolcendone i tratti. Sembrava uno di quei bambini idioti che non riescono ma a non ridere alla parola tette. Nella sua testa tutt'altro che angelica s'erano formate idee ben chiare su quali potessero essere quelle fantomatiche attività a cui Miss Johansen piaceva dedicarcisi senza spendere troppo denaro e salute.
    «Forse abbiamo più cose in comune di quanto pensassimo, io e lei.» Non lo avrebbe mai ammesso, ma questo lo attraeva e preoccupava al contempo. Poteva essere solamente una prima impressione - dopotutto, non la conosceva che da qualche minuto - ma non s'era mai trovato faccia a faccia con qualcuno che sembrava ragionare con la sua stessa testa. Una donna, per altro. Lo irritava e divertiva, gli veniva voglia di cacciarla dal suo grattacielo ma sapeva che non l'avrebbe mai fatto. La loro conversazione sembrava andare avanti a frecciatine che lanciavano allusioni sottili ma la cui presenza impregnava l'aria che respiravano. Del resto, è l'invisibile ciò che attrae maggiormente. Era quasi certamente sicuro che nella testa della moretta si agitavano i suoi stessi pensieri. Difatti si scrutavano l'un l'altra come due animali indecisi se attaccare o accoppiarsi, succubi di quella dualità che rende schiavi gli esseri umani. «La priverò del piacere di abbandonarsi all'immaginazione, esponendole come andrebbero le cose qualora dovessi incontrarlo: semplicemente, lo avrei per cena.» Persino quella risposta lo confondeva, come se la donna volesse rimarcare una superiorità che, di fatto, non aveva. Quasi dimentico del fatto che non conoscesse la sua vera identità, Nikolaj si sentì offeso da quel continuo tentativo di intimorirlo e in quel momento promise a sé stesso una cosa: l'avrebbe fatta pentire di tanta sfacciataggine. Quasi si leccò le labbra pregustando la sensazione che avrebbe provato una volta che tutte le carte fossero state messe in gioco, svelate nella loro nuda realtà. Le avrebbe cancellato quell'aria da sono meglio io dalla faccia. Ne aveva mi mezzi e il potere per farlo e non aveva paura ad usarli, persino per scopi poco etici come quello. La morale la lasciava ai filosofi, per lui esisteva solo il fine ultimo. «Sarà un interessante banchetto a due, allora.» La voce era quella secca e asciutta di chi non ha tempo da perdere. Non impiegò infatti altro fiato, era prezioso come tutto ciò che gli apparteneva e non lo avrebbe sprecato un istante di più. Nonostante ciò, doveva comunque avere l'ultima parola su tutto. Sempre. Certi silenzi pesano come mattoni di cemento tuttavia, quelli che si stiracchiavano di tanto in tanto fra di loro non sembravano di quel genere, più simili a pause in cui studiarsi e provare, forse, a capirsi, a dare una logica alla mente dell'altro non troppo simile dalla propria. Erano dimensioni spazio/temporali create appositamente nella prevedere la prossima mossa o parola dell'altro e, di conseguenza, Nikolaj non ne sentiva il peso. Di ritrovò a chiedersi cosa l'avesse spinta a mandare il proprio curriculum lì, se ci fosse qualcosa di più che il semplice prestigio della compagnia e il grattacielo mozzafiato da cui avrebbe potuto ruminare la vista senza precedenti. Dalle sue parole sembrava molto interessata a conoscere il capo, tanto da non stare più nella pelle aspettando il momento in cui l'avrebbe, finalmente, incontrato. Innumerevoli erano le voci che giravano sul suo conto, ma Nikolaj stava cercando di non prestarvici troppa attenzione. Dalla morte del nonno i pettegolezzi erano aumentati, finendo con l'intaccare quell'atarassia che possedeva di cui era sempre andato tanto fiero. Non si curava di quelle parole finché si trattava di stupidi gossip sulla sua presunta vita amorosa, ma da qualche tempo quelle sanguisughe di giornalisti avevano iniziato ad ipotizzare una losco piano ideato dall'uomo per sbarazzarsi di Aleksej e, finalmente, mettere le mani su quell'enorme eredità. Non dovevano osare... Non sapevano niente della sua famiglia, niente del nonno. Nikolaj era persino arrivato persino ad usare la propria particolarità su uno di quegli esser infimi, mandandolo all'ospedale con parecchie fratture. Avevano insabbiato la notizia, lasciando il malcapitato con un capitale in banca, un biglietto di sola andata per l'America e una serie di precise e mal velate minacce. Chissà come aveva fatto, la donna seduta di fronte a lui, a non aver mai visto la sua faccia sul notiziario o sul giornale. Stava forse fingendo? Erano forse in due a nascondere qualcosa?
    Inclinò leggermente la testa al suono di quelle parole che non fecero altro che confermare le sue speranze e preoccupazioni. Dopotutto, era davvero pane per i suoi denti. «Temo che non stia a lei dettare alcuna condizione ma, semmai, stia a lei adattarvici.» Anche la sua era una semplice constatazione, come se non vi fosse niente di più logico al mondo. Il tram tram che seguì dopo fu solamente un susseguirsi di false cerimonie, ma una cosa davvero interessante accadde nel processo.
    Nikolaj assottigliò gli occhi, le palpebre ridotte a due saracinesche mezza aperte e mezze chiuse. Qualcosa era successo lì, proprio lì. Era stata una questione di un secondo che era passato velocemente ma non abbastanza da impedirgli di notarlo. Un secondo che bastò all'uomo per farsi un'idea di ciò che poteva essere successo: aveva forse appena assistito alla particolarità della donna in azione? Gli abitanti di quella cittadina erano piuttosto riservati quando si trattava di quella particolarità che sembrava manifestarsi solamente nei suoi confini e questa riservatezza rendeva il lavoro di Nikolaj cento volte più difficile. Ma lei l'aveva utilizzata così, al loro primo incontro, nascondendola ma non troppo, come se in qualche modo volesse sfidarlo a coglierla?
    Stranamente la particolarità di Miss Johansen non veniva citata nella cartella che aveva su di lei, come se in qualche modo fosse stata nascosta per tutto questo tempo. Era anche quello uno dei motivi per cui aveva voluto a tutti i costi incontrarla. Sapeva così tanto di chiunque, quanto pochissimo di lei e questo lo elettrizzava. Decise di lasciare correre, per il momento almeno, e si godette il tragitto sull'ascensore come se un bambino sulle montagne russe. Era quasi sicuro che la testa della donna fosse affollata dei suoi stessi pensieri quando lì, fermi l'uno di fianco all'altra, gli indumenti che ricoprivano le loro braccia si sfioravano. Sentiva la necessità di starle vicino ma al contempo di respingerla. Non si capacitava di quella repulsione che non aveva mai provato con nessuna altra donna, come se qualcosa gli impedisse di lasciarsi andare. Perché?
    Quello che accadde dopo lo lasciò, sorprendentemente, di stucco. Le lasciò osservare la grande stanza quasi a bocca aperta, del resto era abituata a certe reazioni. Erano sempre le stesse, che si trattasse di una prostituta o di una donna di alto borgo. Nonostante possedesse una mente certamente brillante e un'ossessiva attenzione ai particolari, il ricordo di quella foto aveva completamente lasciato la sua mente, come se non fosse mai esistita. Per questo quando Miss Johansen si sedette sul divano con tutta calma, come se fosse sempre stata la padrona assoluta di quel luogo e l'unica destinata a poggiare le delicate natiche sul soffice e costoso tessuto, l'uomo aveva ancora quel sorriso vittorioso stampato sul volto. Credeva di aver vinto, spingendola ad entrare nelle sue stanze, non si sarebbe mai aspettato di sapere quale fosse il vero motiva dell'improvvisa sicurezza che la donna ostentava.
    «Qui ho tutta la documentazione possibile che attesta che sarei il candidato ideale per lavorare in questa struttura. Dunque la domanda è: a livello personale, sono riuscita a convincerla, Mr Mordersønn?» Forse non riuscì interamente a nascondere la sorpresa, non subito almeno. Le sopracciglia s'erano inarcate a dismisura, come per sorreggere una scatola cranica che si rifiutava di accettare di aver fallito. Spostò lo sguardo velocemente intorno a sé, alla ricerca di una spiegazione visibile che lo aiutasse a capire. Lo individuò subito, l'errore. Quella fotografia - l'unica dell'intero appartamento - che aveva conservato in memoria del nonno. Quel sentimentalismo che l'aveva spinto a tenerla, era lui da incolpare. si morse l'interno della guancia talmente forte da sentire presto il famigliare sapore metallico del proprio sangue spargersi in piccola dose sulle sue papille gustative. «Ouch. Colpito.» si poteva avvertire un sorriso nella sua voce «Ammiro le sue incredibilmente veloci capacità deduttive e, più che convinto, userei il termine incuriosito.» Quando tornò a voltarsi verso di lei però, il viso era tornato ad essere una maschera imperturbabile, solo le mani serrate nelle tasche dei pantaloni potevano far sospettare un conflitto interiore. « Tuttavia, c'è una cosa che ancora non le è chiara, Miss Johansen, e che vorrei aiutarla a capire» disse lentamente lasciando che ogni parola uscisse chiaramente da quelle labbra diaboliche. Si mosse, andandosi a sedere nella poltrona davanti al divano. Davanti a lei. «Sono io che detto le regole, io che snocciolo le opzioni, io che decido quando il gioco è finito o meno. » Il tono era sempre terribilmente calmo e monocorde, una minaccia travestita da consiglio. Si rilassò dunque, accavallando una lunga gamba e distendendo la schiena sul tessuto contro di essa. Con un gesto della mano la invitò ad uscire. Non aveva bisogno di vedere alcuna prova. « E' stato un piacere conoscerla, Miss Johansen. » disse a mo' di saluto. Sembrava che, dopotutto, le sue abilità non gli interessavano più di tanto. E quel saluto metteva fine al loro primo incontro. Forse quando la donna si dirigeva verso la porta, Nikolaj parlò di nuovo. « Ah, quasi dimenticavo. Inizia domani mattina alle otto e quarantacinque in punto. Chieda il suo pass alla segretaria prima di uscire dal palazzo. Lo consideri come il filo di Arianna. Una svolta sbagliata nel reparto sbagliato e potrebbe cadere nelle fauci del Minotauro.» Si alzò lentamente e, dandole le spalle, si versò un po' di whiskey nel bicchiere. Continuò a bere.

     
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4 replies since 10/3/2018, 20:11   482 views
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