Then you should close the door

Drasil&Lee

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    La vita le aveva insegnato a restare calma persino in quei momenti durante i quali la follia avrebbe scalpitato dall'interno per atterrare le sue difese ed assorbire la sua razionalità. Ricordava ancora le parole ferme di sua madre, la donna che aveva combattuto una vita per uscire dagli schemi, per rendere l'esistenza dei suoi figli diversa e fuori dal controllo di qualcuno che avrebbe amaramente scelto al posto loro, sebbene proprio lei alla fine aveva fatto inconsapevolmente lo stesso. "Resta concentrata, Drasil. Resta lucida e niente si metterà fra te e il tuo obiettivo" - era ciò che si ripeteva continuamente, cercando di non perdere la positività e provando a ragionare come avrebbe fatto la donna che l'aveva messa al mondo, se fosse stata al posto suo. Aveva amato sua madre, ma a volte l'impressione che fosse stata troppo dura, troppo consapevole di se stessa, l'aveva messa al muro, portando agli occhi della figlia un paragone che fra persone dello stesso sangue non dovrebbe neanche esistere. Non glielo aveva mai detto, Mirene, ma Drasil aveva la certezza che più di una volta sua madre avesse pensato che -dopotutto- lei fosse troppo debole per condurre quel tipo di vita scelto per i suoi due unici figli. A volte neanche comprendeva come aveva potuto per davvero abbandonare ogni cosa, ogni certezza, per trasferirsi in una piccola casa nel bosco, lontano da chiunque e da qualsiasi tipo di intrusione umana. Li aveva allevati, più che cresciuti, insegnando loro a bastarsi, ad ottenere con la forza e l'inganno ciò che volevano e di cui necessitavano per sopravvivere. E ci erano riusciti, almeno fino a quando tutto non era andato letteralmente a rotoli.
    E camminava, Drasil, in quel bosco che un tempo era sicura aver conosciuto a menadito. Solo che in quell'istante, i suoi occhi non sembravano rilevare alcun tipo di informazione che potesse riportare la sua mente a ciò che conosceva, ciò che un tempo era stato suo. Iniziava a detestare quella situazione, quel sentirsi persa e preda di cacciatori senza un volto, in un tempo che neanche conosceva. Un unico desiderio faceva luce su tutto, ed era quello di poter tornare indietro, riabbracciare suo fratello e constatare che stesse bene. Ma non poteva, non sapeva come e l'unica vera opzione sarebbe stata quella di cercare: cercare senza sosta qualcuno che avrebbe potuto aiutarla, qualcuno che come suo fratello avrebbe potuto trascinarla via di li e rispedirla al suo tempo. Ma come riuscirci? Come avrebbe potuto trovare qualcuno disposto a credere alle sue parole? Inoltre, più importante di ogni cosa, come avrebbe mai potuto mantenersi viva in quell'ambiente sconosciuto, se intorno a lei vedeva solamente stranezze e inquietudini? Era fuggita via da quel caos, da quelle strade perfette e da quelle case abitate; si era recata nel luogo all'interno del quale meglio avrebbe provato a sopravvivere, a resistere, entrando in contatto con il proprio io interiore e cercando di fare il vero punto della situazione. Il cinguettio degli uccellini le facevano compagnia, mentre con passo lento e misurato Drasil vagava fra quegli alti arbusti in legno. Ogni tanto con le mani si faceva spazio fra le piante incolte, oltrepassando qua e la qualche ramo disteso sul terreno che impediva il liscio proseguimento sul sentiero. Non aveva una direzione precisa, ma sperava di giungere in prossimità di qualcosa, qualsiasi cosa avrebbe potuto darle quella piccola speranza per pensare di non essere poi così lontana da casa. Un obiettivo decisamente irraggiungibile, e ormai sembrava rendersene conto. Giunse allora in prossimità di un edificio malridotto, dove l'unico rumore che udiva era il frusciare delle foglie al vento: nulla si muoveva in quella casa o al di fuori di essa, così come l'oscurità che pervadeva dalle finestre rotte lasciava intendere fosse disabitata. Notando la differenza di quell'abitazione rispetto a tutte quelle case ultramoderne che aveva visto nel centro abitato, Drasil ebbe la debolezza di illudersi per un solo ed unico istante: era forse tornata nel suo tempo? Yggs era vivo ed era riuscito a riportarla indietro? Ma fu solo un attimo fugace, prima di notare a pochi metri da quel giardino incolto una vecchia automobile priva di ruote. Se ne stava lì, nel mezzo della foresta, ricoperta dal muschio del bosco. Aveva esattamente la stessa forma di quei veicoli che Drasil aveva visto girare per Besaid, su quelle strade accuratamente asfaltate che aveva percorso poco prima. Era quello il futuro? Un luogo nel quale ognuno viveva la vita che si sceglieva? Un luogo privo di abiti lunghi e cordialità fra i suoi abitanti? E a parlare di cordialità, lei, ne faceva davvero fatica. Posò quindi una mano sul cancello in ferro arrugginito dal tempo, spingendolo verso l'interno di quel giardino ed addentrandosi nel cortile della grande casa desolata. Compì qualche passo incerto, fermandosi quasi subito e tendendo le orecchie alla ricerca di qualsiasi tipo di rumore potesse destare la sua attenzione; lo aveva udito, poco prima, eppure non ci aveva fatto neanche troppo caso. Ancora una volta, avvertì il procedere di alcuni passi, un calpestio pesante che proveniva esattamente dal punto in cui stava osservando: la porta della grande dimora era spalancata e dal suo interno proveniva un rumore martellante a cui non avrebbe potuto dare una forma. Avanzò ancora, decisa a scoprire cosa vi fosse all'interno di quelle mura, d'altronde non aveva davvero nulla da perdere, e più che prenderla per una pazza, nessuno avrebbe provato a farle del male, di questo sembrava essere piuttosto certa.
    All'interno della casa, comprese che quel rumore martellante altro non era che musica; uno strano tipo di musica, questo le era anche abbastanza chiaro, dato che non aveva mai ascoltato nulla del genere. L'ennesima prova che metteva in evidenza quanto fosse lontana dalla sua gente e da suo fratello. Proseguì, facendosi largo in quei corridoi deserti e sentendo delle voci raggiungerla; provenivano dalla sala in fondo a quel corridoio, dal quale sembrava entrare la maggior parte della luce. Afferrò con le mani i lembi del proprio lungo abito azzurro, sollevandone la gonna tanto da non permettere ad essa di incespicarsi nel cammino. Il terreno era ricoperto in buona parte dallo stesso muschio vivo e verde che aveva visto rivestire quell'auto al di fuori della recinzione. La carta da parati aveva perso il suo colore originale, il quale aveva lasciato il posto ad un grigio scuro ed impolverato, strappato in più punti o addirittura bruciacchiato in alcune parti. Doveva essere una struttura molto antica, ne leggeva lo scorrere del tempo sui mattoni e sul soffitto mezzo andato. Si mosse comunque con estrema lentezza e cura, cercando di non produrre alcun rumore e prestando attenzione alle voci che provenivano da quella stanza. Gli occhi chiari puntati sull'uscio che nel giro di qualche secondo avrebbe rivelato i volti che si nascondevano dietro di esso, se non fosse stato per l'ennesima voce che udì provenire dal piano superiore. Questa volta fu appena più roca, e non pronunciava nessuna parola, ma solamente gemiti. Si immobilizzò nel mezzo del corridoio, sollevando il viso e puntando lo sguardo curioso su per le scale. Fece retro front, neanche seppe il perché, ma indirizzò il proprio cammino verso quei gradini di pietra, solcandoli uno ad uno e cercando di mantenere il proprio passo felpato. Quando fu al piano superiore, continuò a seguire la provenienza di quella voce maschile, ritrovandosi a spingere una vecchia porta in legno ormai malridotta, lasciando che cigolasse appena e le mostrasse le nudità di due giovani. Inarcò le sopracciglia, schiudendo appena le labbra e disegnandole in un sorriso modesto, quasi compiaciuto. I capelli dorati risplendevano lucenti sotto i riflessi del sole pomeridiano che si intrometteva dalle larghe finestre ancora intatte, illuminando inoltre tutto lo spazio della grande stanza. Dei mobili ricoperti da grandi teli un tempo bianchi e ormai ingialliti dal tempo si ergevano ai lati di essa, adagiati malamente contro i muri, mentre al centro si estendeva una grande distesa di materassi bianchi, così diversi da quelli che lei in tutta la sua vita aveva avuto modo di vedere e provare. La posizione del missionario, però, fu l'immagine che per prima si presentò dinanzi agli occhi probabilmente puri di Drasil, la quale se ne restò per qualche secondo lì impalata, come se fosse la prima volta anche per lei. Non aveva mai fatto l'amore, la giovane donna dagli occhi del colore del ghiaccio. Per qualche istante, tempo prima, aveva voluto credere che fosse così, ma l'uomo che aveva colto per primo il frutto che si nascondeva fra le sue gambe, l'aveva poi rigettata per strada rinnegando il sentimento che c'era stato. Allora aveva creduto di non poter trovare mai nulla del genere, provando ad immaginare che fosse qualcosa di talmente intimo che solo alcuni prescelti avrebbero potuto trovare. E invece lì, in quella stanza, due giovani anime se la stavano spassando alla grande, mentre uno dei due mostrava le natiche chiare al viso della giovane ospite ed intrusa. «Oddio ma chi cazz... fermati, fermati!» disse la giovane donna distesa sotto il ragazzo dai capelli scuri. Si era ridestata da quel piacere sollevando appena il capo e constatando di non essere l'unica donna in quella stanza. Aveva spinto il ragazzo lontano da lei per poi afferrare una t-shirt che giaceva al loro fianco ed infilarsela di fretta. Drasil rimase per qualche secondo incapace di pensare, di ragionare sul da farsi, per poi compiere in fretta qualche passo indietro e voltarsi verso l'uscio in direzione dell'uscita. La sua curiosità l'aveva spinta nuovamente oltre, lasciando che si intromettesse in quell'intimità appartenente ad altri. Era d'altronde quello che aveva fatto per tutta la vita: infilare il proprio naso nell'esistenza di chi non conosceva per privare la persona di qualcosa che avrebbe potuto invece giovare a se stessa.
     
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    Leander "Lee" Gundersen
    25 years old - energy absorption - loose cannon


    "These people so scared of silence. These soundaholics, these quietophobics." Scriveva Chuck Palahniuk e chiunque, guardando Lee, avrebbe pensato a quei pezzi di aforisma: una mina impazzita pronta ad esplodere, una pietra focaia fatta per emettere scintille, un vortice che non avrebbe risparmiato nessuno al suo passaggio. Avrebbe fatto di tutto pur di prendere il silenzio e chiuderlo in un cassetto. Una tendenza che gli aveva lasciato sua madre, per la quale il silenzio era sinonimo di niente; di quel niente che lei, durante le sue crisi depressive, aveva imparato ad additare come nemico sino a trasferire quella sensazione anche al figlio, col risultato che Lee era cresciuto tra fasi di inferno e fasi di niente. Guerra e silenzio. Meglio la guerra, meglio l'inferno. Il niente a volte era silenzio, un'ora libera senza sapere come impiegarla, il cellulare bollente, ormai scarico, che rifiutava di accendersi e distrarlo. Quella del niente era quasi una fobia per Lee: se non si fosse mosso, se non avesse messo in piedi uno scenario d'inferno, sarebbe impazzito. E non perché non avesse niente dentro. Al contrario, era l'esatto contrario a muoverlo: un eccesso di pensieri, di emozioni, di energia. Negli attimi di silenzio non si riconosceva. Nelle parentesi di serietà non era lui. Laddove la vita era piattume, o monotonia, lui non voleva entrarci.
    Forse era proprio questo il principale motivo per cui, in quel quartiere calmo dove aveva scelto di vivere, ogni traccia di rumore era riconducibile solo a lui: la musica troppo alta, le urla e le risate insieme ai suoi amici ubriachi, i gemiti di piaceri carnali non contenuti. In senso lato, lui era l'elemento di disturbo di un intero quartiere. E quando invece nella sua abitazione regnava il silenzio, per i dirimpettai c'era da preoccuparsi: il pazzo stava architettando qualcosa. Ormai faceva parte della loro routine l'abitudine di gridargli contro per metterlo in riga, ma anche essere invasi dalla curiosità di vedere fino a dove potesse spingersi. Osservare Lee dalla finestra per i vicini in effetti era diventato una sorta di continuo esperimento antropologico mirato a constatare quanti passi indietro potesse fare un essere umano in confronto al suo naturale percorso evolutivo. A volte lo vedevano girare per casa con un martello in mano -lì c'era da avere paura, anche se sapevano che di certo era impegnato in lavori di natura domestica-, altre volte ridere da solo come un matto, altre volte ancora mettere a soqquadro tutto il loft alla ricerca di un oggetto che poi trovava, dopo minuti di infruttuosa ricerca e imprecazioni tra i denti, nelle proprie tasche. Eppure era inspiegabilmente affascinante, coglierlo in quei suoi istanti di vita: le sue movenze, i suoi sguardi, la sua intera figura ben più attraente di quanto meritasse, davano un'idea ben chiara di chi fosse in realtà, ovvero un ragazzo che proprio non riusciva, per sua stessa natura, a condurre un'esistenza equilibrata e pacifica. Come se fosse fatto realmente di particelle di elettricità, attirava spontaneamente l'attenzione su di sé e la sua assenza, intuibile dal silenzio che regnava nel suo loft, veniva percepita con insistenza da chi era invece abituato al suo caos.
    Quella sera si sentì provenire dalla sua abitazione un solo colpo forte e poi silenzio. Era morto? Era svenuto dopo essersi fumato anche la salvia? Contrariamente alle speranze dei vicini, lo sentirono fischiettare allegramente mentre usciva dal bagno. Dopo una lunga doccia, con una tovaglia legata alla vita e un'altra a frizionare i capelli umidi, si andò a sedere sul divano. Qui, continuando a fischiettare, prese il cellulare e compose un numero. « Adrian, Adie, ciao. So che sei appena tornato a casa e hai tutto il tempo da dedicarmi, non fingere di essere occupato. Ti ho visto dalla finestra. Senti, ho fatto un danno e devi aiutarmi. Volevo installare il porta asciugamani al muro e ho usato il martello al posto del trapano, quindi ora ho un buco al muro in bagno proprio all'altezza della zona pelvica. Uno come me, con una reputazione da trombador, non può avere un buco al muro. Dà un'immagine sbagliata. Ed è triste. Sembra un glory hole in un cesso dei peggiori bar di Caracas. Sono stato a fissarlo come se stessi ripercorrendo la storia evolutiva dell'essere umano dall'homo erectus all'homo arrapatus, ci mancava solo un avvilente assolo di pianoforte in sottofondo e sembrava la scena di un film d'autore in cui si fissa un buco per ore e si riflette sulla vacuità dell'esistenza. Quanto sono acculturato? Mi amo. Adie? Ma hai messo il cellulare sul tavolo e io sto parlando a vuoto? Bene, inizio a raccontarti la mia vita. Tanto prima o poi dovrai cagarmi, dove scappi. » Lee Gundersen e la sobrietà: un classico. L'ipotesi che in quel momento, così come in qualsiasi momento, potesse disturbarlo non gli sfiorò nemmeno l'anticamera del cervello: era genuinamente convinto di essere apprezzato da tutti, o che le sue strane e improvvise chiamate fossero concepite come un dono da chi stava all'altro capo del telefono. Tutto frutto del suo ormai noto egocentrismo, che in ogni caso non risultava poi troppo fastidioso. Era socialmente accettabile. O almeno questo era il suo punto di vista. « Quasi quasi organizzo un festino a casa tua con gente improponibile, tanto chi tace acconsente. Aaaah, adesso rispondi eh! Ti conosco come le mie tasche, basta solleticare la tua latente misantropia e subito scatti. Sì che sei misantropo. Sì che so cos'è un misantropo. Così come so che ami solo me. A proposito, quando facciamo il profilo facebook di coppia? Devo far ingelosire Esp. » Definirlo espansivo era dire poco. Definirlo un incubo era essere gentili. Era d'altronde sua abitudine quella di monopolizzare le attenzioni di qualsiasi persona potesse definire sua amica, o forse di chiunque fosse così sfortunato da interloquire con lui in generale. « Pensaci, Adie. Io ora devo uscire, ma pensaci. No, non a come sistemare il buco al muro. Intendevo, pensaci su per il profilo di coppia. » Era ovvio che scherzasse, ma preferì insistere per lasciarlo col dubbio e farlo sentire letteralmente perseguitato.

    I am the voice inside your head (and I control you)
    I am the lover in your bed (and I control you)
    I am the sex that you provide (and I control you)
    I am the hate you try to hide (and I control you)

    Nine Inch Nails - Mr. Self-Destruct

    Da alcuni la sua energia veniva percepita come positiva, da altri distruttiva. La realtà stava nel mezzo: il lato distruttivo della sua energia non era del tutto visibile ai suoi amici stretti -se non qualche piccola scintilla in determinate circostanze, una semplice sensazione poi annullata da una delle sue battute-, mentre il lato positivo risultava difficile da scovare in chi lo vedeva per la prima volta, ostacolato dalla sua stessa immagine -aveva lo sguardo cattivo, gli dicevano- e dal modo in cui squadrava, ghignando tra sé, chi ancora non aveva avuto modo di conoscere. Sigaretta in bocca e tatuaggi sulla pelle, l'impressione che trasmetteva di primo acchito era solo una: "questo ragazzo porta guai."
    Tra le sue variegate conoscenze, l'unica persona che non era riuscito a ingannare era Frida, una sua collega di lavoro nata in una famiglia più che benestante. Non le era mai importato del giudizio positivo che molti si erano fatti sul Gundersen, perché lei a riguardo aveva un'opinione fissa: Lee Gundersen era distruttivo. Una persona a cui non dare confidenza né spago, ma solo un dito medio in risposta a qualsiasi cosa dicesse. Fu di conseguenza a dir poco sconvolta quando le luci del locale tornarono a espandersi e scoprì che quell'uomo con cui aveva ballato al buio sino a quel momento, lodandolo mentalmente per il suo buon profumo e la sua abilità con le mani, era proprio Lee Gundersen. Quando lo vide quasi mise il broncio, delusa a contatto con la realtà. « Perché proprio tu tra tanti? » Sbuffò e alzò gli occhi al cielo, senza tuttavia scacciarlo via. Il suo cervello le gridava "no" e il suo corpo la spingeva verso il sì.
    « Invece ti è andata bene e in fondo lo sai. » Eccolo lì, il convinto. Si tolse di dosso quelle mani e lo spinse via malamente. Gli gridò contro, mentre la sua voce si perdeva nel caos della musica, e gli mollò un pugno sul braccio. Al che lui le fece notare che non era una reazione da principessina, e lei si incazzò ancora di più. Quando si ritrovarono fuori dal locale per fumare una sigaretta, lei aveva i capelli scompigliati dalla fatica e lui la forma arrossata della sua cinquina in faccia. Frida lo guardò con esitazione, combattuta, per poi sospirare. « Ok, una scopata impersonale. Ti odio, ma mi può andar bene. »
    « Ti odio anche io, ma sai qual è il mio motto. »
    « "Carpe diem"? »
    « No, più nobile: "due botte non si negano a nessuno". Casa mia o casa tua? »
    « Ma sei impazzito?! Non porterei mai in casa mia uno come te, né mi farei vedere entrare in casa di uno come te. Cosa penserà la gente? Che vado a letto con.... Con uno spacciatore?! »
    « Io non spaccio. E smettila di fare l'altolocata di stocazzo. »
    Il battibecco riprese. Lui la sfotteva, lei gli rinfrescava a più riprese l'impronta rossa lasciata dalla sua mano sulla sua faccia. Lui le bloccava le mani, lei si dimenava e gli pestava i piedi. Poi lo limonava e subito dopo lo spingeva via. Fu un miracolo, poco dopo, vederli mentre si avviavano di comune accordo pacifico verso un luogo scelto da entrambi.

    I take you where you want to go
    I give you all you need to know
    I drag you down, I use you up
    Mr. Self Destruct


    Frida si sorprese di se stessa quando si ritrovò a salire le scale di quella casa abbandonata, sperduta nel bosco, con Lee Gundersen dietro di lei. Non era né sarebbe mai stato il suo habitat. Proprietaria di una rispettabilissima abitazione, invidiatale da molti suoi conoscenti, e abituata a trascorrere il suo tempo con persone di una certa levatura, quella casa era per lei qualcosa di vicino allo squallore. Le assi del pavimento che scricchiolavano al suo passaggio, le superfici ricoperte di un fitto strato di usura e polvere, qualche telo a nascondere parte di un mobilio forse mai utilizzato. Si fermò a metà strada e si voltò verso Lee, guardandolo indecisa. Era il colmo perfetto per una come lei: l'aveva sempre reputato feccia, niente di più né di meno, ed ora si ritrovava proprio con lui tra muri sporchi e un rapporto sporco da consumare. Gliel'aveva data vinta, se guardava il loro rapporto in retrospettiva: recandosi in quel luogo fatiscente con lui, aveva distrutto tutti i giudizi velenosi che gli aveva riservato, perché persino lui aveva avuto la decenza di proporre una delle loro rispettive case come luogo di incontro. Era stata lei a scegliere la famosa Casa Stregata. « Ti fa schifo questo posto? » Constatò l'ovvio, spinto dal modo in cui Frida arricciava il nasino da ragazza sofisticata, e scoppiò a ridere per poi prenderle la mano. « Tira fuori le palle, principessina. »
    « "Tirare fuori le palle" è un'espressione sessista. »
    « Si però ora non ricominciare a rompere il cazzo. »
    « Parlami ancora in questo modo e ti prendo a ginocchiate sui coglioni. »
    « Mi piaci quando fai l'aggressiva. »
    Sipario.

    I am the needle in your vein
    I am the high you can't sustain
    I am the pusher, I'm a whore
    I am the need you have for more


    Nessuno dovrà saperlo a lavoro, gli aveva intimato Frida mentre si spogliava. Comune vergogna, quella che provava lei al solo pensiero che qualcuno potesse sapere con chi aveva trascorso l'inizio della serata. Tuttavia, pensava Lee, la vergogna non le impediva affatto di sdraiarsi su un materasso completamente nuda e aspettarlo, mordendosi il labbro inferiore per tentarlo. Semplicemente la vergogna non è mai un sentimento abbastanza forte, nel mondo di Lee Gundersen, da impedire alla gente di fare ciò che normalmente non farebbe mai. La vergogna viene a posteriori, col pentimento. E solo se si è stati beccati, perché cammina a pari passo con l'ipocrisia.
    Spogliatosi a sua volta, sotto la luce di alcune candele accese da Frida per creare un minimo di atmosfera, la raggiunse sul materasso senza staccare gli occhi dai suoi.

    I am the bullet in the gun (and I control you)
    I am the truth from which you run (and I control you)
    I am the silencing machine (and I control you)
    I am the end of all your dreams (and I control you)


    Diverse voci si perdevano nei corridoi malandati di quella villa abbandonata, diventata punto di ritrovo per i più irrequieti, tra cui anche i gemiti che animavano la stanza in cui erano rinchiusi Frida e Lee. Lei doveva essere abituata a rapporti sessuali che Lee avrebbe definito tristi: discreti, silenziosi, ordinati. Lo intuì dal modo in cui Frida cercava di trattenere i gemiti, graffiandogli la pelle per sfogare ciò che si rifiutava di lasciar uscire a voce. Abitudine dettata dalla decenza che le era stata inculcata dall'ambiente protetto in cui era cresciuta, ma che indispettiva Lee: più lei si conteneva, più lui aumentava il ritmo per sfidare ogni sua traccia di contegno. Proprio quando raggiunsero una sintonia perfetta, la porta della stanza cigolò. Silenzio, poi un rumore di passi. Frida, sdraiata supina sul materasso, subito piegò la testa all'indietro per vedere chi fosse entrato. Divenne rossa in volto e scacciò subito Lee. « Oddio ma chi cazz... fermati, fermati! » Protestò con veemenza, sottraendosi al controllo di Lee. Si alzò, si rivestì rapidamente e fu alla porta, rivolgendo uno sguardo contrariato alla sconosciuta. « Ma che problemi hai? » Le domandò Frida, travolta dal disappunto, e corse subito via giù per le scale.
    Lee nel frattempo si sdraiò con la schiena contro il materasso, sbuffando sonoramente. Non era nuovo a quelle interruzioni brusche; al contrario gli era già capitato più volte, durante le feste tenute in casa di amici. Si alzò poco dopo, indossando i suoi boxer gettati sul pavimento, e afferrò i jeans solo per tirare fuori dalle tasche il pacchetto di sigarette. Ne prese una e si avvicinò a una candela, tenendo d'occhio la sconosciuta con crescente curiosità. Assorbì il fuoco della candela, grazie alla sua particolarità, e questa si spense; il fuoco venne trasferito alla sua mano, sul palmo, e chiudendo la mano a coppa usò quelle fiamme per accendersi la sigaretta. « Ma tu... » Iniziò a dire alla sconosciuta, agitando poi la mano per far spegnere il fuoco. Nessuna traccia sul palmo, nemmeno una scottatura. « Biondina, parlo con te. » Chiamò la sua attenzione, impedendole così di andarsene, e si sedette sul bracciolo di un divano, coperto solo dalla biancheria. La guardò. C'era un che di strano negli occhi della sconosciuta. Un senso di potere amplificato dall'assenza di imbarazzo. « Sapevi cosa stava succedendo qui, prima di aprire la porta. Perché l'hai aperta? » Domandò, curioso, per poi aspirare una boccata di fumo. « Il tuo hobby è sabotare gli orgasmi altrui o volevi solo guardare? » Un sorrisetto compiaciuto si disegnò sulle sue labbra, provocatorio. La guardò ferma all'uscio, mentre ricambiava lo sguardo. « Puoi entrare eh, non mordo. » Il sorriso si ampliò, diventando vagamente pestifero.
     
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    L'amore che la legava al proprio fratello l'aveva ricacciata in un luogo del quale non conosceva nulla, se non il nome. Eppure, sapeva di star calpestando lo stesso terriccio morbido che aveva visto scorrere sotto i propri piedi durante quella corsa contro il tempo. Le mani che qualche attimo prima avevano stretto quelle ruvide di Yggs, erano invece impegnate ad imparare come si proseguisse in solitaria, che effetto facesse ad avercele posate sui tronchi degli alberi, e non custodite nel calore di una pelle affine.
    In quella casa, Drasil si sentiva stranamente a suo agio, differentemente da ciò che aveva avuto modo di provare nel mezzo del caos della Besaid vera e propria. Aveva deciso quindi di prendersi qualche momento per se stessa, allontanandosi da quel caos e provando a rimettere insieme i ricordi, i ragionamenti, e perché no, le forze consumate nel cercare di capire e nel distruggersi di fronte all'incolmabile vuoto che aveva avvertito nel proprio petto quando aveva visto il proprio io svanire tra un'epoca e l'altra. Si era addentrata, così, lasciando spazio alla curiosità e alla voglia di scoprire cosa avrebbe trovato fra quelle mura così lontane dal vociare smisurato che aveva udito in città. La visione era stata accompagnata da suoni, una musica martellante che non aveva mai avuto modo di udire da nessun'altra parte- e da gemiti che aveva presto riconosciuto e associati a delle sensazioni di piacere che, ahimè, sicuramente non eran sue. Le natiche del ragazzo bruno disteso sulla giovane donna si pararono dinanzi a quegli occhi chiari e puri, annunciando in bella vista a cosa era andata incontro la giovane Drasil, insistendo nel metter piede proprio in quella grande stanza illuminata. L'espressione della ragazza distesa sotto di lui fu tanto spaventata e spaesata, quanto sorpresa e furibonda. Lesse in quegli occhi del pentimento e allo stesso tempo una traccia di sfida, quasi volesse ammonirla per aver interrotto l'amabile situazione ed essersi intromessa così dal nulla, mandando all'aria ciò che era appena riuscita a fare, l'emozioni che aveva appena constatato di volere. Ma la giovane Drasil se n'era rimasta lì impalata per qualche istante, con quel suo leggero sorriso sulle labbra, e non perché ne fosse divertita o perché ritenesse i due mal nascosti e beccati sul fatto, anzi. Per Drasil non c'era gesto che potesse essere più sincero di quello: non aveva la minima idea di cosa ci fosse fra i due ragazzi, ma vederli consumare quello che per lei forse sarebbe stato considerato amore, fu qualcosa che le provocò una sensazione di gioia all'interno del petto.
    Non appena la brunetta si fu sollevata dal materasso che giaceva in mezzo alla polvere dispersa per terra, le lanciò un'ultima fulminante occhiataccia, per poi indossare di fretta qualcosa e recarsi al piano di sotto, passandole accanto e riservandole una spallata decisamente poco gentile e tanto voluta. Si voltò verso la giovane con aria quasi malinconica, sentendosi in colpa per aver interrotto quel momento e allo stesso tempo furiosa per i modi con i quali la ragazza aveva sollevato i tacchi. Fece un passo in direzione dell'uscio, decisa a togliere il disturbo proprio nel momento in cui il ragazzo sembrò rivolgersi a lei. «Ma tu...» le disse lui, puntando il proprio sguardo su di lei e chiamando l'attenzione di Drasil su di se. La donna dai capelli color grano però non accennò alcun movimento, restandosene con lo sguardo rivolto verso le mani di lui, nelle quali aveva appena visto nascere una fiamma. L'aveva usata per accendersi una sigaretta e rubarne così un primo tiro. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma lui sembrò anticiparla. «Biondina, parlo con te.» ripeté il ragazzo, esigendo questa volta lo sguardo di lei sulla propria persona. Lasciò che le proprie iridi chiare ripercorressero i contorni di quel corpo, partendo dai piedi e continuando lungo le gambe magre, il bacino, il petto chiaro e infine il volto, andando a scontrarsi con quegli occhi ben vispi, tanto che per qualche secondo ripensò a sua madre e al coraggio con cui aveva preso ogni decisione nell'arco della propria esistenza. Degli occhi allo sbando, quasi avessero la foga di vedere, guardare, assaporare loro stessi tutto ciò da cui venivano circondati ogni singolo giorno. Sollevò il capo, mostrando meglio il viso al ragazzo e restando comunque sull'uscio della stanza. «Sapevi cosa stava succedendo qui, prima di aprire la porta. Perché l'hai aperta?» domandò lui, curioso. Drasil restò per qualche secondo ancora in silenzio, provando a ragionare e pensando a ciò che avrebbe dovuto dirgli, come avrebbe spiegato chi diavolo fosse e che cosa ci facesse lì. «Il tuo hobby è sabotare gli orgasmi altrui o volevi solo guardare?» ci provò ancora il ragazzo, provocandola e facendole notare di non essere sola lì dentro. «No.» rispose lei, con tono pacato. «Puoi entrare eh, non mordo.» le disse lui, lasciando che le labbra si diramassero in un sorriso furbo, semplice. Allora la ragazza fece uno, due passi avanti, ritrovandosi quasi nel centro della stanza, a poca distanza dal punto in cui si trovava il suo interlocutore. «Non ho paura che tu possa mordermi. Ti fermerei.» disse lei, con quello stesso tono tranquillo che aveva usato poco prima, rompendo il silenzio. La musica martellante che proveniva dal piano di sotto continuava ad incendiare le pareti di quella grande casa piena di cianfrusaglie e mobili vecchi, ormai corrosi dal tempo e dalla polvere. «Mi piace quando un uomo e una donna fanno l'amore. Trovo che sia una cosa intima e...» s'interruppe, spostando lo sguardo da lui al luogo che li circondava. Che senso avrebbe avuto parlare d'amore con qualcuno che neanche conosceva? Era un sentimento, quello, che forse non avrebbe mai potuto riconoscere. «Qual è il tuo nome?» gli domandò lei, facendo qualche passo di lato e muovendosi così lungo il perimetro della stanza. Lasciò che lo sguardo vagasse sulle pareti grige e ispezionasse le rughe formatesi nella carta da parati, costellata qui e lì ancora da vecchi quadri ormai decolorati. «Io sono Drasil.» disse lei, fermandosi e voltandosi verso di lui con una mano posata sul proprio petto, quasi volesse fargli capire di chi stesse parlando, sebbene fosse abbastanza chiaro. «Puoi chiamarmi Drés.» aggiunse, liberando il torace da quella presa e mostrandogli il palmo della mano libera. Non lo faceva perché avrebbe voluto stringere la sua in segno di educazione, ma ricordava delle parole di sua madre, la quale le aveva insegnato a fare quei movimenti nel momento in cui avrebbe dovuto presentarsi a qualcuno: in un certo senso, la donna aveva immaginato che una gestualità di quel tipo avrebbe indotto i “prescelti” a fidarsi di loro. Mostrare le mani era buon segno, soprattutto se queste erano ben curate e pulite, così come lei sempre ricordava ai suoi due unici figli. Per quello, le mani della giovane si presentarono perfette anche in quel momento, dinanzi allo sguardo furbo e curioso del suo interlocutore. La ritirò dopo qualche secondo, andando a conciliarla all'altra, lasciando che le dita si intrecciassero. «Sei innamorato di lei?» gli domandò, lasciando che le labbra si aprissero nuovamente in un sorriso sincero e questa volta molto più curioso. Per la prima volta, da quando era giunta in quel tempo, le sue domande sembravano non avere a che fare con il posto in cui era finita, ma anzi, con colui il quale si era trovata.
    Non aveva idea di chi fosse quel tipo, ma la luce che aveva negli occhi le trasmetteva un certo senso di simpatia e fiducia, quasi non potesse nascondere il proprio io interiore neanche al più cieco degli esseri. Non aveva nulla a che fare con tutte le persone che aveva avuto modo di conoscere durante la propria vita, lo capiva anche solo osservandolo. C'era qualcosa, in quel ragazzo, che le suggeriva di poter abbassare le proprie difese anche solo per un istante.
     
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