Like a bird set free

Sibil & Helena | primo pomeriggio.

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    The Fourteenth of the Hill.

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    Cristallino, azzurro, profondo.
    Il mare, specchio degli occhi di Helena quel giorno, era mansueto. Potenza controllata, dolce, cullava l'udito della donna seduta sulla sabbia senza infastidirla quanto, piuttosto, rilassandola.
    Segni di notti insonni le solcavano gli occhi azzurri, una volta espressione di un'intensità perduta, che aveva ceduto il posto ad un vuoto nero, impenetrabile ma impalpabile.
    Ironia della sorte, i suoi sogni erano vividi come se lei avesse potuto guardare ancora: le suggerivano atroci immagini figlie del trauma subito da poco. Ricordava quanto aveva sentito i medici nonostante l’incoscienza. I tubi in gola, le incisioni, i punti tirare.
    L'avrebbe superata.
    Sapeva che sarebbe accaduto e che, volente o nolente, avrebbe dovuto accettare la propria condizione.
    Quando aveva palesato l'eventualità di andarsene da Londra, satura di ricordi e di malinconici rimpianti, di senso di vendetta sepolto poiché si era sentita più che impotente, Helena aveva suscitato sorpresa e sgomento nei suoi più vicini. I suoi colleghi ed amici più fidati si erano subito opposti, suo padre le aveva chiesto se fosse uno scherzo, se fosse pazza.
    Poi Mary Grace, sua madre, l'aveva guardata negli occhi che, seppur vuoti, ancora comunicavano come prima ed aveva capito. Helena ne aveva davvero bisogno e ce l'avrebbe fatta, come sempre.
    Da quel giorno si erano sentite quotidianamente, mantenendo i contatti così come con tutti quei pochi altri che erano stati sempre vita e famiglia di Helena.
    Approdare in Norvegia, quindi, non fu che l'inizio di un cambiamento radicale necessario nella sua vita una volta presa coscienza della cecità dopo il suo risveglio dai mesi di coma, dopo il suo incidente e dopo la vita sul campo, forse abbandonata per sempre.
    Affondò le dita nella sabbia dai granelli fini ma consistenti, vestita di bianco e marrone, esibendo a tal modo le sue cicatrici senza vergogna. Alcune guizzavano fiere e frastagliate sulla pelle diafana, oltre lo scollo a barca dell'abito, l'unico che si fosse portata dietro da Londra, fresco ma adatto a quel caldo pomeriggio.
    Persa nei propri pensieri, immobile e vegliata dalle onde, ripercorreva nella propria mente la prima volta in cui aveva visto la sua mente cambiare, le sue percezioni aiutarla e sconvolgerla: era avvenuto circa una settimana prima. Helena aveva domandato a Sayuri, giovane, bellissima donna di origini giapponesi silenziosa e gentile, figlia del proprietario della casa che si era scelta, in affitto, di insegnarle alcune parole nella lingua madre del posto, ancora complessa da parlare per lei.
    La ragazza le aveva assicurato che sarebbe stato semplice e che, con un po' di attenzione, anche lei avrebbe potuto imparare, aggiungendo il norvegese alla lista delle altre lingue che già sapeva parlare piuttosto bene, in grado di passare per autoctona. Come ex-spia, ne aveva avuto bisogno in modo pressoché vitale durante le missioni sotto copertura. In quel caso l'impellenza non era così fondamentale ma, comunque, le sarebbe servito.

    «Tranquilla Miss, ce la farà. Ho messo il computer sul divano, non lo schiacci! Adesso le porto del té» aveva detto pacata ma schietta la ragazza, lasciando che Helena le sorridesse vagamente divertita prima di accomodarsi sul nuovo divano di casa. Stava imparando a conoscere distanze e spazi, nonostante cieca, in modo tale da orientarsi da sola il prima possibile. Il tatto e l’udito si stavano lentamente abituando.
    «Ti ringrazio, Sayuri» aveva solo risposto Helena, ascoltandola scendere le scale di casa per recarsi nella propria, al piano terra. Sayuri preparava un té verde imbattibile sino a quel momento e la donna non le sarebbe mai stata riconoscente abbastanza per allietarla a quel modo.
    Seduta sul divano, aveva ascoltato la tv accesa dalla giovane donna giapponese, per intrattenersi durante la sua permanenza in casa di Helena, di ben poche parole. Saggiò la morbidezza del tessuto con le dita affusolate e letali, meno agili e rapide di un tempo, raggiungendo ed incontrando il suo fidato computer pieno di adesivi contro il sistema: varie scritte, alcuni codici scarabocchiati con un certo ordine, uno messo di sbieco dell’MI6 ed uno di V per Vendetta lasciato dal suo collega Link, il suo operatore tattico ai tempi dei Servizi Segreti, afro-caraibico inglese, sensuale e simpatico mattacchione che amava come un fratello.
    Era stato allora che, d’improvviso, Hel aveva visto. Con la mano sul laptop composto da lei stessa, aveva sentito una forte fitta alla fronte, come se una lama l’avesse trafitta da tempia a tempia, un pizzicore alla mano, come una leggera scossa, la temperatura del corpo alzarsi un po’.
    D’istinto si era raggomitolata su sé stessa, col respiro mozzato e la vera, tangibile sensazione che le avessero attaccato una spina elettrica affilata all’altezza della nuca.
    Aveva letto stringhe di codici binari pioverle davanti agli occhi non più abbracciati dall’oscurità. La realtà aveva preso ad adattarsi a quei numeri che ne contornavano una parte. La televisione, vivida, aveva pulsato di vibrante energia e le riprese definite, raffigurate al suo interno muoversi, riempiendo le iridi cerulee di Helena, attanagliata da un mal di testa lancinante che l’aveva fatta sudare freddo, senza respiro.
    Aveva schiuso le labbra cremisi in un gemito muto mentre si era passata nervosamente una mano fra i capelli neri, sconvolta ed ancora immobile, preda di quella visione assurda, mentre Sayuri tornava da lei con la tazza di té caldo.
    «Helena, le ho portato il té, ora vado da mio padre!» aveva annunciato la ragazza un po’ svogliata e totalmente disattenta verso di lei, lasciando la tazza sul piano della cucina, ampio open space che dava direttamente su quel divano sopra cui Helena stava combattendo contro se stessa.
    «Vai Sayuri» era riuscita solo a pronunciare, affannata, mentre aveva chinato il capo corvino. Le aveva concesso un solo sguardo ed aveva visto il suo cuore battere, inondato da 0 e 1 contro gli occhi che, inermi, si erano serrati con forza l’istante successivo.

    Le dita strinsero la sabbia che, straripante oltre le falangi, le si accumulò vicino al corpo inginocchiato sul bagnasciuga. aveva smesso di ascoltare le onde.
    Aveva meditato quel mattino nel silenzio di casa propria e, nonostante ciò, quel genere di pensieri ancora la attanagliavano troppo, stringendola forte. Avrebbe dovuto indagare, consultare uno specialista: affare pressoché impossibile data la sua difficoltà di comunicare in norvegese. Sia cieca che muta sarebbe stato un brutto affare, dunque Helena sapeva di dovervi porre rimedio al più presto.
    Alcune voci, in lontananza, la strapparono da quell’ombra velante lo sguardo celeste, puro, una volta intenso e potente, in grado di comunicare ben più di lei. Le onde ripresero a carezzarle l’udito, le gambe nude sotto il vestito a sentire la sabbia sotto di sé.
    La brezza marina le scompigliò i capelli corvini e, solo allora, scelse di avvicinarsi di più all’acqua.
    A piedi nudi, il mare freddo la riportò definitivamente alla realtà, avvolgendola sino alle caviglie al suo ritmo, avvicinandosi per poi tornare indietro.
    Per un attimo si sentì totalmente libera quando un flemmatico fruscio (che non veniva da lei e dalle sue vesti) le suggerì la presenza di una seconda persona, vicina.
    Immobile se non per il viso affilato che si chinò un po’, incapace di determinare la direzione precisa del suono, Helena restò in ascolto. Forse aveva percepito erroneamente qualcuno, forse aveva invaso uno spazio.
    Attese.
     
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  2. BluePoppy
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    pL18750
    Scaccia le mosche!
    « Sibil Luna Christos | 14 years old | viaggio astrale | marinaia »
    Seduta sul ponte, le gambe raccolte contro il petto, lascio vagare lo sguardo verso l’orizzonte. Amo perdermi nel blu macchiato di bianco delle onde, seguire le scie che i grandi pesci lasciano sulla superficie dell’acqua o immaginarmi che siano davvero loro a lasciarle. Gli stridii dei gabbiani accompagnano la mia mente e il rollio della barca mi spinge verso mondi immaginari dove tutto è possibile. Sembrerebbe quasi un quadro perfetto, ma la realtà è differente e mi riscuoto con un sorriso. Anche se in questo mondo non si può fare o avere tutto ciò che si vuole, non è poi così male. Amo la mia vita anche se ci sono giorni che mi manca mia madre. Quel pensiero mi spinge a spostare lo sguardo verso la spiaggia su cui è collegato il piccolo molo privato dove è attraccata la barca di William, mio padre. Vado raramente in spiaggia perché ogni volta, immancabile, il ricordo del corpo immobile di mia madre tra le mie braccia mi assale e faccio sempre molta fatica a scacciarlo. Ho imparato a conviverci, ormai, ma il tempo non ha cancellato il dolore, solo attenuato un po’, forse.
    Noto una figura seduta sulla riva a non molta distanza dal molo e socchiudo gli occhi per cercare di visualizzarla meglio. E sicuramente una figura femminile, ma non mi sembra di riconoscerla; forse è la nuova arrivata, quella che ha affittato la casa del padre di Sayuri; com’è che si chiama… Helena, se non ricordo male. In un paese come il nostro le novità non sfuggono, soprattutto se riguardano estranei che vengono a stabilirsi a Besaid o così sembra vogliano fare.
    Mi alzo e scendo sottocoperta. Afferro due bottigliette d’acqua e torno sul ponte, percorrendolo fino alla passerella e scendendo dalla barca. Le assi di legno scricchiolano appena, suono colmo di umidità e sale ormai così familiare che mi mancherebbe se non ci fosse. Mi fermo nel punto in cui il legno lascia il posto alla sabbia fine, dove i granelli radi si infittiscono e nascondono del tutto le ultime assi. William mi ha raccontato che il suo trisnonno lo costruì subito dopo aver finito la casa che si affaccia sul mare e che e collegata al molo da una stradina di pietra che porta direttamente alla veranda. E una piccola costruzione su due piani colorata di giallo e blu, colori scelti da me e William quando abbiamo deciso, anni fa, di riverniciare la parte esterna. Ne aveva bisogno, in effetti, non veniva più toccata da quando è stata costruita e il mare e la salsedine avevano cominciato ad eroderne una parte. Non ci entro spesso, solo un paio di volte al mese per mantenerla pulita e controllare che tutto sia in ordine, ma non la abitiamo, io e William preferiamo la barca, in questo siamo simili, anche se non posso dire di averlo ereditato da lui, visto che non abbiamo lo stesso sangue. Forse e per questo che spesso si diverte a dirmi che il nostro DNA e uguale, anche se non e mio padre naturale, gli somiglio caratterialmente molto più che a mia madre.
    Inspiro profondamente accogliendo il profumo di salsedine che pregna l’aria che accarezza le onde e mi scompiglia i capelli che oggi, stranamente, sono sciolti e mi circondano il corpo fino alle cosce. E raro che li lasci sciolti, ma oggi e un giorno speciale, oggi voglio rendere omaggio a mia madre e lei adorava pettinarmi i capelli e vederli giocare con il vento.
    Abbasso lo sguardo sui pantaloncini verdi al ginocchio e la camicetta gialla senza maniche che indosso e sorrido pensando che ad Ariel sarebbe piaciuto quell’ accostamento, amava il sole e le foglie.
    Riporto lo sguardo verso la figura sulla spiaggia e riprendo il mio cammino verso di lei. La osservo mentre lascia che le onde le accarezzino i piedi e torna sulla sabbia bagnata, ma fuori dalla portata dell’acqua. Ha un corpo slanciato ma muscoloso come di chi ama tenersi in forma, ma senza essere fissata come i culturisti. Ha capelli corti e neri che sembrano accarezzarle la nuca con delicatezza, o almeno è questa l’impressione che ho nel guardarli. Quando mancano pochi passi dal raggiungerla alzo la voce e la saluto nella mia lingua madre.
    « God morgen. » ma subito aggiungo qualcosa in inglese. Non ricordo che origini abbia, ma se non è del nord e viaggia, è probabile che conosca la lingua più usata per comunicare nel mondo.
    « Vuoi un po’ d’acqua? Ti ho vista dalla mia barca ed ho pensato che potessi aver sete. » allungo il braccio porgendole la bottiglietta. Solo in quel momento mi ricordo di aver udito che non può vedere, allora abbasso la mano ed attendo che mi risponda in merito alla sete.
    « Sei Helèna, vero? » chiedo sempre in inglese affiancandomi a lei e lasciando vagare lo sguardo verso l’orizzonte e le sagome delle navi che, lontane, sfiorano il nostro confine; con la coda dell'occhio mantengo l'attenzione sulla sua figura.


    Edited by BluePoppy - 17/9/2018, 10:25
     
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    ›› Helena Kuznetsova • 38 yo • Former MI6 Agent
    • Pilot and Hacker • Fierce Fighter • dress ‹‹



    Incredibile come quel luogo, per quanto piccolo, le fosse sembrato quasi sconfinato. Helena era nuova e, ovviamente, non aveva ancora esplorato a fondo ogni meandro di Besaid, tenuto anche conto di quanto la cecità l'avesse rallentata.
    Era stata in coma per quasi un anno, mesi in cui era stata ricucita sapientemente in una clinica privata in Svizzera. Dove aveva assaporato l'incoscienza ed il buio già prima del suo risveglio. Aveva altresì avuto percezione di alcuni dettagli aleggiantile attorno: la sua famiglia che la veniva ogni giorno a trovare, i suoi colleghi ed amici più cari che le tenevano la mano o le baciavano la fronte, i tubi in gola, le incisioni, i punti per ricucirla.
    Il suo corpo era divenuto un'ancora di speranza, baluardo solido per i suoi affetti, tanto quanto un terreno fertile per taglio e cucito dei suoi chirurghi svizzeri, precisi e gentili anche se impossibili per lei da dimenticare. Le mani su di sé delle infermiere che, per quanto gentili la innervosivano, le bende sugli occhi con medicamenti per tentare di darle sollievo.
    Aveva sentito tutto, nonostante la parziale lontananza della sua mente che, adesso, cominciava a scherzare con lei.
    Come memento di quel periodo incatenata al suo corpo, Helena aveva collezionato nuove cicatrici sparse sul corpo, innumerevoli: alcune più frastagliate, altre precise e tutte, sfoggiate senza alcuna paura.
    Quando il vento e l'odore del mare l'avevano colpita per la prima volta, la frastagliata sensazione dei granelli di sabbia sotto le dita, si era sentita per qualche attimo davvero in pace con se stessa.
    Avrebbe dovuto recarsi in spiaggia più spesso. A maggior ragione quando si sentiva scombussolata e confusa come in quel periodo. Forse avrebbe avuto bisogno di uno specialista per aiutarla a superare il trauma, forse ce l'avrebbe fatta da sola.
    « God morgen. » una voce limpida, leggera, carezzò l'udito della donna che, sin da qualche attimo prima, aveva subodorato una presenza diversa, nuova oltre la propria, oltre il vociare lontano di bambini che ridevano sulla battigia, oltre le voci più roboanti dei genitori. Sulla sabbia soffice, percepiva le onde andare e venire, come ad invitarla a giocare con loro.
    Come al solito, per la sua mentalità dalle sfumature militari, figlia di addestramento ed avventure che ci avrebbe messo una vita a raccontare, l'allerta fu il primo sintomo. Era raro che Helena facesse avvicinare le persone a sé, tanto più se sconosciute. Mal sopportava il contatto fisico così come la demolizione di barriere per lei necessarie e fonte di sicurezza. Dopotutto sarebbe stato comprensibile dopo aver assaporato uno stile di vita amaro e particolarmente difficile da digerire per i pericoli costanti che si portava dietro.
    Aveva perso il conto di quante persone avevano cercato di ucciderla quando era all'MI6. Una volta divulgata (con sapienza) la notizia del suo incidente, guarda caso ogni minaccia era cessata, compresa la fama del suo potenziale pericolo, purtroppo.
    Hel era ufficialmente entrata nel fumoso, dorato mondo del mito sia nel mondo cibernetico che in quello degli agenti operativi. Dopotutto ne era prova il fatto che "Valchiria", il suo nome online, non era mai stato usato da nessuno per rispetto. Forse avrebbe smesso di usarlo anche lei.
    Ebbene, quella voce gentile e chiara, cristallina, incentivò l'ex-spia a voltarsi, lo sguardo celeste perso in una direzione possibile in cui la sua interlocutrice si trovava.
    Doveva essere molto giovane, aveva il passo leggero e la voce poco profonda, fine, gradevole.
    «Ciao» la salutò ermetica, in inglese. Infilò una mano sottile nella tasca dell'abito che vi giaceva sul fianco sinistro, per nulla turbata che la giovane donna potesse scorgere le sue cicatrici senza permesso. La brezza carezzava i capelli scuri, in pieno contrasto con la pelle diafana scaldata dal sole mite di quel mattino.
    « Vuoi un po’ d’acqua? Ti ho vista dalla mia barca ed ho pensato che potessi aver sete. » nonostante la premurosa cortesia della ragazza in un inglese quasi perfetto, Hel esitò a darle una risposta. Per indole tendeva a fidarsi ben poco di chiunque e ciò, purtroppo, era un carattere di sé del tutto peggiorato dopo l'incidente.
    Schiuse le labbra cremisi, umettandole rapidamente.
    Pensò a quanto poco comune fosse che una giovane donna avesse una barca, quantomeno per una ex-londinese come lei. La notizia non la stupì granché ma le diede l'idea che la sua interlocutrice ancora senza volto potesse essere indipendente ed abile, oltre che educatissima.
    « Perchè no, grazie » soggiunse Helena, accennando secca ed in tono pressoché apatico, concedendo un grado di fiducia in più anche per non risultare burbera. Non lo era mai stata. Nascondeva solo tratti di una timidezza ed introversione che l'avevano sempre accompagnata, sin da bambina. « Ti prendi cura della tua barca da sola? » le domandò dopo una breve pausa, ritenendo opportuno a quel punto voltarsi interamente dalla parte della ragazza. Nonostante la cecità, Hel pareva essere sempre solida, dotata di una fierezza insita nel suo carattere.
    Le onde continuavano ad infrangersi placide sulla battigia, in un ritmico andirivieni decisamente rilassante e, forse, causa della serenità interiore anche della spia.
    « Sei Helèna, vero? » piccolo paese, conoscenze veloci. Il fatto che il suo nome fosse già sulla bocca di alcuni abitanti di Besaid non la colse del tutto alla sprovvista. Era ovvio che Helena avesse volutamente divulgato notizie differenti in merito alla sua carriera prima di approdare in città: per tutti, dagli atti che aveva portato con sé, la donna era una brillante programmatrice informatica che, dopo un brutto incidente motociclistico, aveva scelto di trasferirsi in Norvegia per ricercare tranquillità in una nuova, pacifica realtà. Del fatto che fosse stata un agente operativo dei Servizi Segreti britannici e, successivamente, una mercenaria, un'assassina prezzolata -con una morale, s'intende-, nessuno sapeva alcunché, come giusto che fosse. Altrimenti avrebbe attirato attenzioni in più, indesiderate e potenzialmente nocive.
    « Si, sono Helena. Tu sei? » rimpallò poco dopo, domandandosi se avesse potuto guardare la ragazza come aveva preso a fare con chiunque avesse avuto necessità di figurare: per riuscirci, avrebbe avuto bisogno di invadere il suo spazio personale e ciò le era sempre spiaciuto alquanto.
    Riempì il petto in un respiro più profondo.
    « Posso guardarti? » chiese, per nulla turbata nel caso in cui avesse ricevuto una risposta negativa. Lei in primis non avrebbe adorato un tocco estraneo su di sé, anche se solo per una manciata di attimi.
     
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2 replies since 22/5/2018, 15:30   152 views
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