Prelude and Encounter

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    FORTIDEN {THE PAST}


    Si era lasciato tutto alle spalle. Era scappato, come un codardo, come un cane con la coda fra le gambe. Il tempo di finire di osservare i resti della propria vita e del proprio matrimonio crollare di fronte ai suoi occhi, come un castello di carte in mezzo ad una bufera, e aveva lasciato tutto. Per quanto, non lo sapeva. Ci avevano provato, quelle poche persone che ancora conosceva e che poteva dire che fossero suoi amici a risollevare il suo morale, o almeno a tirarlo fuori dalla spirale autodistruttiva in cui si era cacciato a capofitto. Ma era stato invano.
    Perché Travis voleva distruggersi. Sapeva di meritarselo.
    E allo stesso tempo ne aveva paura.
    Per questo aveva preso il suo passaporto, si era imbarcato sul volo più economico diretto in quel luogo che già aveva deciso di visitare e aveva lasciato che tutto il resto venisse lasciato alle sue spalle. Con il cuore pieno di rimpianti e sulle spalle solo lo zaino da trekking.
    Era sbarcato ad Oslo, e l’aveva lasciata dopo aver passato i due peggiori giorni che potesse aver immaginato nella capitale norvegese, chiuso in una camera di albergo nel tentativo di riprendersi dal jet lag che il viaggio gli aveva caricato addosso. Stavenger era stata la seconda meta, raggiunta con il più economico volo che fosse stato in grado di trovare. Kristiansand la seguente. Ogni volta la stessa routine. Il tempo di passare qualche giorno in una città e si trovava di nuovo a scappare da nemmeno lui sapeva cosa. Si imbarcava sul primo volo, quasi senza nemmeno controllare dove si stesse dirigendo. Sapeva che voleva andarsene. Viaggiare. Schiarirsi la mente.
    Non sapeva se quello fosse il modo migliore per farlo.
    Volo. Cambi. Problemi con il suo passaporto. Quando era atterrato a Bergen aveva cominciato a farci l’abitudine. E a domandarsi per quanto ancora avrebbe potuto continuare a scappare da se stesso in quel modo.

    DAG EN {DAY ONE}


    Aveva sentito parlare di Besaid per caso. Non era una delle città che le guide citavano, né sembrava essere particolarmente interessante dal punto di vista del turismo. La spiaggia sembrava carina, certo, e come tutta la Norvegia, era completamente circondata da alberi, almeno per i suoi standard. Ma nessuno sembrava davvero voler andare a Besaid con l’intento di visitarla.
    E, proprio per quel motivo, Travis aveva deciso di fermarsi anche lì. Magari l’avrebbe odiata un po’ meno delle altre città sulla costa, dove la voce del mare e della spuma delle onde veniva continuamente portata dal vento e si mischiava ai ricordi. Era arrivato nel tardo pomeriggio, si era concesso un velocissimo giro della città, il tempo di trovare un albergo non troppo caro, e aveva prenotato una stanza per almeno una settimana. La camera era spoglia. Non la peggiore che avesse mai visto, e se non altro era pulita. Lasciato il pesante zaino da trekking in un angolo, si ea gettato contro il materasso senza nemmeno spogliarsi, pronto a lasciare che ancora una volta il crudele Morfeo e la sua corte di sogni e di ombre lo trascinassero di nuovo in mezzo al mare di pensieri che tormentavano l’animo. Continuava a sognarlo, di nuovo, senza mai fine. Ogni volta come la prima, la sua mente continuava a tornare a quel giorno e lo costringeva a rivedere dove aveva sbagliato, dove la sua testardaggine lo aveva portato.
    Ma non quella volta.
    No.
    Il sonno arrivò, ma con esso non la corte di incubi che imperversava la mente di Travis. Sdraiato sul materasso di quel piccolo albergo, la mente cominciò a sprofondare in un abisso di tenebra senza alcun sogno o pensiero. E in quel momento, le tenebre erano preferibili agli incubi.
    Si era svegliato con il volto spiaccicato nel cuscino e un rivolo di bava che era colato dalle labbra e si era spalmata sulla guancia coperta di barba. Il tempo di farsi una doccia, cambiarsi (e indossare di nuovo una camicia a quadri, questa volta rossa, che faceva a pugni con i pantaloni militari e gli scarponi da montagna) e si era precipitato fuori. Aveva domandato in uno stentato norvegese dove poteva trovare un locale e gli era stato indicato l’Egon. Lì, si era seduto al bancone, aveva preso il menù, e aveva cominciato pigramente a sfogliarlo, con l’appetito che passava ogni secondo di più e che veniva soppiantato dal desiderio di sbronzarsi e affogare i pensieri nell’alcol.

    Edited by Chantale - 17/6/2018, 14:56
     
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    Il ritmo di quella canzone girava e rigirava nella mente di Elias Larsen come un'eco senza fine.
    Da quando era successo quel che era successo, aveva la sensazione che qualcuno fosse nella sua mente, che la controllasse.
    Si sentiva come una vittima di un abuso, si sentiva violentato, violato nell'intimo e soprattutto si sentiva sporco per cosa era stato costretto a fare.
    La paura di usare il proprio potere, la difficoltà a controllarlo, la preoccupazione per Ingrid, la preoccupazione di Ingrid verso di lui, Levi che continuava a chiedere cosa fosse successo.. tutto sembrava essere troppo da sopportare.
    Eppure, quel fardello andava portato in silenzio, fingendo che non ci fosse nulla di strano, di problematico, Remember: that's all in ur head!

    Non aveva rivisto Fae, né Ivar, né nessun altro dei suoi compagni di viaggio, ma forse era meglio così. Solo Didi era con lui spesso, ogni minuto in cui era possibile a dire il vero, e perché si rifiutava di lasciarla sola, perché aveva paura di stare solo. Fingeva di dormire da lei, mentre lei molto probabilmente fingeva a sua volta finchè davvero non crollava tra le sue braccia in un sonno senza sogni. Ed era meglio così: le immagini assurde di quel pomeriggio attanagliavano i loro pensieri, la vista di Didi morta affogata lo tormentava continuamente, tanto da doverla toccare in ogni momento per sentire il suo respiro. Aveva temuto tantissimo di perderla, aveva avuto la sensazione di soffocare in un mondo senza di lei, era stato pronto a morire per lei. Ma non era pronto a dirle che l'amava. Almeno, pensò amaramente, se ne era finalmente reso pienamente conto.

    Quella sera sarebbe uscita con qualche amica per cercare di distrarsi, gli aveva promesso che l'avrebbe chiamato quando avrebbe deciso di tornare a casa: non esisteva per nulla al mondo che tornasse a casa da sola, perciò Larsen avrebbe dovuto impegnare il tempo in qualche attività che lo tenesse lontano dalle proprie ansie, mantenendosi però lucido abbastanza da accorrere alla prima chiamata di lei. Sarebbe potuto andare da Levi in radio, ma le sue bedtime stories al momento non erano molto utili all'umore già pessimo e guardingo del rosso mal pelo. In più, sapeva che prima o poi l'avrebbe costretto a confessare e ancora non si sentiva pronto a farlo, sempre ammesso che il Kvist gli credesse.
    Puntò dunque verso il pub, cercando un posto abbastanza isolato da non captare troppi pensieri altrui, sperando in qualche mente annebbiata dall'alcool che l'avrebbe intrattenuto per le poche ore che doveva in qualche modo riempire.
    Entrò dunque nel locale, scansionando i tavoli uno ad uno: niente di interessante, né tantomeno di libero. Si diresse dunque al bancone, verso uno straniero che leggeva il menu e pensava in inglese, anzi, americano. Peccato, fosse stato tedesco, avrebbe potuto usare quei pensieri a mò di rumore bianco. Sedette dunque sullo sgabello, rivolgendo al compagno di bevute uno sguardo repentino, chiedendo poi una birra irlandese media al tizio dietro al pub.
    Si girò, dunque, verso l'uomo, sollevando di poco il bicchiere pieno in un gesto poco convinto, affondando il viso dietro il vetro e fissando dritto davanti a sé.
     
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    L'erba la tranquillizzava: per la maggior parte del tempo, controllava tutti i pensieri che cercavano di uscire dal barattolo in cui erano rinchiusi, sul cui tappo vi era scritto “fine”. Li aveva presi uno per uno, con estrema cautela, e li aveva riposti nel fondo di vetro di quel contenitore immaginario del quale solo lei era a conoscenza. Aveva avuto bisogno di tanto tempo e tanto amore per se stessa, nel riuscirci, e sebbene pensava di avercela fatta, ogni tanto tutto riprendeva vita nei suoi incubi, lasciando che le sue gambe tremassero dalla paura che tutto fosse ancora lì, intorno a lei, impreparata sul ciglio della vera vita in attesa che qualcosa la investisse ancora. Ma no, Fae Olsen aveva deciso di lasciare andare la paura, il terrore per ciò che aveva visto e che probabilmente non avrebbe mai dimenticato, e aveva voluto affrontare ciò che la sua mente aveva accolto, senza neanche chiederle il permesso.
    Quella sera, così lontana dal giorno trascorso al Luna Park, si era stesa in riva al mare in attesa del tramonto; aveva fissato il cielo azzurro scurirsi pian piano, fino a diventare prima arancione e poi violaceo, accompagnato dai raggi di un sole stanco, alla ricerca di un nuovo pezzo di terra sul quale sorgere e vivere un nuovo giorno. Il rumore del mare l'aveva cullata, mentre con le mani aveva rollato una delle sue piccole sigarette illegali, di quelle che però avrebbero dovuto esserlo almeno a quell'ora della sera, secondo lei, dove tutto perdeva luce e l'anima aveva bisogno di uno spiraglio di tranquillità per superare la notte. -l'aveva fumata così, mentre i granelli di sabbia si andavano ad infilare nelle converse color panna che indossava spesso, e poco dopo aveva iniziato ad avvertire un leggero sollievo all'altezza del petto e una comoda pesantezza sul cranio. La sensazione che ormai conosceva bene da anni, e alla quale non avrebbe mai potuto rinunciare così facilmente. Ripensò a sua sorella Meggy, la donna che stimava silenziosamente, senza mai dirlo a voce alta, e che riconosceva avesse bruciato tutte le tappe della sua giovane vita per dare alla luce una bambina, figlia di un uomo che mai più avrebbe rivisto e al quale avrebbe donato tutto il proprio cuore. Che tipo di sentimento era? Lei ancora non lo aveva conosciuto: dividersi a metà, completamente, per qualcuno che non sia sangue del tuo sangue, qualcuno incontrato per caso in una caffetteria una mattina di Marzo, quando niente è più così gelido e pensi che sia proprio perché il tuo cuore ha iniziato a battere in maniera diversa dal solito, per colpa di quegli occhi che ti hanno scrutato da un tavolino poco distante da quello a cui tu sei seduta. Era andata così, per sua sorella maggiore Meggy. E poi, era andata a finire come ogni cosa a Besaid: ciò che ti viene regalato, ti viene presto anche tolto. E sulle onde di quei pensieri che normalmente forse avrebbero fatto male, si era sollevata dal terreno sabbioso sul quale si era accovacciata. Aveva passato i palmi delle mani vuote contro il tessuto dei jeans, per lasciar scorrere via quei pochi granelli di sabbia che si erano attaccati al resto del vestiario. Si era recata nuovamente in direzione della città, percorrendo la strada del ritorno a piedi e dirigendosi nel centro della cittadina per fare una capatina all'Egon, come spesso le capitava di fare. Una volta dentro, aveva mandato giù due boccali da 0,4 di ottima e fresca birra alla spina, per poi recarsi nel bagno a rilasciare il primo accumulo di liquidi dovuto all'alcool. Una volta uscita, lo scenario sembrava esser cambiato: sebbene fosse stata giusto il tempo di una pipì all'interno delle Toilette, quando fu finalmente fuori, il locale sembrava avesse preso vita. Lasciò che i capelli restassero della loro forma spettinata, come al solito, mentre camminava sotto la luce fioca e colorata del pub per recarsi al proprio posto preferito, al bancone, constatando che non solo il suo bicchiere vuoto era stato messo via, ma che al proprio posto, in quel momento, sedeva il Larsen. Di fianco a lui, un uomo decisamente più grande e massiccio, che se solo avesse voluto, lo avrebbe schiacciato con il pollice di una delle mani. Si fermò quindi per qualche istante, restando in piedi dietro alla figura minuta dell'amico, per poi decidere di avvicinarsi piano, silenziosamente, e tirargli uno dei suoi migliori ed affettuosi ceffoni sulla parte posteriore del collo. Il suono della mano che andava a scontrarsi con la pelle stirata del Larsen risuonò per tutto il locale, e mentre qualcuno si girava e cercava la provenienza di quel “plat”, Fae prese a ridere come un'idiota nel notare la parte del collo dell'amico divenire del colore del fuoco. «Larsie!» urlò la ragazza, divertita. Gli occhi ormai due biglie rosse costernate da iridi azzurre-ghiaccio. L'effetto della canna di poco prima più le due birre erano state la combinazione giusta che l'aveva resa così serena e aperta nei confronti del mondo, così che comunque spesso riteneva d'essere. Si lanciò quindi sulle spalle dell'amico, andando ad allungare le braccia davanti a lui e beccando per sbaglio il boccale di birra che aveva davanti; un solo tocco maldestro, e il contenitore di vetro si curvò fino a stendersi completamente sul bancone, lasciando che il liquido dorato e in superficie schiumoso si espandesse sul bancone, raggiungendo il ragazzone seduto accanto a loro, il quale venne colto alla sprovvista da un'ondata di alcool amaro. Sebbene la situazione non fosse divertente forse per la maggior parte della gente presente all'interno del locale, Fae si allontanò in fretta da Elias per rivolgere le proprie attenzioni allo sconosciuto seduto accanto a loro. «Porc-... scusami, mi dispiace davvero! Il mondo è ingiusto, la vittima sarebbe dovuta essere lui.» gli disse, amareggiata e al contempo divertita ed incapace di nascondere un sorrisino sincero mentre indicava Larsen ancora accanto a lei. Allungò le braccia in direzione dell'uomo, mostrandogli i palmi delle mani in segno di innocenza, ispezionando con lo sguardo la sua intera figura in cerca di macchie da birra sui vestiti, sembrando però tutt'altro che desiderosa di aiutarlo poiché chiunque avrebbe potuto pensare che -invece- faceva un'ispezione per ben altro. Dopo quella scena teatralmente imbarazzante, comunque non riuscì a smettere di ridere, sperando in cuor suo che il tipo non se la prendesse ne con lei, ne con l'amico, altrimenti sarebbe stata davvero la fine, vista la stazza. «Posso offrirti qualcosa da bere in cambio? Una sigaretta? Oppure, non saprei... Non sono un'ottima donna di casa, quindi al massimo posso pagarti la lavanderia. Anche se, ehi, lo stile militare sembra stia tornando in voga, di questi tempi.» aggiunse malamente, ancora, riferendosi alla differenza di colori che gli abiti prendevano nei punti in cui la birra era entrata a contatto con il tessuto del vestiario.
    Non era ubriaca, e neanche tanto fatta da potersi dire che tutto l'intero accaduto fosse frutto di altro, che non fosse semplicemente mal attenzione. Si sentì naturalmente in colpa per ciò che era accaduto, eppure la situazione ai suoi occhi continuava a dirsi divertente, forse e soprattutto per la presenza di Larsen, il quale ormai era una delle vittime preferite di Fae; quella sera, forse, ne aveva trovata una seconda.
     
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    Alla fine era riuscito ad ordinare qualcosa. Aveva rinunciato a leggere il menu, in fitto norvegese e pieno di lettere che non sembravano nemmeno appartenere ad un vero e proprio alfabeto, certo, ma si era sforzato di parlare con il barista. E nel più stentato norvegese che potesse tirare fuori in quel momento, ben peggiore di quello con il quale si era rivolto alla hall dell’hotel a cui alloggiava, era riuscito ad ordinare una birra. Grande, l’unica cosa che era riuscito a dire. Non aveva idea di quale fosse la marca: non conosceva nessuna di quelle che i vichinghi fra cui si trovava possedessero. Dall’immagine sembrava qualcosa di chiaro. Se la sarebbe fatta bastare almeno per quella sera.
    Il locale si stava riempiendo, e alla fine qualcuno andò anche a sedersi vicino a lui al bar. Lo degnò appena di un’occhiata sul momento. Era più giovane di lui. Parecchio, almeno a vederlo così. Forse una decina di anni, non di più. L’arrivo della sua birra e di quella del tipo accanto a lui lo distolse da quel pensiero.
    Aveva tirato fuori il portafoglio, e un’ondata di pensieri lo colpì di nuovo e, senza che lo potesse davvero sapere, avrebbe probabilmente colpito quel qualcuno che si era seduto accanto a lui.
    L’immagine di una ragazza, il volto della donna che sarebbe diventata. Un distante San Valentino in cui quel portafoglio era stato regalato. Una bambina. Una motocicletta. Le tenebre di una stanza di un ospedale e del fischio di qualche apparecchiatura distante che si mescolava al disperato singhiozzare di una voce fuori campo. Immagini. Pensieri. Lampi di una vita ormai passata che forse per Larsen sarebbero state il rumore bianco che desiderava e che per Travis erano solo un continuo incubo dal quale non era del tutto sicuro di voler uscire.
    Pagò, questa volta ricordandosi di non dover includere nessuna mancia, e quando il tipo che gli si era seduto accanto sollevò il suo bicchiere, ricambiò il gesto, in quel tacito segno di saluto.

    Bottoms up


    E diede il via a quella che sperava si sarebbe rivelata davvero una serata in cui la mente sarebbe stata completamente affogata dall’alcol.
    Di nuovo il fiume di pensieri venne però interrotto. E quella che Travis avrebbe potuto solamente descrivere come una bomba arcobaleno si era precipitata fuori da un angolo del locale e si era gettata contro il tipo seduto accanto a lui. Ci aveva anche provato ad ignorarla, ma era difficile ignorare sia il suo comportamento che il vago odore acre e acido che si portava dietro.
    E il fatto che gli aveva appena fatto fare il bagno nella birra del tipo. Ovviamente.
    Si alzò di scatto, sollevando con una mano il portafoglio prima che si inzuppasse del tutto (ma già la pelle doveva essere macchiata dal bagnetto nella birra scura) e con l’altra il suo boccale di birra.
    «Jesus f*ck»
    Nell’ultimo periodo aveva cominciato ad imprecare parecchio. Ogni minima cosa sembrava dargli sui nervi, si infilava nella mente come un fastidioso granello di sabbia e lo irritava al punto da irritarlo e portarlo ad imprecare nemmeno fosse stato uno scaricatore di porto.
    «Seriously, what the actual f*ck?»
    Era in piedi, con la birra che continuava a gocciolare già dal bancone sul pavimento e con una macchia sia sulla camicia che sul cavallo dei pantaloni, dandogli quel bellissimo aspetto di mi-sono-pisciato-addosso che si sarebbe volentieri risparmiato. Come una macchinetta, tuttavia, la bomba arcobaleno aveva cominciato a scusarsi. Stava avendo delle discrete difficoltà a capire quello che gli stava dicendo. Forse perché sembrava essersi fumata qualcosa (e il puzzo di Marijuana, adesso che lo aveva identificato, lo giustificava), in parte perché fra le risate e il suo scarso norvegese stava capendo una parola su due di quello che gli stava dicendo.
    «No… è ok»
    Si ritrovò a balbettare in una sorta di risposta, cercando di mettere in fila le prime parole che gli venivano in mente.
    «Seriamente»
    No. Non andava per niente bene. Era arrivato lì per prendersi una sbronza e dimenticarsi dei suoi problemi, non doversi prendere carico di quelli di qualcuno che aveva deciso di salire a bordo di quel treno in rotta di deragliamento chiamato “California”.
    Gli parve quasi di sentire una voce sussurrare al suo orecchio, mentre affettuosamente gli diceva di lasciar perdere per qualche istante la politica o le prese di posizioni. Prese un respiro, ancora sorreggendo sia il boccale che il portafoglio zuppo. L’agenda dalla copertina di pelle era ancora sul bancone e stava lentamente inzuppando la birra. La spostò più in là mentre cominciava a prendere un po’ di fazzoletti e il tipo al bancone si affrettava a pulire per poi domandare, quasi stupidamente
    «Cosa… No, that’s told right? puoi parlare di nuovo? Più piano? »
    Aveva più o meno capito tutto quello che aveva detto fino a quando sigarette e il militare non era entrato nel discorso, e nel tentativo di star dietro alla voce della ragazza e al tradurre mentalmente, si era perso l’ultima parte. Si risparmiò quantomeno il dover domandare cosa fosse un “vaskeri*”. C’era un limite a quanto potesse sopportare l’imbarazzo in quel momento.

    *Lavanderia
     
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    Era fisso davanti a sé, dunque, dopo aver ricevuto un gesto di risposta al suo prosit ed esser finito (non lo voleva mica) nei suoi pensieri sconnessi e pregni di dolore. Almeno, si trovò a pensare, non erano immersi nella paura come i suoi. Abbassò lo sguardo per cercare il proprio cellulare e controllare se Didi avesse scritto qualcosa quando uno sciaff! risuonò nel locale e attivò ogni nervo della sua spina dorsale, allarmandolo e al tempo stesso facendogli provare dolore.
    - Machecc..
    - Larsie!
    Fu un lampo. Un lampo multicolore. Ebbe la sensazione del corpo della sua Unicornana addosso e fu quasi piacevole, se non fosse che con la sua solita grazia e la sua altrettanto proverbiale capacità di metterlo nei guai, Fae Lynae Olsen rovesciò la birra sull'armadio americano a quattro ante (chè due erano poche) dritto dritto sui pantaloni.
    [- She's a poor dumb girl, can't argue with herr.]*
    Ci aveva provato, tentando in qualche modo di imitare l'accento a malapena colto dai suoi pensieri, nella speranza di spacciare quel bieco tentativo di salvarla come un'idea spontanea dell'americano. Ci sarebbe riuscito?
    Nel dubbio, si sollevò e si mise in mezzo tra loro due, guardando bieco Fae ma senza nemmeno passarle l'idea che non era la prima volta che metteva sé stesso tra lei ed un potenziale pericolo mortale.
    Fae rideva, beata lei e la sua fattanza (perchè non l'aveva chiamato?), incapace di realizzare che, se avesse voluto, quell'energumeno avrebbe potuto spiaccicarli come piccole, inutili, insignificanti formichine quali erano.
    Ma, chissà grazie a quale dio, l'uomo sembrò non dare troppo peso alla cosa, quanto meno non tanto dal volersi sporcare ulteriormente con il loro sangue.
    No, non aveva capito tutto quello che la multicolor gli aveva blaterato addosso, ma azzardarsi a parlare inglese forse l'avrebbe tradito rispetto al pensiero che pochi secondi prima gli aveva instillato. Anche se, più probabilmente, erano paranoie sue.
    - She said she's sorry, she's high. She didnt' tell that, but I can assure you she is. She wants to offer you another beer or pay for your laundry. Trust me, you don't want her to wash your clothes, unless you like pink... but I guess you don't. Do you?**
    Nel frattempo che si esibiva nel suo accento british migliore (con la speranza di renderlo il più differente possibile dal pensiero di cui prima) afferrava con un braccio la piccola figlia dell'arcobaleno, cercando di farla stare ferma il più possibile e farla riprendere per quel che era in suo potere.
    - Well, I know she's annoying, nobody can't know this better than me. But she's... la guardò per un attimo, arricciando le labbra un moto di affetto. Fae era la sua amica, la sua macchietta, il suo cucciolo di unicorno da dover proteggere dall'estinzione (e fortuna che si riparava da sola quando si rompeva!). - She's a rainbow, you see. We need her here,when the winter comes and there are only two or three hours of daylight. You know, for the colours she brings. Le strinse il braccio attorno alle spalle, sorridendo quasi orgoglioso di lei. So, if you let me, I'll offer you all of your drinks tonight, for your kindness and for her forgiveness.*** Alzò le sopracciglia come a ricercare un cenno di assenso dall'uomo, ma si girò direttamente verso il barista, per confermargli in norvegese quanto appena promesso.
    - Tutto ciò che beve il signore, lo offro io. Ok Jurgen? Anzi, già che ci sei, mi fai due whisky buoni e un thé nero per accontentare la ragazzina?
    L'ultima parte la sussurrò, buttando uno sguardo alla Olsen, apparentemente troppo occupata a cercare folletti nel locale per badare a ciò che stesse dicendo.
    - So, I don't know if you'd like to be alone but, If you want... my name's Elias Larsen, and she's Fae Unicorn Olsen.****
    Ricacciò la fattona a sedere (chiaramente dall'altro lato rispetto all'energumeno) aspettando i due whisky ed il thè freddo per la signora.

    * - [E' una povera scema, non posso litigare con lei]

    ** - Dice che le dispiace, è fatta. Non l'ha detto ma, te lo assicuro io. Vuole offrirti un'altra birra o pagare la lavanderia, Fidati, non vuoi che te li lavi lei stessa, a meno che non ti piaccia il rosa... Penso proprio di no. O si?

    *** - Beh, lo so che è fastidiosa, nessuno lo sa meglio di me. Ma lei è ... [...] Lei è un arcobaleno, come vedi. E ne abbiamo bisogno qui, quando viene l'inverno e ci sono solo due o tre ore di luce. Sai, per i suoi colori. [...] Quindi, se me lo permetti, ti offrirei tutti i tuoi drink per stasera, per la tua gentilezza e per averla perdonata.

    **** - Beh, non so se avresti preferito essere lasciato in pace ma, me vuoi... io mi chiamo Elias Larsen e lei è Fae Unicorna Olsen.


    Edited by aNANOtherLove - 2/7/2018, 22:58
     
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    Anonymes!
    Combinare guai era stato spesso uno dei suoi hobby. Se solo qualcuno avesse domandato a Jude con che tipo di ragazzina avesse avuto a che fare qualche anno prima, l'uomo avrebbe sicuramente srotolato la pergamena immaginaria sul quale erano riportate le molteplici problematiche sorte nella vita della ragazza in quel periodo. Anche Larsen aveva fatto parte della sua vita adolescenziale e, sicuramente, aveva anche contribuito nel dare ascolto ai pensieri folli di quella capigliatura arcobaleno che Fae si portava in testa con fierezza da quando aveva solo quattordici anni. Elias era riuscito a starle accanto non dal punto di vista emotivo, ma aveva avuto la possibilità di vedere da vicino quei lati di Fae che in pochi riuscivano a comprendere. La ragazza on avrebbe mai dimenticato neanche la prima volta in cui lo aveva visto: nei corridoi della scuola, durante quegli anni turbolenti del liceo, con la sua camminata sfacciata malgrado lo sguardo di chi lo circondava sembrava fosse alquanto incerto di quella sua sicurezza. Lo aveva capito abbastanza presto, Fae, che uno come lui aveva un potenziale unicorniano come il proprio. Aveva visto in lui una sorta di luce diversa da quella di tutti gli altri e, sebbene avesse ribadito più e più volte quanto fosse sfigato, aveva deciso di voler essere sua amica, sua compagna di idiozie. Poco dopo aveva sentito qualcosa e l'affetto che inizialmente era sembrato non potesse neanche mai nascere, era venuto fuori in forma di un rapporto quasi fraterno al quale, ben presto, aveva capito di non poter rinunciare. «Machecc..» esclamò il ragazzo non appena il palmo della mano di lei si fu scontrato bruscamente con il collo di lui. L'aveva abbracciato alle spalle, Fae, incapace di mantenere le distanze e sorprendendolo come al solito nei momenti in cui sembrava fosse sovrappensiero. Naturalmente, la birra si riversò sul ragazzone seduto di fianco ai due, il quale in silenzio sembrava contemplasse il liquido dorato allo stesso modo di Larsen, fino a qualche millesimo di secondo prima che l'uragano color arcobaleno si schiantasse su di loro, rompendo quel silenzio malinconico e rendendo la serata appena più movimentata -chissà se in lato positivo, poi.
    «Cosa… No, that’s told right? puoi parlare di nuovo? Più piano?» chiese l'uomo, lasciando che Fae notasse quanta poca pratica ci fosse nel suo provare a parlare quella loro lingua, per lui sicuramente nuova. Chinò appena il capo da un lato, Fae, trovando estremamente dolce il suo voler parlare e non riuscirci tanto bene, per poi notare che Larsen si stava interponendo fra di loro, sperando probabilmente che l'uomo non si rivelasse essere un'anima facilmente irascibile e cercando quindi di proteggere Fae da possibili sberle in segno di vendetta. Sorrise, lei, assorta nei suoi pensieri di dispiacere e divertimento per tutto ciò che sembrava stesse accadendo. «Larsie, non mi farà del male. È un gigante gentile, lo sento!» esclamò lei, portando le proprie mani sulle spalle dell'amico e tirando appena verso di se, in modo tale da raggiungere con il proprio viso quello di lui e far sì che egli ascoltasse. Ma Larsen sembrava aver preso un treno, decisamente straniero, che pareva non voler arrestarsi neanche di fronte alle supposizioni da strafattona di Fae. «She said she's sorry, she's high. She didnt' tell that, but I can assure you she is. She wants to offer you another beer or pay for your laundry. Trust me, you don't want her to wash your clothes, unless you like pink... but I guess you don't. Do you?» spiegò Elias al ragazzo, traducendo ciò che aveva appena detto lei ed aggiungendo qualche farina magica dal suo sacco, con su scritto Le perle di Larsen. Gli tirò una gomitata nel fianco, portandosi quindi di un passo in avanti e sistemandosi accanto a Larsen. «Non è vero, non ascoltarlo. È capitato una sola volta, lo giuro. Avevo messo una felpa di quelle rosa fluo nella lavatrice, e non mi sono accorta che ci fosse nel mezzo anche una schifosissima t-shirt fuori moda di Larsen. Bè, ora è mia, di sicuro l'abbino meglio con questi capelli.» disse lei, sollevando appena le spalle e coprendo la voce di Larsen mentre tentava ancora di parlare. «Well, I know she's annoying, nobody can't know this better than me. But she's...» si bloccò, guardandola e facendo quella sua solita espressione idiota ed affettuosa al tempo stesso. «She's a rainbow, you see. We need her here, when the winter comes and there are only two or three hours of daylight. You know, for the colours she brings.» continuò lui, parlando di Fae al nuovo arrivato. Si chiese, Fae, da quando Larsen fosse diventato così bravo con l'inglese e la cosa la fece sorridere non poco, immaginandoselo con un libro e delle cuffie a ripetere le parole di una voce femminile che neanche avrebbe mai conosciuto. «So, if you let me, I'll offer you all of your drinks tonight, for your kindness and for her forgiveness.» disse ancora Larsen, offrendo da bere al ragazzo. «Bravo Larsie, anche perchè ho dimenticato il cash a casa e non sapevo effettivamente come uscire di qui senza finire a lavare il pavimento del bagno.» sussurrò lei, portando le mani nelle tasche dei Jeans e voltandosi appena in direzione dell'amico, sorridendo divertita. «Tutto ciò che beve il signore, lo offro io. Ok Jurgen? Anzi, già che ci sei, mi fai due whisky buoni e un thé nero per accontentare la ragazzina?» aggiunse Larsen, voltandosi verso il barista e comunicandogli gli ordini. Si voltò poi in direzione dell'uomo ancora una volta, presentandosi finalmente e tirando Fae con sé. «So, I don't know if you'd like to be alone but, If you want... my name's Elias Larsen, and she's Fae UnicornOlsen.» disse, cordialmente. «Solo Fae, per favore.» disse lei, porgendo la mano al ragazzo e sorridendogli gentilmente, sperando che il gesto avventato di poco prima fosse quanto meno stato già dimenticato. «Scusa se ho parlato forse troppo veloce, cercherò di migliorare. Qual è il tuo nome?» gli domandò, questa volta incuriosita di scoprire chi lui fosse e da dove venisse. Era sempre alquanto insolito ritrovarsi di fronte a forestieri, specialmente se provenienti da terre lontane e parlanti lingue diverse. Si chiedeva lei come facessero a trovare Besaid e cosa li conducesse fino lì. Una città fantasma che nascondeva un segreto meraviglioso per alcuni, terribili per altri. E lui? Che tassello del puzzle sarebbe stato?
     
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