Requiem for the lost love

Ivar X Astrid

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    | IVAR WESENLUND | 24 Y.O | The one that got away

    The shadow lies upon his tomb
    In Moria, in Khazad-dûm.
    But still the sunken stars appear
    In dark and windless Mirrormere;
    There lies his crown in water deep,
    Till Durin wakes again from sleep


    Siamo esseri precari che in questo mondo cercano di dare un senso alle proprie esistenze, riempiendo le loro labili vite di piccole cose, di costruzioni mentali, di sentimenti e di tutto ciò che potrebbe dare un senso a quel tempo compreso tra inizio e fine. Ognuno di noi cerca di lasciare un segno, affinché qualcuno serbi la memoria di ciò che abbiamo fatto, quando la falce impietosa della sorella morte giungerà per mieterci come grano. E’ sempre stato così. L’uomo ha sempre aspirato all’eternità, che sia essa una flebile voce, o una vita intera perpetuata in essa. Siamo lo stesso tipo di uomo che ora decora le proprie lapidi con immagini e scritte, affinché qualcuno possa avere memoria del nome che lo contraddistingue.

    La luce accecante illuminava quella stanza di cui non riconosceva i dettagli. Aprì gli occhi, di soprassalto, e trovò lei. Dormiva beatamente, con un sorriso stampato sulle labbra e la pelle candida avvolta nel lenzuolo di seta. Sembrava un sogno, quello, un bel sogno. Un sogno da cui non avrebbe mai voluto svegliarsi, da riempire col respiro calmo di lei. Sarebbe rimasto a guardarla dormire per ore, così perfetta, così lontana dal mondo che le aveva portato via i suoi ricordi. Chissà, forse nei suoi sogni poteva rivivere ciò che aveva dimenticato. Chissà, forse erano proprio quei ricordi a causarle quel sorriso involontario. I ricordi di un’altra vita, quella prima della sua partenza. Avrebbe potuto essere davvero un sogno, se i sensi di colpa non avessero iniziato ad attanagliare la mente del falegname, insinuandosi subdoli tra i suoi pensieri. Aveva infranto la promessa. Aveva scatenato in lei dei ricordi. Aveva ceduto al desiderio di stringerla tra le proprie braccia senza pensare alle conseguenze. Ed era stato bellissimo. L’alba però era giunta, e con sé aveva portato la consapevolezza, la fine di quel sogno. Sospirò, conscio di non poter restare lì, di non poter indugiare oltre, e si alzò silenziosamente, combattendo quella parte di sé che non avrebbe mai più voluto andarsene, che sarebbe voluta restare accanto a lei, per il resto della vita. Raccattò la sua roba, guardando per l’ultima volta la sua Heloise, la sua bella addormentata, e lasciando che almeno lei potesse continuare a vivere tra i suoi sogni. Non era quello il destino che spettava a lui. Lui era quello destinato a rimanere intrappolato nella propria gabbia, a divenire ogni giorno pasto dei propri demoni interiori. A lui spettava portare il peso di quelle scelte obbligate, come Atlante col mondo. Era a lui che toccava combattere con i ricordi.

    Erano passati mesi, da quando si era abbandonato a quel breve sogno. Erano accadute cose. La Spieghelhaus, la sparatoria. Tutto, in quella cittadina, sembrava spingere Ivar ad allontanarsi da Astrid, che come una calamita invece, continuava ad attrarlo senza che lui potesse opporsi. Era una minaccia lui. Era una minaccia la sua particolarità. Erano una minaccia coloro che, a quanto pareva, la ricercavano per usarla per chissà quali scopi. Faceva male, ammetterlo, eppure Marcus aveva ragione. Lei sarebbe stata al sicuro, lontano da lui. Aveva visto la sua particolarità uscire dai ranghi, aveva perso il controllo. Aveva lasciato che vincesse, la bestia, e che distruggesse ogni cosa. Aveva provato piacere, per la prima volta, nel vederla divorare carni e oggetti. Aveva perso il controllo, Ivar, e sapeva di non essere più in grado di tornare indietro. Era sempre stato così. Non si poteva riparare ciò che il tocco di Hel distruggeva.

    La foto su quella lapide iniziava a sbiadire, probabilmente logorata da infiltrazioni d’acqua che si insinuavano in una guarnizione fatta male. Poteva ancora scorgersi il sorriso bonario di quell’uomo dai baffi folti e gli occhi chiari. A volte Ivar aveva la fastidiosa sensazione di non riuscire a ricordare il suo volto. Ogni qual volta si concentrava nel ricordare particolari, questi, puntualmente, sfuggivano alla sua mente. Era spaventoso, quanto facile fosse dimenticare le persone che tanto si erano amate. Si strinse nella giacca, il falegname, mentre seduto a terra raccoglieva i pensieri, e cercava di reprimere le lacrime che calde, anelavano a scendere lungo il suo viso. ”Mi manchi, papà”. Sussurrò, mordendosi il labbro inferiore. Era consapevole che lui non potesse sentirlo. Sapeva, quasi per certo, che dopo la morte nulla attendeva le anime. Sapeva, o almeno credeva di sapere, che dopo la morte ci si annullava. E non aveva mai versato una lacrima fino ad allora, Ivar, per quel genitore che troppo presto aveva lasciato quel mondo, così, all’improvviso. Lui era sempre stato il suo complice, la sua spalla, il suo faro in mezzo alla tempesta. Lui era in grado di riportarlo alla ragione quando rischiava di impazzire, di farlo sentire umano anche quando la sua particolarità lo trascinava il quel baratro che tanto bene conosceva. Bjorn Wesenlund se ne era andato in silenzio, senza la minima avvisaglia, ed aveva portato con sé anche la speranza. Era accaduto tutto in silenzio, come quando nevica. La sera prima aveva riso e scherzato con la sua famiglia, e poi nel sonno il suo cuore si era fermato e non aveva più ripreso a battere. E aveva lasciato il vuoto, il ghiaccio, laddove prima il calore aveva alimentato gli animi. Un funerale rapido, pieno di persone era stato l’ultimo saluto al falegname di Besaid, e poi da allora, nessuno ne aveva più parlato. Forse non se ne rendeva nemmeno conto, eppure ad Ivar mancava terribilmente quella mano forte sulla sua spalla, la sua voce a rassicurarlo che sarebbe andato tutto bene. Gli mancava lo sguardo amorevole che rivolgeva a sua madre, la sua sveglia molesta alle cinque del mattino. Gli mancavano persino i ceffoni che gli mollava in faccia quando perdeva il controllo, modo tutto suo per ricondurlo alla ragione. Bjorn era stato l’unico argine che si era interposto tra la memoria e l’oblio di Anastasia. La stessa forza, in grado di arginare la particolarità di Ivar, di annullare la sua rabbia, di impedirgli di sprofondare. Si era rotto quell’argine, e da allora, un lento declino aveva accompagnato le loro esistenze, senza che nemmeno se ne rendessero conto, conducendo Anastasia alla dimenticanza, e Ivar alla dannazione. ”Non so che fare. Mi hai sempre detto che avrei trovato un motivo per cui il destino mi ha condannato a questo, un giusto modo per usare questa maledizione. Non l’ho trovato, papà, non esiste. Esiste solo quello sbagliato. Esiste solo il provare inutilmente a tenerlo sotto controllo….” Singhiozzava, il falegname, che con nessuno si concedeva tali sfoghi. Nemmeno con Adam, Fae o Zoe. A nessuno mostrava quella sua debolezza, mascherata dalla corazza che indossava per essere forte per gli altri. E mentre lasciava andare le sue emozioni, anche il tocco di Hel faceva il suo corso, logorando quei fragili fiori che facevano da segnacolo all’ultima dimora di suo padre. ”Non so più nemmeno se esiste qualcosa di giusto o sbagliato. E’ mai esistito?” Chiese, asciugandosi le lacrime col dorso della mano. Erano parole al vento, quelle, che nessuno avrebbe mai udito. Le domande che un ragazzino cresciuto troppo in fretta poneva a quel padre che l’aveva lasciato troppo presto senza i suoi insegnamenti. Non c’era risposta a quelle domande, che qualcuno potesse dare. Non c’era che la sua voce rotta dal pianto, nell’aria umida di quel cimitero. Non c’era che morte tra morte, lì, un animale nel suo habitat naturale, un demone tra le fiamme del Tartaro. Lasciò i fiori avvizziti, laddove qualche giorno prima li aveva deposti ancora vivi, e si alzò in piedi. Si chiese cosa ci fosse di sensato, nel venerare i morti, nel continuare a porgere saluti a quei cari resti non più in grado di ascoltare. Si chiese se non avesse rasentato la follia, il falegname di Besaid, come l’Eracle della tragedia, che tante fatiche aveva affrontato ed infine era stato sopraffatto. Forse stava davvero impazzendo. Era quello che Besaid faceva alle persone. Le condannava, le metteva alla prova. Alcune impazzivano, altre fuggivano, altre ancora riuscivano in qualche modo a divenire tanto invisibili da non poter essere raggiunte dalla furia degli antichi dei. Lasciò a suo padre il meritato riposo, quello a cui le Parche lo avevano condannato per l’eternità, e si perse per un momento con lo sguardo verso le montagne che costituivano l’orizzonte alle sue spalle. Prima o poi sarebbe arrivato oltre quelle colonne d’Ercole, avrebbe lasciato i suoi demoni in quelle terre desolate, tra le lapidi, ed avrebbe corso, più forte che poteva, verso qualcosa che non conosceva ancora. Serbava ancora questa speranza, Ivar, prigioniero di sé stesso e di quella cittadina dalle solide mura invisibili.

    Un altro volto, impresso nella pellicola, attirò la sua attenzione fermando i suoi passi. Il volto di un uomo che aveva condiviso con lui la sofferenza della perdita. Il volto di un uomo a cui aveva fatto una promessa, e di fronte allo sguardo vitreo del quale ora mostrava la vergogna del non averla mantenuta. Una delle persone che aveva costruito alcuni anelli delle catene che lo avvincevano, ma che tuttavia, aveva amato come un padre. Marcus Heriksson giaceva sepolto in quel cimitero della Norvegia, accanto alla donna che per troppo poco tempo gli era stato concesso di amare, ed alla quale era rimasto fedele fino alla fine dei suoi giorni. L’aveva tradito, Ivar, non aveva mantenuto il pegno che con lui aveva preso prima di morire. Aveva promesso che avrebbe amato il fiore più bello del suo giardino tanto da preservarlo da tutto ciò che avrebbe potuto farlo appassire. Aveva promesso a lui che avrebbe lasciato andare Astrid, per sempre, perché questo sarebbe stato il meglio per lei. Ed ora, colpevole, osservava in silenzio quella foto, chiedendo tacitamente perdono per l’errore che aveva commesso. Non era stata solo una notte di passione, quella con Astrid, non un mero tentativo di riavere una parte dei bei ricordi che aveva lasciato andare. Era amore, quello, tanto forte da andare contro la sua morale, tanto travolgente da cancellare ogni traccia della sua ragione. Tanto disperato da averlo indotto a credere che fosse giusto. Amava Astrid, e non poteva essere così. Era questa la sua condanna, uno dei supplizi a cui gli dei lo avevano condannato. Si beavano essi, dei tormenti del falegname, che più aspirava alla felicità, e più sprofondava nel baratro. Non si era arreso, il suo cuore, come quello del poeta Orfeo, che sempre avrebbe amato la sua Euridice, anche dopo averla lasciata negli inferi.
    Un rumore di passi lo riscosse dai suoi pensieri, e lo indusse a voltarsi. Seppe di chi erano prima ancora che potesse cogliere i tratti del suo viso. La sua Heloise era lì, come un tempo, al cospetto di quegli uomini che tanto l’avevano amata e fatta soffrire. Non disse nulla, non ruppe il silenzio di quel luogo di pace. Semplicemente restò a guardarla, per un istante, e poi abbassò lo sguardo, recludendosi di nuovo tra le ombre che popolavano quegli inferi.
     
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    Astrid Heriksson | 24 years old | Nurse | sheet
    Asasa
    Si svegliò di soprassalto, come spesso accadeva da mesi. I suoi sogni non erano popolati da incubi bensì da immagini confuse, figure senza un volto preciso, voci anonime, qualche singhiozzo sommesso e, se possibile, tutto questo era ben più angosciante di un mostro. Aprendo i suoi occhi, Astrid si ritrovò un musetto umido e rosato che con delicatezza le sfiorava la guancia, il naso, le ciocche ramate. «Buongiorno Ulisse» sorrise, la voce ancora impastata, la mancina che languidamente carezzò la testolina del gatto sopra di lei. Da qualche mese i suoi risvegli erano così, con quel micio trovato per strada che ogni mattina l’annusava per svegliarla o si raggomitolava al suo fianco per godere un po’ del suo calore. Non vi era più Henrik e lo scrosciare della doccia che faceva prima di andare a lavoro o l’odore di omelette dolci che costituivano la sua colazione. In verità non vi era più neanche la villa, la camera da letto in stile minimal chic e le grandi finestre da cui era possibile scorgere il mare, calmo o in tempesta che fosse. I cambiamenti erano inevitabili e spesso necessari. Lo aveva imparato bene, Astrid, che ora viveva in un bilocale [x] ben arredato, situato poco lontano dal centro. Non credeva fosse adatto abitare ancora in casa sua e di Henrik, sia perché l’inglese era ormai in Inghilterra, sia perché lo aveva reputato poco coerente. D’altra parte, l’idea di vivere nella residenza di Marcus ancora le incuteva ansia e angoscia, per non dire terrore: quali ricordi avrebbero scatenato le sue stanze, i suoi oggetti e mobili? Non poteva saperlo e non voleva scoprirlo. Così, per non sperperare denaro inutilmente, aveva optato per un piccolo appartamento dotato di ogni necessità.
    Si sedette sul materasso, per metà ancora sotto le coperte. Ulisse si accucciò sul suo grembo, chiudendo gli occhi e iniziando con sommesse fusa da perfetto ruffiano, sperando di racimolare qualche coccola. Lei lo accarezzò nuovamente e volse lo sguardo al suo fianco. Vuota. L’altra metà del letto era vuota. Cosa si aspettava? Il fidanzato che aveva lasciato mesi prima –e tradito-? Il falegname? Più probabile la seconda. Non era soltanto il letto ad essere vuoto ma anche parte del suo cuore. Questa sensazione precipitava su di lei ogni mattina, ogni volta che apriva gli occhi smeraldini sperando di incrociare quelli blu di Ivar, addormentato al suo fianco. Forse voleva soltanto vivere un momento che le era stato negato, possibile soltanto nella sua mente. Dopotutto amiamo gli attimi che non abbiamo mai vissuto, la gente che non abbiamo mai incontrato. Amiamo il rimorso, i ricordi, la nostalgia. Amiamo ciò che poteva essere e non è stato perché solo così il mondo ci appare migliore, giusto.
    Sospirò, alzandosi dal letto e lasciando che Ulisse scivolasse via, balzando a terra. «Forza, andiamo a fare colazione» sorrise, una curva serena e piena di speranza. Per cosa, poi? Forse per la vita. Nonostante tutto, Astrid sperava in un futuro migliore, aspettando qualcosa di straordinario. Questo era il suo segreto per essere felice: credere in un domani bellissimo.
    Entrata in cucina, recuperò un cartone di latte e si piegò per riempire due ciotole a ridosso del muro. «Penelope?» chiamò. Un felino dal manto rossiccio sgattaiolò nel salotto, raggiungendo la cucina e Ulisse, già intento a nutrirsi. Ovviamente, nella sua visione romantica, Ulisse non poteva essere realmente Ulisse senza la sua Penelope. Che razza di motivo avrebbe avuto, altrimenti, per tornare ad Itaca? Senza l’amore, il grande viaggio di ritorno non sarebbe mai esistito. Nel mentre che i suoi gatti consumavano la loro colazione, Astrid si recò in bagno, spogliandosi ed entrando in doccia. L’acqua calda lavò via i cupi pensieri, i sogni confusi, ma nulla poté contro i ricordi dei baci di Ivar, il suo tocco delicato lungo la sua schiena, i loro corpi incastrati. Il vapore condensatosi sul soffitto non portò con sé la sensazione provata al risveglio, la tempesta ormai cessata, il sole a rischiarare il cielo e la sua assenza.

    Si svegliò, Astrid, per la prima volta senza essere preda di immagini confuse e tetre. Il sorriso che le increspava le labbra, involontario, era una conferma del suo essere serena e in pace con sé stessa. Pur dormendo, aveva percepito il calore di Ivar per molto tempo, magari persino accoccolata al suo fianco. Non ricordava, lei, che era sempre stata solita dormire abbraccia a lui, al suo corpo, alcune volte con le fronti congiunte o la testa sul suo petto, cullata dal battito del suo cuore. Non ricordava i risvegli dolci, i loro ‘buongiorno’ seguiti da baci morbidi e, in alcuni casi, anche qualche risata accompagnata da pizzichi sui fianchi o piccoli scherzi sdolcinati. Non ricordava gli attimi di calma che concludevano definitivamente le loro notti trascorse a fare l’amore e inauguravano un nuovo giorno. Il suo cuore sperò di rivivere tutto questo quella mattina ma non fu possibile. Aperti gli occhi, la francese lasciò vagare la mancina al suo fianco, scoprendo la metà del letto vuota. Ivar era andato via, lasciando solo coperte aggrovigliate e un cuscino spiegazzato. Rimase in silenzio, Astrid, fissando il soffitto, immersa nel silenzio della casa cadenzato soltanto dai rintocchi dell’orologio nel salotto. La sensazione di vuoto, di smarrimento, di mancanza, era talmente forte che non vi fu alcuna reazione in grado di esprimerla. Si passò le mani sul viso, ruotando su un fianco, dando le spalle al posto occupato prima da Ivar. Il telefonino sul comodino trillò, una, due, tre volte. Di sicuro Henrik voleva chiederle se andasse tutto bene e perché, improvvisamente, avesse smesso di rispondere ai suoi messaggi la sera prima. Chiuse gli occhi, lasciando l’apparecchio squillare. Ivar era andato, portandosi con sé un pezzetto del proprio cuore.

    Del falegname niente era rimasto, a parte il numero salvato in rubrica, i vari ricordi, la libreria con la scala tortile e il tavolo. Aveva portato soltanto quei due mobili nel suo nuovo bilocale, forse perché le davano l’illusione che lui fosse ogni giorno con lei. Di aver lasciato Henrik non se ne pentiva, anzi, ogni giorno era sempre più convinta di aver fatto la cosa giusta. A prescindere dal falegname, non poteva più essere fidanzata sapendo di aver provato attrazione –e avere persino avuto un rapporto fisico- per un altro uomo. Sarebbe stata una bugia e Astrid non aveva mai mentito a nessuno.
    Mentre imburrava la sua seconda fetta di pane tostato, pensava a come spendere il suo giorno libero. La risposta giunse quando, dopo aver lavato la tazzina da caffè, lo sguardo cadde sulla foto –l’unica- del padre, posata sul tavolinetto basso del salotto. Sorrise: sì, gli avrebbe proprio fatto visita.

    Uscendo di casa, raccomandò ai suoi gatti di fare i bravi e che presto sarebbe stata di ritorno. Ormai la trasformazione in zitella con la casa piena di mici era avviata, secondo Lois, le mancava soltanto una camicia da notte rosa, ciabatte di peluche e bigodini in testa. Che esagerazione. E se anche fosse andata a finire così? Meglio un gatto spumoso a un inglese con la r moscia, arrogante ed egocentrico.
    Anziché prendere la macchina, decise di camminare. Nonostante fosse ormai pieno inverno e le temperature rigide, quattro passi non le avrebbero fatto male. Dopotutto Besaid era una cittadina piccola, a differenza di Parigi che di certo non poteva spaccare a piedi. Tagliò per il centro e, involontariamente, passò dal negozio di Ivar, chiuso. Si, proprio involontariamente. Si fermò un attimo a fissare la saracinesca abbassata, chiedendosi se il falegname avesse ricevuto il suo piccolo pensiero.

    Era ormai abitudine fare colazione in una piccola caffetteria poco distante dalla ‘Wesenlund’s creations'. Quel giorno però, prima di recarsi in ospedale per iniziare il suo turno, ordinò un caffè d’asporto e chiese anche un pezzetto di carta. Con una penna, sul bancone del bar, scrisse un messaggio. Ringraziò il barista per la gentilezza ed uscì dal locale. Ferma dinanzi alla vetrina della bottega, stringeva il bicchiere caldo tra le mani, cercando di scorgere oltre il vetro e il suo riflesso la presenza di Ivar. Sarebbe stato meglio se non ci fosse stato, per poter lasciare il suo piccolo pensiero e andar via, fuggire come una ladra. Avrebbe così risparmiato l’imbarazzo di lui e di lei, che si sarebbe dovuta sperticare tra discorsi imbarazzanti e spiegazioni stupide. Per fortuna le sue preghiere furono ascoltate e, quando entrò nel negozio, il giovane era forse impegnato nel retrobottega. Grattò la testolina di un suo gatto, abbozzando un sorriso, lasciò il bicchiere di caffè e il biglietto sul bancone. Poi andò via in tutta fretta. Sul foglio era scritto:

    Perdona la mia piccola intrusione ma ti dovevo una colazione. Grazie per aver preso la mia stessa direzione, anche solo per una notte. Buon lavoro, Ivar’ e sotto un disegno fatto di suo pugno, una bottega storta con un Ivar stilizzato. Terribile, davvero terribile.


    Giunse al cimitero. Dal berretto di lana fuggivano sbarazzine ciocche ramate, sul viso pallido spiccavano le lentiggini e la punta del naso arrossata dal freddo, l’intero corpo tenuto caldo da un cappotto in panno di lana ricoperto da alcuni fiocchi di neve. I soffici cristalli cadevano copiosamente dal cielo, danzando in aria, incastrandosi tra le lunghe ciglia e depositandosi a terra. I suoi stivaletti neri iniziavano ormai ad affondare nel sottile strato di neve, presente anche sulle lapidi, tombe, cappelle ed alberi spogli. Il ricordo di Ivar –alquanto insistente quel giorno- pareva essere finalmente accantonato ma esplose nuovamente in lei quando la sua immagine si concretizzò davanti ai suoi occhi.
    Il falegname era lì, i suoi occhi blu, cupi e malinconici, spiccavano nel paesaggio candido e scavavano in lei con prepotenza. Si arrestò sul posto, il respiro bloccato, la mancina che strinse maggiormente un mazzo di fiori comprato dal fioraio del cimitero. Lui la osservò per un istante, poi abbassò lo sguardo, in silenzio. Lei deglutì a vuoto, percependo un dolore al torace non soltanto dato dal freddo pungente e aggressivo: altra causa era il proprio cuore, il battito accelerato e forte da sentirlo in gola. Si morse il labbro inferiore non sapendo cosa dire o fare. Optare anche lei per il silenzio o rompere il ghiaccio?
    «Te sei certo che er grande Traiano conquistò pure a sti vichinghi ?» «A Cesare, credi a me. Er grande pater patriae c’avrà anche costruito er pantheon da qualche parte » un tono grave e un accento poco norvegese irruppe, seguito da un altro altrettanto straniero. Due uomini attraversavano il cimitero, una sciarpa gialla e rossa stretta fino a coprire i nasi e un berrettino calcato sul capo con impressa la scritta “A magica Roma”. «A Besaid?» «Eccerto» Astrid li osservò andar via, sparire tra le diverse cappelle del cimitero, l’espressione un po’ confusa.
    Sospirò, una nuvoletta di condensa fuggì dalle sue labbra, e riportò l’attenzione su Ivar. «Buongiorno Ivar» mormorò con dolcezza e tono gentile. Lo raggiunse, portandosi al suo fianco. L’idea era di fingere che niente fosse successo ma con quale forza? In che modo incrociare i suoi profondi occhi oceanini e non perdersi in essi? Come dimenticare la notte trascorsa a fare l’amore? Le frasi banali che la sua mente aveva formulato –‘Che freddo fa oggi’; ‘Anche tu saluti qualcuno?’- morirono prima ancora di essere espresse. Abbassò lo sguardo, serrando le labbra e stringendo i denti. Tutto ciò che mormorò, dopo un lungo momento di silenzio, con un fil di voce, fu «Mi dispiace». E l'esile mano guantata cercò quella del falegname, sfiorandola appena.



     
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