Astrid Heriksson | 24 years old | Nurse | sheet Si svegliò di soprassalto, come spesso accadeva da mesi. I suoi sogni non erano popolati da incubi bensì da immagini confuse, figure senza un volto preciso, voci anonime, qualche singhiozzo sommesso e, se possibile, tutto questo era ben più angosciante di un mostro. Aprendo i suoi occhi, Astrid si ritrovò un musetto umido e rosato che con delicatezza le sfiorava la guancia, il naso, le ciocche ramate. «
Buongiorno Ulisse» sorrise, la voce ancora impastata, la mancina che languidamente carezzò la testolina del gatto sopra di lei. Da qualche mese i suoi risvegli erano così, con quel micio trovato per strada che ogni mattina l’annusava per svegliarla o si raggomitolava al suo fianco per godere un po’ del suo calore. Non vi era più Henrik e lo scrosciare della doccia che faceva prima di andare a lavoro o l’odore di omelette dolci che costituivano la sua colazione. In verità non vi era più neanche la villa, la camera da letto in stile minimal chic e le grandi finestre da cui era possibile scorgere il mare, calmo o in tempesta che fosse. I cambiamenti erano inevitabili e spesso necessari. Lo aveva imparato bene, Astrid, che ora viveva in un bilocale [
x] ben arredato, situato poco lontano dal centro. Non credeva fosse adatto abitare ancora in casa sua e di Henrik, sia perché l’inglese era ormai in Inghilterra, sia perché lo aveva reputato poco coerente. D’altra parte, l’idea di vivere nella residenza di Marcus ancora le incuteva ansia e angoscia, per non dire terrore: quali ricordi avrebbero scatenato le sue stanze, i suoi oggetti e mobili? Non poteva saperlo e non voleva scoprirlo. Così, per non sperperare denaro inutilmente, aveva optato per un piccolo appartamento dotato di ogni necessità.
Si sedette sul materasso, per metà ancora sotto le coperte. Ulisse si accucciò sul suo grembo, chiudendo gli occhi e iniziando con sommesse fusa da perfetto ruffiano, sperando di racimolare qualche coccola. Lei lo accarezzò nuovamente e volse lo sguardo al suo fianco. Vuota. L’altra metà del letto era vuota. Cosa si aspettava? Il fidanzato che aveva lasciato mesi prima –e tradito-? Il falegname? Più probabile la seconda. Non era soltanto il letto ad essere vuoto ma anche parte del suo cuore. Questa sensazione precipitava su di lei ogni mattina, ogni volta che apriva gli occhi smeraldini sperando di incrociare quelli blu di Ivar, addormentato al suo fianco. Forse voleva soltanto vivere un momento che le era stato negato, possibile soltanto nella sua mente. Dopotutto amiamo gli attimi che non abbiamo mai vissuto, la gente che non abbiamo mai incontrato. Amiamo il rimorso, i ricordi, la nostalgia. Amiamo ciò che poteva essere e non è stato perché solo così il mondo ci appare migliore, giusto.
Sospirò, alzandosi dal letto e lasciando che Ulisse scivolasse via, balzando a terra. «
Forza, andiamo a fare colazione» sorrise, una curva serena e piena di speranza. Per cosa, poi? Forse per la vita. Nonostante tutto, Astrid sperava in un futuro migliore, aspettando qualcosa di straordinario. Questo era il suo segreto per essere felice: credere in un domani bellissimo.
Entrata in cucina, recuperò un cartone di latte e si piegò per riempire due ciotole a ridosso del muro. «
Penelope?» chiamò. Un felino dal manto rossiccio sgattaiolò nel salotto, raggiungendo la cucina e Ulisse, già intento a nutrirsi. Ovviamente, nella sua visione romantica, Ulisse non poteva essere realmente Ulisse senza la sua Penelope. Che razza di motivo avrebbe avuto, altrimenti, per tornare ad Itaca? Senza l’amore, il grande viaggio di ritorno non sarebbe mai esistito. Nel mentre che i suoi gatti consumavano la loro colazione, Astrid si recò in bagno, spogliandosi ed entrando in doccia. L’acqua calda lavò via i cupi pensieri, i sogni confusi, ma nulla poté contro i ricordi dei baci di Ivar, il suo tocco delicato lungo la sua schiena, i loro corpi incastrati. Il vapore condensatosi sul soffitto non portò con sé la sensazione provata al risveglio, la tempesta ormai cessata, il sole a rischiarare il cielo e la sua assenza.
Si svegliò, Astrid, per la prima volta senza essere preda di immagini confuse e tetre. Il sorriso che le increspava le labbra, involontario, era una conferma del suo essere serena e in pace con sé stessa. Pur dormendo, aveva percepito il calore di Ivar per molto tempo, magari persino accoccolata al suo fianco. Non ricordava, lei, che era sempre stata solita dormire abbraccia a lui, al suo corpo, alcune volte con le fronti congiunte o la testa sul suo petto, cullata dal battito del suo cuore. Non ricordava i risvegli dolci, i loro ‘buongiorno’ seguiti da baci morbidi e, in alcuni casi, anche qualche risata accompagnata da pizzichi sui fianchi o piccoli scherzi sdolcinati. Non ricordava gli attimi di calma che concludevano definitivamente le loro notti trascorse a fare l’amore e inauguravano un nuovo giorno. Il suo cuore sperò di rivivere tutto questo quella mattina ma non fu possibile. Aperti gli occhi, la francese lasciò vagare la mancina al suo fianco, scoprendo la metà del letto vuota. Ivar era andato via, lasciando solo coperte aggrovigliate e un cuscino spiegazzato. Rimase in silenzio, Astrid, fissando il soffitto, immersa nel silenzio della casa cadenzato soltanto dai rintocchi dell’orologio nel salotto. La sensazione di vuoto, di smarrimento, di mancanza, era talmente forte che non vi fu alcuna reazione in grado di esprimerla. Si passò le mani sul viso, ruotando su un fianco, dando le spalle al posto occupato prima da Ivar. Il telefonino sul comodino trillò, una, due, tre volte. Di sicuro Henrik voleva chiederle se andasse tutto bene e perché, improvvisamente, avesse smesso di rispondere ai suoi messaggi la sera prima. Chiuse gli occhi, lasciando l’apparecchio squillare. Ivar era andato, portandosi con sé un pezzetto del proprio cuore. Del falegname niente era rimasto, a parte il numero salvato in rubrica, i vari ricordi, la libreria con la scala tortile e il tavolo. Aveva portato soltanto quei due mobili nel suo nuovo bilocale, forse perché le davano l’illusione che lui fosse ogni giorno con lei. Di aver lasciato Henrik non se ne pentiva, anzi, ogni giorno era sempre più convinta di aver fatto la cosa giusta. A prescindere dal falegname, non poteva più essere fidanzata sapendo di aver provato attrazione –e avere persino avuto un rapporto fisico- per un altro uomo. Sarebbe stata una bugia e Astrid non aveva mai mentito a nessuno.
Mentre imburrava la sua seconda fetta di pane tostato, pensava a come spendere il suo giorno libero. La risposta giunse quando, dopo aver lavato la tazzina da caffè, lo sguardo cadde sulla foto –l’unica- del padre, posata sul tavolinetto basso del salotto. Sorrise: sì, gli avrebbe proprio fatto visita.
Uscendo di casa, raccomandò ai suoi gatti di fare i bravi e che presto sarebbe stata di ritorno. Ormai la trasformazione in zitella con la casa piena di mici era avviata, secondo Lois, le mancava soltanto una camicia da notte rosa, ciabatte di peluche e bigodini in testa. Che esagerazione. E se anche fosse andata a finire così? Meglio un gatto spumoso a un inglese con la r moscia, arrogante ed egocentrico.
Anziché prendere la macchina, decise di camminare. Nonostante fosse ormai pieno inverno e le temperature rigide, quattro passi non le avrebbero fatto male. Dopotutto Besaid era una cittadina piccola, a differenza di Parigi che di certo non poteva spaccare a piedi. Tagliò per il centro e, involontariamente, passò dal negozio di Ivar, chiuso.
Si, proprio involontariamente. Si fermò un attimo a fissare la saracinesca abbassata, chiedendosi se il falegname avesse ricevuto il suo piccolo pensiero.
Era ormai abitudine fare colazione in una piccola caffetteria poco distante dalla ‘Wesenlund’s creations'. Quel giorno però, prima di recarsi in ospedale per iniziare il suo turno, ordinò un caffè d’asporto e chiese anche un pezzetto di carta. Con una penna, sul bancone del bar, scrisse un messaggio. Ringraziò il barista per la gentilezza ed uscì dal locale. Ferma dinanzi alla vetrina della bottega, stringeva il bicchiere caldo tra le mani, cercando di scorgere oltre il vetro e il suo riflesso la presenza di Ivar. Sarebbe stato meglio se non ci fosse stato, per poter lasciare il suo piccolo pensiero e andar via, fuggire come una ladra. Avrebbe così risparmiato l’imbarazzo di lui e di lei, che si sarebbe dovuta sperticare tra discorsi imbarazzanti e spiegazioni stupide. Per fortuna le sue preghiere furono ascoltate e, quando entrò nel negozio, il giovane era forse impegnato nel retrobottega. Grattò la testolina di un suo gatto, abbozzando un sorriso, lasciò il bicchiere di caffè e il biglietto sul bancone. Poi andò via in tutta fretta. Sul foglio era scritto:
‘Perdona la mia piccola intrusione ma ti dovevo una colazione. Grazie per aver preso la mia stessa direzione, anche solo per una notte. Buon lavoro, Ivar’ e sotto un disegno fatto di suo pugno, una bottega storta con un Ivar stilizzato. Terribile, davvero terribile. Giunse al cimitero. Dal berretto di lana fuggivano sbarazzine ciocche ramate, sul viso pallido spiccavano le lentiggini e la punta del naso arrossata dal freddo, l’intero corpo tenuto caldo da un cappotto in panno di lana ricoperto da alcuni fiocchi di neve. I soffici cristalli cadevano copiosamente dal cielo, danzando in aria, incastrandosi tra le lunghe ciglia e depositandosi a terra. I suoi stivaletti neri iniziavano ormai ad affondare nel sottile strato di neve, presente anche sulle lapidi, tombe, cappelle ed alberi spogli. Il ricordo di Ivar –alquanto insistente quel giorno- pareva essere finalmente accantonato ma esplose nuovamente in lei quando la sua immagine si concretizzò davanti ai suoi occhi.
Il falegname era lì, i suoi occhi blu, cupi e malinconici, spiccavano nel paesaggio candido e scavavano in lei con prepotenza. Si arrestò sul posto, il respiro bloccato, la mancina che strinse maggiormente un mazzo di fiori comprato dal fioraio del cimitero. Lui la osservò per un istante, poi abbassò lo sguardo, in silenzio. Lei deglutì a vuoto, percependo un dolore al torace non soltanto dato dal freddo pungente e aggressivo: altra causa era il proprio cuore, il battito accelerato e forte da sentirlo in gola. Si morse il labbro inferiore non sapendo cosa dire o fare. Optare anche lei per il silenzio o rompere il ghiaccio?
«
Te sei certo che er grande Traiano conquistò pure a sti vichinghi ?» «
A Cesare, credi a me. Er grande pater patriae c’avrà anche costruito er pantheon da qualche parte » un tono grave e un accento poco norvegese irruppe, seguito da un altro altrettanto straniero. Due uomini attraversavano il cimitero, una sciarpa gialla e rossa stretta fino a coprire i nasi e un berrettino calcato sul capo con impressa la scritta “A magica Roma”. «
A Besaid?» «
Eccerto» Astrid li osservò andar via, sparire tra le diverse cappelle del cimitero, l’espressione un po’ confusa.
Sospirò, una nuvoletta di condensa fuggì dalle sue labbra, e riportò l’attenzione su Ivar. «
Buongiorno Ivar» mormorò con dolcezza e tono gentile. Lo raggiunse, portandosi al suo fianco. L’idea era di fingere che niente fosse successo ma con quale forza? In che modo incrociare i suoi profondi occhi oceanini e non perdersi in essi? Come dimenticare la notte trascorsa a fare l’amore? Le frasi banali che la sua mente aveva formulato –‘Che freddo fa oggi’; ‘Anche tu saluti qualcuno?’- morirono prima ancora di essere espresse. Abbassò lo sguardo, serrando le labbra e stringendo i denti. Tutto ciò che mormorò, dopo un lungo momento di silenzio, con un fil di voce, fu «
Mi dispiace». E l'esile mano guantata cercò quella del falegname, sfiorandola appena.