Can't I just turn back the clock? Forgive my sins.

Helen x Jørgen

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    Era ormai passata una settimana dall'incontro tra Jørgen ed Helen. Dopo aver fatto l'amore, nessuno dei due si era prodigato per parlarne, probabilmente perchè l'evento era troppo fresco ed entrambi necessitavano di tempo per elaborarlo al meglio. Del resto, la donna aveva vissuto quella unione come un vero e proprio segno del fatto che il suo amore per il professore non si sarebbe mai estinto, e semmai, sarebbe diventato sempre più forte col tempo. Quel distacco non aveva fatto altro che chiarificare i suoi pensieri, facendola rinascere dalle ceneri di un sentimento che credeva parte del passato - consciamente, almeno. Ora che lei sapeva che Jørgen viveva anch'egli Besaid, una cosa era certa: avrebbe cercato di far parte della sua vita, se lui avesse voluto. Per questo, prima di congedarsi da lui la settimana precedente, la psichiatra decise di lasciargli il suo nuovo numero di telefono, in modo tale che lui la potesse contattare se avesse desiderato. Lei, dal proprio canto, anche se aveva cambiato cellulare un paio di volte per disguidi tecnici, aveva sempre tenuto il numero dell'uomo in rubrica; era un po' il suo modo di non cancellare completamente il legame che era sopravvissuto, dormiente, tra loro. Bastavano piccoli gesti, immagini, o sensazioni minime, per far sentire ad Helen la presenza di Jørgen; la sua personalità così solare, coinvolgente ed aperta al mondo sembrava avvolgerla sempre, non abbandonarla mai, ed ora che l'aveva rivisto e sentito, in carne ed ossa, lei aveva finalmente percepito un senso di completezza e di calore che mai con nessuno aveva provato ed avrebbe provato in futuro, e non se ne voleva separare - non voleva separarsi da lui.
    Eppure, Helen era una persona che amava porsi domande tanto quanto ricercarne le risposte. Da brava donna di scienza, non amava particolarmente le situazioni sospese, e avrebbe voluto fare tutto ciò che anni prima non aveva avuto il coraggio di portare avanti: dire a Jørgen dei suoi sentimenti, spiegargli come si era sentita quando aveva avvertito le sue mani e le sue labbra su di sè, fargli percepire il ritmo del suo battito cardiaco con le parole. Purtroppo, in Germania la paura l'aveva fermata, imponendole di preservarsi piuttosto che esporsi; ora invece, Helen aveva capito quanto preziosa potesse essere una seconda possibilità e non intendeva sprecarla. Sebbene lei sperasse con tutto il cuore di non sentire parole come "sono impegnato", o "mi dispiace, ma ormai è tardi", non si sarebbe più tirata indietro; voleva prendere in mano la situazione e gestirla con la stessa risolutezza con cui affrontava ogni altra situazione nella sua vita. Dunque, prendendo il cellulare senza più alcuna titubanza e deglutendo per darsi la spinta che serviva per buttarsi nella situazione, Helen digitò il numero di Jørgen, per poi mandargli un SMS - un po' anacronistico, ma voleva essere sicura che ricevesse il messaggio:

    Ciao Jø, se sei libero ti va di vederci in spiaggia, questo pomeriggio verso le 6? Vorrei parlarti.

    Scrisse la psichiatra, inviando il messaggio senza rileggerlo, senza pensare; voleva solo concedersi di sentire e basta, e per la prima volta con estrema onestà l'aveva fatto. Fiera di sè, la donna attese la risposta del suo vecchio amico, che per fortuna si rivelò essere positiva. Non le importava, del fatto che avrebbe dovuto restare di guardia in ospedale fino alle 20, i suoi poteri le avrebbero permesso di recarsi ad un appuntamento fin troppo urgente per lei. Per qualche momento, la donna si chiese come doveva sentirsi Jørgen nei riguardi di tutto ciò che era successo. Avrebbe voluto rivederla? Il sesso era stato un modo per dirsi addio o per ricominciare? Che cosa gli passava per la testa? Sospirando pesantemente, Helen si disse di conoscere il suo vecchio amico, ma non avrebbe mai avuto la presunzione di sapere quali realmente fossero i suoi sentimenti in una situazione così grigia come quella. Non c'era bianco, non c'era nero, solo tutte le sfumature che si frapponevano tra essi.
    Allora, sfilandosi il lungo camice bianco dalle spalle esili, le mani dalle unghie smaltate di blu matte di Helen appesero la stoffa chiara vicino alla porta del suo studio. Prima però, la donna soffermò il suo sguardo sulla figura identica alla propria che era ferma davanti a lei. Ormai, la psichiatra aveva fatto l'abitudine alla sua particolarità, a specchiarsi nei suoi stessi occhi, ricordandosi che non si trattava proprio di marionette nelle sue mani, ma di se stessa, solo fisicamente aumentata e sdoppiata. Sospirando pesantemente e sapendo che qualsiasi evento che sarebbe avvenuto in reparto, qualsiasi frase e qualsiasi movimento le sarebbe rimasto impresso nella memoria poichè li avrebbe compiuti lei e non una copia effimera, Helen si guardò nel piccolo specchio vicino al suo armadietto, in cui custodiva anche la borsa; il suo outfit era semplice: top bianco, corto ed estivo, ideale per stare freschi; un pantalone nero dalle linee morbide ma dritte nel drappeggio, ed un paio di sandali neri dalle forme lineari ed eleganti. Sistemandosi i capelli mossi e scuri leggermente con le dita per ravvivarli, la donna si voltò verso la sua "versione medico", che la osservava a braccia conserte sedendosi alla scrivania. Con un cenno del capo, Helen la salutò - strano, che sentisse l'esigenza di trattare se stessa come un'altra persona - e uscì di soppiatto dal suo ufficio in reparto, per poi sgattaiolare fuori dall'Ospedale, senza essere notata utilizzando un'uscita sul retro.
    Erano le cinque e mezza, e per fortuna la spiaggia non distava molto dall'ospedale, a piedi. Passo dopo passo, il cuore della psichiatra prese a battere più veloce, inducendola ad accelerare il suo incedere; l'impazienza cresceva, ed assieme ad essa un senso di trepidazione che le riscaldava il cuore. Avrebbe rivisto Jørgen, si sarebbe specchiata nuovamente in quegli occhi azzurri come sorgenti ed avrebbe visto se stessa attraverso quelle iridi, nonostante non sapesse ancora sotto quale forma. Amante, amica, ricordo? Non ne era certa, tuttavia, Helen sapeva che avrebbe dovuto esprimere i suoi sentimenti, aprirsi a Jørgen tanto quanto lui aveva fatto in passato, e permettergli di leggerle dentro, seppur fosse solo per permettergli di guardare dentro la sua confusione. Eppure, la rischiara non si sentiva per nulla confusa stavolta. Sapeva cosa dire, ed anche se l'emozione l'avrebbe fatta inciampare tra le parole, lei avrebbe fatto capire in tutti i modi a Jørgen che avrebbe voluto viverlo, che avrebbe voluto recuperare il tempo perduto con lui, e dirgli che l'avrebbe amato al meglio, regalandogli tutto ciò che lui aveva avuto modo di darle anche con un solo bacio una settimana prima. Togliendosi le scarpe una volta arrivata in spiaggia e reggendole in due dita dal cinturino, la donna iniziò a camminare, avvicinandosi alla riva, dove trovò l’amico già lì, in anticipo. Il fantasma di un sorriso si manifestò sulle labbra della dottoressa, che allungò una mano verso il pezzo mancante del suo cuore, posando il palmo sulla spalla dell'uomo a cui apparteneva, ad un passo dal mare. Ora era lì, non ci sarebbe stato modo di tornare indietro - potevano solo andare avanti, insieme o separati, sarebbe stata una scelta del professore. Ciao, Jø.

    Can't I just turn back the clock?
    Forgive my sins
    I just wanna roll my sleeves up
    And start again
    I know that I messed it up
    Time and time again
    I just wanna roll my sleeves up
    And start again.

     
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    Ciao Jø, se sei libero ti va di vederci in spiaggia, questo pomeriggio verso le 6? Vorrei parlarti.
    Immaginò le dita di Helen premere con fretta, forse un po’ di incertezza, sullo schermo touch del proprio telefono. Aveva avuto la sua immagine dinanzi agli occhi, riuscendo ad immaginare ogni suo piccolo movimento, un guizzo di indecisione nello sguardo dolce della donna. Forse ci aveva pensato e ripensato, prima di poter decidere di farsi effettivamente avanti con lui, ancora una volta. Avevano trascorso un momento di passione insieme, del tutto indimenticabile anche per Jørgen, il quale mai si sarebbe aspettato di averla lì, nella propria città natale. Il destino li aveva riuniti, di questo lui ne era certo: era impossibile che il tutto fosse solo frutto di una stupida ma fortuita coincidenza, e le cose da quando lei aveva rimesso piede nella vita dell’uomo sembravano essere cambiate, migliorate da un punto di vista e peggiorate da un altro; in meglio per via della felicità che aveva sentito dentro se stesso nel trovarsela nuovamente faccia a faccia, sguardo dentro sguardo. In peggio poiché, sì, lei aveva creato scompiglio, lasciando in lui quella paura che gli mordeva i tessuti dello stomaco, rendendolo agitato, impaziente di capire e di fare. Aveva risvegliato in lui un vecchio animale dormiente, quello che da lei avrebbe voluto ben altro, che amicizia. E forse, per come effettivamente sembravano essersi evolute le cose, lei avrebbe desiderato lo stesso. Eppure, quel messaggio sul display del suo telefono preistorico non sembrava ancora avere una forma precisa: di cosa avrebbe voluto parlargli? Avrebbe nuovamente messo quei tanto odiati paletti che un tempo sembravano averlo allontanato a forza da lei? Per fortuna, Jørgen aveva maturato un animo più pacato di quanto mai avesse goduto, e quelle parole l’una in fila dietro l’altra erano più che altro una sorta di sfida, qualcosa che avrebbe dovuto spingerlo a scoprire altri lati di se stesso: come avrebbe reagito a ciò che lei avrebbe voluto comunicargli? Lo avrebbe scoperto solamente incontrandola. Dunque le aveva risposto dopo essersi riservato più di qualche minuto per pensare minuziosamente a ciò che avrebbe voluto dirle, finendo con lo scriverle solamente un Ci vediamo lì.

    Fino al momento in cui aveva fatto il proprio ritorno a Besaid, Jørgen non aveva mai saputo quanto il mare gli fosse mancato. Non appena aveva compiuto i primi passi su quella spiaggia, sebbene ci fosse passato tanti anni prima, una sensazione di appartenenza a quel luogo si era fatta viva dentro, nel centro del petto e sotto i piedi. Come allora, Jørgen passeggiava lentamente assaporando la sensazione dell’acqua fresca solleticargli la cute, lasciando che le piccole e lievi onde marine di quel tardo pomeriggio potessero infrangersi contro le sue gambe possenti, sommergendone invece i piedi. Muoveva appena le dita, impastando nella sabbia bagnata e lasciando impronte, passo dopo passo. Indossava abiti semplici, come al solito; una t-shirt bianca e fresca che sovrastava un paio di jeans chiari, il cui tessuto era ripiegato fino alle ginocchia. I capelli spettinati si libravano con lentezza al vento, scompigliandosi appena più del solito e donandogli un’aria del tutto bizzarra, di cui continua a non curarsi mai troppo. Amava essere ciò che il destino aveva detto lui di essere, e raramente avrebbe pensato di dover modificare qualcosa di se. Lasciò quindi che lo sguardo si adagiasse sulla superficie dell’acqua, seguendone le curve e perdendosi nel punto in cui il mare si incontrava con il cielo, così lontano da sembrare quasi irraggiungibile. Un tempo aveva visto altri orizzonti, ben diversi da quello norvegese, e ne ricordava ognuno di essi: era l’insieme di quelle linee perfette in fondo agli occhi che si erano miscelate e avevano formato ciò che era in quell’istante. Non aveva idea del prima, di quando la voce dei suoi genitori aveva avuto importanza, lui conosceva solo il dopo, e cioè le scelte che aveva compiuto con la propria testa, le difficoltà che aveva superato contando su se stesso. Era tutto, Jørgen, anche l’insieme delle persone che aveva incontrato. Helen però, gli aveva donato qualcosa che non aveva mai più ritrovato in nessuno, così come -ne era certo- aveva fatto Janine quando lui era stato solo un bambino, desideroso di scoprire, guardare oltre, capire ciò che in realtà forse non avrebbe mai potuto comprendere. E sulle note dell’acqua che, lentamente, s’infrangeva contro gli scogli appena più lontani da lui e dalla sabbia fredda che calpestava in quel momento, il professore ripensava a quanto aveva vissuto e si sentiva pieno e sì, inevitabilmente contento.
    Ciao, Jø. - una voce familiare alle sue spalle, un tono dolce e sincero che non aveva avuto modo di udire per tanto tempo e che gli era mancato come la luce del sole durante un giro nelle tenebre. Si voltò, posando lo sguardo chiaro e curioso sul volto dell’amica, la quale sembrava essere ancor più bella di quanto potesse fargli rimembrare la sua memoria. Ne avvertì il tocco leggero sulla spalla, andando a coprirne la forma con la propria mano, stringendo quindi quella di lei, ben più piccola e sottile. «Hel.» la chiamò lui, di risposta. Abbreviativi che erano stati abituati ad usare anni prima, mentre avevano condiviso un appartamento nel centro di Francoforte. Ricordava benissimo il momento in cui aveva capito che sarebbe stata lei, la compagnia perfetta che avrebbe potuto supportare quel suo viaggio, quello spostamento alla ricerca del posto giusto, in Germania. Monaco era stata la tappa iniziale, il suo trampolino di lancio e la fase della distruzione post-adolescenziale. Aveva conosciuto una miriade di persone di cui neanche ricordava più ogni singolo nome, e fra quelle era spiccata lei; non aveva capito il perché, ma aveva sentito sin da subito una sorta di affinità, un legame incompreso che non aveva voluto spezzare e che lo aveva spinto, quindi, a proporle la folle idea di andare altrove, oltre. E lei, forse più spavalda di lui, gli aveva anche detto di sì. Non ci avevano messo molto a sbattere ogni cosa in valigia e mettersi in macchina, alla ricerca forse di un punto fisso nella loro vita. Lo avevano anche trovato, per un po’, credendo forse che quello sarebbe stato il loro destino. E allora Jørgen le aveva raccontato per la prima volta di sé, per davvero: si era aperto con lei, le aveva confidato i suoi dubbi riguardo le proprie reali origini, le aveva mostrato il diario e aveva cercato la sua comprensione, aveva cercato risposte in lei che -invece- avrebbe dovuto trovare in se stesso. E forse era stato quel distacco a rompere il legame, per un po’. Questo Jørgen non avrebbe potuto saperlo, ma averla lì in quel momento era solamente la realizzazione di quelle certezze che per tanto tempo aveva cercato. Lei sapeva, lei credeva, lei viveva ciò che un tempo erano state solo parole scritte in un diario di colore verde, privo forse di veri significati. «Hai scelto il mare.» affermò, voltandosi completamente verso di lei ed indicando l’acqua a pochi passi da loro. Uno dei luoghi al quale avrebbe difficilmente rinunciato, se mai fosse dovuto andare via nuovamente dalla città. Sperava, dentro di sé, che mai avrebbe dovuto legare quelle immagini al ricordo di un nuovo addio. «Di fronte a tanta bellezza non ci si dovrebbe spezzare continuò l’uomo, sussurrando. Spezzare, una parola che da giorni sembrava frullargli nella testa, incontrollabile. Non avrebbe mai potuto spezzarsi fisicamente, questo non gli sarebbe stato possibile, ma ricordava ancora il dolore di quando aveva perso Helen per la prima volta e non era riuscito a dargli altro nome, altro sinonimo. Si era sentito spezzato, in due, come se si fosse ritrovato con due parti del suo corpo incapaci di comunicare ancora. Ecco il perché di quel termine, ecco il motivo dell’ombra scura nei suoi occhi. Non aveva idea del perché, non aveva idea di come avrebbe potuto ribattere ad un suo possibile rifiuto, ma la luce che lei emanava su di lui era qualcosa a cui non avrebbe mai voluto rinunciare. Il top bianco ne avvolgeva il busto con eleganza, così come i pantaloni neri sembravano esser atti su misura per lei. Era così diversa da lui, Helen, che Jørgen non faceva altro che pensare a quanto avrebbe potuto apprendere dalla sua mente, dalle sue parole, dal suo modo di essere e di fare, da quello scegliere accuratamente ogni indumento, a differenza sua che invece non avrebbe mai compreso per davvero che il nero assieme al blu non sempre è giusto abbinarlo. (?) Pensava solamente, Jørgen, che non aveva trascorso ancora abbastanza tempo con la donna che aveva di fronte in quel momento e che, forse, non ne avrebbe mai avuto la possibilità, dopo tutto. Sarebbe comunque stato disposto ad accettare ogni decisione, ogni parola. Non avrebbe fatto altro che assecondare i voleri di Helen, provando ad essere ciò di cui lei avrebbe avuto bisogno, a prescindere da ogni cosa. «Ho qualcosa per te.» le disse, sorridendo. Abbassò una delle mani ed estrasse dalla tasca posteriore dei jeans un piccolo post-it di un giallo appena scolorito e sgualcito. Lo avvicinò al proprio viso in un primo momento, leggendo ancora una volta ciò che vi era scritto a penna: ”Daß etwas schwer ist, muß ein Grund mehr sein, es zu tun.” - “Che qualcosa sia difficile deve essere un motivo in più affinché la si affronti.” - una piccola poesia di Rainer Maria Rilke, scritta velocemente su un post-it rimasto appeso al frigo in cucina per la maggior parte del tempo che entrambi avevano trascorso nella loro casa a Francoforte. Non aveva avuto il coraggio di gettarlo via, Jørgen. Gli aveva dato forza all’inizio, quando ancora tutto sembrava essere solo un grande punto interrogativo. L’aveva letta nel mezzo di un murales fra le vie malconcia di Monaco, vicino alla stazione, e si era chiesto da subito cosa potesse significare. Una frase che gli era rimasta impressa, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. E in quel momento era ancora lì, ferma fra le sue mani come a volergli ricordare di non fermarsi, di non arrendersi mai davanti a nulla. «L’ho conservato.» disse, allungando la mano in sua direzione e porgendole il pezzetto di carta. Sperava ne ricordasse la provenienza, soprattutto perché era stata lei a tradurgli ciò che Jørgen avrebbe voluto comprendere, quando ancora il tedesco sembrava una delle lingue più incomprensibili del pianeta, per lui. Tornò a guardarla in viso, appena prima di spostare lo sguardo oltre di lei e lasciare quindi che le labbra si chiudessero lentamente, di nuovo, cancellando l’ombra di quella contentezza che fino a poco prima aveva avvertito dentro di sé. Una donna alle spalle di Helen e a qualche metro da loro lo stava osservando. Ne riconobbe immediatamente i lineamenti, riconoscendo in quello sguardo qualcosa di proprio. Restò immobile per qualche secondo, il professore, respirando appena più profondamente e velocemente di quanto avvenisse normalmente. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato, prima o poi, e in un certo senso faceva parte di una delle sue vergogne: non aveva ancora avuto il coraggio di far visita ai suoi genitori, sebbene fosse in città da più di qualche mese abbondante. E in quel momento, oltre alla presenza di Helen, quella di sua madre e suo padre, dopo dietro di loro, sembrò devastarlo del tutto e per la prima volta, dopo parecchio tempo. Incrociò lo sguardo della donna, sperando che suo padre, accanto a lei, non si accorgesse della sua presenza. Erano passati circa quindici anni dall’ultima volta in cui li aveva visti, e sebbene lui fosse l’unico dei tre a non ricordare nulla di quei giorni, il suo corpo, il suo stomaco, lo avevano avvertito che lì, oltre la figura adorabile della donna che amava, c’erano le due persone che lo avevano messo al mondo e dal quale aveva voluto separarsi, accettando di dimenticare. Da quando era tornato, ci aveva provato: aveva circuito la casa dei genitori, lungo tutto il perimetro esterno, provando ad immaginare a come potesse essere parlare di nuovo con loro, rinunciare all’orgoglio e farsi avanti, cancellando forse tutto ciò che lo Jørgen immaturo aveva fatto. Non. Aveva idea di ciò che era accaduto con precisione, sapeva solamente di aver chiuso ogni questione, aver spezzato ogni legame, senza neanche provare a trovare un appiglio, qualcosa che avrebbe mai permesso lui di tornare da loro. E mentre osservava gli occhi di sua madre riempirsi di lacrime, in lontananza, ogni parola sembrava essersi persa nel vuoto di un eco tra mille domande incompiute, senza risposta. Fu un attimo che sembrò durare un’eternità, quello in cui gli occhi di lei si incrociarono a quelli chiari del figlio, tanto simili ai suoi, tanto che la donna capì contro ogni previsione, chi aveva davvero davanti in quel momento. Suo padre la teneva per mano, continuando a non accorgersi di cosa invece la compagna sembrava appena aver notato. Fu solo in quel momento che, ritirando la mano da quella del marito, la donna fece qualche silenzioso passo nella direzione di Jørgen ed Helen, fermandosi a pochi passi da loro. Congiunse le mani all’altezza delle labbra, coprendole e lasciandosi andare ad un lieve pianto sommesso. I capelli ormai lunghi e bianchi erano legati in una coda smorzata. Il corpo magro avvolto in una giacca a vento leggera, adatta per quel periodo ed una passeggiata in riva al mare. Suo padre, invece, indossava -così come Jørgen lo aveva spesso immaginato- una camicia azzurra e un pantalone nero, su di essi una giacca scura andava a coprirne le spalle appena incurvate dalla vecchiaia. Guardava la donna, non comprendendo cosa stesse realmente accadendo. Ne incrociò per un momento lo sguardo, Jørgen, incapace di muoversi, di parlare. Era tutto così veloce, eppure sembrava che quei secondi non passassero mai. Avrebbe dovuto dare una spiegazione ad Helen, nel mezzo di quell’inaspettato ritrovo, eppure on avrebbe mai voluto confessarle quella parte negligente di se stesso, quella parte che lo aveva spinto a tornare e non farsi comunque mai vedere dalle due persone che lo avevano messo al mondo. Non vi erano parole sognanti o tristi nel suo diario, riguardo ai due. Non aveva ormai neanche più il ricordo di come si chiamassero, non vi erano nomi fra quelle pagine, e per qualche istante il suo cuore scivolò altrove, giù nello stomaco, pronto per essere stropicciato da quell’agitazione che da tempo non aveva riconosciuto. «Helen, credo che…» cominciò, in un sussurro, provando a restare composto, provando a spiegare a se stesso che non avrebbe dovuto lasciare il via alle lacrime, malgrado odiasse scacciare via le proprie emozioni. «Jørgen?» fu la voce di sua madre a spezzare quel silenzio. Il tono incerto, preda di un leggero singhiozzo, pronto a cedere al pianto di una madre.
    Cercò lo sguardo di Helen, il professore, tornato bambino per qualche istante.

    The honey bin
    The bunny's in
    Is telling you there's a countdown
    Oh, damn your eyes

     
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    Azzurro. Era quello, il colore che dominava lo splendido mare cristallino di Besaid, che si estendeva in tutta la sua grandezza davanti ad Helen; ma ancor più limpidi e meravigliosi erano gli occhi di Jørgen, che accarezzarono i lineamenti della donna non appena egli si voltò. Sarebbe stato banale, associare quelle splendide iridi al colore delle onde, eppure in esse Helen rivedeva tutta la potenza, la forza, la fragilità e l'accoglienza che l'acqua di Besaid offriva, avvolgendole i piedi affusolati nel suo abbraccio, con la stessa tenerezza con cui l'uomo l'aveva stretta a sè una settimana prima. Quegli stessi anelli cerulei si fermarono incuriositi sul volto della dottoressa, che non accennò a sollevare la mano da quella spalla, come se restare in contatto con il corpo di lui le desse conforto e coraggio. Era bellissimo, Jørgen. Possedeva, oltre al suo immancabile fascino maschile da nordico, anche una inspiegabile energia, che attraeva Helen come fosse una falena alla luce. Lui era libero, saggio, confidava in sè e nelle sue emozioni, sapeva ascoltarsi; era una di quelle rarissime persone sempre pronte a mettersi in gioco, a vivere e a non perdere neanche un attimo della loro esistenza. Jørgen era l'unico che avrebbe sempre e comunque avuto il cuore di Helen, di cui avrebbe visto ogni crepa e vulnerabilità, l'unico che avrebbe potuto distruggerla e al tempo stesso farla rinascere con un solo sguardo. La mano più ampia di lui, che irradiava un tepore familiare, si appoggiò su quella della donna, e sulle labbra di lei si dipinse un sorriso intenerito. Ormai non aveva più paura; avrebbe svuotato il suo cuore, e avrebbe finalmente rivelato la sua verità all'uomo di cui era innamorata. Glielo doveva, e lo doveva anche a se stessa. «Hel.» La voce più grave di Jørgen accarezzò l'udito della dottoressa, che mantenne il suo dolce sorriso, mentre ascoltava il suo nome uscire dalle sue labbra come se non fosse passato neanche un secondo dai giorni felici di Francoforte. Quando i due si erano distaccati, era evidente che non fossero sulla stessa lunghezza d'onda; Jørgen era arrivato a sviluppare se stesso in un modo in cui Helen doveva ancora elaborare, e solo dopo anni, ora lei riusciva a sentire e a capire - solo ora aveva imparato da lui cosa significasse abbracciare le proprie emozioni appieno.
    «Hai scelto il mare.» Asserì il professore, quieto, mentre Helen con calma intrecciò le dita alle sue, in un gesto naturale e misurato. Già prima di parlargli dei suoi sentimenti, la donna aveva intenzione di comunicare a Jørgen di non volerlo abbandonare, usando un linguaggio silenzioso ma altrettanto efficace. Annuendo, senza proferire parola, la psichiatra posò lo sguardo sul suo amato. Non avrei mai fatto altrimenti. Rispose lei, con un tono sommesso, come se stesse rivelando un segreto, che si infranse nella brezza marina della spiaggia. Effettivamente, Helen non si stava riferendo al mare in senso fisico, ma a quello che aveva davanti, che si increspava in piccole rughe d'espressione, sguardi attenti e labbra carnose; avrebbe sempre scelto lui. «Di fronte a tanta bellezza non ci si dovrebbe spezzare Commentò Jørgen, con lo stesso tono sussurrante. Abbassando lo sguardo e stringendo lievemente di più la sua mano, Helen riportò con fierezza i suoi occhi verdi sul volto dell’altro. Io credo, invece, che una bellezza simile non possa che ricomporci. Rispose allora lei, collegandosi nuovamente a lui piuttosto che al paesaggio mozzafiato che si ergeva di fronte a loro. Il dolce professore aveva finalmente completato il puzzle della vita di Helen, che per troppo tempo aveva vissuto tranquilla ma con un vuoto dentro, latente nel suo cuore. Prima o poi, e lei ne era convinta, avrebbe ripreso la cornetta in mano ed avrebbe tentato il tutto per tutto, ricontattando Jørgen. Eppure, la vita l'aveva battuta sul tempo, costringendola ad affrontarlo prima del previsto, ma proprio per questo, nel momento più giusto. Era ora che contava, ora che avrebbe dovuto fargli capire che non se ne sarebbe andata, non stavolta. Sospirando il più silenziosamente possibile, la donna sperava in tutti i modi di poter attrarre a sè la forza che le serviva per esporsi completamente agli occhi del suo amato, ed anche per ricevere con comprensione ogni sua risposta. Era in pace, Helen, ora che aveva abbracciato il volere del suo cuore; anche se Jørgen glielo avesse involontariamente spezzato, dicendole che non ricambiava più i suoi sentimenti, la donna lo avrebbe affiancato sempre. Non pretendeva che lui avesse più spazio e tempo da dedicare a lei, anzi, riteneva di essere estremamente fortunata anche solo avendo la possibilità, dopo tutti quegli anni, di concedersi una passeggiata sulla spiaggia con quella creatura tanto straordinaria.
    «Ho qualcosa per te.» Inaspettatamente, quelle poche parole riuscirono a sorprendere Helen. Davvero, Jørgen avrebbe voluto darle qualcosa? Le aveva già dato tutto, le aveva già donato il suo amore, il suo corpo, la sua intelligenza, in uno scambio che all'inizio la donna non aveva compreso nella sua interezza. Ora, toccava a lei ricambiare e fare tesoro di ciò che aveva ricevuto. Eppure, la generosità del professore era infinita, e con lo sguardo pieno di amore, la dottoressa portò gli occhi nei suoi, inclinando appena il volto in segno di curiosità. Non dovevi.. Mormorò lei, già pericolosamente vicina alla commozione, mentre lasciò con calma scivolare via le dita da quelle della mano di Jørgen per permettergli di muoversi più agilmente. Non appena lui tirò fuori dalla tasca dei jeans quel post-it ingiallito e segnato dal tempo, Helen capì immediatamente di cosa si trattasse, ed i suoi occhi si velarono di un sottile strato di lacrime, destinato ad inspessirsi. ”Daß etwas schwer ist, muß ein Grund mehr sein, es zu tun.” Era questo, il messaggio che lei non aveva saputo onorare anni prima, evitando di affrontare l'amore che provava per Jørgen, decidendo di preservare se stessa e precludersi qualcosa che sarebbe stata meravigliosa. Portandosi una mano alle labbra per qualche secondo prima di riabbassarla, la dottoressa sollevò leggermente gli occhi al cielo, tentando di limitare la fuoriuscita delle lacrime, ormai quasi impossibile. Avrebbe dovuto affrontare le sue emozioni, che per quanto enormi e difficili di gestire, l'avrebbero portata a Jørgen - l'avrebbero portata alla felicità. Quella frase non l'aveva mai abbandonata, ed era stata proprio quella breve poesia ad ispirare le azioni che la donna aveva compiuto quel giorno. Doveva affrontare il suo amato, e rivelargli una volta per tutti i suoi sentimenti - a prescindere dalle conseguenze. Forse, sarebbe stato un gesto egoista, ed era proprio da questo che Helen era spaventata: non avrebbe mai voluto portare via da Jørgen una serenità che aveva conquistato con fatica, specialmente se avesse avuto un'altra donna al suo fianco. «L’ho conservato.» Prendendo il piccolo pezzo di carta in mano, la dottoressa lo strinse appena tra le dita, sorridendo grata all'uomo che aveva di fronte. Grazie, non sai quanto... Grazie. Iniziò, dando voce al primo sentimento che si era fatto strada nel suo animo in quei momenti. Io... Jørgen... Continuò lei, schiarendosi la voce, rotta dall'emozione, mentre esordiva nella domanda che le avrebbe permesso di capire davvero come proseguire. Devo assolutamente chiederti se tu ultimamente- La voce della donna, tuttavia, si interruppe, nel momento in cui vide l'espressione dell'uomo che era di fronte a lei cambiare. Sembrava essere turbato, sempre di più, come se avesse visto un fantasma. Aggrottando le sopracciglia qualche istante, mentre si passava velocemente una mano sotto gli occhi per asciugare le lacrime, Helen capì che l'attenzione di Jørgen era stata monopolizzata da qualcosa - o qualcuno - dietro di lei. Fu allora, che si voltò.
    La persona che la psichiatra ebbe modo di osservare non era quella che si aspettava; era sicura che si sarebbe trattato di una donna che Jørgen frequentava, eppure non avrebbe mai reagito in quel modo; lui riusciva sempre a mantenere un'attitudine rilassata anche in una situazione simile. Difatti, lo sguardo silvano della dottoressa si fermò sulla figura di una signora un po' attempata, che passeggiava sulla spiaggia assieme a suo marito. Non ci volle molto, prima che Helen ricongiungesse i pezzi: sapeva, che Jørgen aveva interrotto il suo rapporto con i genitori perdendo memoria di loro. Tuttavia, adesso che anche lei viveva a Besaid, la dottoressa era ben consapevole del fatto che non si trattasse di qualche trauma celebrale, ma della maledizione che la cittadina infliggeva ai suoi abitanti. Dunque, nonostante lui non fosse pienamente sicuro del fatto che si trattasse di sua madre, doveva necessariamente aver sentito qualcosa, doveva aver avvertito il legame che li univa. Era come se, per qualche eterno secondo, Jørgen fosse stato in apnea. Mentre lui formulava le sue consapevolezze, Helen si preoccupò di ancorare l'uomo alla realtà, agguantando una delle sue mani ed avvolgendola in entrambe le proprie, carezzandone lentamente il dorso con i pollici. In tensione, il professore non emise alcun suono, iniziando un difficile contatto visivo con sua madre, che man mano iniziò anche lei a rendersi conto della presenza del figlio lì, a pochi metri da lei. Mentre il marito sembrava essere quasi imperturbabile nei riguardi di ciò che stava accadendo, lei commossa si avvicinò con esitazione al corpo di quello che senza dubbio era il suo bambino - ora adulto, un uomo che stava vivendo la sua vita e che per farlo aveva dovuto abbandonare i ricordi della sua casa e della sua famiglia. Solo quando fu a pochi metri da Helen e Jørgen, la donna si lasciò andare ad un pianto liberatorio, silenzioso. Fu allora, che il professore brevemente intercettò lo sguardo del padre, che si rese conto solo in quei momenti della persona che aveva davanti. Allontanando una mano da quelle di Jørgen, Helen la portò sulla sua schiena ampia, lasciandovi una carezza. Voleva fargli capire che non ci sarebbe stato bisogno di parole e spiegazioni; lei era lì, al suo fianco, in un momento inaspettato che nessuno avrebbe potuto prevedere e che aveva evidentemente colpito tutti i membri della famiglia Haag. «Helen, credo che…» Esordì il professore, in un mormorio incerto, cercando di dare un senso a quel che stava succedendo. La donna lo guardò, mentre continuava ad accarezzargli la schiena. Io sono qui per te. Furono le uniche parole che uscirono piano dalle labbra di Helen, e le uniche che le premeva far arrivare all'udito dell'uomo. Aveva inquadrato la situazione, e ora intendeva supportare Jørgen mentre essa si sviluppava come avrebbe dovuto. Neanche qualche istante dopo, in lacrime, la madre di lui fece un passo avanti. «Jørgen?» Una volta che ebbe identificato suo figlio, la signora si avvicinò, e al tempo stesso la dottoressa fece un passo indietro, distaccandosi con calma da Jørgen. Portando una mano sul volto di lui, la donna ne accarezzò una guancia, rivedendo gli stessi occhi del bambino che aveva amato più di ogni altra persona al mondo. «Sei tu, bambino mio.» Sussurrò lei, con sommesso entusiasmo, prima di portare entrambe le braccia attorno al torace del professore, per stringerlo in un forte e dolce abbraccio materno. Sospirando leggermente e con gli occhi colmi di amore e premura, Helen si soffermò ad osservare i due per accertarsi del benessere dell’amato, per poi spostare lo sguardo sul padre di Jørgen, che estrasse dalla tasca dei pantaloni un taccuino ed una piccola penna, su cui scribacchiò qualcosa. Dopodichè, egli strappò un foglietto e ripose il resto. Dopo qualche lungo minuto, la signora slacciò la presa su suo figlio, prendendogli il volto tra le mani e sorridendo teneramente. Finalmente sei tornato. Sei a casa. Constatò lei, per poi venire affiancata da suo marito, che osservò Jørgen per qualche istante, prima di porgergli affabilmente la piccola nota che aveva scritto. Qui c'è scritto il nostro indirizzo. Aggiunse lui, immettendosi senza problemi in quella breve discussione. Vienici a trovare al più presto, ti prego. Lo anticipò la moglie, per poi prendere una mano al figlio e stringerla brevemente nelle proprie, dal tocco delicato e soffice. Nel guardare i tre, Helen strinse leggermente di più il post-it che aveva in mano. “Che qualcosa sia difficile deve essere un motivo in più affinché la si affronti.”, così recitava la poesia, e lei aveva una chiara idea di cosa volesse dire avere paura di affrontare qualcosa di terribilmente complesso, come la perdita di un amore o, in tal caso, di una famiglia. Jørgen aveva avuto i suoi motivi per non raggiungere a suo tempo i genitori, ed ora aveva la possibilità di affrontare le sue emozioni a riguardo. Era arrivato il momento, per entrambi, di andare avanti.
     
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    I’m falling apart, I’m barely breathing. With a broken heart.

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    Sapere della presenza di Helen a Besaid era stato come tornare a casa, nel senso più completo al quale lui potesse pensare. Rivedere quegli occhi verdi e riconoscere in essi una parte di ciò che era stato, lo aveva semplicemente riportato al momento in cui tutto era iniziato. Avvenimenti susseguitisi per caso, fino a spingerli alla condivisione di un appartamento, di un piatto, di un sentimento allora ingestibile. Si erano affiancati, l’uno forse con il passo più svelto dell’altro, e avevano smezzato una fetta di vita importante per entrambi, tanto da portarli -nel giro di qualche anno- nuovamente insieme. La sua vicinanza al mare e alla figura slanciata di Helen, gli riempì il cuore di onde emozionali, sentimenti viandanti che, seppur avendo girovagato per diverso tempo senza una precisa meta, riuscivano a regalargli adesso una sorta di stabilità che avrebbe portato sempre e solo un nome, e cioè quello della donna che aveva di fronte in quel preciso istante. Non avrei mai fatto altrimenti. gli aveva risposto lei, marcando il fatto che non potesse esserci niente di sbagliato in tutto quello che stavano vivendo, lasciandocisi immergere oltre ogni dire, godendo ogni attimo come se fosse nuovamente l’ultimo. no, non l’avrebbe lasciata andare ancora, non sarebbe rimasto da solo nel dopo. Aveva bisogno di lei e neanche lo sapeva ancora. Io credo, invece, che una bellezza simile non possa che ricomporci. aggiunse di rimando alla triste affermazione di Jørgen e riportando, quindi, quell’atto in una via nuovamente positiva, comunicando con lui solo attraverso quelle brevi ma coincise parole. Ricomporsi; andava a scontrarsi sonoramente contro lo spezzarsi che Jørgen aveva pronunciato poco prima. Un suono più flebile e leggero che proveniva dalle labbra ben delineate della donna, mentre andava ad allacciarsi a quelle dette da Jørgen, pronte per essere completamente distrutte, annientate. Una speranza nuova, che aveva conosciuto tempo prima e che aveva dovuto abbandonare quasi subito. Eppure, in quel momento, tutto il passato sembrava esser stato cancellato, messo da parte per fare spazio ad un futuro, il più vero che avesse mai visto con lei fino a quel momento. Comprese, con quella significativa frase, che Helen non avrebbe abbandonato la stretta sulla sua mano e che, probabilmente, sarebbe rimasta al suo fianco, nascondendo quella bandierina bianca che anni prima aveva sollevato e sventolato in sua presenza, prima che ogni cosa si rompesse fra di loro, dividendoli. «Ricomporsi. Ha un bel suono, mi piace.» affermò, sorridendo e non riuscendo a distogliere il proprio sguardo dal suo viso chiaro, così vicino, così reale da farlo stare male al sol pensiero di averlo immaginato solamente, per tanto tempo. Ne aveva rincorso i lineamenti nei propri sogni, cercando di ricalcarne la forma nella propria mente e sperando con tutto se stesso di non doverne mai dimenticare i particolari. Invece era lì, per davvero, contro ogni sua precedente aspettativa, e solo per stupirlo ancora, solo per riportare gli occhi di lui su una delle bellezze più maestose che avesse mai visto. Sapevano ancora così poco l’uno dell’altra, poiché da quando avevano lasciato l’appartamento di Francoforte, non avevano mai più condiviso nulla, neanche uno stupido messaggio telefonico. Si erano semplicemente persi, in giro per il mondo, senza però smettere di pensarsi e cercando di combattere contro l’avanzare del tempo, una forza che avevano immaginato potesse forse solo allontanarli di più e che, invece, non aveva fatto altro che riportarli sulla stessa strada intrapresa anni prima, uno accanto all’altra. Come sarebbe stata la sua vita, da quel momento in poi, non avrebbe potuto saperlo. Ma Jørgen credeva fermamente del destino, scritto tempo prima per ognuno di loro, e la consapevolezza di aver conosciuto il proprio percorso, di aver avuto la certezza di dover tornare a casa, che quella sarebbe stata la via giusta, non aveva mai pensato potesse avere a che fare anche con lei e quegli occhi dai quali mai più avrebbe voluto separarsi. La guardava, il professore, come se da essi avesse ancora un mondo di lezioni da imparare, un’infinità di possibili parole, sentimenti, sensazioni, che solo ed esclusivamente da lei avrebbe potuto ricevere e godere. Non dovevi.. prese a dire Helen, non appena Jørgen le ebbe comunicato di avere qualcosa per lei con sé, in quel momento. La voce tentennante di Helen risuonò titubante ma allo stesso tempo colma di sentimento, di emozione. Il post-it era semplicemente l approva di ciò che stavano per affrontare, il ricordo di quello che avevano trascorso insieme, del coraggio che si erano fatti a vicenda nel prima. Ricordava ogni singolo giorno trascorso in quella casa, e la miriade di foto appese per il corridoio, le porte che separano le loro camere, sempre piene, pregne di respiri che avrebbero riconosciuto ovunque. Jørgen aveva sempre saputo quando, nel mezzo della notte, Helen aveva fatto ritorno in casa, così come lei aveva riconosciuto i passi di lui, silenziosi, nell’ingresso. Entrambi attenti a non svegliare l’altro, a non invadere quella privacy che, col passare del tempo, sembrava esser scomparsa, unendoli in qualcosa che non avrebbe potuto far altro che sfociare in un sentimento ben più grande di quanto si fossero aspettati. Glielo aveva confessato, il professore, eppure qualcosa non era andata come previsto e la sintonia si era rotta, finendo in mille pezzi, di cui era rimasto qualche tempo a raccoglierne i cocci. Ma quella Helen, colei che aveva di fronte in quell’istante, era solo la versione migliore della donna che aveva conosciuto in Germania. Era una splendida donna in carriera che, Jørgen ne era sicuro, avrebbe potuto intascarsi il mondo intero, se solo avesse voluto. Grazie, non sai quanto... Grazie. disse lei, solamente, non appena le sue dita sottili avevano intrappolato il foglietto ingiallito ormai dal tempo. Si sentì bene, il professore, rendendole quel regalo, quella piccola parte di ciò che erano stati e che, con tutta la speranza dell’universo, sarebbero nuovamente divenuti. Un post-it vecchio per qualcosa di nuovo, per un coraggio rinnovato, impastato nuovamente tanto da sembrare nuovo. «Non volevo dimenticare niente…» sussurrò, sbattendo appena più velocemente le palpebre, focalizzando la propria attenzione ancora su di lei e su quanto potesse essere ancora incredibile ai suoi occhi avercela davanti, per davvero, finalmente. E mentre il vento soffiava leggero contro di loro, smuovendo appena e gentilmente i capelli della donna, il professore spostò brevemente lo sguardo dietro di lei, per caso. E fu per caso che quella coppia di mezza età, appena dietro di loro, si fermò ad osservare il paesaggio, la bellezza del mare. Forse avrebbero voluto ricomporsi anche loro, forse avrebbero voluto godere del rumore delle onde o della morbidezza della sabbia sotto ai loro piedi. Devo assolutamente chiederti se tu ultimamente- prese a dire Helen, ma l’attenzione di Jørgen sembrava essere ormai altrove, in un mondo parallelo: quello in cui non era partito, in cui era rimasto nella casa dei suoi genitori per ancora qualche anno; quello in cui aveva intrapreso la strada che suo padre gli aveva suggerito, con i consigli di una madre che mai troppo si era esposta, impreparata nell’andare contro alle decisioni di suo marito. Forse non era stata una famiglia perfetta, e probabilmente le cose si sarebbero rotte anche se fosse rimasto lì accanto a loro, ma in quel momento non aveva alcuna importanza, per Jørgen non sapeva nulla, non li conosceva più. Aveva fatto mille passi indietro, tornando ad essere ombra, un pensiero da richiudere nei cassetti della memoria, per loro. Un figlio fuggito, sfuggito alle loro mani, alle loro carezze forse troppo fredde, per quel cuore così caldo. Non seppe cosa fare, come muoversi, come reagire, avvertiva solamente gli occhi più lucidi, sempre di più. A stentò riuscì a trattenere delle lacrime, nel momento steso in cui riconobbe il volto di sua madre. Non ne aveva alcun ricordo, solo una vecchia foto sbiadita di lei che lo stringeva fra le braccia, ancora un neonato, mentre suo padre se ne stava in piedi dietro di loro, ricurvo sulla spalla destra di sua moglie, un mezzo sorriso sui volti di entrambi. Quel mezzo sorriso che neanche sapevano di dover perdere, solo ventidue anni dopo averlo salutato per la primissima volta. E mentre lo sguardo di sua madre vagava su di lui, Jørgen poteva perfettamente vedere tutta la propria vita dinanzi a quel viso rigato dal tempo e dall’emozione di riaverlo a pochi passi di distanza. Avrebbe voluto muoversi, far qualcosa, pronunciare i loro nomi; ma niente sovveniva alla sua mente dimezzata, i vecchi ricordi persi ormai chissà dove, lasciati sulla via che aveva intrapreso dopo aver abbandonato alle proprie spalle i confini di quella cittadina, diversi anni prima. Avrebbe voluto ricordare, capire il perché di quella decisione, ascoltare il tono della voce di suo padre quando gli aveva detto che, se solo avesse abbandonato quella casa, avrebbe anche potuto evitare di tornarci. E invece era lì, e lo guardava trattenendo le lacrime, proprio come stava accadendo a lui. Cercò lo sguardo di Helen, il professore, che da insegnare in quel momento non aveva proprio un bel niente, forse solo da imparare. Cercò in lei un po’ di coraggio, un po’ di sostegno. Cercò nei suoi occhi verdi le parole che avrebbe dovuto pronunciare, la forza che avrebbe dovuto mettere nei muscoli delle gambe per avvicinarsi alla donna di cui neanche sapeva più il nome ed abbracciarla, cancellare ciò che era stato anche dalla sua mente e ricominciare. Ricomporsi insieme a loro, come un tempo. Come se fosse appena nato, riprovare a comprendere quelle parole, quelle decisioni e, forse, restare. Io sono qui per te. affermò Helen, il tono di voce deciso e allo stesso tempo estremamente dolce, gli riscaldò il petto per qualche secondo, dando il via ad un pianto leggero e silenzioso, a differenza di quello della madre, ormai a pochi passi da lui. Non aveva idea del perché stesse reagendo in quel modo; per la prima volta, non aveva alcun pensiero, alcuna opinione. Si stava davvero lasciando andare alle proprie sensazioni, a quel sesto senso che sapeva lo avrebbe tirato giù, presto o tardi. Aveva rimandato quell’incontro per troppo tempo, pensando che sarebbe stato meglio, che forse avrebbe fatto meno male, meno bene. «Sei tu, bambino mio.» proferì la donna dai lunghi capelli argento, legati in una coda un po’ scesa. Lo abbracciò, stringendolo a se e, ancora una volta, il mondo sembrò fermarsi. Ricordò di un pomeriggio seduti sul terrazzino di quella grande casa bianca in cui aveva vissuto per tanti anni, assieme a loro. Rimembrò il modo in cui la donna si cullava. dolcemente sulla sedia a dondolo in legno chiaro, mentre fra le mani stringeva il Besaid Journal e teneva gli occhiali fermi sulla punta del naso, per poter leggere meglio. Un’istantanea che gli passò davanti agli occhi come un fulmine, un flash a cui avrebbe fatto attenzione, desideroso di mantenerlo, se fosse stato l’unico. Sollevò le braccia, ricambiando quell’affetto che avvertiva nel cuore ma non nella mente, la quale riteneva quel corpo ancora troppo estraneo, per poterlo riconoscere appieno. La strinse piano, avvertendone le ossa sotto i palmi delle mani. Era magrissima, come se si reggesse a malapena in piedi. Non seppe il motivo, ma una morsa allo stomaco gli fece fermare il respiro per qualche secondo, buttando la sua razionalità per terra e lasciando che fossero i sentimenti a parlare: aveva buttato via tutto quel tempo. Così, mentre si univa a lei in un abbraccio, non poté far altro che pensare di non avere ancora molto tempo, do aver sbagliato forse la maggior parte delle cose. Strinse ancora, più forte, prima di lasciarla e sciogliere la presa, il viso di entrambi rigato da lacrime che sembravano non accennare a fermarsi. «Finalmente sei tornato. Sei a casa.» sussurrò lei, il tono di voce interrotta da piccoli singhiozzi. Le sorrise, posando una mano sul suo viso e spostando una ciocca dei suoi capelli argentei da un lato, mentre suo padre sembrava aver finalmente trovato il coraggio di avvicinarsi a loro. «Qui c'è scritto il nostro indirizzo.» gli disse, lo sguardo fermo e deciso, il tono della sua voce un po’ meno, titubante e provato. cercava, invano, di restare composto per tutti e tre. Sentiva forse il dovere di essere una sorta di appoggio per entrambi, anche se dentro sembrava esplodesse di emozione. Allungò un foglietto con su scritto l’indirizzo della loro abitazione, di cui il professore conosceva esattamente la posizione, essendoci stato diverse volte, senza mai avere il coraggio di bussare. Lo afferrò, annuendo con decisione. Non avrebbe contraddetto suo padre, non in quel momento in cui tutto sembrava semplicemente mettersi al proprio posto, ancora una volta. «Vienici a trovare al più presto, ti prego.» aggiunse ancora la madre, afferrando una mano del figlio e stringendola ancora. «Mamma mormorò, passando poi a guardare il volto di suo padre. «Papà…» disse ancora, prima di voltarsi e allungare una mano verso Helen, dietro di lui, ancora in disparte. Non avrebbe voluto lasciarla fuori, non avrebbe voluto dimenticarsi di lei. Ne aveva avvertito la presenza per tutto il tempo, lo sguardo verde della psichiatra sul suo collo, le mani seppur lontane dalle sue spalle, avevano lasciato la loro impronta su di esse per tutto quel tempo. «Lei è Helen.» disse, afferrando la mano della donna e tirandola con cautela verso di se. «E’ il mio mare.» affermò, voltando lo sguardo sulla madre, convinto che avrebbe capito cosa intendesse con quelle parole. Il pianto appena più calmo, gestibile, permise alla donna di volgersi in direzione di Helen, pronta ad afferrarle la mano e regalarle un piccolo ma gioioso sorriso, una sorpresa in quel pomeriggio inizialmente piatto. «E’ un vero piacere conoscerti, Helen.» disse la donna, solamente, stringendo la mano dell’altra fra le proprie, per qualche istante. «Sentiti pur libera di accompagnarlo. Magari in compagnia di una bella donna come te ha meno probabilità di perdersi.» aggiunse la donna, spostando lo sguardo sul figlio ed ammonendolo appena, solo brevemente, provando a fargli capire che non avrebbe ammesso una risposta negativa a quell’invito. Abbassò lo sguardo, Jørgen, sorridendo per quell’affermazione, avendo compreso perfettamente le parole della madre. Era giunto il momento di affrontare quelli che aveva creduto essere i propri demoni, e tornare ad essere padrone della propria vita, nel senso più completo che potesse esserci. Annuì quindi alle parole della madre, sorridendo poi in direzione di Helen. Era davvero l’inizio di qualcosa di nuovo e la fine del suo viaggio. Comprendeva ogni passo compiuto, ogni luogo visitato. Comprendeva il senso di quello che avrebbe dovuto essere per lui la vita. Ce lo aveva accanto, di fronte, intorno. Era ovunque, e tutto laddove l’aveva lasciato, prima di partire.
    Abbassò una delle mani, sfiorando quella di Helen ed afferrandola con cautela, stringendola nella sua, mentre si congedava dai genitori, i cui volti sembravano così stanchi e segnati dal tempo. «Non vado da nessuna parte, te lo prometto.» disse rivolto alla madre, non appena questa ebbe stretto ancora una volta il corpo di suo figlio in un abbraccio, prima di voltarsi e ritornare sulla via di casa. Un ultimo sguardo alle proprie spalle, per accertarsi che Jørgen fosse davvero lì, che non avesse sognato quell’incontro. E mentre si allontanava, stringeva una delle mani del marito, mentre l’altra, sospesa per aria, si agitava nella loro direzione, salutandoli. Osservò le loro sagome in lontananza, incapace di fermare la fuoriuscita delle lacrime, prima di voltarsi verso Helen e abbracciarla, tenendola stretta a se per qualche istante. «E’ bello, fra noi.» sussurrò all’orecchio di lei, mentre le mani la tenevano con il corpo ancorata a quello di lui. «Rincominciamo da qui? Se lo vuoi anche tu.» domandò.
    Non era il suo mondo, non era il suo universo, non era la sua stella, non era il suo tutto. Helen era come il mare, per lui, e solo chi ha passato ore intere ad osservarne la superficie in movimento può capire di che diavolo si tratta. Solo chi vi ha riversato speranze e desideri, alla ricerca di risposte, avrebbe potuto comprendere quanto amore provasse il norvegese per lei.
     
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    «Ricomporsi. Ha un bel suono, mi piace.» La voce di Jørgen, melodiosa e calda come sempre, aveva centrato nel segno. Le parole di Helen, nel segnalare l'idea contraria a quella espressa da lui stesso poco prima, erano mirate; voleva che da ogni gesto ed ogni singola parola lui capisse che non era più spezzare, ciò che lei aveva intenzione di fare. Voleva unire, riparare, ricomporre, e questo valeva soprattutto con i cuori di entrambi, le cui crepe sicuramente erano anche state create dalla loro separazione. Purtroppo Helen non sapeva tutti i turbamenti, e gli eventi significativi che avevano segnato Jørgen, ma voleva ardentemente recuperare il tempo perduto. Avrebbe voluto stringerlo distrattamente davanti alla TV, la sua testa contro il seno nel sentirle il battito del cuore, mentre parlavano del suo viaggio in Africa; avrebbe voluto sussurrargli nel buio le sue paure nel rivivere il suicidio di Daniel; avrebbe desiderato uscire con lui “come una coppia”, al parco o al ristorante, e raccontargli com'era andata la giornata per poi chiedere a lui la stessa cosa. Avrebbe voluto viverlo, amarlo, ricongiungersi a lui per davvero. Rivederlo in quel caffè aveva risvegliato un amore che troppo a lungo era stato represso e che era quindi esploso con la forza di uno tsunami nel petto della donna, che sentiva di doverlo ascoltare, perchè non si sarebbe zittito mai più. Helen non credeva nel destino, in qualcosa di già scritto, ma riteneva che le probabilità e la casualità degli eventi delle volte potessero superare nella realtà di gran lunga le macchinazioni della fantasia. Per questo, non appena incrociò lo sguardo di Jørgen nel Cafè Whippoorwill Helen pensò di essere stata la persona più fortunata del mondo. Quante volte, nella vita, si poteva dire di poter aver avuto una seconda occasione, una che probabilmente non sarebbe mai più ritornata? Fu allora, che capì di dover agire, di dover essere chiara, e di parlare con il cuore e non con il cervello. Eppure, la vita era riuscita a sorprendere nuovamente la dottoressa, che si era ritrovata tra le mani il regalo più bello che Jørgen avrebbe mai potuto darle: i suoi ricordi, i ricordi che appartenevano ad entrambi. Lui avrebbe potuto liberarsene, distruggerli, tentare di metterli da parte, tuttavia erano lì, intrappolati in un post-it ingiallito tra le sue dita.
    Per questo, Helen ringraziò. Non si sentiva degna di ricevere un regalo simile, così prezioso - non si sentiva ancora perfettamente degna di ricevere Jørgen di nuovo, ma la paura ormai non le apparteneva più, o meglio, aveva imparato ad abbracciarla. Non doveva sfuggire come aveva fatto anni prima, anzi, avrebbe dovuto restare e andare avanti, anche con i suoi timori e le sue insicurezze. «Non volevo dimenticare niente…» Quelle poche parole mandarono il cuore della dottoressa in panne ed i suoi occhi si velarono di uno strato più spesso di lacrime, che già latenti si aggiravano sotto le palpebre della donna. Per quanto non fosse stata pronta, Helen non aveva mai dimenticato neanche un singolo momento di quelli passati con Jørgen, ed era quella la sua maledizione. Lei non sapeva dimenticare, non riusciva mai a lasciar sbiadire gli eventi del passato. Però forse, una maledizione si era trasformata in un miracolo, nel momento in cui tutti quei ricordi si erano riproposti nella vita della psichiatra, che ora aveva fatto pace con se stessa. Sollevando gli occhi verdi incorniciati da lunghe ciglia scure in quelli del professore, la dottoressa accennò un sorriso, pregno di speranza ed amore. Ora era il momento giusto, Helen lo sentiva. Avrebbe dovuto esporsi stavolta, lasciarsi guardare dentro da Jørgen nel chiedergli di accoglierla nuovamente nel suo cuore, se non avesse già qualcun altro. Per questa ragione, prendendo tutto il coraggio che aveva in corpo e motivata dal desiderio di ricongiungersi nuovamente al suo amato, la donna lo guardò negli occhi ed iniziò a domandargli se avesse qualcuno nella sua vita. Era importante, per Helen, decidere quale passo compiere nel pieno rispetto della emotività di Jørgen; lo amava davvero, e per lei la sua felicità era più importante dell’ego. Se avesse saputo che lui intratteneva già una relazione con qualcuno, lei si sarebbe fatta indietro.
    Eppure, questa cruciale informazione dovette aspettare, perchè lo sguardo dell'uomo era perso, distratto dalla coppia che passeggiava proprio alle spalle della psichiatra. Si fece nuovamente da parte, Helen, che capì di dover lasciare a Jørgen lo spazio che gli serviva durante quella rivelazione così cruciale: avevano appena incrociato i genitori del professore. Era come se fossero degli sconosciuti, quei tre individui legati da qualcosa di più potente del sangue, ma da una vita di condivisioni che si era spezzata. Le iridi dai colori silvani di Helen si soffermarono su quella scena per qualche istante, mentre cercava di collocare la situazione e controllare le condizioni di Jørgen. Per qualche istante, l'uomo si lasciò invadere da tutte le emozioni che lo stavano attaccando nel momento in cui ebbe riconosciuto sua madre, mentre la terra azzurra dei suoi occhi veniva colonizzata da frotte di lacrime fragilmente imprigionate tra le insenature delle sue palpebre. Al tempo stesso, la signora sembrava sconvolta, incredula nell'identificare la persona che aveva davanti come suo figlio, ed Helen era lì. Era già pronta, sapeva che il professore avrebbe avuto bisogno di un punto di riferimento, mentre la sua vita si riallineava, e la donna rispose prontamente a quella chiamata di aiuto, ricambiando il suo sguardo e sorridendogli rassicurante, per incoraggiarlo nel farsi avanti verso i suoi genitori, prima di dirgli che sarebbe stata lì per lui. Era così. Sin da quando aveva rivisto il volto di Jørgen nel bar, l'aveva capito: lei sarebbe stata sempre presente per lui, lo avrebbe sorretto, lo avrebbe fatto entrare nel suo cuore, lo avrebbe protetto, compreso e lasciato libero di viversi. Quel momento non faceva eccezione. Fu solo quando Jørgen si fu sentito al sicuro, che rispecchiò i movimenti della madre, irrompendo in un pianto sommesso. Lasciandogli una carezza sulla schiena ampia e leggermente tremante, Helen si fece così indietro, per lasciare che madre e figlio si abbracciassero finalmente. Sembrava essersi rimpicciolito, il dolce professore, tra le braccia di quella donna molto più minuta di lui. Era come se il tempo fosse andato indietro, e Jørgen fosse nuovamente tornato il bambino che i suoi genitori avevano cresciuto.
    Mentre quelle tenerezze colme di emozione avevano luogo proprio davanti agli occhi della dottoressa, il padre del suo amato scrisse su un fogliettino l'indirizzo di casa, per poi porgerlo al figlio, mentre si separava dalla madre. Nonostante la voce ferma, per la psichiatra non fu difficile riconoscere le venature di sentimento che la sporcavano, andando ad intaccare la risolutezza delle parole di quel distinto signore. Il piccolo pezzo di carta venne subito afferrato da Jørgen, che mostrò di aver recepito perfettamente l'invito implicito del papà. Cercando di assicurarsi che quel filo rosso ora ripreso non venisse spezzato ancora una volta, la donna dai capelli cinerini raccomandò al figlio di andarli a trovare, stringendogli un'altra volta la mano. «Mamma.» Il sussurro leggermente ovattato dai residui del pianto di Jørgen era sereno, tranquillo, mentre Helen silenziosamente stringeva il post-it tra le mani, in un gesto istintivo. «Papà…» Un tepore gradevole avvolse il cuore della dottoressa, mentre il suo professore tese una mano verso di lei, dopo aver attirato l'attenzione dei genitori. «Lei è Helen.» Quel calore si irradiò in tutto il corpo della donna, non appena l'amato le afferrò la mano, invitandola a raggiungerlo al suo fianco. Un'enorme emozione iniziò ad ingarbugliare le interiora della psichiatra, che avvertì un nodo formarsi nella sua gola, mentre affabilmente sorrideva a quei signori dai volti gentili. «E’ il mio mare.» Fu nel sentire quelle parole, che la donna si portò una mano alle labbra lentamente, premendole leggermente con il dorso per evitare di piangere in quel contesto. Gli occhi le si annebbiarono, ed un grande peso si dissolse nel suo animo, nel capire che Jørgen desiderava ricongiungersi a lei. Prendendo un respiro per cercare di tenere a bada le emozioni con i genitori del professore, la psichiatra sbattè un paio di volte le palpebre, inumidendole con le lacrime mentre la mamma di lui le prese la mano libera, stringendola appena e sbocciando in un piccolo sorriso. «E’ un vero piacere conoscerti, Helen.» Annuendo leggermente, la dottoressa si sforzò di schiudere le labbra per rispondere. Tutto mio, signora. Replicò lei in un sussurro più sicuro di quanto credesse, guardando l'altra in volto. «Sentiti pur libera di accompagnarlo. Magari in compagnia di una bella donna come te ha meno probabilità di perdersi.» Sbuffando una quasi impercettibile risata, Helen annuì nuovamente, per far capire alla signora di non doversi preoccupare, mentre Jørgen sembrava aver colto tra le righe la potenza dell'invito dei genitori.
    «Non vado da nessuna parte, te lo prometto.» Con la mano attorno a quella di Helen, Jørgen si lasciò abbracciare un'altra volta da sua madre, per poi congedarsi dai suoi genitori, che dopo brevi saluti tornarono scossi ma felici verso casa. La donna dai capelli castani si voltò ad osservare i lineamenti del suo amato; stava bene. Aveva le guance rigate dalle lacrime e gli occhi leggermente gonfi, ma era felice, era completo ora che aveva anche ritrovato la strada per riunirsi alle sue radici. Emozionata e stravolta anche lei dai sentimenti intensi di quel pomeriggio, Helen accennò un altro sorriso, per poi avvertire le braccia di Jørgen attorno al busto in un abbraccio che lei ricambiò immediatamente, appoggiando una guancia sulla sua spalla, mentre finalmente si concesse di lasciare qualche lacrima fuori dal suo controllo. «E’ bello, fra noi.» Inspirando il profumo di Jørgen a pieni polmoni, la donna annuì lentamente, senza accennare nella minima parte a lasciarlo andare. «Rincominciamo da qui? Se lo vuoi anche tu.» Senza aspettare, pensare o riflettere, Helen appoggiò le mani sulle guance di Jørgen, accarezzandone la pelle umida, prima di aderire maggiormente con il corpo al suo ed appoggiare le labbra contro quelle di lui, schiudendole in un bacio. Erano gesti lenti, eppure talmente intensi da farle mancare la terra sotto i piedi. Stringendosi a Jørgen più forte che poteva, Helen interruppe quel caldo bacio con calma solo quando l'aria iniziò a non circolarle più nei polmoni. Pesanti lacrime di gioia le cadevano dagli occhi mentre gli teneva socchiusi, e dopo che si fu separata dall'uomo, gli accarezzò il volto con amore. Ricominciamo amore. Rispose lei, finalmente pronta ad iniziare una nuova vita con Jørgen, finalmente pronta a ricomporsi.
     
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    Sotto l’albero di Marula, in quel paesino sperduto nel mezzo di una terra che aveva calpestato con estrema attenzione e rispetto, il professore non aveva avuto nulla da insegnare. C’erano stati momenti, durante la sua vita, in cui si era lasciato andare al corso degli eventi, provando a ricomporre quelle immagini che, frettolose, gli passavano giorno dopo giorno dinanzi alle iridi chiare. Quegli occhi non erano stati abituati a tanta modestia, a tanta natura e vivibilità delle cose più semplici. Non aveva avuto un telefono con se, non aveva mantenuto alcun contatto col mondo reale, il quale per lui, di realistico, aveva avuto ben poco. Si era catapultato all’interno di ciò che in molti credevano fosse finzione, una vita così distante da non riuscire ad immaginarne neanche gli eventi. Aveva camminato a piedi scalzi accanto ad anime di cui non aveva conosciuto neanche il nome, provando ad immergersi in quella quotidianità non sua e cercando con tutto se stesso di comprendere, di inserirsi in quel giro che suscitava altrettanta curiosità in lui. Su ogni viso incontrato aveva visto quello di Janine, immobile nella foto in bianco e nero che con estrema attenzione e amore conservava fra le pagine del suo diario. Gli faceva male sapere di non averne un vero e proprio ricordo, se non il regalo che quelle parole scritte in corsivo rappresentavano per lui. Aveva perso ogni cosa, ogni immagine ed ogni voce legata ad esse, eppure lei era lì, come se si nascondesse dietro le lunghe e rosse tende di un backstage di teatro, prima di uno spettacolo. Lui, fermo su quel palco con lo sguardo fisso sulla folla, vedeva la vita passargli sotto al naso, mentre alle proprie spalle -in un eco lontanissimo- un incoraggiamento aleggiava nell’aria, raggiungendolo e ricordandogli di quanto fosse stato coraggioso, dopo aver trascorso anche solo un’ora con la donna che, sostanzialmente, lo aveva cresciuto per un po’. Era stata l’africana a prendersi cura di lui, mentre i suoi genitori avevano occupato il loro tempo fra lavoro e affari di cui un piccolo Jørgen non avrebbe potuto comprendere fino in fondo. Forse era stato anche per quello, che aveva deciso di andare via. Arrecare il peso delle colpe alla propria famiglia, per lui, avrebbe potuto significare definirsi parte di essa, accettare l’evidenza e il fatto che, nonostante l’affetto e l’amore, aveva provato una sensazione di vuoto e perdita una volta appresa la partenza di Janine e il suo dover restare in quella casa dalle pareti bianche. Allora, diversi anni dopo, quando il coraggio lo aveva spinto nei meandri di una terra tanto sconosciuta, aveva compreso una miriade di cose, aprendo la mente ad un mondo nuovo, ad una lingua nuova, ad una civiltà diversa dalla propria, ormai così distante. Avrebbe seguito le orme e sarebbe tornato a casa, ma prima di quel momento avrebbe dovuto accettare di essere perso in un luogo sconosciuto, al confine tra la consapevolezza e l’inconsapevolezza, eppure così vicino. Non avrebbe mai saputo dire cosa vi fosse tanto familiare in quello spiazzo arancione e secco, al centro del quale un grande albero si ergeva dal terreno e raggiungeva il blu del cielo, dandovi una pennellata di verde e color castagna. Un arbusto che ogni singolo essere vivente, in quell’ambiente, adorava: l’albero di Marula. Simbolo di fertilità e ricchezza, ne aveva assaporato anche lui i frutti, bevendo infusi all’interno del quale ne erano immerse le foglie o, ancora, mangiando alcuni pezzi della sua corteccia. Si era fidato di chi gli aveva consigliato di prendere parte a quella vita, immergendo il proprio sapere in qualcosa di più grande di lui, di cui non aveva fatto altro che fidarsi a occhi chiusi. E proprio seduto all’ombra di quell’albero, mentre le mani di Babukar avevano picchiettato sulle proprie gambe magre a ritmo di una musica che era divenuta anche sua, Jørgen aveva rivolto i propri pensieri alla donna con il quale aveva condiviso parte della sua vita fino a qualche tempo prima. Non aveva idea di quanto avrebbe potuto resistere con lui lì, se solo avesse deciso di accompagnarla, ma in un certo senso, sarebbe stata lei quella a cui lui avrebbe desiderato mostrare ogni aspetto di ciò che i suoi occhi avevano modo di vedere. Non si parlavano da ormai tanto tempo e, seppure quel silenzio sembrasse necessario ad entrambi, il desiderio di scriverle una lettera e raccontarle di ciò che il suo cuore stava provando sembrava essere un punto fisso nella sua mente. Non aveva idea del perché, ma mentre le sue braccia stringevano il corpo della donna nel suo presente, il pensiero di quel momento particolare, trascorso sotto l’albero di Marula assieme al ragazzino che non avrebbe mai dimenticato, giunse a fargli visita e ricordargli di quanto l’avesse aspettata, di quanto avrebbe voluto rivivere con lei ogni momento venuto nel “dopo”, dove ormai l’addio era stato pronunciato e aveva avuto il suo grosso peso sul suo stomaco. Eppure, malgrado ci fosse la possibilità e il tempo, soprattutto, di rifare ogni cosa con la donna che amava al proprio fianco, Jørgen non era più il ragazzino che un tempo aveva impacchettato le cose più essenziali, gettandole in valigia e partendo in cerca di una svolta. Non avrebbe potuto decidere ancora una volta di prendere la via delle domande, della curiosità, allontanandosi nuovamente dalla sua città natale. Oltre ad aver riscoperto lati di se stesso che aveva rilegato nel dimenticatoio, aveva ritrovato Helen e la sua famiglia, entrambi illuminati da un fascio di luce del tutto nuovo, dal quale non avrebbe mai più potuto scostare il proprio sguardo certo. Andare nuovamente via da Besaid avrebbe compromesso quel riallacciarsi alle anime di chi amava e no, Jørgen non avrebbe potuto correre nuovamente il rischio di dimenticarsi di loro, di dimenticare lo sguardo acceso di Helen, ancora stretta fra le sue braccia. La visione dei suoi genitori aveva riaperto infinite possibilità, infinite occasioni e debolezze che per anni aveva nascosto dietro ad un muro innalzato per via di una curiosità che non era riuscito a sopprimere. Aveva visto Helen stringere la mano di sua madre, chiedendosi chi delle due lo aveva conosciuto meglio e sperando che, in un certo senso, potessero essere loro a ricordargli che forma avessero preso le orme da lui lasciate su entrambe le loro strade. Aveva guardato le figure esili di quei due genitori allontanarsi, lasciando in lui un grande punto interrogativo premere contro quel cuore pieno. Per qualche istante si era domandato come avesse potuto andare via, lasciarsi gli occhi di sua madre e le ferree mani di suo padre alle spalle, tutto per scoprirne di nuove andargli incontro. Un momento frettoloso eppure così lento, mentre stringeva lui quell’esile figura, pensando a quanto restasse poco tempo per ogni cosa, incredibilmente impaurito per ciò a cui aveva dovuto rinunciare in favore di una soddisfazione ottenuta in tutti quegli anni lontani da casa. Che persona sarebbe divenuto, se non fosse mai andato via? E, più importante di ogni altra cosa… che persona sarebbe stato, se non avesse conosciuto Helen e le sue ferme convinzioni da donna di razionalità? Avevano discusso spesso, senza mai litigare ma provando ad esporre ognuno le proprie idee ed opinioni all’altro e, anche se per la maggior parte delle volte completamente agli opposti, il professore aveva trovato nelle sue parole sempre un fondo di verità. Ricominciamo amore. rispose Helen alla domanda di Jørgen. Lasciò che le labbra carnose della donna aderissero alle proprie, accompagnando quei movimenti dolci e provando a dimostrare quanto lui appartenesse a lei, e a nessun’altra. Ogni altra persona sembrava aver perso significato, nello stesso momento in cui le dita dell’uomo di erano avvolte attorno al metallo freddo dell’orecchino trovato qualche giorno prima. Era incredibile come ogni cosa si fosse sistemata nel modo giusto e in così poco tempo, raddrizzando quelle assi della vita andate ad inclinarsi anni prima, nella casa che aveva visto più sorrisi che pianti. Avrebbero ricondiviso ogni singola cosa e lui non avrebbe fatto altro che incentivare il loro restare assieme, più di quanto avesse fatto nel prima. Era lei la persona che aveva cercato per tutta la vita, non comprendendo prima quanto contasse quel respiro così simile al proprio. «Sono anni che ti amo, Helen.» confessò lui, semplicemente, quasi come se le stesse proponendo di fare una scorpacciata di cibo. Con gli occhi ancora appena lucidi, si era lasciato andare ad una consapevolezza che, pensò, avrebbe dovuto essere anche della donna in piedi davanti a lui, alla quale avrebbe donato da sempre la propria vita, se solo fosse stato necessario. Sarebbe iniziata nuovamente così, con loro due e nient'altro. Nessuna attesa, nessuna separazione: sarebbe stata la sua promessa.

    :mini: :mini: :mini: Che feels. Aiuto.
     
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5 replies since 27/8/2018, 00:10   145 views
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