They used to shout my name, now they whisper it

Lurido magazzino dietro l'Egon Pub | Magnus&Zach | role disagio (?)

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    Un lavoro come un altro, un’assidua ricerca che gli permetteva di viaggiare, conoscere persone, scoprirne i loro lati nascosti, rivelarne le potenzialità. Il suo patrigno si fidava ciecamente di lui, e Magnus non sapeva ancora neanche il perché di tutto quel parlare, quel fare assieme, quell’affidargli compiti che -secondo l’uomo- solo lui sarebbe stato capace di portare a termine. Da quando aveva fatto fuori Gregory, le cose non sembravano essere mutate in casa Lennox. Il capofamiglia aveva subito una grave perdita, sebbene non sapesse esattamente cosa fosse successo a suo figlio, aveva tramutato il dolore il rabbia silenziosa, mettendo da parte quel grande affetto che aveva provato nei confronti di Gregory e rifilando al suo ricordo solo indignazione; come aveva osato sparire senza avvisare, lasciando tutti loro senza alcuna informazione al riguardo e, soprattutto, abbandonando i doveri di marito come se non vi fosse nulla di importante nel ruolo che fino a poco tempo prima aveva ricoperto? Lo aveva spacciato per una fuga, Magnus: eppure lui ricordava benissimo della pozza di sangue che, lentamente, si apriva e allargava attorno al cadavere del suo fratellastro. Ricordava anche di non aver provato nulla in quel momento, di aver solo pensato a quanto sangue vi potesse essere nel corpo di un essere umano e a quanto poco, invece, ci volesse per sottrarlo dalla vita. Niente pulsazioni, niente respiro. Era tutto immobile, fermo in quel silenzio ingombrante che aveva avvertito sulla propria pelle, almeno fino a quando sua madre aveva fatto il proprio ingresso in quella stanza, normalmente centro di chiacchiere puerili alle quai, quella sera, aveva certamente rinunciato, restando quasi a bocca asciutta di fronte a ciò che suo figlio sembrava poter fare senza rimpianti.
    «Una wodka liscia, per favore. Che sia ghiacciata, altrimenti non prendo niente.» la voce bassa di Magnus riuscì a farsi udire anche dietro al bancone, dove il barista se ne stava con le braccia tese e i palmi posati sulla superficie, il busto ricurvo in sua direzione. Aveva lo sguardo fisso su di lui, cercava di cogliere tutte le parole del giovane dai capelli riccioluti, cercando di non perdersi il succo dell’ordine. Serrò appena le labbra, mordendosi la guancia dall’interno mentre annuiva in sua direzione, sparendo al lato del bar e andando quindi a procurargli bicchiere, ghiaccio e bibita, come da Magnus richiesto. Lo conosceva, non troppo bene, ma sapeva fosse un tipo strano, normalmente taciturno, a meno che non era lì per affari con gente forse altrettanto losca. Lo aveva visto bazzicare spesso, fino ad un anno prima anche più del dovuto, eppure non aveva mai posto domande, preferendo restare col dubbio che un povero barista ultra cinquantenne conserva dei propri clienti, quelli più distaccati. Dopo qualche secondo era tornato; fra le mani un Tumblr con del ghiaccio e un liquido trasparente ma dall’odore forte, amaro, indulgente. Sollevò una mano, Magnus, andando ad afferrarlo immediatamente per poi buttarlo giù come se fosse acqua. Una banconota sul bancone e via, ad immergersi nuovamente nella notte al di fuori del chiasso di un pub che avrebbe comunque sempre detestato. Voleva curiosare nella vita di qualcuno che, per lui e la maggior parte dei tizi con cui lavorava, era un bel bocconcino; Di Zach sapeva solo ciò che Nora gli aveva riferito, e cioè tutto ciò che avrebbe potuto essere catalogato: data di nascita, luogo di nascita, quanti zeri potrebbero esserci sul suo conto, il mestiere, forse qualche hobby e sì, che tipo di particolarità lo distingueva da tutti gli altri. Ed era esattamente a quella che Magnus avrebbe puntato. Zachary Price aveva l’abilità di poter trasformare degli oggetti di piccola taglia in oro; qualcosa di così fine ed interessante che, chiunque avesse a che fare con il loro giro d’affari, non avrebbe mai potuto negar di volere. Ne aveva sentito parlare, ad uno dei loro soliti incontri al Perception, non credendo in un primo momento a ciò che aveva udito. Sebbene la sua fetta di interesse fosse scemata dopo poco, quella di Lennox Senior si era invece ingigantita, tanto da ordinargli di indagare, di scoprirne i punti deboli così come quelli più significativi. La curiosità, una delle bestie avventate che muoveva la sua mente nel tempo, lo aveva spinto a cercare e cercare, rivolgendosi a Nora e chiedendole di scoprire ogni cosa sul suo conto. E poi, quella sera, una delle solite informazioni: era all’Egon Pub, Zach, e Magnus lo avrebbe raggiunto, avrebbe mascherato il proprio viso rendendo le espressioni più addolcite, amichevoli. certo, recitare non era mai stato il suo forte, ma in un certo senso quello non sarebbe stato l’atto primo di una commedia e lui di certo non avrebbe preso le parti di un attore. In un certo senso, sentiva il bisogno di fingersi qualcun altro anche solo per una sera; fingere di esser normale, provare a perdersi fra la folla e farne parte, senza vedere dinanzi solo il buio delle tenebre.
    Uscito dal locale, i piccoli occhi da segugio di Magnus si posarono sulla figura di Zach, il quale se ne stava con la schiena posata contro il muro mentre fra le labbra si reggeva in bilico una sigaretta accesa. Sollevò appena il mento nella sua direzione, Magnus, avvicinandosi a lui ed avvicinando una sigaretta spenta in sua direzione. «Hai da accendere, per caso?» gli domandò, il tono della voce basso, come al solito fin troppo tranquillo. Un passo nella sua direzione e qualcosa, alle sue spalle, sembrò infrangersi contro il suolo. Si voltò di scatto, Magnus, mentre probabilmente iniziava a credere di dover far necessariamente parte di una commedia: sul suo viso si fece largo un’espressione spaventata, quasi terrorizzata, mentre sollevava le mani al cielo. Un uomo se ne stava dinanzi a loro, stringendo le proprie dita attorno al collo di una bottiglia in vetro ormai rotta. Il tipo indossava una passamontagna, due fori a mostrare gli occhi scuri come la pece; «Cinque passi indietro, voltate l’angolo e non fiatate.» aveva detto, appena prima che un secondo uomo incappucciato voltasse l’angolo, raggiungendo i tre. La pistola puntata contro di loro, il dito fermo sul grilletto. Chinò il capo da un lato, Magnus, schiudendo appena le labbra e respirando tramite la bocca, mentre sollevava le mani in aria -quasi volesse arrendersi a loro. «Non ho contanti con me e in ogni caso non ve ne fareste niente.» sentenziò, scuotendo appena il viso ed inarcando le sopracciglia. «Tu anche, biondino!» incitò il primo tipo con il passamontagna in direzione di Zach, avvicinandosi pericolosamente a lui e puntando la mezza bottiglia alla sua gola, premendo appena contro la pelle che ne rivestiva la muscolatura ben pronunciata. «Ehi ehi ehi, calma, calma. Stiamo calmi, faremo ciò che dite, non c’è bisogno di agitarsi così, ok?» affermò ancora Magnus voltandosi a guardare Zach e cercando un po’ di complicità nel suo sguardo, appena prima che la pistola venisse puntata alla sua tempia. «Cammina, stronzo. Poi vediamo di calmarci… se proprio ci va concluse l’altro, costringendo Magnus a camminare ancora di qualche passo, pronti ad oltrepassare il chiasso proveniente dal Bolgen e voltare l’angolo, finendo all’interno di un magazzino forse abbandonato, posto in una delle piccole e buie traverse del quartiere, poco popolato anche di giorno. Osservò nel buio il nulla, mentre a passi incerti si addentrava in quella specie di camera, poco prima che la porta venisse chiusa alle loro spalle. Un tonfo sordo, quasi a voler ricordare che, in un modo o nell’altro, avrebbero trascorso lì dentro un bel po’ del loro tempo. Si trattava di una sorta di magazzino colmo di cianfrusaglie, oggetti in legno e in metallo posti contro le pareti o accatastati gli uni sugli altri. Al centro, un tavolo e due sedie poste alle sue estremità; fu proprio su di esse che venne imposto ai due di accomodarsi, pistola e bottiglia di vetro ancora puntate nella loro direzione. «Uno di voi nasconde qualcosa di interessante. Chi sa indicarmi qual è la giusta risposta?» chiese l’uomo che maneggiava la pistola, girando intorno a loro mentre il complice manteneva la bottiglia di vetro nuovamente contro la gola di Zach. «Cos’è, adesso dobbiamo anche metterci a risolvere indovinelli?» chiese Magnus, ironico, sollevando le mani per aria e scuotendo il capo, infastidito.
    E la commedia iniziò.

    «Deve credere che sia reale. Se dovesse essere necessario arrivare a tanto, deve perdere il controllo della particolarità.» - aveva detto loro Magnus. Voleva una prova, voleva vedere di cosa fosse capace Besaid con le sue assurde particolarità e come potessero funzionare quelle come ciò che riusciva a controllare il ragazzo che stava cercando. Un teatrino come tanti altri, forse appena più realistico di uno spettacolo da quattro soldi che la gente amava guardare in compagnia. «Ci divertiamo un po’, ma toccategli un capello e ci saranno delle conseguenze.» aveva aggiunto, ponendo dei limiti, impostando le regole del gioco così come lui le aveva decise. Non sarebbe stato facile e sebbene potesse essere solo una messa in scena, l’idea di giocare con la vita di qualcuno era per lui ormai tanto reale quanto risultato di una finzione.
     
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    Zach Price • 28 y.o. • Neurobiologist

    Come di consueto, Zach si era fermato all’Egon Pub – o lui o il Monica’s o qualunque altro locale stesse lungo la strada – per bere qualcosa: era un rito che adorava, sin dai tempi dell’università, lo faceva sentire tranquillo farsi un bicchierino dopo l’allenamento o dopo il lavoro. Quel giorno, in particolare, aveva tardato parecchio con i suoi compagni di boxe e si era divertito anche parecchio: era bello quando decidevano di fare incontri, seri, e non semplici allenamenti.
    «Tutto qui quello che sai fare?» canzonò Zach, con un sorriso beffardo sul viso e un’aria da finto sbruffone. Nella sua palestra l’ambiente era tranquillo, nonostante fosse popolata perlopiù da ex-galeotti e gente che aveva difficoltà a gestire la rabbia, come lui d’altra parte: quando esplodeva diventava intrattabile, un pericolo per se stesso e per gli altri. Il suo compagno d’incontro lo colpì forte all’addome con un pugno ben assestato: Zach ebbe appena il tempo di contrarre i muscoli, attutendo il colpo e alzando leggermente un angolo delle labbra come a volergli dire che non era stato nulla. Ricambiò il colpo e, al contrario, prese in contropiede Jonah, facendolo finire in terra con dolori piuttosto lancinanti allo sterno: il suo sguardo era soddisfatto e pieno di sé, come fosse fiero di quanto aveva fatto. Tolse i guantoni e si avvicinò al ragazzo, poco più grande di lui, per sincerarsi che stesse bene: «Testa di cazzo» rispose, sollevando il pollice per rassicurarlo. Nonostante il suo pessimo modo di fare, era una persona ok: faceva danno, feriva il prossimo, ma si occupava di vedere che non fosse troppo ferito. Ottimo approccio, no?!
    Si lavò velocemente e si rivestì, mettendo i soliti jeans e la solita giacca, avendo cura di dirigersi al posto più vicino rispetto alla sua palestra: l’Egon. Era sempre piuttosto tranquillo, soprattutto in settimana, non vi era gente troppo molesta o comunque gente che avesse voglia di fare a botte semplicemente a causa dell’alcool bevuto: nonostante tutto, Zach lo reggeva piuttosto bene. Beveva come rito e come sfizio, senza arrivare a sentirsi male: certo, le cose erano cambiate nel tempo, prima capitava spesso che alzasse un po’ troppo il gomito e tornasse a casa strisciando, ma quei tempi erano finiti. Ormai era un uomo, doveva svegliarsi presto il giorno dopo e buttare una giornata tra il letto ed il water, puzzando di vomito e di morte, non era poi così contemplato come quando aveva vent’anni.
    Arrivato al locale, si sedette al bancone dando uno sguardo agli alcolici e alle birre che stavano dietro al barista: perlopiù c’erano fusti di birra da spillare, ma trovava la birra come solo un accompagnamento al cibo. Prima di andare a dormire, a parer suo, ci voleva solo una cosa: «Scotch liscio» disse al cameriere, prendendo il cellulare dalla tasca destra dei suoi pantaloni ed approfittando di quel momento per controllare mail e messaggi ricevuti durante doccia ed allenamento. Quando stava in quel buco di palestra che frequentava preferiva non calcolare la tecnologia e tutti quei social e mezzi di comunicazione: si estraniava, pensava solo ad allenarsi, ad allentare la tensione che normalmente portava con sé e sì, sentirsi un po’ meno pesante di quanto quotidianamente non fosse, a causa dello stress che si costringeva a vivere ogni giorno. Avrebbe potuto gestire tutto diversamente, con maggiore serenità forse e maggiori libertà, ma non era tra le sue priorità questo: per lui l’importante era sempre e solo il profitto, non quello economico, quanto quello culturale. Il suo tempo doveva esser di qualità, sempre.
    Il cameriere gli porse il bicchiere in vetro che, con la luce alle sue spalle, brillò appena una volta disposto sul banco: con un gesto del capo, Zach ringraziò e cominciò a gustarlo, apprezzando che non fosse né troppo freddo né troppo caldo. Non apprezzava i superalcolici gelati o con ghiaccio, trovava che si perdesse parte del loro aroma; fece caso ad un ragazzo, poco più in là rispetto a lui, proprio perché il cameriere gli aveva versato un bicchiere di vodka dall’aspetto gelato: la condensa sulla bottiglia era piuttosto eloquente. Non vide il viso del cliente, si soffermò solo sulla bottiglia, e, prima che quell’episodio potesse imprimersi nella sua mente, tornò con gli occhi sul suo cellulare, decidendo di sistemare la casella della posta ed eliminare tutte le e-mail inutili: ce n’erano davvero tante, se non si fosse occupato di quel lavoro quotidianamente si sarebbe ritrovato dopo una settimana con migliaia e migliaia di mail e pubblicità da cancellare o gettare nello spam dove, talvolta, finivano invece dei messaggi importanti. Tecnologia: meccanismi arcani ed incomprensibili quelli che la regolavano.
    Finito di sistemare tutto, mandò giù l’ultimo sorso di scotch e lasciò una banconota sul bancone, sufficiente sia a pagare il drink sia a lasciare una mancia al cameriere che, come al solito, si era dimostrato di poche parole – qualità da non sottovalutare – e gli aveva offerto un buon servizio: era facile accontentare Zach, bastava semplicemente “non rompergli i coglioni”, per citarlo testualmente.
    Si portò una sigaretta alle labbra ed uscì, tenendo su di una spalla il suo borsone per la palestra, con all’interno semplicemente asciugamano, guantoni, tuta e scarpe. Non aveva nulla con sé di valore, a stento il cellulare e qualche banconota, per le emergenze più che altro: era piuttosto responsabile, non usciva mai di casa senza il minimo indispensabile per ogni evenienza.
    Arrivato fuori al locale, accese la sigaretta e rimise in tasca l’accendino, quasi godendosi quei cinque minuti di calma apparente: doveva rincasare e sistemare un po’ il suo appartamento, lasciato nel caos totale dalla frenesia dei giorni precedenti. Si era occupato di organizzare alcune pubblicazioni, sistemando l’impaginazione e controllando ogni dettaglio prima di passare dall’azienda che si sarebbe dovuta occupare della grafica. Erano stati davvero giorni frenetici e la sua casa, com’era ovvio e naturale, ne aveva risentito: abiti ovunque, lavatrici e lavastoviglie da fare, per non parlare delle pietose condizioni del suo bagno. Per quanto fosse una persona ordinata ai limiti del maniacale, talvolta anche lui si trovava con i tempi così stretti da dover scegliere a cosa fosse meglio dedicare del tempo: in quel caso non vi erano dubbi in merito e la pubblicazione doveva avere la priorità, persino sulla sua igiene, o quasi.
    «Hai da accendere, per caso?» sentì d’un tratto, voltandosi istintivamente verso la voce che l’aveva chiamato e portando automaticamente la mano alla tasca destra, dove teneva l’accendino: era un tipo dall’aria abbastanza ingenua, sulla trentina, capelli biondi e riccioluti. Sfiorò con le dita lo zippo che teneva sempre con sé e vide al contempo il viso di quel tipo cambiare e farsi piuttosto spaventato: che aveva visto? Aveva sollevato persino le mani, come se qualcuno lo stesse minacciando. Zach, con ancora la sigaretta fra le labbra, si voltò a sua volte e vide un uomo che sfoggiava un passamontagna ed una bottiglia rotta, come fosse un’arma. Una rapina fuori all’Egon? Ma da quando quel posto era popolato da gente del genere? In tanti anni a Besaid nessuno si era mai avvicinato a lui con quelle intenzioni ed ora eccoli lì a fare un bel buco nell’acqua, considerando quanto poco valesse quel che portava addosso. Si sarebbe allontanato senza proferire parola fosse stato per lui, ma sapeva che quella non era un’ipotesi contemplata: «Ho 470 corone con me, non credo ve ne facciate molto» commentò, non essendo minimamente considerato dall’uomo e dal suo compagno, arrivato da poco solo per puntargli contro una pistola. I due non parvero apprezzare quanto disse perché la loro risposta fu un puntargli quella bottiglia rotta al collo: Zach non era spaventato, anche se forse avrebbe dovuto esserlo, stava più pensando a come uscire da quella situazione così assurda. Cosa potevano volere da lui e da quel tipo se non i loro soldi? Quel tipo, fra l’altro, aveva l’aria di un perfetto idiota: appariva troppo spaventato, come se nascondesse dentro le tasche il Sacro Graal invece di una manciata di monetine. Era il tipo della vodka? Non avrebbe saputo dirlo con certezza, ma se si fosse trattato di lui l’avrebbe marcato come completo idiota: vodka gelida e comportamento ingenuo, davvero sciocco da parte sua, tanti complimenti tizio dal nome ignoto.
    Senza fare ulteriori storie comunque, Zach seguì i suoi rapinatori insieme al tipo della vodka fino ad un magazzino pieno di cianfrusaglie che stava alle spalle del locale: seduto su una sedia dinanzi a loro insieme al biondino, osservò quei due cercando di capire se magari potessero essere persone conosciute o altro, ascoltando la loro voce.
    Direi di no. pensò, mentre parlavano di qualcosa di assolutamente incomprensibile. Nascondere qualcosa di interessante?! Non fu più d’accordo con il tizio della vodka che commentò quanto assurda fosse quella domanda: «Perché non ci dite semplicemente che volete invece di fare sti giochetti del cazzo?» gli disse, senza mezzi termini lui, con ancora il borsone della palestra sulla spalla. Non avevano minimamente calcolato la borsa: per quanto potessero saperne, poteva esser ricolma di lingotti d’oro. Erano lì con uno scopo ben preciso e Zach non riusciva proprio a capire quale potesse essere: per giunta, cosa volevano da lui e dal biondo? Nemmeno si conoscevano!
    «Quello che potete ottenere da me sono un cellulare di tre anni fa, le 470 corone di cui vi dicevo prima e una tuta sudata» continuò Zach, guardando negli occhi, in maniera alternata, prima l’uomo con la bottiglia e poi quello con la pistola mentre la sigaretta che teneva – sorprendentemente – ancora fra le labbra si sollevava a suon delle sue parole. Probabilmente stava sbagliando a non prendere sul serio la situazione, ma lui era così insensibile sulla maggior parte delle questioni che proprio non riusciva a temere: era, per giunta, fin troppo razionale. Quei due volevano qualcosa, qualcosa di preciso, e non se ne sarebbero andati fino a quando non fosse arrivato da loro, sulle sue gambe o estorto in maniera meno gentile.
     
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    Aveva sempre creduto che l’essere umano fosse frutto di vizi e menzogne, e così aveva condotto la propria vita fino a quel momento. Si nascondevano dietro maschere che la società imponeva loro di indossare, raccontavano frottole per autoconvincersi che il mondo non fosse poi davvero quel lugubre buco di culo che lui stesso detestava. Niente avrebbe risolto quella sua passività, niente avrebbe eliminato l’amaro che in tutti quegli anni aveva cancellato ogni altro sapore dalla sua lingua. Si era perso, così tante volte, da non essere ormai più capace di ritrovarsi per davvero. Era tutto uno stupido gioco ad incastro, per Magnus. La vita era fatta di piccoli tasselli che andavano ad incastrarsi l’uno con l’altro, e mai nel modo giusto. Era per quel motivo che il ragazzo aveva deciso di distruggere ogni convenzione, ogni regola, costruendoci su un vasto castello fatto d’aria che solo lui sarebbe stato capace di vedere, all’interno del quale non vi erano che immaginarie sensazioni, tutte diverse, in mezzo alle quali ci sguazzava con sicurezza. Si lasciava andare a ciò che la sua testa gli suggeriva, agendo con imprevedibilità e seguendo un solo ed unico meccanismo: quello che non esisteva. Quella sera, una come tante altre, aveva deciso di rompere altre catene, di detestare e farsi detestare, imponendo alla propria mente di elaborare vertiginosamente qualcosa che potesse non annoiarlo. Perché, alla fine di ogni cosa, si trattava solo ed esclusivamente di una vita che non aveva alcuna paura di perdere. Un passo dopo l’altro e Magnus acquisiva più sapere, più spavalderia, meno paura di morire. La morte sarebbe stata una grande amica per lui, qualora sarebbe giunta. L’avrebbe accolta a braccia aperte, ma fino ad allora, gli sarebbe passata sotto al naso, andando poi a carpire ciò che lui vedeva, ciò che intorno al ragazzo sembrava avere più vita di lui. Un gioco ad asmi dispari, un velo pietoso sulla giustizia del mondo e la fede di molti. Lui non aveva niente, se non la propria mente e il desiderio di fare in brandelli ogni certezza altrui.
    «Ho 470 corone con me, non credo ve ne facciate molto» si giustificò quindi quel Zach, preso alla sprovvista. Non aveva paura, glielo leggeva nello sguardo, e quel fulmineo e vispo movimento delle iridi non fece altro che incuriosire maggiormente il più piccolo dei Nyström. Se ne stava con le mani sollevate, Magnus, impersonando ciò che lui effettivamente non sarebbe mai stato: spaventato, cercava di capire cosa stesse avvenendo in quel vicolo buio, come mai quei due tipi avessero scelto proprio loro e cosa cercassero da entrambi. Pensò che, se solo non fosse stato invischiato in tutta quella merda, uno come un altro avrebbe potuto farsela seriamente sotto nei pantaloni e non dimenticare mai più, per il resto della vita, un avvenimento come quello. Ma Magnus era il caos, strisciante e sporco, che si muoveva in silenzio mordendo la carne fresca di quelle che sceglieva come prede. Sarebbe morto strisciando, lo sapeva. «Sarebbe troppo facile.» sentenziò il tipo con la pistola rivolgendosi a Zach, rispondendo quindi alla sua affermazione riguardo a ciò che si portava dietro quella sera. Scosse il capo, Magnus, seriamente indignato da quei due e seguendo quindi anche Zach all’interno di quel magazzino puzzolente. Li fecero sedere l’uno di fronte all’altro, mentre i due giravano loro intorno, le armi ancora puntate nella loro direzione. «Perché non ci dite semplicemente che volete invece di fare sti giochetti del cazzo?» chiese quindi il ragazzo, evidentemente infastidito da quella situazione. A guardarlo, Magnus pensò che così come per se stesso, anche per Zach il mondo aveva perso la propria purezza. Non seppe bene con certezza il perché, ma quello sguardo intestardito e seccato diceva molto di lui, che le parole a sua volta non facevano altro che confermare. «Ovvio che non possono, devono fare i cazzuti.» sentenziò Magnus, rispondendo ironicamente alla domanda dell’altro. Fu un attimo e la pistola tocco la sua carne fresca, l’estremità posata contro la sua tempia sinistra. Chiuse gli occhi, Magnus, espirando pesantemente dal naso e riaprendo le proprie palpebre qualche istante dopo. «Ti piace scherzare, eh? A noi no. Vuoi vedere come siamo seri?» chiese allora quello, avvicinandosi al ragazzo e chinandosi violentemente nella sua direzione, il respiro che s’infrangeva lungo la guancia di Magnus. «Quello che potete ottenere da me sono un cellulare di tre anni fa, le 470 corone di cui vi dicevo prima e una tuta sudata» continuò quindi Zach, continuando a porre l’attenzione dei due su ciò che materialmente sembravano avere con loro. Ma non capiva, non ancora. Volevano altro, volevano qualcosa che oltre quei confini non avrebbero mai potuto vedere, ammirare. Volevano conoscenza, prospettiva, incanto. C’era qualcosa di molto più puro, oltre il materiale. C’era lo spirito e il tocco di un’anima preziosa, dentro le mani di Zach. Era un elemento a se, un circuito di potenzialità che, forse, neanche lui riusciva a vedere in se stesso. «Io sono ricco sfondato, ma insomma, non credo che sia così facile lasciarmi davvero in mutande, no?» esclamò Magnus, un mezzo sorriso che iniziava ad apparire sul suo viso, nonostante la canna della pistola ancora puntata contro la sua tempia nuda e calda. Cavolo, era un’ovvietà quella che aveva appena detto! «I sistemi bancari di oggi non sono di certo da sottovalutare, ragazzi.» sentenziò ancora, scuotendo appena il capo, prima che il tipo incappucciato allungasse una mano e costringesse il collo di Magnus nella sua presa ferma. Ne tirò il capo all’indietro, spingendolo contro il proprio stomaco e mantenendolo saldo, mentre le pistola si andava spingere contro la pelle morbida della guancia. Nel frattempo, l’altro aveva lasciato andare Zach, allontanando dal suo collo il vetro rotto della mezza vbottiglia che reggeva fra le mani. Aveva allungato le dita in direzione della sigaretta che ancora stringeva fra le labbra e gliel’aveva tolta, strappandola via da esse e gettandola per terra, poco lontano da loro. Era scomparso qualche brevissimo istante nel buio, avvicinandosi ad uno di quei polverosi scaffali presenti control la parete. Vi aveva rovistato appena, voltandosi nuovamente verso il tavolo ed avvicinandosi a passo lento verso di esso. Il silenzio fu assordante, in quei brevi secondi, mentre gli occhi di Magnus si posavano con lentezza e curiosità sul viso massiccio di Zach, seduto di fronte a lui. Fu solo in quel momento che la pistola di distaccò nuovamente dal suo viso e il rapinatore compì un piccolo passo indietro. «Cosa ci vedete in questo?» chiese quindi sottovoce il primo dei due, che ancora stringeva la bottiglia in una mano mentre, con l’altra, posava sulla superficie del tavolo di metallo un oggetto dalle piccole dimensioni. Faticò a riconoscerne la forma per qualche istante, Magnus, mentre con lo sguardo ne studiava i contorni. Riconobbe un Alfiere, la pedina per gli scacchi. Era di colore bianco perlaceo, forse fatto di ceramica e dipinto brevemente a mano. «Un cazzo di alfiere.» disse quindi Magnus, sollevando appena le spalle ed arricciando le labbra, innervosito. «Tu che cazzo ci vedi, scusa?!» chiese, chinandosi appena in avanti e sollevando il mento verso il tipo mascherato che aveva appena posato il piccolo oggetto sul tavolo. «Porca puttana, scherziamo?! Vuoi che giochiamo a scacchi o cosa?!» si lamentò, tirando poi un calcio alla gamba del tavolo, che immediatamente tremò sotto il suo colpo, incapace di poter stare fermo. In un certo senso, l’ideatore di quel gioco e colui che avrebbe dovuto essere una delle vittime si stavano miscelando, divenendo una sola persona, incapace di distinguere la realtà dalla finzione, quella di un attore che avrebbe dovuto recitare la parte di una vittima. Eppure non ci riusciva, Magnus, prendeva ogni cosa sul personale, ogni singola fottuta parola. Stavano svolgendo tutto ciò che lui aveva detto loro di compiere, nel modo in cui lui aveva imposto loro di farlo. Eppure, dentro di se, scalpitava per venire fuori e spaccar loro la faccia. Fu in quel momento che un pugno lo stese per qualche secondo. Il tipo con la pistola si era avvicinato e gli aveva sganciato un colpo proprio sul viso, colpendolo in piena faccia e lasciandogli un segno evidente sullo zigomo. Abbassò per qualche secondo lo sguardo, inspirando pesantemente dalle labbra e ritornando a guardare i due con disprezzo. «Tu sembri ragionare meglio. Cosa ci vedi in questo alfiere?» gli domandarono.
    Oro. Ci vedevano oro.
     
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    Perdite di tempo, una dopo l’altra: Zach detestava quando il suo equilibrio, tanto faticosamente ricercato, precipitava nel caos. Non era mai stato rapinato, da nessuno, forse a causa del suo aspetto fisico, forse perché in un modo o nell’altro non aveva mai avuto problemi nel difendersi anche grazie allo sport che praticava. Quale ritardato si sarebbe messo a mani nude contro un pugile? Dopotutto però quei due criminaletti erano venuti muniti di qualcosa di ben più utile dei semplici arti.
    Seduto su quella sedia insieme al biondo che aveva incrociato fuori all’Egon, osservava lo scorrere degli eventi, cercando di mettere a fuoco la situazione e trarvi qualche soluzione: erano stati portati entrambi lì, senza però essere – ancora – toccati con un dito, primo, per cui di certo non volevano semplicemente derubarli o, almeno, non volevano farlo in modo canonico. Volevano fare i cazzuti, era proprio la risposta corretta dopotutto, almeno stando agli eventi fino a quell’istante. Un lieve sorriso apparve sul volto di Zach, per nulla turbato: era seccato, annoiato forse, sperava che quella sceneggiata o qualunque altra cosa fosse finisse presto.
    Non fu però una buona idea dato come uno dei due tipi reagì in malo modo, minacciando il poveraccio con la pistola. «Andiamo, che cazzo di senso ha? Non siamo in un film di gangster.» gli disse, girando appena il capo verso di lui e incrociando il suo sguardo. Era così convinto che non sarebbe successo niente di male che, oramai, persino il suo modo di fare saccente non si era sopito per la paura o qualunque altra cosa fosse: volevano qualcosa, tutto stava a capire cosa, e detestava non saperlo.
    Elencare quel che possedeva, in quel momento, addosso non servì a nulla, se non a far scattare persino il ragazzo che, per la prima volta, non parve affatto spaventato. Ci fu come un cambiamento facciale, una sorta di lieve consapevolezza nella sua voce e nel suo volto, come se effettivamente si sentisse sicuro di avere i propri averi al sicuro…ed era vero. Se avevano creduto di poter derubare in maniera tanto blanda qualcuno avevano sbagliato ogni cosa: certo, potevano farsi dare le coordinate bancarie del giovane Lex Luthor estorcendogliele in qualche modo, ma quanto ci avrebbero messo a bloccare ogni cosa e a trasferire il denaro? Se sul serio era così ricco come diceva non sarebbe stato così semplice poterlo derubare. E lui? Che cazzo c’entrava lui? Nonostante la sua particolarità fosse quella di poter tramutare piccoli oggetti in oro non poteva vantare chissà quante ricchezze: non ne aveva bisogno, ne approfittava solo per togliersi qualche sfizio e vivere in maniera più che dignitosa. Oramai nemmeno la sfruttava, se non per dei viaggi o delle spese tutt’altro che quotidiane: allora perché?!
    Mentre uno ad uno teorie su teorie venivano rapide, come se il tempo si fosse bloccato, il tizio che lo stava minacciando con quella bottiglia rotta gli strappò la sigaretta dalle labbra, facendo sanguinare appena quello inferiore. Divertente: non gli aveva fatto del male con la bottiglia ma aveva tirato via quella piccola stecca, incollata alle sue labbra ormai secche, facendolo sanguinare in quel modo, paradossale. Lavò via il sapore metallico di quelle gocce di sangue congiungendo appena le labbra e rimanendo fermo lì, osservando cauto i gesti dell’uomo che, per qualche motivo, si era messo a cercare qualcosa all’interno di quegli scaffali ricolmi di cianfrusaglie. Aveva immaginato potesse tirare fuori qualcosa di più minaccioso di una bottiglia, magari una seconda pistola, ma a quanto pare così non fu: tirò fuori un pezzo degli scacchi, un alfiere, come per le rime gli fece notare Lex – ormai nella sua mente aveva questo nome –.
    Era un cazzo di alfiere, niente di più, niente di meno, ma Zach cominciò a capire dove volevano andare a parare: era chiaro, volevano derubarli, ma non di qualcosa di materiale. Sospirò appena, quasi rassegnato al fatto che quella serata sarebbe ormai andata direttamente a puttane. Il sottofondo musicale di quel pensiero fu il rumore di un pugno, bello intenso, che cappuccio numero due diede al suo compagno di sventura.
    Non volevano giocare a scacchi, purtroppo.
    Quando era arrivato a Besaid, tanti anni prima, Zach aveva scoperto la sua particolarità proprio in quel modo, giocando a scacchi: da bambino non si era preoccupato di nascondere quel suo potere e, per dimostrare la sua sincerità, tramutò proprio un alfiere di plastica in un alfiere in oro zecchino. Erano in pochi ad averlo visto, in pochi a saperlo, ma evidentemente l’informazione era riuscita ad arrivare a quei due tipi che, visibilmente, avevano un doppio interesse nel tenerlo in vita. Qualcosa non tornava però: Lex Luthor che cazzo c’entrava?!
    «Vorrei tanto sapere come siete arrivati a scoprirlo.» disse Zach, sollevando lo sguardo, con un aria sicura di sé così fastidiosa che nessuno si sarebbe stupito se gli fosse arrivato un pugno dritto sul naso: se lo sarebbe meritato tutto quanto. Allungò appena una mano e prese l’alfiere, rigirandoselo fra le dita, facendolo roteare tra le nocche mentre i suoi occhi fissavano dapprima cappuccio numero uno, poi cappuccio numero due, che ancora teneva in mano la pistola con cui aveva minacciato Lex.
    Lasciò ricadere l’alfiere nella mano, con un gesto fulmineo, lo strinse forte nel palmo e, quando l’ebbe riaperto, il piccolo pezzo era divenuto d’oro zecchino, come desideravano. «Per oggi lo show è finito, a meno che non mi vogliate sequestrare per avere una bella scacchiera nuova nell’arco di un paio di settimane.» li sfidò. Aveva mentito, sebbene non totalmente: la sua particolarità era sì limitata ad oggetti di piccola taglia, ma non si esauriva così facilmente. Riusciva a trasformare quegli stessi oggetti fino a quando il suo corpo glielo permetteva, spingendosi fino al limite talvolta: ci aveva provato, anni addietro, quando ancora non aveva un lavoro e desiderava pagarsi da sé ogni abuso, ma il suo corpo gli aveva detto basta e, da lì in poi, aveva smesso di sperimentare, limitandosi a sfruttarla in momenti di vero bisogno. Fu costretto a mentire, doveva farlo se voleva provare ad uscire da lì dentro. Gli bastava un attimo, un secondo affinché quello con la pistola fra i due lasciasse la presa o, almeno, smettesse di puntargli la pistola addosso.
    «Quindi ora che succede? Mi rapite, prosciugate il conto di Lex Luthor e tutti vissero per sempre felici e contenti?» continuò, sperando in una reazione. Bastava quella, magari anche ricevere un pugno: sapeva come incassarlo e sapeva come reagire. Un diversivo, ecco cosa stava facendo e, sperò, che anche il ragazzo di fianco a lui avesse capito il trucco e cercasse di dargli una mano: erano due contro due tutto sommato, sebbene entrambi fossero armati.
    Avevo perso la role nei meandri delle iscrizioni ç_ç perdonami il clamoroso ritardo
     
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3 replies since 4/9/2018, 23:38   165 views
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