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Isie&Magnus | tarda nottata

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    ISOLDE JASMIJN DEWITT-LENNOX ➽

    Le linee, i numeri stampati in inchiostro nero sul foglio candido cominciarono a confondersi dinanzi ai suoi occhi, fondendosi in un insieme indistinguibile e ingarbugliato. Isolde battè più volte le palpebre, avvertendo la fastidiosa sensazione di avere piccoli granelli di sabbia negli occhi. Aveva la vista annebbiata e, nel corso dell’ultima ora, il dolore alla testa era peggiorato consistentemente: le fitte si erano ormai trasformate in un dolore continuo e costante, talvolta più acuto nella parte frontale o vicino alle tempie. Con un sospiro, si sfilò gli occhiali dalla montatura sottile e li posò sulla scrivania di pregiato legno scuro. Chiuse gli occhi e poggiò i gomiti sul tavolo, massaggiandosi lentamente le tempie. Quel gesto le fornì un sollievo quasi impercettibile. Era stanca, dolorante ed intorpidita. Il suo corpo aveva accumulato la tensione di quegli ultimi giorni assorbendola come una spugna, a tal punto che diversi punti che, negli anni precedenti, avevano riportato delle lesioni avevano cominciato a darle seccanti fastidi. Lentamente, la giovane donna ruotò il capo verso destra e, dopo qualche istante, compì il medesimo movimento verso sinistra, in senso circolare. Il collo scrocchiò e la tensione si allentò appena. Sollevò le braccia sopra la testa e si stirò verso l’alto, avvertendo il peso sull’osso sacro diminuire, dandole una vaga (ed effimera) sensazione di sollievo. Di lì a poco si sarebbe sentita nuovamente rigida come un manico di scopa, satura sino all’attaccataura dei capelli di stress, inquietudine e nervosismo. Aveva davvero bisogno di sfogarsi, concedersi un’intera giornata per sé, lontano dalle questioni che riguardavano il Perception e dai conti del ristorante di copertura, il Delaunay Bistro, che con la stagione estiva sembrava essere stato letteralmente preso d’assalto dalla clientela locale e dai turisti che, attratti dalle fiabesche caratteristiche di Besaid, vi si soffermavano per godersi un pranzo leggero e gustoso o, talvolta, una cenetta romantica e ben curata. E così Isie si era ritrovata a fare letteralmente il doppio turno, divisa tra il ristorante di giorno e, alla sua chiusura, le attività più o meno legali che si svolgevano nelle elitarie sale del Perception; l’unico motivo per cui si recava a casa, concedendosi si e no quattro ore di sonno a notte, era per prendersi cura di Yves e Laurent, i suoi gatti certosini. Se non avesse dovuto assicurarsi che avessero cibo a sufficienza, acqua fresca e la lettiera pulita, probabilmente avrebbe dormito sul comodo divano del suo ufficio al Perception, avendo l’accortezza di portare con sé un cambio adeguato per il giorno seguente.
    Avvertendo un forte bisogno di caffeina – chiusa là sotto, lontano dalla luce del sole, lo scorrere del tempo sembrava fermarsi, come se le lancette dell’orologio si immobilizzassero su un orario indefinito, una spazio-tempo irraggiungibile e frastornante – spense la abat-jout e richiuse il fascicolo della contabilità del Bistro, facendolo sparire nel primo cassetto della scrivania; fece scattare quest’ultima serratura e fece scivolare la minuscola chiave nel braccialetto d’argento che portava al polso. Puntando i piedi fasciati da lucidi tacchi a spillo di vernice rossa sul pavimento, spinse indietro la sedia di pelle, scivolando con le rotelle sul liscio pavimento di marmo. Si alzò e si sistemò la gonna di pelle nera, lisciandone le poche pieghe, prima di avvicinarsi allo specchio appeso alla parete, osservando il proprio riflesso all’interno della cornice riccamente decorata. Il trucco ancora impeccabile mascherava i segni scuri sotto gli occhi ma, nonostante ciò, i suoi lineamenti apparivano diversi, stanchi. Sembrava eccessivamente seria, quasi sciupata. La sua pelle era più pallida del normale; sotto le luci soffuse dell’ufficio aveva un aspetto spettrale, forse a causa dei capelli biondissimi, quasi bianchi nell’immagine riflessa dalll specchio, o del netto contrasto con il colore rosso intenso della camicia, particolarmente evidente nello scollo profondo, dove la pelle delicata dello sterno e la curva morbida dei seni era esposta.
    Isie si inumidì le labbra, allontanandosi dallo specchio. Aprì la porta dell’ufficio e uscì, richiudendosela alle spalle. Il ritmico ticchettio dei tacchi sottili la accompagnò per tutto il percorso lungo il corridoio in cui si snodavano diverse stanze in cui l’accesso era permesso solo al personale – dal magazzino ai camerini per le spogliarelliste – ben separati da quelle in cui quasi tutto era concesso. Sbucò dalla porta nascosta dietro il bancone del bar e, aggirandolo, si accomodò su uno degli sgabelli, accavallando le gambe e posando le mani, pallide e dalle unghie perfettamente curate, sul bancone. Il barman, un uomo sulla quarantina di bell’aspetto e in grado di preparare drink deliziosi, le rivolse un caloroso sorriso. «Buonasera sign… Isolde.» Si corresse, ricordando che Isie preferiva mantenere una relazione di amichevole rispetto e collaborazione con i suoi dipendenti. «Buonasera a te, Henri.» Lo salutò a sua volta, sporgendosi lievemente verso di lui. Si guardò attorno, lasciando vagare lo sguardo su volti noti che si stavano godendo l’ennesima serata senza preoccupazioni. «La serata sembra proseguire bene. Tu come stai?» Chiese poi. Henri, il barman, le rivolse un cenno del capo. «E’ una buona serata, si. E io sto bene, finalmente sono riuscito a saldare il mutuo. Mia moglie era così felice da mettersi quasi a piangere.» Replicò, quasi ridendo. Isolde battè le mani fra loro, agitandosi sullo sgabello. «Ma è meraviglioso! Sono davvero contenta per voi!» Si congratulò, allungando una mano e posandola su quella dell’uomo. «Una sera dovete assolutamente venire a cena al Bistro per festeggiare. Come miei ospiti, ovviamente.» Aggiunse, facendogli l’occhiolino. Si premurava sempre di informarsi circa l’andamento generale della vita dei suoi dipendenti. Lo faceva un po’ per cortesia ed un po’ per sincero interesse; al contrario di Gregory, che aveva ridotto quel posto ad una bettola intrisa di squallore e violenza, Isie era una propietaria dotata di polso, ma disponibile e piacevole. Il fatto che poi fosse spalleggiata da individui più pratici e meno vezzosi come Wade e Magnus, poi, bastava a fare il resto e a intimidire chi, per caso, pensasse anche solo lontanamente di potersi approfittare della situazione. Il cognome Lennox, inoltre, incuteva ancora un discreto timore.
    Mentre parlavano, un cameriere si avvicinò al bancone e, dopo aver salutato Isolde, allungò una comanda in direzione di Henri. Il barman corrugò appena la fronte – cosa che non sfuggì ad Isie – e, recuperando un vassoio da sotto il bancone, lo posò sul tavolo. Afferrò un tumblr e lo riempì di ghiaccio, infine afferrò il collo di una bottiglia appannata di vodka pregiata e ne versò una generosa quantità nel bicchiere, sino a ricoprire il ghiaccio. Spostò il bicchiere all’interno del vassoio e richiuse la bottiglia ma, prima che potesse metterla via, il cameriere lo fermò. «Il signor Nystrom ha chiesto di lasciargli la bottiglia.» Henri spostò lo sguardo su Isolde, titubante. Più di una volta Isie aveva rimproverato Magnus per il suo abuso di alcol, senza mai scendere nei dettagli. I dipendenti sapevano che durante il turno di lavoro non era permesso bere né drogarsi, eppure Magnus si appropiava della prerogativa di fare il bello ed il cattivo tempo in base ai suoi repentini cambiamenti d’umore. Pur essendone cosciente, Isie aveva sempre lasciato correre finchè la cosa restava celata al resto dei loro sottoposti. «Magnus è ancora qui?» Domandò, fingendosi sorpresa, lasciando vagare lo sguardo per la sala alla ricerca del viso fin troppo familiare di suo cognato. In quegli ultimi giorni non lo aveva praticamente visto. Dopo ciò che era successo a casa sua, Isie aveva preferito evitarlo, ugualmente incapace di affrontare o lasciarsi alle spalle il loro scontro. Le poche volte in cui era stata costretta a rivolgersi a lui lo aveva fatto attraverso qualche membro dello staff, inviandogli mail o messaggi, persino piccole note scritte nella sua graziosa calligrafia corsiva e, infine, tramite monosillabi, premurandosi di non guardarlo in faccia. Non sapeva bene cosa fare e la cosa non aveva fatto altro che aggiungere ulteriore stress a quello che già sopportava normalmente. Non solo, quell’impasse le aveva persino impedito di sfogarsi adeguatamente, approfittando di Magnus come valvola di sfogo. Al solo pensiero una fitta alla testa la colpì nuovamente, riportandola bruscamente alla realtà. «Si trova nel privè numero 3.» Istintivamente, Isie spostò le iridi chiare in direzione del corriodoio sul quale si affacciavano i privè, nemmeno fosse in grado di vedere attraverso i muri. «E’ in compagnia?» Domandò a bruciapelo, senza che nulla nella sua postura tradisse alcuna emozione. Il cameriere esitò, forse timoroso della reazione di Magnus se avesse rivelato qualcosa che doveva restare privato. Ma trovarsi tra lui ed Isolde Dewitt era una posizione scomoda e perisolosa e infine, quando Isolde inarcò un sopracciglio per invitarlo a risponderle, cedette. «No… non quando ha ordinato da bere.» Rispose, sperando che quella mezza risposta fosse abbastanza. Isie annuì, facendogli intuire con un veloce gesto della mano che poteva tormare a servire ai tavoli. Quella situazione non poteva andare avanti ancora per lungo. Magnus avrebbe dovuto iniziare a seguire la linea di condotta di tutti i loro collaboratori, smettendola di soddisfare i propri capricci come se tutto gli fosse dovuto. Inoltre, la sola possibilità che lui si trovasse in compagnia di una donna – o, peggio ancora, di una delle spogliarelliste – le faceva ribollire il sangue nelle vene. Davati allo sguardo chiaro di Henri, Isie afferrò il bicchiere di vodka liscia e lo portò alle labbra, scolandolo in sorso solo. La gola le andò a fuoco ma, nonostante le lacrime agli occhi, la giovane non si scompose. Con un movimento aggraziato scese dallo sgabello e, afferrata la bottiglia di vodka con una mano e il bicchiere colmo di ghiaccio con l’altra, si diresse a passo deciso verso il privè in cui Magnus si trovava. Parecchi uomini si voltarono a guardarla, attirati dall’ipnotico movimento dei fianchi, accentuato dalla gonna aderente e dai tacchi.
    Giunta dinanzi alla porta del privè, posò la mano sulla maniglia e, senza alcuna esitazione, la aprì senza preoccuparsi di bussare. Entrò a testa alta, padrona di sé stessa e del locale, lasciando che la porta le si richiudesse alle spalle da sola. Con sua sorpresa, Magnus era solo, seduto su uno dei divanetti in fondo alla stanza, il tavolino davanti a lui ricolmo di mazzette di denaro e di pacchetti bianchi. La sua mente le suggerì che si trattava di cocaina. Lui alzò la testa nella sua direzione e, quando i loro occhi si incrociarono, le ultime parole che le aveva rivolto - «Ricorda che porti ancora il suo cognome. Se cado giù io, puoi starne certa… affondi con me, che sia io a tirarti giù o no.» - rimbombarono nelle orecchie di Isolde procurandole un dolore quasi fisico. Bruciavano. Di rabbia e di vergogna e, forse, anche un po’ di rimorso. «Serata fruttuosa?» Domandò, riferendosi alla quantità di generi vari presente nella stanza; ve ne era abbastanza da farli finire tutti quanti in prigione e buttare via la chiave. Gli si avvicinò lentamente, notando come, in risposta, lui si fosse leggermente raddrizzato, forse per poterla tenere d’occhio o forse – come Isolde avrebbe preferito pensare – perché ciò che vedeva non gli dispiaceva. «Spero di non aver interrotto nulla. Non eri in compagnia?» Domandò, con finta casualità, arrivandogli abbastanza vicino da intromettersi tra lui e il tavolino, dove erano accuratamente sistemate parte delle mazzette già contate. Vi si sedette sopra, nello spazio libero, esattamente tra la droga ed il denaro. Tra lei e Magnus, una distanza minima, in cui le loro ginocchia si sfiorarono quando Isolde accavallò le gambe, attraverso il tessuto dei pantaloni di lui. Da quella breve distanza, Isolde percepì l’odore della sua pelle, un misto di bangoschiuma e, forse, colonia leggera di qualche tipo. Non aveva mai capito cosa utilizzasse Magnus; non le sembrava affatto il tipo da costosi profumi, eppure lo aveva avuto così vicino abbastanza da memorizzare il sentore della sua pelle, l’odore più intenso tra i capelli e il sapore che sprigionava al baciarla, leccarla, morderla. Inevitabilmente – e suo malgrado – il suo corpo reagì a quello stimolo. La tensione che aveva accumulato la faceva sentire tesa come una corda di violino, pronta a vibrare, sotto un tocco adeguato, da un momento all’altro.
    Tentando di scacciare quella sensazione di svantaggio, Isolde versò una generosa quantità di vodka nel bicchiere col ghiaccio. Poi, come se fosse la cosa più normale del mondo, schiuse le gambe e incastrò la bottiglia gelata tra le cosce, la pelle liscia e delicata esposta dalla gonna di pelle che, con quel movimento, si era arrotolata ben oltre il ginocchio. «Allora…» Esordì, alzando lo sguardo su Magnus e dondolando lievemente il bicchiere pieno di liquido trasparente, con un grazioso movimento del polso. «cosa mi racconti di bello?» Si inumidì le labbra e lo fissò dritto negli occhi, una sfida silenziosa. Sapeva che desiderava bere, ma se avesse voluto farlo avrebbe dovuto prendere la bottiglia. E lei non aveva intenzione di concedergliela tanto facilmente. Gettò un’occhiata ai pacchetti di coca, inclinando il capo all’indietro oltre la spalla. «Ti sei già fatto una striscia o hai intenzione di aspettare più tardi?» Le sue parole risuonarono acide, provocatorie. «Sai, dovresti davvero darti una regolata. Mischiare tutte queste sostanze – l’alcol, la droga – con le tue pillole non è certo salutare.» Ridacchiò, scuotendo il capo, l’unica a trovare dell’ironia in quella situazione. «La dipendenza potrebbe davvero trascinarti in basso Soffiò, scegliendo appositamente quel connubio di parole. Senza distogliere lo sguardo da quello di lui, portò il bicchiere alle labbra, bevendone un generoso sorso.
     
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    Era entrato a passo svelto, mettendo un piede avanti l’altro su quella moquette scarlatta che rivestiva i pavimenti del Perception. Ne aveva calpestato la superficie come se fosse roba sua, come se lì dentro fossero gli altri a doversi spostare, e non lui a dover scansare i corpi accesi di chi se ne stava lì, un po’ impalato, ad osservare con sguardo assorto i corpi di un paio di belle e brave ragazze al palo. Riconobbe Malice girare sulla piattaforma che sarebbe stata sua per quella sera, osservandone di sfuggita i lineamenti formosi del suo corpo giovane, chiaro quanto fosse portata per quel tipo di danza, nuova persino per lei. Poco distante da lei, per metà nascosta nel buio, la tutina rossa di Deadpool attirò la sua attenzione, mentre Magnus attraversava la sala come se stesse camminando per i corridoi lunghi ed eccentrici di casa Lennox. Il tutinomane aveva il viso rivolto verso il centro della sala proprio dove, sotto i tiepidi riflessi di luce, la giovane donna dai capelli castani era presa da un movimento piuttosto interessante che comprendeva le sue belle gambe e il palo argentato fissato dal soffitto fino al suolo, tanto che Magnus credette di aver visto una bandierina innalzarsi nel basso ventre del suo collega. Superata la sala e raggiunto l’uscio che portava alle salette private, Magnus si voltò ancora un momento verso il centro degli affari del Perception: scrutò superficialmente tra la folla, provando ad adocchiare un vitino stretto e una chioma bionda a lui ben nota, con scarso risultato. Fece quindi un cenno al barista di cui neanche ricordava il nome, sollevando il mento in sua direzione ed annuendo una sola ed unica volta; avrebbe capito. Bene o male, ogni dipendente del Perception sapeva chi fosse e di cosa realmente si occupasse, così come ormai riuscivano a comprendere i suoi gesti facciali e non. Il ragazzo avrebbe saputo perfettamente cosa fare: aveva dunque preparato un vassoio poggiandoci sopra un solo bicchiere da Champagne e una bottiglia di prestigioso Moët, sostenuta da un cilindro di vetro all’interno del quale si sarebbe mantenuta fresca fino al momento dell’apertura; lo aveva poi seguito, qualche passo più indietro di Magnus, accompagnandolo nel privè numero 3, il suo preferito. Una saletta eccentrica ma non troppo, a differenza delle altre. Era più scura e i tendaggi che scendevano dal soffitto, nascondendo quindi le pareti, erano di un tessuto nero e lucidissimo. «Magnus, amico mio! Ben trovato!» una voce dal tono forse troppo acceso, per i suoi gusti, accolse il più giovane della famiglia Nyström seguito dal tipo che lavorava al bancone nella sala delle meraviglie, il quale s’impegnò a posare il vassoio silenziosamente sul tavolino e fare retro-front per uscire nuovamente dalla stanza, prestando attenzione a far sì che la porta rimanesse chiusa dietro di sé, una volta fuori. Si avvicinò al tavolino, Magnus, laddove un giovane in jeans e camicia bianca -piuttosto aderente- se ne stava sprofondato in mezzo ai cuscini delle panche a muro completamente rivestite di pelle laccata. Portava gli occhiali da sole posizionati sulla capigliatura folta e castana, sebbene lì dentro -e anche fuori, vista la tarda ora- non vi fosse l’ombra alcuna di una luce che avrebbe potuto frantumare le sue iridi in tanti piccoli pixel luminosi. Non sorrise, Magnus, facendo un passo avanti e chinando appena il capo da un lato, mentre una delle sue sopracciglia di sollevava lentamente verso l’alto. Era in attesa, Magnus, che il tipo abbandonasse la comoda forma che con le natiche aveva disegnato nei cuscini che premeva con esse, sollevandosi quindi per chiudere l’affare in maniera semplice e veloce. «Guarda qua cosa ti ho portato. Devi assolutamente provarla e se mi dai l’ok, ti faccio ricavare almeno il venti percento in più rispetto al solito.» blaterò ancora il ragazzo, continuando a restarsene comodamente seduto e a scansare la consapevolezza del fatto che, probabilmente, a Magnus non interessava un fico secco di ciò che stava dicendo. «Trevor.» lo chiamò quindi l’altro, abbassando lo sguardo sulla bottiglia di Champagne che andò ad estrarre dal cilindro, per poi scartarne il tappo. Premette piano sul sughero che ne sigillava la bocca, lasciando quindi che scivolasse piano ed evitando che volasse per aria, finendo chissà dove. Un pop risuonò nel privé, nel momento esatto in cui una scia di schiuma profumata fuoriuscì dalla bottiglia, rigandola e finendo per terra. «Con i dovuti saluti da parte di Roger. Voleva complimentarsi con te per le ultime entrate e… per come hai gestito quell’affare. E’ rimasto molto colpito.» parlò Magnus, e sebbene chiunque avrebbe potuto immedesimarsi in quella farsa, sorridendo e compiacendo così il proprio ospite, lui non lo aveva fatto, optando come sempre per un’espressione sobria e seriosa. Gente come Trevor mancava di istinto di sopravvivenza: se solo ne avesse avuto almeno un po’, avrebbe compreso come sarebbe andata a finire la serata e, più di tutto, non avrebbe accettato di bere dello Champagne da uno come Magnus, troppo invisibile per permettere agli altri di lasciarsi scavare dentro e scoprirne quindi i meccanismi. Il giovane Nyström mantenne quindi per qualche istante la bottiglia verde scuro per aria, il braccio che andava ad aprirsi disegnando un arco all’ingiù. «Cazzo, mi fa piacere. Mi fa davvero piacere! Mi piace lavorare per voi, lo sai, sono sempre disponibile per qualsiasi cosa, amico. Roger dice, Trevor fa.» concluse l’altro, stendendo le gambe dinanzi a se, sotto al tavolo, e lasciando che la schiena aderisse alla pelle nera dietro le sue spalle. Schiuse appena le labbra, Magnus, davanti a quel movimento naturale; un lato della bocca sembrò incurvarsi appena all’insù, andando a generare ciò che aveva la parvenza di un sorriso interrotto bruscamente a metà. «Alla tua, Trevor.» sussurrò, andando finalmente a riempire il bicchiere di vetro e porgendoglielo con la mano libera, mentre andava a posare nuovamente la bottiglia sul vassoio. Trevor lo afferrò subito, scolandosi il liquido dorato come se fosse acqua e riposando il bicchiere sul tavolo, mentre un sorriso visibilmente compiaciuto e soddisfatto anima quella sua espressione da coglione. Si voltò poi alla sua sinistra, chinandosi in direzione del pavimento ed issando un borsone della puma che sembrava odorare ancora di nuovo. Lo posò sulla superficie liscia del tavolino, afferrando il cinturino della cerniera e tirandolo con velocità, lasciando che l’interno del borsone fosse visibile anche agli occhi chiari di Magnus. «Sono tutti qua, amico. Purissime novecentomila corone.» sibilò, quasi in un sussurro; quasi come se Magnus non avesse mai visto così tanto denaro in vita sua, fino a quel momento. «Allora se per te è ok, io mi sarei fatto un calcolo, mi prendo la mia parte e- s’interruppe d’istinto, non appena lo sguardo di Magnus sembrava aver cambiato tono. «Prima di tutto, Trevor, io e te non siamo amici.» prese Magnus, il tono della voce piatto non tralasciava alcuna sensazione, alcun risentimento. Era stranamente calmo, come ogni singola volta in cui lo aveva visto e avevano parlato di semplici affari. «Secondo: fossi in te me la darei a gambe levate, perché in meno di quindici minuti la tua casa potrebbe essere fin troppo affollata, credimi. E tu, di certo, non vuoi che trovino il bottino d sette chili abbondanti che nascondi come un idiota sotto le mattonelle del bagno, non è vero?» cantilenò Magnus, scuotendo il capo mentre il proprio viso restava serio di fronte alla paura che leggeva tutto ad un tratto nello sguardo di Trevor, finalmente in piedi. Gli vide le mani tremare, il collo e la fronte lucide per via del sudore. «E Terzo: la prossima volta che ti scopi mia sorella, cerca di farlo da sobrio, magari te ne accorgi che intorno alle donne Lennox ci sono occhi e orecchie ovunque.» concluse, schioccando le dita ed arricciando le labbra, quasi volesse scusarsi e dispiacersi per il guaio in cui si era cacciato, il cui nome non era altro che lo stesso portato da Lennox Senior. Fece per sollevarsi, Trevor, afferrando con incertezza la propria giacca e scostandosi dal tavolo, prima di buttare un’ultima occhiata al borsone ed infilarci le mani dentro per frugare frettolosamente, sotto lo sguardo attento di Magnus, il quale avrebbe perfettamente saputo cosa fare, se il tipo avesse deciso di ribellarsi in qualsiasi modo. Ma le mani vennero fuori, solo colme di bustine trasparenti piene di una polverina bianchissima, pura come nulla, in quella stanza. «Ah-ah.» un verso melodico venne fuori dalle labbra di Magnus, il quale sollevò una mano in direzione dell’altro per agitare il dito indice di fronte al suo viso imperlato dal sudore. «E’ roba mia, questa.» sibilò Trevor a denti stretti mentre Magnus indicava il tavolo con il mento, senza aggiungere altro. Sospirò pesantemente quindi, allargando la presa attorno ai sacchetti e lasciando che questi cadessero sulla superficie del tavolo, accanto al borsone ricolmo di banconote norvegesi. «Buon proseguimento di serata, Trevor. Ricambio i saluti per Roger?» chiese al tipo mentre questo gli dava le spalle per uscire di fretta dal privè, ormai a mani vuote. Non diede alcuna risposta, ma anzi lasciò sbattere la porta alle proprie spalle, regalando a Magnus una delle soddisfazioni che aveva atteso per troppo tempo, sperando di levarselo di torno prima. Probabilmente non lo avrebbe più rivisto, ma ormai non era più un suo problema.
    Si premurò di sistemare i sacchetti all’interno del borsone, chiudendolo e posandolo momentaneamente sul pavimento, prima di uscire un breve istante al di fuori del privè. Ordinò a qualcuno dello staff di entrare a ritirare la bottiglia ancora mezza piena di Moët, suggerendo poi di farsi portare della vodka con ghiaccio, come suo solito. Nell’attesa, ripescò il borsone dal pavimento per sistemarlo sulla divanetto rivestito di pelle e aprirlo. Ne tirò fuori prima di tutto i sacchetti ricolmi della sostanza che poco prima il ragazzo aveva elogiato con tanto amore e devozione, per poi estrarre alcune delle mazzette e posarle accanto ad essi, sulla superficie orizzontale lucida e scura. Ne contò una sola, prima di essere interrotto dal rumore della porta che si apriva. Le gambe dritte e la schiena appena ricurva sul tavolo rimasero nella stessa posizione, prima di assecondare lo sguardo curioso e rizzarsi per poter permettere al proprio corpo di assumere una posizione eretta, le spalle larghe sotto la giacca nera che copriva la sua camicia più chiara. Gli occhi videro ciò che da settimane era loro mancato, privati dal poter accarezzare da lontano la bellezza che Isie non riusciva a separare da se stessa. Sembrava esser nato con lei, quell’aggettivo, e sicuramente con lei sarebbe anche morto. Non poteva che giustificare chiunque volesse mettere le mani su quel corpo fine, avvolto in quel momento da una gonna aderente in pelle e una maglia di colore rosso, la cui scollatura non avrebbe fatto altro che incentivare il suo volersi perdere nuovamente in lei, pensiero che in quella settimana aveva dovuto accantonare obbligatoriamente, visto il modo in cui si erano congedati l’ultima volta in cui erano stati a casa di Isie. Avvertì, in contrasto al proprio, lo sguardo inferocito di Isie, il cui piede pressava sul territorio di guerra che li divideva ancora. Aveva fatto di tutto, Magnus, per non pensarci; si era concentrato su ciò che avrebbe dovuto definire un lavoro, mostrandosi così assorto nei suoi pensieri da non aver neanche notato quanto tempo fosse realmente passato. Si erano visti proprio fra le mura alte e nascosto del Perception, qualche giorno prima, evitando accuratamente anche di guardarsi o di parlarsi. Eppure, come due calamite, non avevano potuto fra altro che girarsi intorno, senza mai toccarsi, senza mai sfiorarsi. E mentre la sua chioma bionda faceva il proprio ingresso all’interno del privè, Magnus pensò solamente a quanto avrebbe potuto detestarla, se solo non ne fosse stato così terribilmente attratto. Niente, in lei, era fatto per accostarsi a lui. Niente nel suo aspetto, nel suo modo di vestire. Niente nel suo modo di parlare, chiacchierare, sparare idiozie di cui a lui non importava nulla. Niente che potesse spingerlo a desiderarla così tanto… eppure. «Serata fruttuosa?»aveva domandato lei; nessun saluto, nessun nome. Due sconosciuti che discutono di affari. «Spero di non aver interrotto nulla. Non eri in compagnia?» continuò Isie, avvicinandosi lentamente a lui e al tavolino, lasciando che il ticchettare dei suoi tacchi risuonasse nella testa di suo cognato come un martello contro le ossa del cranio. Portava in mano l’ordine che lui aveva riferito alla ragazza del servizio, poco prima. Lanciò una mazzetta in direzione del tavolo, Magnus, lasciando che questa si ricongiungesse alle altre, per metà ancora sparse su di esso e per metà all’interno del borsone posato sul divano. Sempre più in procinto di toccarsi, Isie si interpose fra il corpo esile del ragazzo e il tavolino sul quale vi erano gli oggetti che avevano reso la sua serata interessante, quindi sedendocisi sopra e lasciando che le propria ginocchia sfiorassero quelle di lui, avvolte nel tessuto dei pantaloni. Come bestie attente alla rispettiva preda, presero silenziosamente a studiarsi nello stesso identico modo: ripescò il ricordo del suo profumo, comparandolo a quello che la sua pelle indossava quella sera, così vicino da credere che le sue stesse narici ne fossero invase, pregne. Lo riconobbe, mentre la mente gli faceva il brutto scherzo di riportare davanti a quegli occhi le immagini di tutte le volte in cui si era unito a lei, <>in lei. Dell’animale che solo Isie era capace di risvegliare, tirandolo via da quella pelle e cucendone una nuova, fatta apposta per uno come lui, uno che viveva nell’ombra di ciò che compiva. Restando immobile con i propri occhi puntati in quelli della donna, ne studiò ogni movimento, ogni parola, restando muto dinanzi a quell’esplicito desiderio che leggeva in ogni suo visibile tormento: avrebbe voluto torturarlo anche solo con lo sguardo, fargli del male affinché capisse come lei si era sentita. Ma Magnus, questo, lo sapeva bene. Aveva riconosciuto a se stesso di aver sbagliato, ma al contempo si era sentito inavvertitamente ferito da lei, lui che non si lasciava mai spezzare da nessun altro. Lui che le aveva permesso di avvicinarsi forse anche troppo, rischiando che lei potesse vedere quanto in realtà fosse buio dentro.
    Chinò la bottiglia in direzione del bicchiere, Isie, riempiendolo di Vodka ed incastrando poi la bottiglia fra le proprie gambe, mostrando a lui la pelle delicata che rivestiva i muscoli delle cosce, appena accennati. Scostò lo sguardo dal suo viso immacolato alla bottiglia che invece stringeva fra le dita sottili della mano, seguendone il tragitto e soffermandosi all’altezza delle ginocchia, come se volesse accarezzarle con le proprie iridi. «Allora…» prese a dire lei, ma le orecchie di lui erano ricolme di rumori provenienti dall’interno, i quali gli facevano comprendere quanto quella vicinanza sortisse ancora un certo effetto su di lui, accelerando quel battito cardiaco che sembrava volesse esplodergli esattamente accanto ai timpani. «cosa mi racconti di bello?» gli domandò, costringendolo a sollevare lo sguardo su di lei e incrociarne le iridi altrettanto chiare. Restò ancora lì, nel suo silenzio, azzardando finalmente una mossa. Allungò le mani, posandole ai lati delle cosce semiscoperte di Isie e bloccandone in qualche modo il movimento. Lasciò aderire i palmi delle mani alla superficie fredda del tavolo, chinandosi quindi in avanti ed accorciando ulteriormente quella che avrebbe dovuto essere una distanza presente fra i loro corpi. Aveva le labbra serrate e gli occhi fissi nei suoi, così terribilmente accesi ed incapaci di non fiammeggiare sotto lo sguardo curioso di Magnus, il quale si chiedeva dove sarebbero arrivati anche quella sera. «Ti sei già fatto una striscia o hai intenzione di aspettare più tardi? Sai, dovresti davvero darti una regolata. Mischiare tutte queste sostanze – l’alcol, la droga – con le tue pillole non è certo salutare.» sentenziò la donna, riferendosi a ciò che la circondava su quel tavolo, oltre alle mani grandi del cognato. Condì il tutto con una risatina nervosa e divertita allo stesso tempo, prima di concedersi un’altra battuta del copione. «La dipendenza potrebbe davvero trascinarti in basso.» sibilò poi, desiderosa di mettere lui su un piano diverso dal proprio. Cercava, Isie, di sollevarsi e rendersi inafferrabile, ma con quelle provocazioni non faceva altro che risvegliare quella bestia che spesso aveva visto animare il corpo di Magnus. La osservò sorseggiare il drink dal Tumblr che sarebbe dovuto essere destinato a lui, provando a non desiderare di essere quel bicchiere. Fu allora che un mezzo sorriso apparve sul volto del sicario, non troppo divertito da quel gioco ma comunque pronto a partecipare, se Isie premeva così tanto. Era, prima di tutto, un essere umano. Come tale, viveva di sensazioni che gli attraversavano la pelle, prima di tutto, e in quel momento la dolce e isterica Isie non stava facendo altro che sprigionare un’ingente quantità di disprezzo, la quale non avrebbe fatto altro che spingere Magnus a rimorchiare le carte e rifilarle, comunque, qualcosa dello stesso seme. «La mia dipendenza da queste stronzate è l’ultima cosa di cui dovresti preoccuparti, Isie sussurrò, avvicinando il proprio viso al suo profilo ed indirizzando quelle parole al suo orecchio, appena coperto da una ciocca di capelli dorati. Non erano quelle, il suo problema. Il vero problema stava nelle mani di lei, sempre accurate, sempre esperte; nelle sue gambe slanciate, avvolte troppo spesso in gonne da capogiro; nel suo essere incredibilmente spaventosa, alcune volte, tanto da riuscire a non fargli pesare quella solitudine che si portava dietro. Lasciò quindi che le proprie gambe andassero a scontrarsi contro quelle di lei, questa volta con decisione: nessuno sfioramento apparentemente accidentale, mentre il tessuto dei pantaloni divideva le loro carni. Avvertì la bocca della bottiglia spingere appena contro il suo petto, per via della vicinanza fra di loro. Indietreggiò appena, ritirando il capo e posizionandolo nuovamente di fronte a quello della donna. Sollevò una mano in direzione di quella di lei rizzando nuovamente le spalle, e andò ad afferrare il bicchiere che stringeva fra le dita. «Attenta a ciò che non fa parte delle tue abitudini… potrebbe farti del male.» disse lui, riferendosi al suo bere l’alcolico che solo poco prima aveva ordinato. Posò il bicchiere appena sottratto sul tavolino, allungandosi nuovamente sul suo corpo per giungere con la mano nel punto vuoto dietro la schiena della donna, ritirando poi il braccio e portandolo nuovamente al lato della sua gamba, laddove il palmo vi aveva aderito fino a poco prima. «Ti serve qualcosa? Un altro dei tuoi favori?» chiese, riportando anche le labbra ad una riga dritta, priva di emozioni, mentre lo sguardo si corrucciava leggermente. «Altrimenti puoi anche andare, ti avviso io quando arriva l’ora delle pillole, così mi tieni d’occhio. Non vorrei finire troppo in basso, come dici tu.» sussurrò, ad un centimetro dal suo viso chiaro e forse più stanco del solito. Staccò d’improvviso le mani dal tavolo, ritirandole a se ed allontanandosi dalla figura di Isie, ancora seduta su di esso. Sollevò il mento, mentre con il proprio sguardo cercava di tenerla fuori, spingerla nuovamente oltre la linea della comprensione, oltre quella della complicità che, inutile negarlo, condividevano pienamente. «Ho del lavoro da sbrigare, se non ti dispiace.» aggiunse, scostandosi lateralmente di un piccolissimo passo ed allungando le mani per afferrare le prime due mazzette e riporle all’interno del borsone. Avrebbe voluto voltarsi in sua direzione e ricordarle quanto spesso si erano ritrovati nel fondo insieme, pronti ad assaporare uno stesso tipo di desiderio, un profumo il quale altro non era che il connubio di ciò che le loro pelli emanavano. Avrebbe voluto voltarsi verso di lei, Magnus, e afferrarla per il capelli, lasciare che il suo corpo aderisse alla superficie del tavolo e, come se fosse la cosa più naturale e masochista del mondo, far parte di lei, letteralmente. Seppur lontano miglia dal comprendere il meccanismo che si impastava nella mente della donna, qualcosa era riuscito ad intuirla, e cioè che quel suo essere un po' intoccabile non faceva altro che sottolineare quanto, invece, quel desiderio fosse il riflesso di ciò che in lei riusciva a scorgere. Isie, sotto i suoi mille strati da "andiamo a letto solo perché ripago i tuoi sforzi", celava forse un vero e proprio bisogno nei confronti di Magnus?
     
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    ISOLDE JASMIJN DEWITT-LENNOX ➽

    Lo sguardo di Magnus risalì il suo corpo come una carezza invisibile sino a soffermarsi, fermo e distante, ad incontrare il suo. Isolde si obbligò a sostenerlo con fermezza, sollevando appena il mento nella sua direzione. Era ancora arrabbiata – furiosa – e la tensione accumulata in quei giorni, unita al ricordo degli spari che ancora le rimombava nelle orecchie, la rendeva una bomba ad orologeria pronta a scoppiare da un momento all’altro. La proverbiale “goccia che fa traboccare il vaso” avrebbe potuto farne straripare il contenuto nel giro di un istante e, inevitabilmente, Magnus rappresentava al contempo l’innesco e la vittima perfetta su cui riversare tutto ciò che si agitava dentro di lei, prosciugandola e soffocandola, alla disperata ricerca di una valvola di sfogo.
    Una sorta di invisibile tensione elettrica, densa e chiaramente percepibile, invase la breve distanza tra di loro. Isie la avvertì pizzicare sulla pelle nuda dello sterno nell’esatto istante in cui, facendosi largo verso il tavolino da caffè, sfiorò inavvertitamente Magnus. Bastò quel semplice contatto – o l’assenza di esso? – a renderla improvvisamente consapevole della loro vicinanza; sebbene l’espressione sul suo viso rimanesse impassibile, ignorarlo fu dannatamente difficile. Sapeva che lui la stava osservando. Sentiva i suoi occhi scrutarla e studiarla, restituendole nient’altro che una fredda lastra di ghiaccio, uno specchio crepato nel quale Isolde avrebbe faticato a riconoscere il proprio riflesso, offuscato o – forse – persino distorto.
    Lo sguardo di Magnus si soffermò sulla pelle nuda delle sue gambe, impudentemente lasciata scoperta dalla gonna di pelle, e, Mentre parlava, riempiendo il silenzio ovattato del privè con la sua voce acuta e sottile, Isie rinsaldò la presa attorno al collo della bottiglia, concentrandosi sulla sensazione del vetro freddo a contatto con la pelle delicata del palmo della mano. Lentamente, lo vide sporgersi verso di lei, appoggiando le mani ai lati del suo corpo e, al contempo, bloccandole qualunque possibilità di movimento o via di fuga. Il suo odore la investì, avvolgendola nella distanza ancora più esigua tra di loro. Sebbene non si toccassero, Isolde poteva avvertire il calore invitante che proveniva da lui, attraverso il leggero tessuto della camicia. La sua determinazione vacillò per un istante ma la giovane donna si raddrizzò mentre riempiva il bicchiere, determinata a non cedere né tremare al suo cospetto. Né dinanzi a nessun altro.
    La vodka le scivolò in gola, gelida e secca, lasciando dietro di sé una sensazione di calore quasi soffocante; il sapore forte, alcolico, le aprì bruscamente le vie respiratorie e il suo stomaco si contrasse, in una silenziosa protesta, ricordandole che non ingeriva qualcosa di solido da almeno sedici ore. Isie lo ignorò. Se vi era qualcosa di cui aveva bisogno, in quel momento, erano il coraggio e la spavalderia che, grazie all’alta gradazione alcolica, le scorrevano prepotentemente nelle vene. «La mia dipendenza da queste stronzate è l’ultima cosa di cui dovresti preoccuparti, Isie. Nonostante la sua determinazione bastò così poco a farla sentire piccola e fragile, debole. Il solo suono del suo nome, sussurrato dalle labbra sottili di Magnus, ebbe su di lei l’effetto di una carezza su un punto sensibile, precedentemente arrossato e tormentato. Sollievo e delicatezza, mischiati a qualche sprazzo di dolore. Un connubio potente e, forse, persino inebriante. Il suo movimento la colse impreparata ed Isolde si irrigidì, incapace di pensare lucidamente a qualcosa all’infuori della pressione del suo corpo contro il proprio; se lei lo stava in qualche modo provocando, Magnus stava rispondendo similmente, senza preoccuparsi di giocare pulito. Inconsapevole di star trattenendo il fiato da quando lui le si era avvicinato, Isolde si ritrovò ad odiare gli abiti di cui era avvolto: nella frazione di un secondo, la sua mente abbandonò qualunque pudore nell’immaginare come sarebbero andate le cose se solo si fosse spinta oltre. Sarebbe bastato un minimo movimento per toccarlo e, di lì in poi, spogliarlo di qualunque odiosissimo ed inutile indumento. Aveva bisogno di sentire il calore della sua pelle e lasciarsi tutto alle spalle, rassicurata e protetta attraverso un misero clichè in cui si rifugiava da sin troppo tempo. Esisteva forse qualcosa di più patetico del bramare l’attenzione di qualcuno che, apparentemente, la detestava profondamente? Com’era possibile che, nonostante tutto ciò che aveva vissuto, non avesse ancora imparato nulla? Come poteva essere così stupida? Si morse l’interno della guancia e il dolore l’aiutò a recuperare un briciolo di lucidità. Battè ripetutamente le palpebre e abbassò momentaneamente lo sguardo sulla bottiglia, concedendosi di riprendere – dolorosamente – a respirare normalmente.
    Ancora troppo instabile per offrire resistenza, lasciò che Magnus le sfilasse il bicchiere dalle dita, allontanandolo e posandolo alle sue spalle. Quando riposò lo sguardo su di lui, incontrò un’espressione vacua ed impassibile. Negli occhi, lievemente nascosti sotto le sopracciglia increspate, ritrovò riflessa la medesima noncuranza che trapelava nelle parole. «Ti serve qualcosa? Un altro dei tuoi favori?» La giovane donna strinse appena le labbra, lo sguardo azzurro chiaro nuovamente fermo in quello quasi cinereo del compagno. Le sue parole affondarono dentro di lei come una pugnalata, senza incontrare alcun ostacolo. Era tutto lì ciò che aveva da dirle? Credeva davvero che tutto ciò che c'era fra loro potesse riassumersi così, in un rapporto distaccato fatto di convenevoli lavorativi? Non vi era altro di cui parlare? Il riferimento a Gregory – all’inizio di qualunque cosa vi fosse tra loro – alleggiò nell’aria senza bisogno di renderlo esplicito. E il fatto che proprio Magnus glielo rinfacciasse, come se fosse stata l’unica ad approfittare dell’altro per il proprio tornaconto, le ricordò bruscamente il motivo originario per cui si trovava lì, risvegliando prepontentemente il suo orgoglio ferito. Senza battere ciglio, Isolde lasciò che le soffiasse le parole a pochi centimetri dalle labbra e lo osservò allontanarsi da lei, congedandola come se fosse il padrone di quel luogo. Inclinò il viso di lato, i capelli biondi sparpagliati sulla spalla, osservandolo afferrare alcune mazzette e riporle con attenzione all’interno della sacca. In lei, tuttavia, non si agitavano più mera lussuria ed il bisogno di un contatto negato; al contrario, sentiva la necessità di ferirlo, di condizionarlo sino ad ottenere una vera reazione e scalfire, per una dannata volta, quella corazza di disprezzo ed imperturbabile indifferenza con cui si rapportava al mondo intero. Ciò che sarebbe successo dopo non le importava – non più; avrebbe potuto scagliarglisi contro con violenza come la più feroce delle belve o rannicchiarglisi accanto, improvvisamente docile ed amabile. «Sai, voi uomini avete davvero un sacco di brutte abitudini.» Commentò, posando le mani sul tavolino, alle proprie spalle. Si reclinò appena all’indietro, reggendo così buona parte del proprio peso ed allungò la gamba destra in direzione di Magnus, sfiorandogli la gamba con il lato della scarpa. «Siete sempre convinti di poter fare tutto ciò che volete ed avere l’ultima parola su quello che vi circonda, anche se non vi appartiene...» Se il tono con cui parlava appariva casuale, vagamente impregnato di capricciosa diapprovazione, il movimento della sua gamba fu invece lento e controllato. Sfregandolo contro la stoffa dei pantaloni di Magnus risalì sino ai suoi fianchi ma, invece di spingersi oltre, lo spostò di lato, quel tanto che bastava per dare un lieve colpetto alla sua mano e fargli scivolare la mazzetta di denaro. «…affatto.» Era stato un comportamento infantile, ma tanto bastò a farle assaporare un primo sentore di soddisfazione. «Ho sempre pensato che si trattasse di un difetto generale…» Sollevò ulteriormente la gamba sino a posare la suola della scarpa all’altezza dello stomaco di Magnus, facendo forza per spingerlo all’indietro, nuovamente seduto sul divanetto imbottito. «…ma, forse, è una caratteristica di famiglia Si sollevò a sedere, stringendo nella mano sinistra la bottiglia di vodka, e si rialzò, scivolando giù dal tavolo. Era consapevole di averlo appena paragonato a Gregory e Robert ma, dopotutto, non si erano adattati sin troppo bene alle viscide acque dello stagno dei Lennox? Per quanto amassero sentirsi superiori, entrambi avevano scoperto a proprie spese ciò di cui la famiglia era capace e, costretti a lottare per sopravvivere o soccombere, l’avevano fatto proprio, imparando dai migliori a nascondere gli scheletri nell’armadio. Come Magnus le aveva ricordato l’ultima volta, non erano poi così diversi. E, forse, l’odio per Gregory era tutto ciò che avevano mai realmente condiviso. Insinuò una gamba tra quelle di lui e posò il ginocchio sul divanetto, sporgendosi nella sua direzione. Si chinò nuovamente su Magnus, sporgendosi verso il suo orecchio. «D’ora in poi non ci sarà più nessun tipo di trattamento speciale per te. No alcol, droga o qualunque altra schifezza durante i turni di lavoro.» Sussurrò, non senza un certo divertimento. La sola idea di infastidirlo era fonte di infantile compiacimento. Qualunque cosa pur di ottenere una reazione. «Esattamente come per tutti gli altri Si raddrizzò appena, gettando una rapida occhiata alle mazzette che li circondavano. «Oh, e chiaramente mi aspetto una generosa percentuale di tutto questo. Il mio club non è la tana di squallidi criminali di bassa lega. Sono certa che paparino comprenderà.» Assunse nuovamente una postura diritta, fissando Magnus dall’alto. Si costrinse a non far scivolare lo sguardo al di sotto dei suoi occhi; le sue labbra, la forma della mascella, il collo sensibile e la linea delle spalle, sottolineata dalla giacca scura, rappresentavano ancora una tentazione sin troppo allettante. Quando era finalmente riuscita a liberarsi di Gregory aveva promesso a se stessa che nessuno le avrebbe nuovamente fatto del male e, ora, era disposta a mantenere quella promessa a costo di rinunciare a ciò di cui, inspiegabilmente, aveva bisogno come l’aria. «Ai nostri nuovi termini contrattuali!» Sorrise appena, sollevando la bottiglia di vodka in un ironico brindisi. La portò alle labbra e ne bevve un secondo, generoso, sorso. Deglutì e gliela porse, sentendosi improvvisamente eurofica, forse a causa dell’alcol o, probabilmente, della propria presa di posizione. «Goditela perché sarà l’ultima.» Gli consigliò, prima di posare una mano sul bordo del divanetto e chinarsi nuovamente alla sua altezza. «Ah, già…» Portò una mano a lato della sua guancia e gli sfiorò lentamente la pelle delicata, seguendo i contorni spigolosi dei lineamenti. Sebbene una parte di lei lo desiderasse, non utilizzò il suo potere, facendo forza contro sé stessa per non accendere una reazione che li avrebbe spinti entrambi dove segretamente desiderava. Dalla tempia scivolò sino al mento di Magnus, prendendolo delicatamente tra due dita e spingendolo verso l’alto, obbligandolo a guardarla. Gli sfiorò il labbro inferiore con il pollice. «Grazie per avermi ricordato chi sono.» Sussurrò, costringendosi ad interrompere quel breve contatto. Troppo spesso si dimenticava dove era arrivata: ciò che aveva vissuto ed a cui era sopravvissuta e, soprattutto, ciò che ora le spettava. Non era più solo Isolde Dewitt, ma Isolde Lennox. E, come tale, non avrebbe permesso a nessuno di intravedere nuovamente le sue debolezze; nemmeno a colui che l’aveva liberata da quella prima gabbia dorata e, inconsapevolmente, l’aveva legata a sé con catene invisibili.
     
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    Mbé, era ora. Se lei non gli da un due di picche, inizia da qui il rating rosso. *coff coff*

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    La violenza con il quale lo sguardo ferito di Isie si era avventato su di lui, solo qualche sera prima, era rimasto impresso nella sua mente: un ricordo vivo capace di camminare, parlare, gridare e, al contempo, far male fino a morire. Come una fenice che risorge dalle proprie ceneri, l’ossessione che Magnus provava nei confronti di Isie si rigenerava autonomamente, malgrado lui cercassi di interporsi, di avere il controllo di ciò che accadeva al proprio corpo quando avvertiva la vicinanza di quelle movenze sensuali che lei si portava dietro, conscia di potere tutto su di lui. Perché quello era il problema: Isie sapeva perfettamente di cosa fosse capace, di cosa potesse generare il suono della sua voce nel momento in cui ella si rivolgeva a Magnus; solo, non lo aveva ancora compreso alla perfezione, scambiando quello sguardo di risposta per qualche strano ed adirante sentimento che, per lei, sicuramente aveva poco a che fare con l’amore. Dal canto suo, il più piccolo dei Nyström aveva iniziato a comprendere che qualcosa di profondo e potente lo legava ad Isolde, e lo aveva capito anche solo guardandola per la prima volta, quando si erano conosciuti tramite Gregory. L’aveva guardata, Magnus, come aveva fatto nell’istante in cui il suo corpo snello aveva fatto il proprio ingresso nel privè numero 3. Due distinti momenti che si accavallavano l’uno sull’altro: passato e presente, direttamente collegati alle scintille che quegli sguardi generavano quando si toccavano. Non avrebbe saputo dire perché o cosa li avesse uniti così da rendere i due dei poli magnetici di una calamita. Ricordava di averla vista entrare nella sala da pranzo, anni prima, con lo sguardo appena più innocuo di quello che aveva infranto il silenzio di quella camera, nel presente. Aveva tenuto fra le mani un bicchiere di whiskey ghiacciato, Magnus, posato con il profilo del proprio corpo lungo una delle pareti dorate della grande sala, al centro del quali vi erano una tavolata imbandita e ricca di cibi fantasiosi che lui quasi neanche aveva assaggiato. L’aveva squadrata, dal suo angolo di mondo lontano da tutto il resto, e aveva lasciato che le proprie iridi chiare ne studiassero ogni forma, ogni curva, carezzando quella nuova figura come se fosse l’unico oggetto del proprio desiderio che, per anni, aveva creduto di non poter raggiungere. Era stata lei, ciò che lui aveva atteso in quella vita. Lei, che era entrata piano, passo dopo passo, nella sua zona grigia, quella all’interno della quale nessuno provava a conoscere. Vi erano delle pareti altissime che ne limitavano i confini, graffiate da mani che, dall’interno, avevano provato a buttare giù ogni mattone. Ci aveva provato spesso, Magnus, a vedere cosa ci fosse al di fuori, intimorito da ciò che i suoi occhi -ormai abituati al buio- avrebbero potuto scorgere: luce, colori, sorrisi che non avrebbe potuto ricambiare. Allora era semplicemente rimasto dentro, nascosto in quel buio in attesa che qualcuno dimostrasse di voler entrare e chiudersi la porta alle spalle, quella stessa che lui aveva avuto il timore di aprire a qualcuno. Così, mentre Isie avanzava all’interno di quel privè, carica di un sapore aspro sulla sua lingua affilata, Magnus la guardava avanzare anche un po’ incerta nella sala da pranzo in cui, per la prima volta, l’aveva desiderata. Aveva visto la mano sottile della donna avvinghiarsi a quella di Gregory e l’aveva odiato per avere fra le dita quei fili sottili che avrebbero dovuto indicare a lei che movimenti compiere, come se fosse una delle sue tante marionette. Decideva lui per lei. Amava lui, a modo suo, per lei. Lo aveva saputo, Magnus, come sarebbe andata a finire e aveva riconosciuto subito quelle macchie sulla pelle della donna che, qualche tempo dopo, erano iniziate a comparire come sulla mappa di una costellazione lontana in quell’universo. Eppure, distante anni luce da lei, aveva finto di non vedere, distendendo sulle proprie iridi un velo di omertà che, silenziosamente, lei stessa aveva tirato giù in cambio di attenzioni, di sentimenti che Magnus stesso non avrebbe mai potuto ammettere esistessero. Avrebbe voluto gridarglielo, Magnus; dirle che si sarebbe arreso al suo cospetto, pur di averla fra quelle mura che lui stesso aveva innalzato contro il mondo.
    Il lieve e quasi casuale contatto fisico che venne a crearsi fra le loro gambe fu come una scossa elettrica che salì su per tutto il suo corpo, ricordandogli momenti trascorsi con lei che difficilmente avrebbe potuto dimenticare. Detestava esserne schiavo e mai lo avrebbe ammesso, ma lei era tutto ciò che avrebbe potuto piegare il suo volere anche solo con uno schiocco di dita. Immaginò il suo corpo profumato scosso dal tocco di qualcun altro, detestando il brivido di rabbia che prese a solleticargli la schiena, rizzando così ogni capello riccioluto che si apriva come una foresta sul suo capo. Aveva detestato sempre quell’immaginario, ben sapendo quanto potesse essere reale tutto ciò e non riuscendo a capacitarsi del fatto che lei potesse provare piacere avvolta nel corpo di qualcuno che non fosse lui. Per quel motivo strinse appena la presa delle mani lungo i lati del tavolo, tenendo ferme le gambe di Isie fra i propri polsi magri. Non avrebbe voluto lasciarla andare, ma il gioco pendeva dalle loro labbra, da quei movimenti che li allontanavano o li univano, ad oltranza. Video quello sguardo vivo negli occhi di Isie e ne avvertì l’odio che lei sembrava provare nei suoi confronti, forse pentita di ciò che avevano creato insieme e di cui non avrebbero voluto separarsi. Si allontanò, quindi, distaccando i palmi caldi dalla superficie del tavolino e distanziandosi da lei non solo fisicamente, ma anche mentalmente. Voleva tenerla fuori, ricambiare quella ferita che lei gli aveva rifilato qualche giorno prima. Voleva lottare contro ogni scontata possibilità, contro ogni evidente armonia che, sì faceva loro del male, ma li riportava sempre allo stesso identico punto senza che neanche se ne accorgessero. «Sai, voi uomini avete davvero un sacco di brutte abitudini.» riprese parola lei allora, andando a posare le mani sulla parte del tavolino su cui stava, appena più dietro di lei, così da distendersi un poco di più. Una delle sue gambe snelle si sollevò e il piede avvolto nel tessuto delle scarpe col tacco andò raggiungere in breve la coscia tesa di Magnus, ancora in piedi dinanzi a lei mentre stringeva alcune delle mazzette fra le mani e le riponeva all’interno del borsone che Travor aveva portato solo qualche istante prima. «Siete sempre convinti di poter fare tutto ciò che volete ed avere l’ultima parola su quello che vi circonda, anche se non vi appartiene…» continuò Isie, la gambe ancora sollevata per aria andava a sfiorare volontariamente quella di Magnus, il quale si voltò ad osservarne il movimento, seguendo il profilo liscio di quella pelle dal piede fino al ventre coperto dalla gonna stretta. «…affatto.» sibilò ancora, e con un solo e breve tocco fece cadere la mazzetta che Magnus stringeva nella mano. Gonfiò il petto, lui, inarcando una delle sopracciglia e sollevando lo sguardo nuovamente sul viso divertito di Isie. Non si abbassò a raccogliere l’oggetto caduto per terra, incapace di fare alcun movimento e curioso di ciò che lei avrebbe fatto. Una tensione che non avrebbe rotto, uno specchio che permetteva ad entrambi di guardarsi dentro. Quando lei sollevò ancora una volta il piede portandolo all’altezza del suo stomaco, la lasciò fare, schiavo di quella bramosia che in lei riusciva a leggere. Avrebbe voluto metterle le mani addosso Magnus, e in nessun modo carino o gentile. Avrebbe voluto sfidare quella voce cantilenante, chiuderle quella bocca ed impegnarla con la propria. «Ho sempre pensato che si trattasse di un difetto generale… ma, forse, è una caratteristica di famiglia.» spiegò ancora, enfatizzando quell’ultima parola, quasi vi avesse nascosto un sottile insulto. E fu ciò che Magnus ricevette, assieme alla spinta che la sua gamba esercitò sul suo petto, impedendogli di mantenersi in piedi e facendolo ritrovare seduto dinanzi a lei su quel divanetto di pelle. «La caratteristica di famiglia è crederlo… la mia è averne la certezza.» sibilò lui, chinando appena il capo mentre divaricava le gambe, come volesse occupare quel terreno, dimostrare che fosse suo. Fece lo stesso con le braccia, posando i palmi ai lati della propria figura e distendendo la schiena per posarla alla spalliera del divano, il collo pigramente poggiato sull’estremità di essa, avvertendone il tessuto freddo dietro la nuca. Si distanziò quindi da tutti loro, un cognome dal suono aspro che mai aveva e avrebbe riconosciuto come suo. Li aveva studiati, ne aveva fatto parte, ma non sarebbe mai appartenuto a loro. Faceva solo buon viso a cattivo gioco, Magnus, e questo lo avrebbe ricordato sempre. «D’ora in poi non ci sarà più nessun tipo di trattamento speciale per te. No alcol, droga o qualunque altra schifezza durante i turni di lavoro. Esattamente come per tutti gli altri.» impose lei, avvicinandosi nuovamente a lui ed annullando la distanza mentre col ginocchio andava ad immischiarsi fra le sue gambe magre, distrattamente distese dinanzi a sé. Si chinò in sua direzione, avvicinando le proprie labbra scarlatte all’orecchio di lui, una vittima delle sue parole, del suo sguardo, della sua carne. Ne udì ogni singolo gracchiare, ogni parole come se fosse un gioco, una sfida a cui lui non avrebbe potuto dire di no. «Cosa ti fa credere, esattamente, che accetterò la cosa?» chiese lui, lasciando che le propria sopracciglia si inarcassero e le labbra sottili si aprissero in un sorriso divertito, amaro. «Oh, e chiaramente mi aspetto una generosa percentuale di tutto questo. Il mio club non è la tana di squallidi criminali di bassa lega. Sono certa che paparino comprenderà.» - risuonarono, quelle parole, dolci come un invito e aspre come un insulto. Seguì la forma delle sue labbra, Magnus, ridisegnandone le linee perfette e salendo poi con lo sguardo incuriosito sui suoi occhi, pronto a perdersi dentro quella testa che tanto detestava. «Mi eccita quando cerchi di prendere posizione su ciò che non ti spetta.» confessò lui, scuotendo appena il capo e sollevandosi appena con la schiena per avvicinarsi ancora un po’ con il proprio viso a quello chiaro di lei. Teneva ancora stretto il collo della bottiglia di Vodka fra le mani esili, che lentamente andò quindi ad avvicinare alle labbra per berne un sorso fin troppo generoso. «Ai nostri nuovi termini contrattuali! Goditela perché sarà l’ultima.» disse, porgendogli poi la bottiglia ed invitandolo a brindare assieme a lei per festeggiare quei nuovi termini lavorativi. Ne osservò ogni movimento, Magnus, incapace di distogliere lo sguardo da lei e dal suo viso, dalle sue mani tutt’altro che innocenti. Lasciò che il suo tocco leggero stringesse le curve spigolose del proprio mento, mentre con le dita sollevava il viso del ragazzo per portare lo sguardo di lui nuovamente nelle proprie orbite chiare e terribilmente magnetiche. «Ah, già… Grazie per avermi ricordato chi sono.» aggiunse, il tono della voce ferito e sprezzante, quasi. Giunse così alle sue orecchie ovattate, mentre tutto il resto intorno a loro sembrava sparire altrove, così come tutto il buon senso e il desiderio di farle del male, di allontanarla da se. Avvertiva il calore del suo corpo così vicino al proprio e non riusciva a ricacciarne il profumo, a lasciare fuori l’idea di volersi unire a lei. Detestava quelle curve, detestava quei capelli e quello sguardo da vipera. Detestava tutto di lei e odiava se stesso per l’acceso desiderio che provava al centro del proprio petto quando, con quelle gambe snelle, faceva il proprio ingresso in una qualsiasi stanza in cui ci fosse lui. Odiava che lo sguardo di altri si posasse sulla sua figura e che, quelle stesse menti, potessero spogliarla all’interno della propria immaginazione per provare a conoscere ciò che sotto i suoi abiti si nascondeva. Staccò quindi le mani dal divanetto di pelle sul quale era seduto, portandone una dietro la schiena di lei ed attirandola a se, più vicino di quanto già non fossero, mentre lo sguardo accecato di Magnus e pregno di lussuria se ne stava ancora posato sulle iridi in ombra di Isie, in piedi davanti a lui. Le sfilò la bottiglia dalle mani, reggendola momentaneamente e volgendone il collo in direzione del pavimento. Nel silenzio, l’unico rumore fu lo scorrere di quel liquido sul pavimento accanto ai piedi di Isie. Attese che la bottiglia si svuotasse completamente, lasciando che il proprio sguardo restasse sula superficie di quella pelle chiara, in direzione degli unici due occhi che sapevano come mandarlo in tilt, letteralmente. Non sapeva chi fosse, non sapeva che tipo di mondo ci fosse fuori, Viveva in quella penombra, in quel preciso istante, dimenticandosi di quanto il tempo potesse scorrere veloce. L’odore pungente dell’alcool invase le narici di entrambe mentre la pozza di vodka si allargava ancora, lentamente, sul pavimento. Non se ne faceva niente dell’alcol e del ghiaccio; non se ne faceva niente di chili di coca; non gli interessavano neanche le mazzette, non avrebbe saputo come spenderle. Non erano quelli, i suoi interessi: la sua mente sembrava essere schiava di altro, così come il suo corpo che stava tramutandosi in vere e proprie scariche elettriche. Lasciò andare la bottiglia in direzione del suolo, non curandosi del tonfo che fece quando atterrò su di esso da quella breve distanza, senza neanche rompersi. Drizzò poi la schiena, la mano ormai nuovamente libera andò a cingerle una delle cosce, sollevando l’orlo della gonna e lasciando che le dita scorressero sulla sua pelle calda, sempre più su, sempre più piano, fino a giungere nel punto che così spesso aveva generato in lui un’indomabile sensazione di bramosia. Con la punta del dito indice e del medio andò a sfiorare il tessuto degli slip fermo sul suo ventre, mentre l’altra mano ancora posata sulla sua schiena coperta dalla maglia rossa andò a spingere il corpo di Isie verso quello di Magnus, quasi volesse ingabbiarla in quella presa ed impedirle di scappare, ancora. «E chi saresti?» le domandò quasi sottovoce, sollevando con le dita il bordo degli slip per insinuarsi con lentezza sotto quel tessuto e carezzare l’intimità di lei, calda come la ricordava e vicina come non lo era stata per giorni. «E… cos’è che crederesti tu non mi appartenga?» provocò ancora lui, riferendosi alle parole pungenti che lei aveva pronunciato solo poco prima, paragonandolo a tutti quelli della famiglia in cui sua madre aveva deciso che sarebbe cresciuto. Non era come loro, Magnus, e mai lo sarebbe stato. E forse proprio perché recitavano entrami, lui ed Isie, si erano incontrati a metà strada. Stuzzicò quella pelle che tanta bramava, con movimenti lenti e decisi, sempre più profondi, fino a quando non allontanò la mano, portandola via solo momentaneamente dall’oggetto del suo desiderio. Si sollevò di scatto, lo sguardo un punto fisso in quello di Isolde: la spinse di due passi verso il tavolo dietro di lei sul quale vi erano ancora un po’ di mazzette e bustine contenenti la coca da poco ottenuta. Portò una mano sulla coscia di Isie, sollevandola e spingendola a risedersi sul tavolo scuro. Ne accompagnò ogni movimento, portando poi un braccio sulla superficie del mobile e lasciando che con un solo e rapido movimento quasi ogni mazzetta cadesse per terra, ai lati del tavolo. Si posizionò di fronte a lei, lasciando che il proprio bacino si incastrasse fra le gambe appena divaricate di Isie, chinandosi appena in sua direzione per avvicinarsi col viso a quello di lei. «I criminali di bassa lega vanno a puttane. Devo farlo anche io?» sentenziò, lo sguardo ridotto a due fessure mentre nella sua mente risuonavano le parole che lei aveva cantilenato poco prima cercando di infastidirlo, di ferirlo, di tenerlo al guinzaglio. Ma aveva avuto esattamente l’effetto contrario: Isie gli aveva solo tolto la museruola e in quel momento neanche la morte avrebbe potuto fermare quelle mani avide che, calde, risalivano dalle ginocchia fino ai fianchi, in un connubio che ancora non sembrava neanche essere iniziato. Un sottile minaccia, un abbandono da parte sua sarebbe forse stato da lei gradito? In ogni caso, no, non avrebbe mai potuto pagare qualcuno affinché giacesse in un letto con lui. Non era il tipo, non voleva un orgasmo forzato, lui. Desiderava, Magnus, sentire ogni cosa come se l’adrenalina gli esplodesse nelle tempie, nella punta delle dita. Sentiva la propria particolarità risvegliarsi sotto al tocco leggero delle mani che Isie lasciava vagare sul suo corpo, così cercò di toglierle il peso degli indumenti sollevando i lembi della maglietta rossa e cercando di sfilargliela, per poi liberarsene facendola cadere sul divano. Era sua e non faceva alto che ripeterselo. Non era mai stata di nessun altro, neanche di Gregory che si era preso addirittura il permesso di alzarle le mani, di sfoggiare su di lei la paura di essere troppo piccolo, incapace di dimostrarsi forte in altro modo. L’aveva odiato, tacitamente, per ciò che le aveva fatto, insinuando in lei una paura che Isie stessa cercava di soffocare ma che, spesso, aveva letto nei suoi occhi. Le aveva fatto del male anche lui, questo lo sapeva, ma in un certo senso sapeva che, sotto al proprio controllo, non avrebbe sofferto altro. Cercava, Magnus, di proteggerla a modo proprio.
    Si chinò su quel corpo, il volto a pochi millimetri da quello di lei. Lasciò aderire le proprie labbra alle sue, schiudendole appena ed intromettendosi fra di loro con la lingua. Era sua e nessuno avrebbe dovuto metterle ancora le mani addosso.
     
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    ISOLDE JASMIJN DEWITT-LENNOX ➽

    Nel primo bicchiere di vodka che, bevuto tutto d’un fiato, le era scivolato lungo la gola sino allo stomaco vuoto, lasciandole la sensazione che il suo esofago fosse in fiamme, Isolde aveva forse trovato quel scintilla di coraggio liquido di cui, in alcune situazioni, era sempre stata priva; nei confronti di sé stessa e di coloro che la circondavano: la riflessione e l’introspezione la terrorizzavano e, indubbiamente, rifuggiva il confronto come se si trattasse del suo peggior nemico. Da quando aveva memoria, aveva sempre fatto in modo di lasciar risolvere spontaneamente le “situazioni difficili”, se dal principio non le era stato possibile evitarle totalmente. Così cambiava il proprio atteggiamento, nascondeva timori e paure dietro ampi sorrisi, silenziava le parole non dette sotto ad un superficiale chiacchiericcio insistente e smussava tutti i piccoli dettagli che odiava di sé, nella speranza di lasciarsi alle spalle ciò che era accaduto – qualunque screzio, piccolo o grande – come se nulla fosse mai successo. La conscia decisione di smettere di nascondersi, cessando di alimentare un infantile evitarsi a vicenda, era stato qualcosa di nuovo per lei. Semplicemente, l’idea di affrontare Magnus la stremava di meno rispetto al continuare ad ignorarlo: il continuo schivare lo sguardo altrui, l’ignorarsi, l’interporre una distanza fra loro le si presentava come un rifiuto incessante, una lama che – inesorabile – la feriva sempre più.
    Bastò il semplice contatto della pelle fredda dei polsi di Magnus con le sue gambe nude per mandarla in confusione. Accadeva sempre, quando si trovavano troppo vicini. Qualunque suo pensiero si frammentava, sciogliendosi come la cera di una candela, soffocato dalla necessità di averlo accanto, di toccarlo, di mettere fine a qualunque diverbio, persino a costo di sacrificare il proprio orgoglio. Dopo qualche istante lui si allontanò, ritirandosi e scostandosi di qualche passo. Isolde lo seguì con lo sguardo, osservandone il profilo affilato, i lineamenti composti in un’espressione impassibile ed indifferente a qualunque cosa. Si era concentrato sulle mazzette, distanziandosi da lei e rendendo vano il suo – contorto – tentativo di ottenere una reazione, smuovere qualcosa in un’intima rassicurazione che le dimostrasse che, ancora una volta, era stata in grado di richiamare la sua attenzione. Quel rifiuto la colpì come uno schiaffo in pieno viso, bruciante e umiliante.
    In un certo senso era curioso come il suo rapporto con Magnus si era evoluto nel corso del tempo. Per anni avevano occupato i medesimi spazi senza mai nemmeno sfiorarsi, sebbene Isie avesse tentato, in principio, di instaurare un minimo di rapporto, anche solo per fare su di lui la stessa buona impressione che, all’epoca, aveva tanto desiderato si trasformasse in affetto familiare, una volta entrata a far parte della grande e perfetta famiglia Lennox. Inutile dirlo, aveva fallito miseramente. Al contempo, giorno dopo giorno, la sua intera esistenza era andata a rotoli: i suoi sogni di una vita felice, di un’unione solida e sincera come quella dei suoi genitori, erano andati in frantumi, soffocati dal tocco tutt’altro che gentile di Gregory, da quella possessione malsana con cui si avventava costantemente contro di lei. Isolde aveva impiegato sin troppo tempo a realizzarlo e, ancor di più, a trovare il coraggio di fare qualcosa – qualsiasi cosa. E lì, ormai consapevole di aver toccato il fondo, si era aggrappata disperatamente all’ultima persona da cui si sarebbe aspettata aiuto. Non solo Magnus era stato testimone delle sue debolezze ma anche del suo lato più disumano, il suo efferato desiderio di libertà e vendetta, alimentato dalla consapevolezza che, se non fosse stata lei a liberarsi di Gregory, prima o poi suo marito sarebbe stato incapace di fermarsi. Quando l’incubo era finito, aveva fatto in fretta a dimenticare qualunque senso di colpa: tutti i suoi demoni scacciati dalla frizzante ingenuità con cui si approcciava al prossimo, un’immagine pulita e candida che, riflessa su ogni superficie, le permetteva di vivere come se nulla fosse mai accaduto. Tra le illusioni, il suo rapporto con Magnus le ricordava quanto, in realtà, lei stessa si fosse affacciata oltre il dirupo della propria umanità; pur non essendo la materiale esecutrice della fine del figlio prediletto di Roger Lennox, le mani di Isie non erano certo più pulite di quelle di Magnus. Al contrario, quel segreto li aveva infine avvicinati più del dovuto, permettendo all’uno di scrutare nelle detestabili profondità dell’altra e viceversa. Anziché ritrarsi, avevano trovato in quella mostruosità dei tormenti gemelli, una sofferenza affine in grado di placare la propria, della quale si erano inebriati sino all’ebrezza. Quell’assuefazione era sfuggita al loro controllo, evolvendosi e mutando in un intreccio assai complicato ed inscindibile di desiderio, sentimenti e privazioni che, ora, si rivoltava contro ad entrambi come un’arma a doppio taglio pericolosamente affilata. «La caratteristica di famiglia è crederlo… la mia è averne la certezza.» Inclinò appena il viso di lato, mentre una ciocca di capelli biondi le sfiorava la spalla. Il suo sguardo era fermo, saldo in quello apparentemente impenetrabile di Magnus. Dopo tutto ciò che era accaduto non era certa di essere poi così diversa dai Lennox. Ne aveva preso il cognome, si era ambientata tra loro a tal punto da studiarne i vizi e le debolezze e, con un’astuzia forse ancor più sottile, quando era stata messa con le spalle al muro, privata di qualunque altra via di uscita, ne aveva eliminato il primogenito. E, in tutto ciò, Magnus l’aveva aiutata, tacendo un segreto che, se rivelato, avrebbe significato la morte per entrambi. Forse per la prima volta vagamente consapevole della profondita di ciò che li legava, la giovane donna distolse lo sguardo da quello di lui, come se, d’improvviso, fosse lei a desiderare di allontanarlo e celargli i propri pensieri. Fu l’unica cosa che riuscì a fare, l’unico appiglio che, assieme ad un latente risentimento per il modo in cui Magnus l’aveva ferita, le permise di mantenere il controllo, di rimanere lucida nonostante lui fosse lì, a pochi centimetri da lei, in grado – come sempre – di estinguere momentaneamente qualunque insicurezza. Sarebbe bastato così poco. «Cosa ti fa credere, esattamente, che accetterò la cosa?» Ritirandosi, Isolde riuscì a distinguere chiaramente la scintilla di divertimento che si accese negli occhi di Magnus. Ne vide le labbra sottili corrucciarsi mentre parlava e distendersi in un sorriso ironico, quasi canzonatorio. Sorrise a sua volta, sollevando appena il mento. «Oh, so benissimo che non lo farai.» Replicò, come se fosse ovvio. Non era stupida, per quanto la maggior parte delle persone pensasse il contrario. Inoltre conosceva Magnus abbastanza bene da sapere che uno dei suoi peggiori vizi, forse, era il difficile rapporto con le regole, soprattutto quando gli venivano imposte da terzi. «Ma so anche che l’unica cosa che detesti di più dell’accettare le mie condizioni è Wade, perciò…» Abbassò lo sguardo e sospirò, come se il ritrovarsi in quella situazione la ferisse profondamente. «Sta a te decidere se constringermi a separarmi dalla mia guardia del corpo per “promuoverlo” a tuo babysitter personale fino a data da destinarsi, oppure…» Rialzò lo sguardo su di lui, stringendosi nelle spalle come se, nelle sue ragionevolissime condizioni, la testardaggine di Magnus l’avesse messa alle strette. Se l’avesse costretta a farlo, Isie non avrebbe esitato a incaricare Wade di stare appiccicato a Magnus come una gomma da masticare alla suola di una scarpa. Lo avrebbe fatto a malincuore, certo, ma lo avrebbe fatto. Era certa, d’altronde, che una simile idea avrebbe fatto inorridire Magnus (ed anche Wade, se per questo) ma, soprattutto, la presenza ed i modi tutt’altro che discreti del mercenario avrebbero arrecato non poche difficoltà agli affari gestiti dal minore dei Nystrom e, per estensione, allo stesso Roger Lennox. E, da quel che Isie ricordava, la sua persona aveva sempre avuto un discreto ascendente sugli uomini di famiglia. «Mi eccita quando cerchi di prendere posizione su ciò che non ti spetta.» Isolde ridacchiò, unendo le mani e battendole appena tra di loro. Quel movimento produsse un leggero spostamento d’aria, accompagnato da un esile movimento della chioma bionda, mentre bilanciava meglio il proprio peso sul ginocchio appoggiato all’imbottitura del divanetto. «Divertente! Davvero!» Trillò, ignorando la sua provocazione. Non vi era nulla, in ciò che recalmava, che non le appartenesse. Isolde si era guadagnata ogni centesimo di ciò che possedeva, non solo con l’impegno e l’instancabile dedizione con cui gestiva il locale – anzi, entrambi i locali - le difficoltà che aveva affrontato nel trovare fondi, finanziamenti discreti e dipendenti adatti al Perception ma, soprattutto, con ogni minuto, ogni istante in cui aveva temuto per sé stessa e la propria incolumità, ogni schiaffo che suo marito le aveva rivolto, ogni offesa, ferita, livido, goccia di sangue o lacrima che le aveva fatto versare.
    Dovette frenare la propria volontà annebbiata, trattenendosi dal percorrere la linea della mascella di Magnus con una carezza, risalire sino all’orecchio e solleticarne la pelle delicata con i polpastrelli, sino ad affondare le dita nei capelli ricci e disordinati. Delineandone i lineamenti con le iridi chiare, quasi trasparenti nella penombra della stanza, si soffermò qualche istante di troppo ad osservare i contorni sottili della bocca di Magnus. Una bocca di cui conosceva il sapore, il calore, la morbidezza. Quel solo pensiero fu sufficiente ad accellerare il battito cardiaco, lo scorrere più rapido del sangue nelle vene. Si inumidì le labbra e deglutì, il sapore aspro della vodka a ricordarle che si trovavano in bilico su un confine molto pericoloso e che, come avevano fatto altre volte, sarebbe bastato troppo poco per oltrepassarlo.
    Se il suo turno era appena terminato, Magnus doveva ancora fare la sua mossa. Incapace di allontanarsi o sottrarsi al suo sguardo, Isolde ebbe la sensazione che i suoi occhi riuscissero a scavarle dentro, a leggere oltre la facciata decisa e intraprendente che stava sfoggiando, sino a spogliarla di ogni maschera, ogni più piccolo artificio. La mano di Magnus si posò sulla sua schiena e la donna ne avvertì il calore attraverso il tessuto leggero degli abiti. Non si oppose ma assecondò il suo movimento, affondando ulteriormente con le ginocchia nell’imbottitura del divanetto, ancora più vicini, a tal punto che il respiro dell’uno si mischiava a quello dell’altra. Ancora una volta si ritrovò in trappola, disorientata e violentemente combattuta: una parte di lei desiderava fuggire, scappare lontano da lui e nascondersi in un luogo in cui non avrebbe potuto trovarla; l’altra, quella predominante, non voleva altro che abbandonarsi a ciò che Magnus le prometteva, rifugiandosi tra le sue braccia, consapevole che, anziché esserne disgustato, suo cognato avrebbe tacitamente accettato e sfamato qualunque sua colpa, crimine o perversione. Forse era quella la ragione per cui Isolde era incapace di allontanarsi da lui e, anzi, continuava a ricercare la sua presenza, assurdamente ottusa nei confronti della profondità del legame che li univa.
    Lasciò che le sfilasse la bottiglia di vodka dalle mani e ne seguì il movimento, volgendo di poco il viso in quella stessa direzione, testimone del liquido trasparente che scivolava sul pavimento, allargandosi in una pozza scivolosa, mentre l’aria diveniva satura del sentore acre dell’alcol. Non protestò dinanzi a quello spreco. Non disse una parola nemmeno quando Magnus lasciò cadere la bottiglia, rischiando di mandarla in pezzi. Si limitò a sostenere il suo sguardo, incatenata a quelle iridi buie, mentre avvertiva la pressione delle sue dita sulla pelle. Il suo respiro si fece sempre più silenzioso, teso, man a mano che le dita di Magnus percorrevano il suo corpo, risalendo la coscia ed insinuandosi sotto gli abiti. Ogni singola percezione del suo corpo era concentrata su quel punto – su di lui - come una falena impotente, attratta dalla luce. Non si sarebbe ribellata, non aveva intenzione di farlo. Sebbene fosse cosciente che avrebbe dovuto, che la scelta più matura e responsabile sarebbe stata fermarlo e mettere fine, una volta per tutte, al contorto vincolo che condividevano, in quel momento Isolde non riusciva a trovare una singola buona ragione per cui avrebbe dovuto allontanare Magnus da sé. Non poteva farlo. Non voleva farlo. «E chi saresti?» La voce di Magnus, bassa e soffocata, risuonò come uno scandaloso invito. Una lusinga ad arrendersi, a lasciar cadere ogni difesa e mettere da parte quelle futili incomprensioni per cedere volutamente a ciò che entrambi desideravano. Le dita di Magnus superarono il tessuto dell’intimo e il corpo di Isolde fu scosso da un bridivo. Chiuse gli occhi e si morse il labbro inferiore, costretta ad aggrapparsi a a lui, affondando le dita nella stoffa pregiata della giacca scura, per mantenere stabilmente l’equilibrio. Il mondo intorno a lei aveva preso a vorticare all’improvviso, travolgente ed inarrestabile, oscurato dall’accendersi del desiderio. Smettere di parlare avrebbe reso tutto più semplice: le parole erano complicate, confuse, ingannevoli. Era facile distortcele ed usarle per ferire, armi invisibili che lasciavano ferite incapaci di sanguinare ma, se possibile, altrettanto letali. L’allettante prospettiva di soffocare l’orgoglio ed arrendersi dinanzi all’incontenibile bisogno di ogni molecola del proprio corpo era talmente concreta da farle male. Non sarebbe stata in grado di privarsene, non quando aveva già assaggiato il frutto proibito. «E… cos’è che crederesti tu non mi appartenga?» Mentre il suo corpo reagiva istintivamente sotto il tocco familiare di Magnus, Isie battè freneticamente la palpebre, sforzandosi di recuperare un barlume di lucidità. Impiegò qualche istante a comprendere le sue parole, momentaneamente incapace di ragionare chiaramente. Prese un respiro profondo, nella speranza che ciò impedisse alla sua voce di tremare. «Io.» Sussurrò, stringendo le dita attorno al polso di Magnus senza intimargli di fermarsi, né tentare di allontanarlo da sé. Cercò il suo sguardo, riuscendo appena a distinguere l’iride dalla pupilla, nell’ambiente semibuio. «Io non ti appartengo. Io non appartengo a nessuno.» Voleva che lo sapesse e non lo dimenticasse mai: l’unico motivo per cui poteva averla era perché lei stessa lo desiderava. Poco importava che si trattasse di una bugia, una menzogna a cui, forse, nessuno dei due avrebbe creduto davvero. Poco importava che, all’infuori di Gregory, nessun altro uomo l’avesse mai toccata. Poco importava che prima della vigilia di Natale in cui si erano ritrovati soli nella grande cucina della villa padronale dei Lennox, quando per la prima volta si erano avventatamente abbandonati ad un amplesso che avrebbe potuto firmare la condanna di entrambi, Isolde non avesse mai desiderato qualcuno con tanta intensità. E poco importava che, in quel medesimo istante, l’unico uomo a cui era in grado di donare se stessa ne fosse completamente ignaro.
    L’interruzione di quel contatto la colse alla sprovvista; un gemito di protesta le sfuggì dalle labbra, soffocato dal rumore dei tacchi sul pavimento, mentre indietreggiava sino a sbattere contro il tavolo. Con la mente annebbiata dal primo assaggio di piacere, si aggrappò a Magnus, affondando il viso nel suo collo e sfregando le labbra contro la pelle delicata che sbucava dal colletto della camicia. Respirò il suo odore, stringendo spasmodicamente tra le dita il tessuto della giacca. Lo voleva più vicino a sé. Voleva spogliarlo, baciare le sue labbra, morderlo, sentirlo sussurrare il suo nome. Era quello il pronlema: quando si trattava di Magnus, Isolde desiderava di più, sempre di più.
    Avvertita la solidità del tavolo sotto di sé, non oppose alcuna resistenza quando Magnus le si posizionò dinanzi. Al momento, quella vicinanza era l’unica cosa che aveva senso. Lui era l’unica cosa che aveva senso. Allungò le mani verso il colletto della sua camicia, ormai impaziente, insofferente, ma le sue parole la bloccarono prima che potesse liberare il primo bottone. «I criminali di bassa lega vanno a puttane. Devo farlo anche io?» Sollevò gli occhi sul viso di Magnus, accorgendosi solo in quell’istante di quanto fosse vicino al suo. Scrutò dentro il suo sguardo, cercando di comprendere se quella che le aveva appena rivolto fosse una domanda seria, se davvero le stesse chiedendo cosa doveva fare o se, invece, volesse solo provocarla e ferirla. Avrebbe voluto rispondergli di no, vietargli anche solo di guardare qualunque donna che non fosse lei. Il solo pensiero che Magnus potesse desiderare un'altra donna le fece attorcigliare lo stomaco. La sensazione di nausea la colpì come un pugno, mozzandole il respiro. Aprì la bocca e la richiuse, incapace di formulare una frase sensata. Quando la loro “relazione” era cominciata non si era mai illusa di essere l’unica. Aveva sempre saputo che Magnus aveva altre amanti, donne il cui viso e la cui identità le erano, per lo più, totalmente sconosciute. All’epoca le era sempre andata bene così, fintanto che nessuna di quelle avventure le veniva sbattuta in faccia. Le era bastato non dover competere per le sue attenzioni, in un certo senso illudendosi di essere in qualche modo diversa. Ora… ora non lo sapeva più, ma se Magnus non poteva avanzare alcun tipo di pretesa su di lei, avrebbe dovuto tacitamente accettare lo stesso. «Io non condivido il mio tempo con chi si abbassa a tanto.» Replicò, liberando il primo bottone dall’asola. Sapeva che non lo avrebbe fatto. Non ne aveva bisogno. Sebbene alcune persone giudicassero Magnus esteticamente poco attraente, Isolde aveva scoperto in prima persona quando i suoi modi potessero risultare affascinanti, le sue mani gentili, le sue labbra sensuali. In un inspiegabile moto di rabbia malcelato come impazienza tirò eccessivamente il tessuto della camicia. Un paio di bottoni saltarono, ricandendo chissà dove sul pavimento. Voleva cancellare l’immagine di Magnus insieme a qualcun’altra. Voleva solo vivere quel momento, quel frammento di tempo in cui era suo soltanto perché, una volta fuori da quel privè, non avrebbe potuto in alcun modo trattenerlo. Non era suo, non le apparteneva. Il loro non era altro che un rapporto di comune beneficio e avrebbe dovuto rimanere tale, privo delle complicazioni dovuti a inutili sentimentalismi.
    Era giunta all’ultimo bottone quando si accorse che Magnus stava cercando di sfilarle la maglia. Si interruppe e sollevò appena le braccia, assecondandolo. I capelli le sfiorarono la pelle nuda della schiena, procuradole un brivido. Nonostante il desiderio, una parte di lei si sentì improvvisamente vulnerabile, come se insieme al tessuto degli abiti Magnus avesse rimosso il primo strato della sua corazza, insinuando in lei dubbi e pensieri ora impossibili da sopprimere. Proprio in quel momento, Magnus si chinò su di lei, spngendo le labbra sulle sue, alla ricerca di un contatto più intenso. Tanto bastò a cancellare qualunque lontana preoccupazione. Lui era lì. Poteva toccarlo, baciarlo, averlo. Niente aveva più importanza. Dopo un primo momento di esitazione, Isolde ricambiò il bacio. Prese il suo viso tra le mani e si sporse nella sua direzione, le sue labbra che cedevano docilmente contro quelle di Magnus, assecondandone i movimenti. Fece scivolare le dita tra i suoi capelli, lambendo la sua lingua con la propria, sino a ritirarsi lentamente, indietreggiando appena. Nel mentre, le sue mani scivolarono lungo le spalle, insinuandosi sotto la giacca. Tentò maldestramente di sfilargliela assieme alla camicia, impaziente di avvertire il contatto con la sua pelle calda. Aveva bisogno di sentirne il calore rassicurante, di lasciarsi avvolgere dalle sue braccia, di aggrapaprsi a lui come se potessero davvero fondersi in un’unica anima. Con un fruscio, riuscì infine a liberarsi di entrambi gli indumenti. Nel farlo incontrò il suo sguardo e sorrise appena. «Quella camicia è orrenda. Le cuciture sono fatte malissimo.» Mormorò, quasi stesse tentando di discolparsi. Percorse con le mani la linea delle spalle di Magnus e scivolò dietro la schiena, sporgendosi verso di lui per baciare la pelle delicata dello sterno. La leccò e la mordicchiò, trattenendosi dall’impulso infantile di lasciare un segno, di marchiarlo come suo. Risalì lungo il collo sino all’orecchio, alternando baci a piccoli morsi, soffermandosi in particolare sul lobo. Gli era così vicina che ogni suo respiro era pregno dell’odore della pelle di Magnus. Percepiva le sue mani su di sé, il suo respiro caldo ed irregolare che le sfiorava la spalla, il suo torace nudo che sfiorava il proprio ad ogni loro movimento. Ogni sfioramento le procurava scariche di brividi che non era in grado di nascondere, alimentando il desiderio che lui stesso aveva acceso poco prima. E, se Magnus era stato il primo a divertirsi, Isolde aveva intenzione di fare altrettanto. «Credo proprio che adesso sia il mio turno.» Soffiò le parole al suo orecchio, portando le piccole mani pallide sul suo addome, scendendo sempre più in basso. Si fermò all’altezza del bordo dei pantaloni ma, anziché concentrarsi sulla cintura o andare oltre, fece appello alla propria abilità, concentrandola sul palmo delle mani, dalle quali sarebbe scaturita una inebriante sensazione di piacere e desiderio. Al contempo, si scostò lievemente per incontrare lo sguardo di Magnus, reso torbido dai primi sprazzi di lussuria. Voleva vederlo abbandonarsi a quella sensazione di appagamento ed euforia. Voleva sentirlo gemere il suo nome. Voleva che la desiderasse. Voleva che, almeno per quella notte, fosse solamente suo. E, forse, voleva farsi perdonare per averlo ferito.
     
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    I’m falling apart, I’m barely breathing. With a broken heart.

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    Spavalderia: era quello il lato che entrambi avrebbero voluto mostrare più di ogni altro. Credevano di non avere nulla al di sopra, nessuno che potesse effettivamente dire loro cosa e come farlo. Condividevano un passato fatto di soprusi, alcuni più pesanti di altri certamente, ma in qualche modo riuscivano a comprendere ciò che nell’oscurità si celava. Ne erano stati spaventati per anni, quando ancora nessuno dei due era apparso nella vita dell’altro, e poi semplicemente la connessione fra di loro aveva cambiato tutto. Se ad Isie erano state le percosse da parte di Gregory a fare male, per Magnus erano state le parole che aveva dovuto udire sin da bambino e che gli avevano fatto intendere quanto potesse essere tutto futile nella vita, persino lui. Non aveva idea del momento in cui tutto era iniziato, con lei. Forse non c’era neanche stato un vero e proprio inizio, poiché loro semplicemente erano stati destinati ad alleviare la sofferenza e quella rabbia repressa che sfociava sempre in una violenza più contorta, più minuta e silente. C’erano stati ostacoli che aveva dovuto annientare prima di arrivare a lei, eppure non si era mai fatto fermare da niente in tutto quel tempo, godendosi lo spettacolo e restando nelle condizioni di poter fare qualsiasi cosa pur di ottenere le attenzioni della donna.
    Quel privé sembrava essere lontano anni luce dal resto del mondo, dal caos esterno che cercava di risucchiarli costantemente. C’erano solamente Magnus e Isie e a lui sarebbe bastato quello, se solo avesse avuto il coraggio di ammettere i propri sentimenti. Non aveva mai amato, Magnus, così come non era neanche capace di provare sentimenti positivi verso se stesso, malgrado la sua sicurezza e ferrea compostezza potesse ben dimostrare il contrario. Quella corazza serviva proprio a nascondere le crepe che in lui si formavano giorno dopo giorno, quando si ritrovava a pensare di non essere poi davvero abbastanza, soprattutto per una donna come Isie - pensieri, questi, che lo tormentavano da tutta una vita e che riconducevano spesso al suo rapporto con il resto del mondo. Si era trovato un posto tutto suo, insinuandosi in quello spazio che per lui aveva creduto potesse essere perfetto e fingendo che quella fosse la realizzazione di una vita: aveva tutto, Magnus, eccetto ciò che davvero avrebbe desiderato e che in quel momento stava osservando con estrema attenzione, carezzandone con lo sguardo i lineamenti morbidi. Il profilo delle spalle magre di Isie gli stava davanti, così come il suono della sua voce squillante e che così spesso aveva odiato. Un sentimento così acceso da sfociare sempre in qualcosa di più carnale e di più reale, dato che per lui tutto ciò che avrebbe potuto esser toccato con mano valeva molto più di ciò che restava astratto ai suoi occhi, e lui non cercava parole ma fatti.
    «Oh, so benissimo che non lo farai. Ma so anche che l’unica cosa che detesti di più dell’accettare le mie condizioni è Wade, perciò…» prese a dire lei, di risposta alla domanda più che ironica di Magnus, al che il ragazzo fece istintivamente una piccola smorfia di disprezzo, un colpo basso per Isie tirare fuori il nome di quell’idiota in tutina proprio lì dentro, in quel momento. «Sta a te decidere se costringermi a separarmi dalla mia guardia del corpo per “promuoverlo” a tuo babysitter personale fino a data da destinarsi, oppure…» scrollò leggermente le spalle Isie, come se quell’ultima minaccia fosse del tutto naturale. Corrucciò brevemente le sopracciglia, Magnus, scuotendo appena il capo e riportando le labbra ad aprirsi per un sorriso sottile. «Fai pure, se vuoi infilarlo in una bara da due soldi prima della fine del mese.» rispose quindi il ragazzo, chinando brevemente il capo da un lato come se volesse indicare il mondo esterno, laddove in quel momento tutto il resto del pianeta mandava avanti le proprie vite, ignari di quelle scintille che fra di loro scalpitavano per incontrarsi ed esplodere. Lasciò che Isie carezzasse il suo viso, amando ogni singola scossa che quel tocco provocava in lui, il quale iniziava a desiderare di poter metterle le mani addosso, abbandonarsi a lei e gettarsi ogni diverbio alle spalle, certamente pronto a riprenderli una volta terminato quel viaggio su di lei. Fu in quel momento che allungò le proprie braccia nella sua direzione, avvicinando il corpo della donna al proprio e cominciando a stirare la sua pelle con lentezza e muto desiderio. Non si spostò, Isie, ma anzi sembrò assecondare i movimenti di Magnus, avvicinandosi ulteriormente a lui e lasciando che il proprio ginocchio affondasse maggiormente nel tessuto in pelle che rivestiva i cuscini di quel divano. Le sfilò quindi la bottiglia di Vodka dalle mani, pronto a rovesciarne il contenuto fluido per terra e consapevole del fatto che, in quel preciso istante, Isie non avrebbe certamente protestato: immobile sotto al suo tocco, la donna riservava le proprie attenzioni esclusivamente a lui, coronando almeno per quel breve istante, un nascosto ed impulsivo sogno di Magnus, il quale nelle iridi chiare della donna adorava perdersi. Lasciò cadere poi la bottiglia di vetro, rischiando di permettere ad essa di frantumarsi contro il pavimento nel momento in cui si andò a scontrare con esso, e quindi tornò a posare i propri palmi sulla pelle chiara e nuda delle gambe di Isie, percorrendone la superficie calda fino a raggiungere ciò di cui aveva sentito la mancanza in quei giorni. Dei movimenti lenti e quasi impercettibili per chiunque altro, ma non per Isie, la quale avvertì quel tocco stuzzicare la parte più intima di lei. E ancora parole, in mezzo a loro, andavano a delineare dei confini che fuori da quel privo forse avrebbero avuto più senso. «Io non ti appartengo. Io non appartengo a nessuno.» rispose quindi lei, portando le propria dita ad allacciarsi intorno al polso di Magnus, la cui mano era ancora nascosta sotto il tessuto della gonna che Isie indossava e che le stava da capogiro. Gli ricordò la prima volta in cui l’aveva fatta sua, perché per Magnus si trattava anche di pura possessione. Persino quando Gregory era stato ancora in vita, il ragazzo aveva pensato a lei come parte integrante di ciò che gli sarebbe spettato, sebbene inizialmente lei non avesse neanche osato pensare, forse, a ciò che col tempo quel desiderio sarebbe poi divenuto. Sebbene potesse dirsi che la prima volta sembrava esser capitata per puro caso, in quella grande cucina che Magnus mai aveva sentito come casa propria, niente aveva fatto parte di coincidenze: l’attrazione fra di loro aveva avuto altri nomi, altre sensazioni, e loro non avevano fatto altro che seguire quel breve percorso, lasciando che questo li conducesse col tempo a quel momento, quell’istante specifico. Osservò quindi i lineamenti di Isie, assuefatto a quel suo sguardo colmo di positive sensazioni, le stesse che solo lei permetteva a lui di provare sulla propria pelle. Ne era avido, Magnus, volendone sempre di più, sempre in maniera diversa e solo da lei. Andava con tante, ne ricordava molte, eppure restavano nell’involucro delle cose da gettare, di cui liberarsi prima che facesse giorno. Isie era l’unica che invece restava dopo la notte, pronta a farsi illuminare davanti a lui anche alla luce del mattino, e sebbene gli piacesse, ne era al contempo tremendamente intimorito.
    Interrompendo quel contatto, quindi, si tirò su seguendo il corpo di Isie che andava indietreggiando in direzione del tavolino sul quale ancora vi erano sparse delle mazzette di denaro. Lasciò che la schiena della donna andasse ad incontrarsi con il bordo del mobile, costringendola nuovamente nello spazio delle sue braccia e lasciando che il proprio corpo aderisse quasi completamente a quello di lei. La fece sedere su quella superficie metallica, andando ad incastrarsi fra le sue gambe e mantenendo il proprio sguardo vivo in quello di lei, a così poca distanza l’uno dall’altro. E mentre lui lasciava vagare le proprie mani su quella pelle liscia e profumata, Isie prese a sbottonargli la camicia con fare frettoloso, segno di quanto si desiderassero: uno specchio che rifletteva due immagini uguali, malgrado all’occhio umano sembrassero figure totalmente differenti. Isie sollevò poi le braccia e gli permise di sfilarle la maglietta mentre lei tornava a sbottonargli la camicia per sfilargliela insieme alla giacca che ricopriva quelle spalle magre. Avvertì il calore del suo corpo non appena le mani andarono a posarsi sulla sua schiena finalmente nuda, per avvicinarla a se e lasciare che le proprie labbra aderissero a quelle della donna, così carnose da non riuscire ad impedirsi di morderle appena, prima di distaccarsi nuovamente da lei e lasciare che i propri indumenti finissero per terra, vittime del tocco violento di Isie. «Quella camicia è orrenda. Le cuciture sono fatte malissimo.» sussurrò, forse alla ricerca di un modo per coprire quell’evidente desiderio che, crescente, si mostrava nudo e privo di maschere proprio dinanzi agli occhi del ragazzo che aveva davanti. Lasciò che le mani della donna percorressero le sue spalle, ridefinendone i confini e disegnando delle linee invisibili su quella pelle pallida, appena prima di avvicinarcisi con le labbra per stuzzicarne ogni millimetro. Avvertì il tocco della sua lingua e delle sue labbra calde su di se, impossibile per lui restare impassibile a quell’elettricità che avvertiva passare da lei a lui come se fosse qualcosa di naturale, come se fossero fatti solo di scosse elettriche e di quello ne sarebbero anche morti, probabilmente. In ogni caso, se quello fosse stato il suo ultimo respiro, non avrebbe rimpianto nulla. Avvolse quindi il busto nudo di Isie fra le proprie braccia, portando le dita ad afferrare il cinturino del reggiseno, pronto a sbottonarglielo e lasciare che lei si mostrasse nella sua più completa nudità e purezza di fronte a lui. Amava quel corpo così differente dal suo, conoscendone a memoria ogni curva, ogni neo, ogni più piccola ed invisibile ruga d’espressione e non. Così, con i palmi delle proprie mani che aderivano sulla pelle nuda della schiena di Isie, la spinse con fretta contro di se, lasciando che il proprio addome andasse a scontrarsi contro quello della donna, incapace di credere che, dopo tutte le volte in cui erano stati già insieme, ogni volta sembrava essere la prima. Lasciò che le proprie labbra vagassero sul suo collo, costellandolo di baci e piccole attenzioni, la lingua che ne stuzzicava i punti aridi. Scese piano, seguendo il suo profilo e lasciando le tracce delle proprie labbra su quella pelle chiara, pronto a giungere in direzione delle sue curve e, quindi, del suo seno. «Credo proprio che adesso sia il mio turno.» sussurrò lei ancora al suo orecchio, e solo successivamente si accorse della mano di Isie che andava ad appoggiarsi sulla sua pelle, pronta ad attivare quel meccanismo che, volta dopo volta, riusciva ancora a stupirlo. Un’esplosione di piacere nacque dal nulla dentro di lui, scuotendo ogni singola fibra del suo corpo e provocandogli la pelle d’oca lungo le braccia e le spalle. La schiena si rizzò per qualche istante mentre con fare forse appena più violento andava a posare una delle proprie mani attorno alla gamba destra di Isie per tirarla verso di sé. L’latra, invece, andava frettolosamente a slacciarsi la cintura dei pantaloni, lasciando che questi scivolassero appena più in basso e mostrassero quindi a lei i risultati di quel tocco. Avrebbe voluto dire qualcosa, pronunciare il suo nome, eppure niente sembrava essere reale in quel momento, se non il calore del corpo di lei così pericolosamente vicino al proprio. Allungò una mano in direzione delle sue cosce, risalendo lungo di esse e ritornando a quegli slip che poco prima aveva spostato, imitando nuovamente quei movimenti per concludere quell’azione, però, in modo diverso e già convenzionale. Entrò in lei dandosi una piccola spinta in avanti e tornando a baciare le sue labbra, lasciando che le lingue potessero incontrarsi nuovamente e godendosi quel contatto. Si sentiva in fibrillazione, come ogni volta che Isie tornava ad usare il proprio potere su di lui. Miscelato a tutto quel piacere e desiderio fisico, però, vi era ben altro e non avrebbe voluto ammetterlo a se stesso. Non era solo sesso, non era solo attrazione fisica. Isolde era capace di stregarlo anche solo con le parole: parole che lui forse non avrebbe voluto udire, così come il tono della sua voce che, sebbene avesse pensato fosse terribilmente fastidio e snervante, in quei giorni gli era terribilmente mancato. «Isie-» disse quindi, in un breve e concitato sussurro. Avrebbe voluto dire molto altro, gridare molto altro, eppure quelle quattro lettere in fila sembravano poter racchiudere ogni cosa, ogni suo sentimento. Non avrebbe avuto il coraggio di aprirsi oltre, eppure iniziava a pensare che quel rapporto costruito nel giro di così tanto tempo, iniziava a parlare da sé per entrambi. Lo avrebbe negato, questo era sicuro, ma in momenti di poco autocontrollo come quello, Magnus aveva il timore di dimostrarsi troppo a lei.
    Si muoveva lentamente, impossibile per lui staccare una delle mani dalla pelle della donna: viaggiava sulla sua coscia con la sinistra e spingeva il suo corpo contro il proprio con la destra, tenendola ferma sulla pelle nuda della schiena di lei. Incastrati così come in quel momento, Magnus avrebbe potuto anche rinunciare al mondo fuori dal privè. Non desiderava davvero nient’altro, se non far parte di qualcosa, di qualcuno, e Isie racchiudeva in se qualsiasi desiderio Magnus avesse mai serbato. E fu in quel momento che non poté fermare la propria, di abilità: lasciò che quel piacere estremo e velenoso che scorreva nelle sue vene s’insinuasse anche sotto la pelle di Isie, passando dai suoi polpastrelli alla schiena della donna. Condivisione: era quello che facevano. Loro condividevano un’intimità che a nessun altro sarebbe stata concessa. Un circolo vizioso che aveva solo due voci e nessuna possibilità di fuga. Mai aveva pensato, Magnus, di poter rompere quel cerchio, di potersi distaccare dal magnetismo che li teneva uniti. E mentre il proprio corpo si spingeva sempre di più e sempre più in fretta in quello di lei, l’odore della pelle chiara di Isie invadeva le sue narici riconducendo automaticamente quel piacere alla carne di lei, così assuefatta alla propria. Tornò a baciarne il collo, ogni singolo step punteggiato dalla sua lingua mentre il respiro prendeva a farsi più pensate del normale. Scese nuovamente lungo il suo busto, tracciando un percorso che aveva intrapreso tante altre volte, sotto quelle scosse di adrenalina che scuotevano il suo corpo e lo facevano unire a quello di Isie senza che qualcuno dei due potesse ponersi fin troppe domande. Non sarebbe stato niente più lo stesso, lo aveva saputo dal momento in cui si erano uniti per la prima volta. Nessuna era stata capace di equalizzare quella sensazione e di dissolverla, e lui neanche ci aveva mai provato effettivamente. Non avrebbe potuto. Lasciò sfuggire qualche breve gemito roco dalle sue labbra, incapace di controllare se stesso e quel piacere che, incalzante, lo portò addirittura a tremare sotto al tocco flebile della sua Isie. Non riusciva a pensare ad altri, a nessun altro al suo posto. Un velo di rabbia si interpose momentaneamente in quell’implacabile ammasso di sensazioni piacevoli e carnali, ricordandogli che, sebbene fosse dentro di lei, chiunque avrebbe potuto godere di quel contatto, una volta fuori. Non aveva idea di chi lei incontrasse, dell’aspetto che avevano gli uomini a cui lei si cedeva, e ne detestava anche solo il pensiero, la paura che un giorno, di nuovo, neanche per lei Magnus sarebbe stato più abbastanza. Le passò anche quello, mentre la mano si stringeva attorno alla coscia nuda di Isie, ancora sul tavolo sotto il suo peso e le sue ondulazioni. Non avrebbe voluto compromettere niente, eppure la delusione del non essere adatto a lei se ne stava costantemente lì dentro la sua testa, pronta a venir fuori anche nei momenti migliori. La ricacciò via, beandosi ancora di quel contatto e tornando a posare le proprie labbra su quelle di Isie, schiudendole in un bacio passionale mentre permetteva alla lingua di concentrarsi su quella di lei, andando a stuzzicarla e facendo sua anche essa. SI fermò poi un istante, il fiatone gli smuoveva il torace e mozzava ogni singola possibilità di parlare, dire qualcosa. Sollevò lo sguardo su di lei puntando il proprio in quello languido di Isie, così vicina a lui da poter quasi fargli credere che condividessero il battito cardiaco, veloce il triplo rispetto al normale. Ne osservò i lineamenti, portando una mano al suo viso e andando a premere con le dita contro il collo di lei la spinse in avanti con più dolcezza, lasciando nuovamente un leggero bacio sulle sue labbra, mentre il movimento del bacino faceva scontrare i loro corpi ormai seminudi, vittime di un piacere carnale che non riuscivano mai a spegnere.
    Sarebbe stata la sua maledizione, eppure non ne era spaventato. Sarebbe stato un bel modo di cadere nell’oblio.

    With your feet on the air
    And your head on the ground
    Try this trick and spin it, yeah
    Your head will collapse

     
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    ISOLDE JASMIJN DEWITT-LENNOX ➽

    Per un istante, il tempo parve fermarsi, congelato dalle pareti lussuosamente decorate del privè. Dall’esterno, il rumore della musica proveniente dalla sala principale si insinuava al di sotto della porta, un eco lontano e, in un certo senso, illusione di un rifugio sicuro che, in un battito di ciglia dettato dal caso, avrebbe potuto trasformarsi nella condanna di entrambi. Se la persona sbagliata fosse entrata da quella porta, sorprendendoli l’uno avvinghiato all’altra, il pericoloso castello di carte che avevano attentamente costruito sarebbe crollato, spazzato via dal cieco desiderio di vendetta. Le coincidenze sarebbero state ricollegate tra loro, i dubbi svaniti, le loro infelici esistenze rimesse al giudizio spietato di Roger Lennox. Eppure, in quel momento, Isolde non riusciva a preoccuparsi di nulla di tutto ciò, se non della presenza di Magnus dinanzi a sé, delle sue mani su di sé e di ogni centimetro di pelle che, a sua volta, riconosceva come proprio. Non era sempre stato così: solamente due anni prima, lei e Magnus non era stati altro che semisconosciuti, individui destinati a incontrarsi ma che, a malapena, osavano sfiorarsi. Tuttavia, riguardando indietro con più accortezza, forse Isie sarebbe stata maggiormente consapevole di come, in presenza l’uno dell’altro, avessero ben presto iniziato a cercarsi, lo sguardo dell’uno che scivolava sull’altra e viceversa quando, durante le fastose cene di famiglia, nessuno faceva troppo caso a loro, entrambi presenti ed entrambi dimenticati come futili decorazioni sullo sfondo. Forse era proprio quella la ragione per cui erano giunti a tanto, manipolando i loro carnefici al loro stesso gioco. Silenziosamente, giorno dopo giorno, il vuoto che nascondevano dentro li aveva avvicinati, bisognosi di riempirlo, di scacciare la sensazione di solitudine o, forse, semplicemente di qualcuno che fosse in grado di comprendere.
    Sotto le labbra, attraverso la pelle sottile e delicata del collo, avvertì il sangue scorrere velocemente attraverso la giugulare di Magnus, il respiro alterato e il fremito che lo percorreva ogni volta che, con la lingua o con i denti, si avventava su un lembo di pelle sensibile, avvicinandosi all’orecchio. Inspirò profondamente il suo odore, assuefatta dalla sensazione della sua pelle contro la propria, il calore del corpo di Magnus che, in quell’abbraccio, era invitante e rassicurante al tempo stesso: tutto l’astio che si erano riversati contro, alimentato da ottuso risentimento, era improvvisamente sparito, dimenticato e cancellato da quella vicinanza. Inarcò la schiena, aiutando Magnus a raggiungere il gancetto del reggiseno e allontanò momentaneamente le mani dal suo corpo, permettendogli di sfilarle più facilmente l’indumento. Quella durata di contatto durò solo qualche secondo ma quando il giovane sicario l’attirò a sé, facendo aderire i loro corpi senza più l’impaccio degli abiti, Isie fu scossa da un tremito che le mozzò sonoramente il respiro. Improvvisamente docile, sopraffatta dall’intensità del bisogno di averlo vicino – quello emotivo, che la spingeva ad associare Magnus ad un luogo sicuro, e quello fisico, più istintivo e animale, che le si agitava dentro, rendendola spaventosamente sensibile al suo tocco – inclinò il capo di lato e gli offrì il collo, i lunghi capelli biondi scivolati a coprirle la spalla. Affondò le dita tra i capelli ribelli di Magnus, tirando appena qualche ciocca mentre, senza ribellarsi, accompagnava la discesa delle labbra dell’uomo sul suo corpo. Attraverso le ciglia socchiuse lo vide discendere dalla spalla in direzione del seno, sfiorando la pelle delicata del petto con una gentilezza inaspettata, in netto contrasto con il desiderio passionale che, ne era certa, ardeva in entrambi. Resistendo all’impulso di stringerlo a sé e fermare il tempo nella cornice di quell’intimo istante, la giovane lasciò la presa e fece scorrere le mani verso il basso, accarezzando delicatamente la mascella del compagno, le spalle e il torace magro sino all’addome piatto, fermandosi poco sopra il tessuto dei pantaloni. Le fu sufficiente concentrarsi un attimo per avvertire il meccanismo che regolava la sua abilità scattare dentro di sé, quasi fosse cosciente della presenza di Magnus. In risposta, i livelli generali di dopamina e glutammato in circolo nel corpo di Magnus si innalzarono e, conseguentemente, una sensazione di piacere si impossessò del giovane. Isie avvertì i muscoli del suo addome contrarsi sotto il palmo della sua mano, lo sguardo chiaro fisso su di lui per non perdersi nemmeno un singolo istante di quello spettacolo incredibile. Lo vide irrigidirsi per la sorpresa, le palpebre serrate e tramanti, le labbra socchiuse alla ricerca di ossigeno. Quella semplice reazione fu sufficiente a procurarle una profonda fitta di desiderio. La prima volta che gli aveva inconsapevolmente causato quella reazione ne era rimasta affascinata e, al contempo, sorpresa più di Magnus stesso. Col passare del tempo, una volta presa maggiore confidenza con il proprio potere, si era ben presto resa conto che procuragli piacere a quel modo le piaceva; vedere Magnus rispondere istintivamente al suo tocco, tremando e gemendo, alimentava in lei una soddisfazione legata non solo alla consapevolezza di essere l’artefice di simili reazioni ma, sebbene non se ne fosse ancora resa conto, anche a qualcosa di più profondo.
    In preda agli effetti dell’alterazione dei neurotrasmettitori, Magnus la attirò a sé, riscuotendola. Seguì i suoi movimenti con lo sguardo, il motivo di tanta impazienza ormai più che palese. Si sospinse verso di lui e portò le mani sui suoi fianchi, intenzionata ad aiutarlo a liberarsi dall’inutile costrizione dell’intimo, accorgendosi solo in quel momento di quanto, a sua volta, desiderasse disfarsi dei pochi indumenti che ancora li separavano una volta per tutte. Le mani di Magnus risalirono lungo le sue cosce lasciando una scia bollente, insinuandosi nuovamente sotto al tessuto della gonna. Isie tremò appena, gli occhi socchiusi ed il respiro che diveniva più intenso, udibile, in risposta ai movimenti delle dita di Magnus. Un’acerba sensazione di piacere si disperse nel suo corpo, senza tuttavia riuscire a placare l’eccitazione; invece di darle sollievo, le sue attenzioni le procurarono una strana frustrazione, alimentando, come benzina gettata sul fuoco, il desiderio di un contatto più intenso. Quando Magnus si spinse nel suo corpo, era pronta ad accoglierlo. Mentre un gemito le sfuggiva dalle labbra, ogni fibra del suo essere si tese contro di lui, le mani di Isie che si aggrappavano alle sue spalle, le unghie curate che affondavano leggermente nella pelle pallida dell’uomo, lasciandovi il segno di piccole e perfette mezzelune. Fece forza sulle braccia per avvicinarsi a lui e ricambiò il bacio di Magnus con passione, incapace di pensare a qualunque cosa al di fuori di lui. I suoi baci, il suo sapore, la sensazione della sua pelle nuda contro la propria. In quei giorni di ostinato silenzio tutto ciò le era mancato come l’aria e, ora che si trovava tra le sue braccia, qualunque screzio tra loro le sembrava un motivo sin troppo stupido per sottoporsi volontariamente ad un simile tormento. Punirsi a quel modo non aveva senso. Restare lontano da lui non aveva senso – non quando, assieme, si incastravano alla perfezione.
    Senza smettere di baciarlo, serrò le cosce attorno ai fianchi di Magnus, assecondando i suoi movimenti e facilitando l’equilibrio per entrambi. Interruppe il bacio solamente per riprendere fiato, il torace che si alzava in maniera irregolare, il seno che sfiorava il petto dell’uomo. Rimanendo talmente vicina a lui da respirare la stessa aria, Isolde fissò il proprio sguardo negli occhi di Magnus. Per un istante si perse in quelle iridi profonde, alterate dal desiderio e quasi nere nella penombra. La parve quasi che potessero accarezzarla, sciogliendo il primo strato al di sopra della sua pelle come la muta di un serpente e, scrutandola al di sotto di quell’artificio, carpire un frammento della sua vera natura, una verità che, forse, non avrebbe mai avuto il coraggio di ammettere ad alta voce. «Isie-» In un sussurro, il suo soprannome sfuggì alle labbra di Magnus come una preghiera. Isolde lo sentì rimbombarle nelle orecchie più volte, come se quel semplice mormorio potesse racchiudere un legame assai più intimo e profondo. O, più probabilmente, si trattava unicamente di un suo ennesimo capriccio. Quella spiegazione era sicuramente la più logica, la più sensata. Magnus non era tipo da sentimentalismi, tanto meno un uomo dedito alla monogamia. Isie sapeva bene quanto il suo approccio alla vita fosse ostinatamente lontano da qualunque tipo di legame umano, completamente e pericolosamente incentrato sull’autodistruzione, in una spirale di droga e alcol. Le donne andavano e venivano, un passatempo legato al bisogno umano di non sentirsi troppo soli, di poter barattare qualche momento di intimità con il silenzio della propria solitudine. Così, il vuoto dentro sé stessi non faceva troppo male e l’immagine riflessa nello specchio non spaventava troppo. Isolde lo sapeva, lo comprendeva e mai aveva pensato di poter essere qualcosa di diverso, per Magnus, dell’ennesima donna utilizzata per lenire la propria sofferenza. Lei stessa aveva approfittato di lui allo stesso modo e, forse, anche di più. All’epoca in cui si era ritrovata priva di altre vie di uscita, lui era stato il suo piano B, la carta su chi aveva puntato tutto ciò che possedeva. Aveva architettato tutto lucidamente, incapace di immaginare che il suo silenzioso ed enigmatico cognato potesse rappresentare per lei la fonte di tanti turbamenti. Le era stato impossibile prevedere il fascino grezzo e tagliente di Magnus, il modo in cui i suoi baci lenivano la sua solitudine, il calore che la avvolgeva tra le sue braccia, i piccoli gesti con cui, a dispetto delle parole (talvolta) crudeli che le rivolgeva, aveva pian piano conquistato la sua fiducia. Aveva commesso l’errore di circondarsi della sua presenza a tal punto da darlo per scontato, da abituarsi a lui e a quello che, paradossalmente, condividevano.
    Mentre il seme di un lontano timore si insinuava per la prima volta dentro di lei, Isie spostò una mano dietro il collo di Magnus e rafforzò la presa su di lui, quasi avesse paura di perderlo. Liberò la mente da qualunque pensiero: non era abbastanza lucida per indulgere in dubbi e preoccupazioni prive di fondamento che, una volta ripreso il controllo di se stessa, le sarebbero parse prive di importanza. Chiuse gli occhi e avvicinò il viso a quello di lui, i fianchi che assecondavano ogni suo movimento come se i loro corpi fossero meccanismi appositamente progettati per funzionare assieme. Il piacere che provava crebbe d’intensità, espandendosi dentro di lei come una forza violenta e incontenibile e, quando Magnus fece appello alla propria abilità, la giovane si agitò appena tra le sue braccia, soffocando un gemito misto di sorpresa e approvazione contro il suo collo. Ciò che Magnus provava si mischiò alle sue stesse sensazioni e, ormai incapace di distinguerle, Isolde vi si abbandonò completamente. Ad ogni movimento, ogni respiro, ogni istante in cui il suo corpo era legato a quello di Magnus, il piacere e l’eccitazione di entrambi la percorsero, procurandole fremiti sempre più ravvicinati. Si affidò alle labbra ed alla lingua del compagno, inarcando la schiena in risposta alle attenzioni di lui, sotto il cui tocco si ritrovò a tremare come la corda di un’arpa, sapientemente pizzicata da un abile musicista.
    Con il capo lievemente reclinato all’indietro, sfiorò le labbra di Magnus con le proprie, accogliendo i suoi gemiti. Ne osservò i lineamenti distorti dalla sensazione di appagamento che stava prendendo possesso di entrambi, sentendolo tremare nel suo abbraccio. Avvertì la sua mano stringersi con un po’ più di forza attorno alla sua coscia e, subito dopo, la sensazione di piacere fisico venne accompagnata da un incomprensibile ed inaspettato retrogusto di rabbia e timore. Lo percepì appena, sorpresa a tal punto da non riuscire a comprendere, al principio, se si trattasse di qualcosa che le apparteneva. Confusa, cercò lo sguardo di Magnus ma, prima che potesse dire qualunque cosa, il sicario soffocò qualunque suo dubbio con un bacio. Incapace di negarsi, cedette alla pressione delle sue labbra contro le proprie e le schiuse, accogliendo la lingua dell’altro. La lucidità venne meno e, suo malgrado, quegli incomprensibili sentimenti provenienti da Magnus vennero momentaneamente cancellati dai loro corpi vicini, uniti in un amplesso ormai incontrollabile. Le sembrava che il suo intero corpo fosse scosso da tante minuscole scariche elettriche, il respiro totalmente ingovernabile. Con la vista quasi annebbiata, riuscì a malapena a distinguere i lineamenti di Magnus, a pochi centimetri dal suo viso. Ne cercò istintivamente le labbra, finendo per sfiorare il suo naso con il proprio, prima che lui le venisse in aiuto. Fu un bacio dolce, delicato, a cui Isie si lasciò andare. Le ondate di piacere si fecero sempre più intense e ravvicinate, il battito cardiaco completamente impazzito. Era certa che persino Magnus potesse sentirlo battere furiosamente ogni volta che i loro corpi si toccavano, il cuore di uno speculare nell’altra. Incapace di controllare consciamente i propri movimenti, si aggrappò meglio a Magnus e, soccombendo allo stress che aveva accumulato in quei giorni, perse il controllo sulla propria abilità. Come in precedenza, agì sui neurotrasmettitori responsabili dell’eccitazione e dell’appagamento fisico che, assieme all’adrenalina già in circolo, si riversarono in Magnus e, di conseguenza, in entrambi. La sensazione fu tale da mozzarle il fiato. Ogni singolo recettore sensoriale del suo corpo sembrò fondersi perfettamente con quelli di Magnus come se, d’improvviso, fossero realmente un unico individuo. Travolta da quelle sensazioni incontenibili, Isolde si strinse maggiormente a Magnus, le gambe intrecciate attorno al suo bacino e le unghie che affondarono nuovamente nella sua pelle mentre, tremante, veniva scossa dal piacere più intenso che avesse mai provato. In quell’istante il mondo cessò di esistere, implodendo in un’esplosione di colori e sensazioni incontrollabile che investì entrambi, lasciandoli frementi e senza fiato.
    Non avrebbe saputo dire quanto tempo passò realmente prima che riuscisse a formulare un pensiero coerente. Battendo pigramente le palpebre, si ritrovò saldamente aggrappata a Magnus, il viso nascosto nell’incavo destro del suo collo. Lentamente, allentò la presa sulle spalle di Magnus e scivolò più in basso lungo la sua schiena, soffermandosi con una mano all’altezza del cuore. Respirava ancora affannosamente e, da lì, avvertiva il respiro caldo dell’uomo sfiorarle la spalla e la schiena nuda. Rimase immobile per qualche istante, lasciandosi cullare dalla vicinanza dei loro corpi e dagli ultimi sprazzi di appagamento fisico. Infine, si scostò appena, ritrovandosi ad osservare la cicatrice sotto l’orecchio destro di Magnus. La sfiorò appena con la punta delle dita, senza rendersene conto. Non era la prima volta che la vedeva, ma non sapeva realmente come se la fosse procurata. Non glielo aveva mai chiesto, consapevole che lui non glielo avrebbe rivelato. Quel pensiero le ricordò quanto poco, in realtà, sapesse di lui. Sotto certi aspetti non erano altro che sconosciuti, a dispetto delle scappatelle che condividevano, appartandosi di nascosto per pochi attimi di piacere effimero. Quella consapevolezza le provocò una fitta allo stomaco. Davvero il loro legame era tanto superficiale? Si trattava realmente di solo sesso?
    Riscossasi, si raddrizzò completamente, evitando di guardarlo negli occhi. In quel momento si sentì troppo nuda, come se ciò che era appena accaduto tra loro fosse sbagliato o – per lo meno – sconveniente. La sensazione di benessere si affievolì, sostituita da una strana inquietudine e dal ricordo della rabbia e della paura che Magnus le aveva trasmesso. «Io…» Iniziò, senza sapere bene cosa dire. Si schiarì la voce. «Devo andare. Ho dei documenti da sistemare.» Si scostò da lui e, quando Magnus glielo permise, scivolò giù dal tavolo. Recuperò i propri indumenti dal pavimento e li indossò, dandogli le spalle. Sistemò la gonna e si passò una mano tra i capelli, sperando che nulla, nel suo aspetto, lasciasse intendere cosa era accaduto in quel privé. «Mando qualcuno a pulire il pavimento.» Esclamò, superandolo. Era quasi giunta alla porta quando si fermò, attanagliata da un groppo alla gola. Prese un respiro profondo, silenzioso, e si volse di nuovo nella sua direzione. Si inumidì le labbra, puntando lo sguardo in quello di Magnus. «Non possiamo continuare a comportarci in questo modo.» Esclamò, con un sospiro. Scosse il capo, agitata. Aprì la bocca e la richiuse, senza dire nulla. Non sapeva perché ma sembrava che le parole non volessero abbandonarle le labbra, saldamente incastrate in gola. Una vaga sensazione di panico si fece largo dentro di lei, inaspettata ed inspiegabile. Aveva sempre saputo che ciò che stavano facendo era rischioso e, sebbene fosse conscia delle eventuali conseguenze, non ne era mai stata tanto spaventata da reagire in quel modo. «Questa cosa… non possiamo portarla avanti.» Sebbene fosse stata lei a parlare, le parve che fosse stato qualcun altro a pronunciare quelle parole. Quasi rimbombarono, nell’ambiente ovattato del privé, risuonando forse più impersonale e distaccata di quanto fosse realmente. Se ciò che vi era tra loro era così insignificante, perché faticava tanto a mettervi una fine? Perché era tanto difficile dirlo chiaramente? Perché non riusciva a guardare Magnus negli occhi e dirgli che, da quel momento in poi, sarebbero stati semplici cognati? Si morse il labbro inferiore, sentendosi quasi soffocare. Il cuore aveva ripreso a battere violentemente, agitandosi come un uccellino in gabbia ed alimentando la crescente sensazione di panico. Doveva uscire di lì. Doveva allontanarsi da lui. «A domani.» Mormorò, voltandosi verso la porta. La aprì e sparì nel corridoio dei privè, lasciando che la porta del numero 3 le si chiudesse alle spalle. Con la testa che le girava violentemente ed il respiro incontrollabile, si appoggiò contro la parete, tentando di riprendere il controllo. «Signorina Dewitt, va tutto bene?» La voce di un cameriere la riscosse. Isie sorrise automaticamente, ricacciando indietro le lacrime. Si raddrizzò, senza tuttavia allontanarsi dalla parete. «Sì, certo!» Esclamò, fingendo la solita allegria. «Solo che… qui dentro fa davvero caldo!» Mentì, sventolandosi con una mano. «Ad ogni modo… potesti mandare qualcuno a ripulire il privé 3 tra massimo un quarto d’ora?» L’uomo annuì e Isie gli sorrise di nuovo. «Perfetto, buon lavoro!» Trillò, approfittandone per allontanarsi a passo svelto. Invece di dirigersi nel suo ufficio, però, risalì una delle uscite di sicurezza del Perception, diretta alle cucine del Delaunay Bistro. Aveva bisogno di stare sola e prendere una boccata d’aria. Aveva bisogno di respirare anche se le sembrava impossibile.
     
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