Sadness is taking over your eyes

Drasil&Steffen | Tarda serata

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    Più il tempo avanzava e più la giovane Drasil si allontanava dal passato che si era lasciata alle spalle, diversi mesi prima. Si era messa d’impegno, provando a dimenticare la vita che aveva lasciato assieme al corpo senza vita di suo fratello, provando a guardare in avanti e decidendo finalmente di voler far parte di quel mondo, sebbene a lei fosse ancora quasi del tutto sconosciuto. Era cresciuta con altri avvertimenti, con altri orizzonti a far breccia nei suoi occhi, eppure aveva smesso di guardarli, concentrando la propria attenzione su ciò che di nuovo si presentava a lei, sotto ogni aspetto e forma. Liv in questo l’aveva aiutata tanto, e le sarebbe sempre stata grata. Provava ogni giorno a credere in lei e a lasciare che Drasil stessa facesse lo stesso con il proprio io, cercando di rendere più leggera la nuova vita che, inizialmente, era stata un peso. Era piombata in un luogo sconosciuto, in un tempo sconosciuto, incredula ed impaurita. L’aveva salvata portandola a casa con se e lasciando che la donna dai lunghi capelli dorati si sentisse a proprio agio con lei. Ra stato difficile, ma piano piano erano riuscite a trovare un giusto equilibrio, sebbene ancora ci fosse molto su cui lavorare. La tecnologia, ad esempio, era ancora uno dei punti critici della loro convivenza, poiché la Mot si ritrovava ad essere spaventata da qualsiasi oggetto funzionasse “autonomamente”, magari anche con il solo ausilio di una spina elettrica. Il colmo lo aveva raggiunto, in ogni caso, quando era rimasta per poche ore da sole in casa e la lavatrice aveva emesso i suoi abituali rombi strani e spaventosi, cosa che l’aveva spinta a comporre la fila di numeretti incollati sul retro dell’oggetto, che l’avrebbero ricondotta quindi al servizio clienti della manutenzione. Era trascorso quindi un po’ di tempo, dalla prima volta in cui aveva incontrato Steffen. Non aveva ben saputo cosa aspettarsi, quando aveva alzato la cornetta per chiamare la manutenzione, convinta che vi fosse un guasto alla lavatrice e che se non fosse stata immediatamente riparata, lei e Liv avrebbero potuto addirittura rischiare la vita. Eppure, il ragazzo aveva provato a spiegarle che non avrebbe dovuto avere il terrore di quegli oggetti, avvicinandosi lui stesso all’affare elettronico e dimostrandole di avere ragione. Da quel momento in poi, stranamente, Drasil era stata appena più tranquilla: aveva preso coraggio e aveva cercato di spingere se stessa ad affrontare quella fobia che, dal nulla, si era insinuata in lei così come la stessa Drasil aveva sfidato le regole di spazio e tempo, giungendo nel tempo che mai aveva immaginato di poter vivere in prima persona.
    Si erano incontrati ancora, poiché Drasil non aveva resistito e aveva voluto vederlo nuovamente, anche solo per offrirgli nuovamente un caffè. Eppure, sebbene il ghiaccio fosse almeno un po’ più frantumato di quanto avesse potuto fare la prima volta, Drasil non era riuscita a lasciare che Steffen si aprisse con lei, mostrandogli le profondità del suo cuore e raccontandole di lui. La donna non aveva comunque insistito troppo, preferendo lasciare che fosse lui a decidere quando e come fidarsi di lei. In ogni caso, lei sentiva di volergli stare accanto e non ne avrebbe neanche saputo spiegare il motivo, se qualcuno glielo avesse chiesto. Aveva riconosciuto negli occhi di Steffen qualcosa che credeva fosse appartenuto anche a lei, ma che non aveva avuto modo di vivere appieno. Era abbastanza certa che l’uomo avesse perso parte di se stesso con la morte di una persona molto vicina: non le aveva mai parlato di niente, di nessuno che facesse parte della sua vita, e Drasil si era semplicemente domandata perché. Aveva forse rotto i ponti con chiunque? Anche con la sua stessa famiglia? Questo lei non poteva saperlo e neanche avrebbe voluto scoprirlo da sola. Avrebbe tanto preferito che lui le parlasse, che le spiegasse da dove veniva quel suo essere così silenzioso, malinconico. Glielo leggeva nello sguardo, che prontamente abbassava sui suoi stessi piedi nel momento in cui Drasil provava ad immergersi nelle sue iridi accese e azzurrine. Trovava piuttosto tenero quell’atteggiamento, malgrado le fosse così difficile porre un vero e proprio collegamento emotivo con lui, i cui dialoghi le erano sembrati sempre molto superficiali. Non gliene avrebbe fatto una colpa, sapeva che si manteneva su quelle sfumature solo perché, quasi sicuramente, non voleva permettere a lei di andare oltre. Sembrava essere una di quelle persone che preferiva in qualsiasi caso tenere il dolore esclusivamente per se stesso. Eppure, Drasil se l’era promesso: sarebbe riuscita a comprendere quei silenzi, a farne una parte anche sua. Così, aveva alzato la cornetta per l’ennesima volta e lo aveva chiamato, avendo imparato il numero a memoria non aveva neanche avuto più bisogno di riguardare il foglietto sul quale Steffen, contro ogni dire, glielo aveva segnato, pregandola di non chiamare più l’azienda per cui lavorava altrimenti avrebbe dovuto sorbirsi le domande del capo il quale ormai iniziava a sospettare che qualcosa, fra quei due, non si fermasse al puro e semplice rapporto cliente-datore di lavoro. Nel momento in cui lui aveva accettato la chiamata, però, la voce di Steffen era immediatamente risultata insolita alle orecchie attente di Drasil, la quale aveva domandato al ragazzo dove si trovasse. Non riusciva pienamente a comprendere di essere alcune volte piuttosto ossessiva, ma lui era una delle poche persone con cui riusciva a sentirsi a proprio agio e l’idea di non vederlo così spesso la spingeva a cercarlo, a voler condividere e trascorrere del tempo insieme a lui. Quindi si era ritrovata a camminare da sola per le strade quasi deserte di una Besaid immersa nella luce serale, i lampioni che schiarivano ogni quartiere e creavano delle ombre lunghe e scure per le strade, non del tutto ben illuminate, mentre lei le osservava scivolare sotto i piedi, un passo dopo l’altro. Camminava in silenzio, gli occhi alla ricerca di quello sguardo che avrebbe riconosciuto in mezzo a molti, un po’ tremante e tentennante, inconsapevole di cosa avrebbe potuto leggere in essi, quella sera. Gli aveva confessato dove si trovasse, dicendole di essere in un bar poco affollato, nella parte ad est di Besaid. La domenica sera era fatta, d’altronde, per starsene chiusi in casa con la propria famiglia, in attesa della notte che avrebbe lasciato spazio all’inizio di una nuova settimana lavorativa. Lei, invece, famiglia non ne aveva, così come non conosceva quelle strane usanze che portavano la popolazione norvegese a rifugiarsi nelle proprie case, durante quei giorni festivi. In ogni caso, giunta dinanzi alla porta dell’Egon Pub, la spinse con forza, addentrandosi poi nel locale e soffermandosi poco dinanzi l’uscio, pronta a guardarsi intorno alla ricerca della figura di Steffen. Scorse veloce con lo sguardo, disegnando i contorni delle immagini che le si presentavano davanti e non riconoscendo nulla di familiare. Avanzò di qualche passo, allungando appena il collo e cercando di guardare anche nella parte più buia del locale, nell’angolo in fondo all’entrata, dalla parte opposta alla quale si trovava lei in quel preciso istante. «Serve aiuto?» chiese quindi uno dei camerieri, affiancandola e sollevando lo sguardo nella stesa direzione in cui Drasil stava puntando i suoi grandi occhi chiari. Si voltò in fretta verso di lui, scuotendo il capo e sollevando brevemente le spalle. «No, cerco… cercavo qualcuno, aspetterò fuori.» disse lei, sorridendo amabilmente e compiendo due passi indietro, nuovamente in direzione della porta. Infilò le mani nelle tasche della giacca nera che indossava, uscendo poi nuovamente dal locale e lasciandosi avvolgere nuovamente dal freddo quasi invernale della Norvegia. Nascose metà del viso nel colletto del cappottino, cercando di resistere a quelle leggere ventate di freddo che s’infrangevano nella sera. Fu quasi per caso che si voltò alla propria destra, in direzione della parte opposta da cui era arrivata solo qualche minuto prima, e lo vide: Steffen se ne stava appoggiato contro il muro di mattoni rosso cerchiato di cemento bianco, lo sguardo perso nel nulla. Restò per qualche breve istante semplicemente immobile a guardarlo, cercando di capire in che condizioni fosse. Compì allora un passo, fermandosi ancora e solo dopo riprese a camminare, forse un po’ indecisa sul da farsi. «Steffen?» lo chiamò quindi, corrugando le sopracciglia nell’attirare la sua attenzione. Quando sollevò lo sguardo su di lei, Drasil riconobbe una malinconia ben più accentuata del solito, come se la sofferenza che aveva visto sul suo viso, prima di allora, era stata irrimediabilmente ed inconsapevolmente moltiplicata almeno per tre volte. Fermandosi ad un solo passo da lui, chinò appena il capo da un lato, cercando di catturare il suo sguardo con il proprio. «Stai bene?» gli chiese allora, sentendosi subito dopo solo una stupida: era abbastanza evidente quanto l’uomo fosse scosso, e a lei non ne era dato sapere il motivo.

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    Poteva cambiare tutto, se solo lo avesse sinceramente voluto. Avrebbe trovato ogni espediente, ogni situazione - sia pure astratta - per conseguire ad un miglioramento della sua vita. Molti, tantissimi, probabilmente chiunque si fosse ritrovato scioccamente vincolato dalle sue medesime sfortune o più comunemente, avesse deciso in passato di compiere la sua medesima strada, rovinandosi, sarebbe stato lieto e compiaciuto di quanto ottenuto adesso. Steffen, sostanzialmente, doveva necessariamente sentirsi orgoglioso di quel che stava accadendo nella sua vita. Aveva abbandonato - secondo la legge e le tempistiche espresse dal giudice del tribunale - la prigione. Quel luogo, la prigione. No, non si era dimostrato assolutamente un luogo tranquillo nel quale vivere, sia pure, per qualche brevissimo periodo. La sua condanna lo aveva costretto nel dimorarci solo per sei mesi. A dire la verità, si dimostrarono i sei mesi più lunghi di tutta la sua esistenza. Una struttura, nella quale venivano rinchiusi - forzatamente - gli esseri e gli individui peggiori della società. Uomini che si erano macchiati di orribili crimini. Non c'erano esclusivamente gentaglia come lui, piccoli criminali, con i quali - di tanto in tanto - ci si poteva anche conversare civilmente. Personalità costrette dalla vita, dalle origini, dalla droga o dalla disperazione nell'andare contro le leggi imposte per un comune vivere in serenità nella società moderna. No, tra loro vi erano anche coloro che non si curavano delle sofferenze causate agli altri. Pazzi, alienati - aspiranti tali in effetti, per quanto i loro avvocati avessero cercato di rendere più palese quella finzione, alla fine, dovettero desistere - sadici e menefreghisti, semplicemente delinquenti, capaci di uccidere indistintamente uomini, donne o bambini. La prigione era un luogo e un ambiente terrificante nel quale sopravvivere. Sì, non si poteva fare altro del resto. Sin dal primo momento si veniva immediatamente vezzeggiati, presi di mira e quella forma di prevaricazione non era assolutamente eguale per entità e forza a quella che, solitamente, i più irriverenti e giovanissimi adottavano nei confronti del proprio compagno di banco o di scuola. Solitamente, un tipetto magrolino e accecato, dedito alla matematica ed eccellente nello svolgere qualsiasi interrogazione. No, in prigione, se si veniva presi di mira da qualcuno, bastava niente, assolutamente pochissimo per ritrovarsi con qualche rudimentale oggetto tagliente, conficcato nell'addome o nel collo. Vivere, sopravvivere, continuamente, costantemente con l'ansia, a meno che, non si provvedeva nello stringere amicizia, unirsi in qualche gruppo sperando di poter essere tutelati e protetti. Cerchie di altri criminali, i quali offrivano protezione all'interno dello stabile ma, chiaramente, una volta usciti, occorreva sdebitarsi: continuando con quella vita malavitosa pur non volendo. Le conseguenze? La morte. Steffen era stato fortunato. Non aveva suscitato riguardo o antipatia nei confronti di nessuno. Aveva scorto con i suoi occhi il corpo esanime di un altro detenuto, disgraziatamente con la sorte opposta alla sua. Steffen era sopravvissuto. Doveva compiacersi di quanto aveva ottenuto. Era libero. Nessun vincolo, nessuno al quale rivolgersi e chiaramente, alcuno abbastanza potente e pericoloso col quale fare i conti. Aveva ottenuto un lavoro, aveva un piccolissimo appartamento. Possedeva un veicolo. Un catorcio, sicuramente, ma abbastanza funzionante per potersi spostare nei dintorni: esercitando la sua professione. Fu proprio mediante questa che aveva conosciuto Drasil. Quella giovane ragazza che proveniva da un secolo passato. Catapultata in questo odierno, seppur Steffen non ne sapesse il motivo. Non lo aveva domandato. Effettivamente non si impicciava mai degli affari del prossimo. Tale inclinazione l'aveva sempre posseduta ma non era incoraggiata dalla sua educazione - per niente misera o deleteria - o dalla sua sensibilità d'animo. No, in passato aveva sempre evitato dato che i suoi occhi si posarono unicamente su di sé. Non gli era mai interessato di niente e di nessuno tranne che di lui. Molte cose, molte persone, carissime, fedeli, amiche, invaghite e vitali, le aveva perse proprio in merito a ciò: a questa orribile attitudine all'egoismo. Anche lei.
    Aveva conosciuto Drasil ed era rimasto stupito, piacevolmente certo, dall'inclinazione e dal temperamento della ragazza. Oltre il suo aspetto, gradevole, la sua gestualità, il suo modo di guardare chiunque la circondasse e il mondo attorno a lei, così come la sua attitudine nel parlare, quella peculiarità che la rendeva così straordinaria: c'erano anche i suoi sguardi. Era rimasto impalato, bloccato, rapito da quell'occhiata, da quelle brevissime contemplazioni visive della quale divenne spettatore. Immediatamente pensò a quanto fosse un'anima candida, pura, cristallina. Uno spirito totalmente diverso, impossibile che potesse esistere su questo mondo e all'interno di questa orribile e scurrile civiltà. Sì, pensò a quanto fosse meravigliosa. Eppure, proprio perché possedette e iniziò a nutrire una così grande considerazione e stima per lei, aveva deciso d'evitarla. Lui sapeva cos'era. Lui era consapevole del marcio, dell'oscurità e della melma che riempiva ogni piccolissimo antro del suo animo. Non poteva sporcarla, non poteva indebolire quella luce meravigliosa col suo tocco: sia pure metaforico. Pur tuttavia, quando fu richiamato da lei, non si sentì abbastanza capace o forte di chiuderle in faccia la cornetta: inventandosi qualche scusa. Aveva accettato di passare nuovamente a casa sua. Aveva bussato, esattamente come la prima volta. L'aveva guardata, lì, dinnanzi alla soglia con quel bel sorriso stampato sul volto. Lo rendeva così incantevole, così fanciullesco e puerile persino. Incredibilmente dolce, esattamente come avrebbe potuto esserla al palato una deliziosa fetta di torta alla panna. Lo aveva invitato ad entrare. Gli aveva offerto la tazza di caffè. Si era persino ricordata come la preferisse, senza che lui anticipasse la richiesta. Lo aveva guardato, a lungo, forse cercando di trovare il coraggio di parlargli. Di dire ciò che probabilmente le ronzava nella mente da chissà quanto tempo. Steffen, era rimasto in silenzio per tutto il momento. La guardò, certamente, ma non tentò di avvantaggiarla in alcun modo. Le lasciò il tempo necessario per recuperare un pizzico di intraprendenza, mentre lui, si godette silenziosamente quell'attimo, quell'istante. Probabilmente il suo sguardo non comunicò assolutamente niente di tutto questo e, che dire, era meglio così. Però lui, lui soltanto, era consapevole dell'enorme amalgamare nel suo profondo. Drasil fu così curiosa. Domande, alcune persino proferite con diplomazia, con quell'abilità tale da indurre anche il più taciturno e riserbato degli esseri a dire qualcosa. Appoggiò la tazzina di caffè sul piano, chinando lievemente il mento. Sbatté le palpebre, facendo un respiro profondo. Sei simpatica, Drasil. Faresti meglio ad interessarti a persone come te. Grazie mille del caffè, era ottimo. Questo le aveva detto, poco prima di andarsene. Fu chiaro, brusco persino, ma sincero. Inizialmente aveva ribattuto alle sue domande con semplici monosillabi: i più furono negazioni a dirla tutta. Steffen non si sentì di svelarsi a lei. Di parlare, di aprirsi. Lui non meritava niente e nessuno. Non un amico e neppure un'anima così candida da poterlo risollevare e aiutarlo a farlo sentire meno colpevole. Lui lo era, punto. Lui doveva soffrire sempre, continuamente, perennemente. Nessuna pietà per lui. Non era meritevole.
    Quasi aveva perduto i conti dei giorni. Ricevette un pugno nello stomaco, quando i suoi occhi scorsero la data e il mese. Tutto sembrò ritornare indietro nel tempo. Drasil era stata mandata avanti nel futuro, mentre Steffen, pur senza sfruttare chissà quale particolarità si ritrovò catapultato a quel giorno. Ogni dettaglio, compreso finanche gli odori dell'ambiente, dell'ospedale, balzarono prepotentemente in lui. Si sentì trasportato in quel punto, in quella struttura, in quell'edificio. Poteva scorgere dinnanzi a lui lo sguardo delle infermiere, delle colleghe e finanche di altro personale medico. Ad essi, semplici e inconsapevoli spettatori. Pazienti o parenti dei suddetti. Il richiamo. Lo sguardo di Astrid, una cara collega - la quale fu anche sua amica, in quel periodo - stravolto. Steffen, rammentò d'aver aggrottato le sopracciglia, mentre sistemava la penna all'interno del taschino del suo camice bianco. Cosa c'è? Aveva domandato, inconsapevole. La collega aveva solo pronunciato il suo nome, fermandosi, interrompendosi. Parve incapace di continuare. Cosa? Aveva chiesto di nuovo lui, con tono più interrogativo che mai. Bastardo. Fu un autentico bastardo fino alla fine. Neanche pensò a lei, in quel brevissimo frangente. Fu come averla dimenticata. Troppo impegnato e concentrato sul suo lavoro di medico. Poi... L'illuminazione. La corsa nel corridoio, disinteressandosi di chiunque fu colpito dal suo incedere frettoloso. L'arrivo in quella stanza, quella di lei. I macchinari spenti. Il suo corpo ancora adagiato lì, sul medesimo letto sul quale l'aveva lasciata quello stesso mattino: ad inizio turno.
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    Si era avvicinato a lei. Cauto, lento. Sembrò intento a vedere un morto per la prima volta, eppure così non era. Le toccò la mano, scivolò sul polso. Quella pelle era così fredda. Nessun battito. L'aveva chiamata, con un sussurro. Un filo di voce e di fiato. Una volta, due, tre, quattro... Non si rese conto di quante volte aveva ripetuto quel nome. Il suo nome. Non aveva ricevuto nessuna risposta. Neanche un accenno. Era morta. Era andata via, aveva abbandonato questo mondo e per sempre. E lui... Lui non aveva fatto niente. Niente per renderle migliore quel poco tempo di cui disponeva. Un calcio nelle palle. Il dolore fu lancinante e intenso come il riceverlo per davvero. Era crollato sul pavimento. Non riusciva a respirare. Un magone intenso, bruciante, non gli permetteva di ossigenare i polmoni. Non vide più niente. Le lacrime riempirono totalmente i suoi bulbi oculari. Divennero acqua salata e amara. Un grido echeggiò in quella stanza. Il personale medico si affacciò sulla soglia della porta lasciata aperta. I suoi colleghi sapevano. Le addette alla pulizia persino... tutti sapevano. Un anno dopo, tutto era riaffiorato: anche se a dire la verità mai era andato via. La semplice visione della data, il numero corrispondente al giorno e il mese. Un intero anno seguente.
    Era stato impossibile lavorare. La testa non gli funzionava a dovere. Avrebbe potuto telefonare al suo capo e darsi malato. Chissà, forse lo avrebbe perdonato. Non lo aveva fatto però. Nessun cordoglio, nessuna clemenza per lui. Si costrinse a lavorare sapendo di fare del suo peggio, consapevole che sarebbe bastato niente per piangere e singhiozzare come un bambino. Le ore più interminabili che mai. Uno scandire lentissimo del tempo. Eppure, il tempo, era la sola cosa su questo mondo impossibile a fermarsi, per quanto proseguisse a smuovere le lancette di un orologio con eccessiva lentezza. Era salito sul suo veicolo. Lo aveva messo in moto e lo aveva fermato solo a qualche isolato di distanza da dove era partito. Lo aveva parcheggiato orribilmente. Una multa, l'avrebbe senz'altro presa. Era entrato in quel bar, il consueto, il suo. Aveva bevuto. Bevuto fino a svenire, fino a vomitare l'anima proprio davanti al barista. Gli aveva perquisito le chiavi. Non puoi guidare in queste condizioni. Uccideresti qualcuno. Io nei casini per te, alcolizzato di merda, non voglio finirci. Avanti, sparisci. Esci! Domani le riavrai. Poco importava quel che gli diceva. Ancora, ancora, ancora. Questo ripeteva Steffen. Altro da bere. Poteva benissimo scoppiargli il fegato su quello sgabello. Sarebbe stato contento di morire. Si era liberato lo stomaco. Dietro a quel vicolo. Se solo con quel gesto fosse stato possibile liberarsi anche dal dolore che gli stringeva il petto, tutto sarebbe stato più facile. Però, in un certo qual modo, sapeva di non meritarsi altro. Era giusto che le cose andassero in questo modo. Lui stesso era a volerlo. Barcollando era riuscito ad appoggiarsi alla parete. Il capo issato verso il cielo. Il mondo ondeggiava e si muoveva. I sensi dell'ubriacatura. Caldo, sentiva caldo e freddo, un freddo così profondo da perforargli le ossa. Era confuso, obnubilato, ebbro, sofferente. Schiuse la bocca, respirando. Il fiato uscì dalle protuberanze prendendo la forma di una nuvola bianca. Le lacrime erano bollenti, lava, intenta a colargli sugli zigomi. «Steffen? Stai bene?» Una voce lo aveva richiamato. Sul momento non la riconobbe. Si sforzò di aprire solo le palpebre, mettendo a fuoco la vista. Fu impossibile, con quelle gocce che riempivano i bulbi sino a colmarli del tutto. Deglutì. Il pomo d'Adamo s'issò e s'abbassò assecondando quella movenza. Sei ancora qui? Perché? Domandò, chiaramente non riconoscendo Drasil. Sì, domanda idiota. Lo so il perché. Dichiarò subito dopo. Dovresti odiarmi. Sono stato uno stronzo. Uno stronzo egoista dal primo giorno sino all'ultimo. Vattene. Mi merito tutto questo. Vattene via. Continuò dicendo, cercando di scacciarla, ma non fu neanche abbastanza abile da issare di qualche grado il braccio, per portare al termine quel gesto.
     
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    Erano pochissime le persone a cui teneva sul serio: alcune erano andate, altre le aveva trovate sul proprio cammino senza neanche averne richiesto la presenza. Si cimentava in figure come un’amica, una di famiglia, per gente di cui a malapena conosceva il cognome. Per lei, però, bastava riconoscere nello sguardo di qualcuno qualcosa che potesse farla stare bene e, contro ogni altra previsione, sentiva di essere a casa. Steffen era stata una di quelle persone e ormai non riusciva più a toglierselo dalla testa.
    La visione di lui in quello stato non fece altro che allarmare Drasil più di quanto non fosse stata già poco prima, dopo aver udito la sua voce attraverso l’altoparlante del proprio cellulare provvisorio, un vecchio modello che Liv le aveva passato poiché ormai inusato. Aveva provato a pensare e ripensare a cosa potesse essergli successo, cosa potesse turbarlo così profondamente da non permettere a se stesso di vivere la vita con serenità, ma non ci era mai riuscita, non era mai stata in grado di carpire ogni informazione, mettendo insieme dei tasselli che avrebbero forse potuto darle una visione più completa del mondo che circondava Steffen. Avrebbe tanto voluto farne parte, cercare di entrare fra quelle mura e farsi anche solo un piccolo spazio, laddove sarebbe rimasta in silenzio a guardare, protendendo una mano verso di lui, pronta ad offrirgli il proprio aiuto se solo lo avesse necessitato. Sarebbe stato prematuro parlare di amicizia, di amore, eppure qualcosa si smuoveva dentro di lei ogni volta che quegli occhioni grandi andavano ad accarezzare anche per sbaglio il profilo più marcato del viso di Steffen. Qualcuno avrebbe parlato di farfalle nello stomaco, altri avrebbero detto che, probabilmente, altro non era che una dimostrazione di affetto del tutto inspiegabile nei suoi confronti. Così, al momento di quella chiamata, Drasil non aveva atteso un secondo di più e si era riversata fra le strade semi deserte di una Besaid ormai alle porte della sera, pronta a risucchiare nel silenzio il sonno beato o tormentato dei propri cittadini. Il suo non lo avrebbe visto, no di certo, almeno fino a quando si fosse accertata che lui stesse bene. Eppure ritornava il ricordo di quando lui le aveva gentilmente offerto di preoccuparsi di altro, invitandola a porre i suoi interessi in qualcuno che, forse, avrebbe potuto ricambiarli. Non lo aveva capito, in un primo momento, cercando di analizzare quelle parole e trovarvi il vero significato. ”Sei simpatica, Drasil. Faresti meglio ad interessarti a persone come te. Grazie mille del caffè, era ottimo.” era stato ciò che lui le aveva detto prima di congedarsi per l’ultima volta, solo qualche giorno prima. Lo aveva osservato posare la tazza del caffè sul tavolo e dirigersi verso l’uscita, pronto a darle le spalle e dividere le loro strade ancora una volta. Eppure, per qualche strana ragione, ogni volta che lei chiamava, lui rispondeva e raggiungeva il luogo in cui lei si trovava ad aspettarlo. Era quello il momento già eccitante delle sue giornate, quando dopo qualche giorno dall’ultimo incontro riusciva a riprendere il coraggio per chiamarlo e chiedergli di vedersi. E lui accettava, sempre. Ma allora perché ogni volta sembrava essere poi l’ultima? Perché Drasil continuava ad avere la sensazione che, prima o poi, lui non avrebbe mai più accettato di vederla? Ne era terrorizzata.
    Sei ancora qui? Perché? fu quella voce a spezzarle il respiro per qualche istante, appena prima di riuscire ad essere così vicina a lui da poter distinguere delle lacrime sottili rigargli il volto sfatto. Aveva un aspetto terribile, come se il suo corpo non avrebbe retto molto oltre. Schiuse quindi le labbra, inspirando profondamente e stringendo le mani in due pugni saldi lungo i propri fianchi, mentre il petto si alzava a ritmi più veloci e profondi, mosso dalla paura che gli fosse capitato qualcosa di terribile. Sì, domanda idiota. Lo so il perché. continuò a farfugliare il ragazzo, le spalle ancora aderenti alle mattonelle fredde di quella parete rossa. Si voltò istintivamente intorno, Drasil, alla ricerca di aiuto, forse, neanche lei sapeva bene di cosa o chi. Da un lato, però, non voleva che qualcuno lo toccasse o che provasse a fargli del male, per lei ben più difficile che per chiunque altro fidarsi. Una parola che sua madre gli aveva insegnato potesse costringersi a pochi elementi, a quei tempi solo a lei e suo fratello Yggs. Da quando era giunta in quel presente, però, lontana da tutto ciò che a lei era sempre stato noto, aveva dovuto rivedere alcuni termini, riscoprire il significato di tante parole un tempo ben più spaventose e sconosciute. Aveva dovuto imparare a fidarsi, in primis di Liv stessa e poi di chiunque altro avesse provato ad avvicinarla per mostrarle semplicemente che, dopo tutto, il mondo non era quel luogo perfido che un tempo aveva allontanato. Dovresti odiarmi. Sono stato uno stronzo. Uno stronzo egoista dal primo giorno sino all'ultimo. Vattene. Mi merito tutto questo. Vattene via. fu ancora la voce di Steffen a riportarla con i piedi per terra, lontana dai ricordi e dalla paura di potersi sbagliare, di quanto tutto ciò potesse essere uno sbaglio. Posò quindi i propri occhi grandi sul viso stravolto di Steffen, gli occhi colmi di uno strato ben visibile di lacrime mentre cercava di reggersi a stento in piedi. Annullò la distanza, completamente, portando una mano attorno al suo braccio per stringerlo fra le proprie dita magre, mentre con l’altro andava a carezzargli lievemente il viso, preoccupata, provando ad asciugare quelle lacrime.
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    «Cosa dici, Steffen? Non ti odio, come potrei?» gli domandò, inarcando le sopracciglia e puntando il proprio sguardo grigio in quello di lui, fermando le proprie iridi dritte in quelle blu del ragazzo. Sospirò profondamente serrando le labbra, mentre dinanzi a lei quella visione di Steffen non faceva altro che straziarla ancora di più. Lasciò cadere anche la seconda mano lungo le braccia del ragazzo, cercando quindi di tenerlo in piedi sebbene le fosse difficile, dato la stazza ben più pesante della sua. «Steffen, sono io, Drasil. Voglio aiutarti, ce la fai a camminare?» gli domandò quindi, compiendo un passo indietro ed abbassando appena il viso di fronte a lui, cercando quindi il suo sguardo e sperando che lui le parlasse, le permettesse di farsi aiutare, almeno per quella volta. Avrebbe voluto ricambiare il favore, avrebbe voluto semplicemente fargli capire che era lì esclusivamente per lui e non se ne sarebbe andata. «Non me ne vado di qui fino a quando non vieni con me, mi senti?» continuò la donna, i lunghi capelli dorati si muovevano leggeri smossi appena da una fresca arietta che investiva le stradine in cui aveva camminato fino a qualche istante prima. Non avrebbe mai potuto lasciarlo lì al freddo, perso nel dolore di cui a lei non aveva voluto parlare. Si chiese perché, Drasil, e cosa avessero visto quegli occhi di così terribili da essere stati privati della felicità più pura. Si sentiva in difetto nei suoi confronti, alla ricerca di una sofferenza che non era stata sua e di cui lui non aveva voluto mostrare le ferite: invasiva, imponente e possessiva, Drasil non aveva forse fatto i conti con la possibilità che lui, dopo tutto, non provasse per lei quella stessa sensazione di fiducia che lei invece riusciva ad associare a Steffen, senza neanche conoscerlo. Le era bastato poco, dopo tutto: una tazza di caffè e una lavatrice priva di un vero e proprio guasto. Era bastato un suo sguardo per portarla ad interessarsi a lui e fidarsi di quelle mani esperte. E fu proprio una delle sue mani che lei con estrema cura e attenzione andò ad afferrare, stringendo appena le dita di Steffen fra le proprie e cercando in lui una reazione, un movimento che avrebbe potuto farle capire che l’avrebbe seguita, si sarebbe fatto guidare a casa da lei. Non aveva effettivamente idea se fosse in compagnia di qualcuno o di qualcuna, ma qualcosa le suggeriva che quella posizione e quelle lacrime, nel bel mezzo di un violetto sconosciuto e desolato, altro non erano che il risultato di una solitudine -voluta o no- con cui aveva dovuto fare i conti e con cui, forse, ancora combatteva ogni giorno. Era sicura del fatto che, un tempo forse molto lontano, Steffen aveva sorriso tanto e genuinamente, magari anche senza un motivo. Ma in quello stato proprio non le era possibile pensare che potesse farlo ancora, anche per sbaglio. Che sapore aveva il sorriso sulle labbra di Steffen? Che sfumatura avrebbero preso le sue iridi se solo il suo sguardo si fosse illuminato di felicità? Erano cose che a lei non era dato sapere, non ancora, forse. Ma aveva il desiderio incontrollabile di poter scorgere in lui anche solo l’ombra di una serenità. Si era affezionata a lui molto più del dovuto, più di quanto avesse fatto con chiunque altro, da diversi mesi ormai. Ricordò dell’ultimo periodo trascorso assieme a Yggs, quando era stata lei a non riuscire più a sorridere. Non aveva potuto trovare nulla di positivo nella propria vita, nulla che potesse averle fatto esprimere sentimenti di contentezza nei confronti della vita che avevano scelto per lei e suo fratello. Quell’incontro con Kulde, prima del caos, aveva lasciato le proprie traccia sul suo collo, segni di una violenza che non avrebbe dimenticato. Le mani dell’uomo strette intorno, sempre più stringenti, sempre più soffocanti, le avevano tagliato via l’unica luce speranzosa che da sempre aveva fatto capolino nella sua esistenza anche durante i momenti più difficili che aveva dovuto affrontare. Eppure, da quando aveva ricominciato tutto, aveva deciso di sorridere ancora, di tornare ad essere una persona capace di poter sorridere, di poter stare bene, nonostante tutto.
    «Per favore... lascia che ti aiuti.» un'ultima richiesta, lo sguardo puntato in quello di lui mentre le mani della donna andavano a posarsi sul viso umido di Steffen, tenendo stretto quelle guance al caldo fra i propri palmi. Avrebbe voluto assorbire ogni sua sofferenza, prosciugare ogni sua lacrima, annullare ogni sentimento di autodistruzione che leggeva nei suoi occhi chiari. Avrebbe voluto essere la cura a quel malessere, ma qualcosa non faceva altro che farle comprendere quanto, forse, lei sarebbe stata inadatta. Persino lui sembrava non vederla per davvero.
     
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    Non avrebbe mai potuto permetterle di avvicinarsi tanto a lui. Avrebbe dovuto mantenersi lontano, estraneo, inducendola a discostarsi: ritornando da qualsiasi mondo e ambiente provenisse. Steffen, doveva restare solo. Doveva rimanere lì, in quello stato, abbandonato completamente a se stesso, giacché era questo che si meritava. Pur tuttavia, lo stato in cui si ritrovava, l'esagerazione con gli alcolici, lo avevano portato ad un punto limite: era giunto progressivamente al confine, il medesimo che prima della sua prigionia aveva intaccato e sfiorato una moltitudine di volte. Il suo corpo non era più abituato. Dopo essere ritornato un uomo libero, onde evitare che troppi funzionari e pettegoli potessero andare a parlare di lui a chi di dovere, aveva mantenuto un basso profilo. Indubbiamente, i suoi vizi erano ritornati, o quanto meno, andò a ricercarli: nonostante i molti mesi di astinenza affrontati in prigione. Non avrebbe mai potuto dimenticare quelle sedute di gruppo, organizzate da esperti della mente umana. Lì, seduto su una seggiola scomoda, attorniato e circondato da altri detenuti affetti dalla sua medesima maledizione. Costretto, in qualche modo, ad esplicare e partecipare a quegli incontri, dovendo necessariamente fingersi disposto a cambiare: cosicché quando sarebbe giunto il giorno della sua scarcerazione sarebbe potuto diventare un essere migliore di quello ch'era stato.
    Ciò nonostante, Steffen, era stato capace di ingannare tutti. Dagli esperti, dalla commissione e finanche coloro che provvedevano nel tenerlo sotto controllo adesso. Aveva lentamente e giornalmente abbracciato il suo antico vizio, evitando tuttavia quella predisposizione ad annientarsi mischiando le molte sostanze. No, aveva deciso che l'alcool, poteva essere il mezzo migliore per andarsene, per soffrire quel giusto e quel tanto ch'era degno da considerarsi un risarcimento del suo passato egoismo. Quella notte però, non seppe davvero come controllarsi. I ricordi, i pensieri, gli istanti di un trascorso che mai più sarebbe ritornato - sia pure in misera e blanda forma - lo avevano così scombussolato e spasmodicamente urticato profondamente nella sua anima: da renderlo incapace di moderarsi, di castrarsi quel tanto che fosse necessario. Il ricordo di Lei divenuto con lo scorrere delle ore sempre così florido e ricco, apparentemente da distorto e nebbioso, divenne un qualcosa di più realistico e tattile. Gli sembrò d'averla accanto, esattamente come un tempo. Steffen non aveva fatto niente per lei. Non aveva cercato di renderle quegli ultimi giorni gradevoli. Si era concentrato unicamente su se stesso e l'aveva indotta ad una nascosta sofferenza. L'aveva abbandonata, quando lei mai lo fece. L'aveva lasciata sola. Non le disse mai niente, un qualcosa che avrebbe dovuto sentirsi dire tutti i giorni, tutte le mattine e finanche tutte le sante notti. Un blando saluto, il medesimo che avrebbe rivolto a qualsiasi altro paziente, con freddezza e distacco professionale. Neanche un accenno di dolcezza, mediante il quale, avrebbe potuto rassicurarsi durante il suo passaggio dalla vita alla morte. In questa notte di un anno prima, lei era morta. Steffen ricorda tutto di quel giorno ma della sera, le sue reminiscenze erano come sbiadite: impossibili da visionare mentalmente. Il buio. L'ombra. Il nulla.
    Strizzò con prepotenza le palpebre, mentre alcune lacrime salate e decisamente amare, colme di sofferenza e afflizione, abbandonarono quei bulbi, andando quindi ad inumidirgli gli zigomi e le guance: per niente paffute o salutari. Un verso, molto simile ad un lamento sotteso abbandonò la sua bocca. Sembrava sul punto di morire lì, in quel vicolo, con le spalle adagiate alla parete fredda. Neppure gli indumenti che aveva indosso erano capaci di riscaldarlo e mantenerlo in un dolce tepore. Stava raggelando, ma probabilmente, era solo la sua anima, il suo cuore troppo devastato ad aver perso le forze per poterlo avvantaggiare.
    Inizialmente si sentì sfiorare il braccio. Sì, lo aveva percepito quel tocco. Immediatamente sgranò gli occhi, esattamente come se bruscamente avesse ricevuto un colpo, un cazzotto al centro dello stomaco. L'entità fu la medesima, ma ciò che gli permise di provare fu un sentimento, un'emozione totalmente diversa. La dolcezza di quel tocco, la morbidezza, la delicatezza, il calore umano, la benevolenza... Aveva quasi dimenticato quanta forza potessero avere queste trepidazioni. Si sentì immediatamente vivo, come probabilmente non lo era stato negli ultimi dodici mesi. Si sentì umano, nuovamente. Presumibilmente, per la prima volta. No, all'inizio Steffen, non lo era mai stato davvero. Troppo egocentrico, troppo menefreghista e concentrato su di sé per riuscire a manifestare - sia pure blandamente - una qualche emozione umana ed empatica.
    Il tocco che ricevette al viso, lo portò a voltarsi quel tanto da posare i suoi occhi colmi di lacrime e annebbiati dall'alcool sulla persona che gli era prossima. Ancora non era stato capace di distinguere l'illusione dalla realtà. No, quella che aveva appropinquata al fianco non era Drasil, ma lei. Era giunta da chissà quale mondo, un'estrapolazione della sua alienazione forse, pronta a soccorrerlo. Si stava dimostrando migliore di lui, anche adesso. Era stato infinitamente meschino, non doveva prostrarsi a quel modo per aiutarlo. Doveva lasciarlo esattamente dove stava e proseguire con la serenità del suo vivere: ovunque si fosse ritrovata sino a quel momento. «Cosa dici, Steffen? Non ti odio, come potrei?» Scosse moderatamente il capo. Lento, condusse la sua mano a quella della donna. La strinse. Sembrava così reale. Viva. Calda. Dovresti. Sussurrò, biascicando quella singola favella. Sembri così viva. E' come se ti trovassi davvero qui. Dichiarò ancora, conducendo quel palmo al di sotto delle sue narici. Inspirò l'odore di quella pelle. Avvertì la morbidezza dell'epidermide a contatto con le sue labbra gelide come il ghiaccio. Sto ripagando il mio debito, giorno per giorno. Voglio che tu sia fiera di me. Voglio che tu abbia giustizia. Ti ho lasciata andare senza dirti addio, senza dirti che t'amavo profondamente. Dichiarò, baciando come un penitente il palmo caldo e morbido di Drasil: non accorgendosi delle differenze che, se fosse stato lucido di mente, sicuramente avrebbe notato. Non fare niente per me. E' giusto così... Concluse, socchiudendo gli occhi e issando il capo, adagiando la nuca contro la parete. Un moto di nausea e contorsione delle membra, lo indussero a discostarsi da quell'effluvio conturbante e amabile. Socchiuse ancora gli occhi e per qualche secondo sembrò lasciarsi inghiottire dall'oscurità e dal buio.
    La presenza maggiore di quel corpo femmineo lo ridestò. Si sentì blandamente schiacciare, ma chiaramente le sue percezioni erano distorte come non mai. «Steffen, sono io, Drasil. Voglio aiutarti, ce la fai a camminare? Non me ne vado di qui fino a quando non vieni con me, mi senti? Per favore... lascia che ti aiuti.» Sbatté nuovamente le palpebre. Abbassò quel tanto lo sguardo da poter mettere a fuoco i contorni di quel viso. Drasil. Cosa faceva Drasil lì? E lei? Dov'era andata? Sparita. Scomparsa nel nulla. Esattamente come uno spettro, sbiadito alle prime luci dell'alba. Era stata lei a condurre Drasil da lui?
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    E' stata lei a condurti da me, vero? Chiese, parlando con tono talmente basso da rappresentare solo un impercettibile fiato. E' notte fonda, Drasil. Non dovresti trovarti qui. E' pericoloso, per quanto Besaid sembri la città perfetta. Non ci sono sempre brave persone qui. Continuò dicendo, guardandola ancora osservando distrattamente la cascata dorata della sua chioma. Le labbra della ragazza, schiuse intente a far uscire il respiro argentato. Il viso sembrava pallido, bianchissimo, ma le gote estremamente rosate, lo indussero a comprendere - quel tanto - come la ragazza iniziasse a provare eccessivamente freddo. Sfiorò con le dita il contorno del viso femmineo e, toccò distrattamente anche alcune ciocche della sua chioma florida e setosa. Io non... Iniziò dicendo, volendo dirle che non necessitava e nessuno doveva mettersi contro il suo destino. Non doveva essere aiutato o soccorso. Era la strada che si era scelto, alcuno doveva cercare di recuperarlo: inducendolo a percorrere un sentiero differente. Pur tuttavia, quegli occhi grandi, angosciati, preoccupati, esagitati... Drasil sembrò colma di panico e apprensione. Ok... Biascicò infine, annuendo anche col capo, ma non muovendosi di un solo millimetro. Sembrava impossibile per lui riuscire a schiodarsi dalla parete, il piano robusto mediante il quale riusciva ancora nel restare adeguatamente in equilibrio.
     
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    Non aveva idea del perché lo seguisse, del perché si sentisse legata a lui. Ciò che Drasil sapeva riguardava esclusivamente ciò che lei avvertiva ogni qualvolta quei due occhi azzurri si fermavano su di lei. Una sensazione che riusciva a scombussolare ogni sua fibra corporea, ogni certezza veniva via per lasciare il posto a qualcosa di cui neanche conosceva il nome. Le bastava un solo unico sguardo, da parte di Steffen, e Drasil perdeva completamente il senso dell’orientamento, riconoscendo come Nord solo il luogo in cui lui diceva di trovarsi. Girava intorno, seguiva le sue tracce, si faceva forza per poi dimezzarne un po’ con lui e, alla fine, neanche sembrava servire a qualcosa. Steffen non voleva condividere con lei ciò che aveva vissuto, non voleva veramente averla intorno, e questo un po’ le faceva male.
    Trovarlo lì, preda ad una crisi, non fece altro che alterare quel suo sentirsi in dovere di aiutarlo. Il desiderio di stargli vicino veniva sempre messo in secondo piano, in altri momenti non avrebbe potuto essere neanche scavalcato. Era difficile per Drasil comprendere fino in fondo quel mondo, il modo in cui girava e l’abilità che gli uomini sembravano avere riuscendo a vivere calpestando quella terra fredda. Ci era nata e cresciuta anche lei, certamente, ma in un certo senso sentiva ancora di essere un pianeta lontano, disperso in una parte buia dell’universo sconosciuta ai più. Lui, senza neanche volerlo, aveva guardato proprio nella sua direzione e, sebbene non avesse mai appieno comunicato con lei, era riuscito a distinguerne l’ombra in mezzo ad un milione di stelle.
    Si rese conto della sua presenza quando finalmente la donna si fu posizionata di fronte a lui, inerme e con la schiena posata contro il muro fatto di rosse mattonelle. Aveva il viso rigato dalle lacrime che, inesorabili, vagano disperdendosi su quella pelle ruvida. Un breve lamento si levò dalle sue labbra sottili e Drasil non poté far altro che chinare il capo da un lato, lo sguardo fisso su di lui mentre le sopracciglia della donna si allargavano in un arco un’espressione di dispiacere si dipingeva sul suo viso pulito e un po’ stanco. Era dispiaciuta, si sentiva inerme di fronte ad un dolore che non pensava lui meritasse. Non era possibile che fosse quello, il destino scelto per Steffen. Non poteva accettare di vederlo in quelle condizioni, neanche se fossero stati gli dei a scegliere di impartirgli quella punizione. Non lo avrebbe accettato e basta, Drasil, sentendo d’un tratto un moto di violenta rabbia crescerle nel petto, scuotendo i suoi battiti cardiaci e lasciando che un calore indomito pervadesse la sua pelle. Non voleva lasciarlo lì, non avrebbe potuto neanche se lui le avesse imposto di farlo.
    Fu quando lei posò le proprie mani sul viso di Steffen che l’uomo allungò la propria su una delle sue, stringendola appena e ricambiando quel timido gesto d’affetto. Lo vide scuotere lentamente il capo, prestando così ugualmente attenzione ad ogni suo movimento, ad ogni traccia di espressione che si apriva sul suo viso stanco. Dovresti rispose alla domanda di Drasil, la quale gli aveva chiesto perché mai avrebbe dovuto odiarlo. Non capì, in quel primo momento, a cosa lui effettivamente si riferisse. Drasil non era mai stata così sveglia da comprendere i comportamenti umani, non ne aveva mai avuto possibilità. Tutto ciò che aveva conosciuto per davvero lo aveva imparato da sua madre e suo fratello, due anime completamente diverse da tutte quelle che aveva avuto modo di conoscere fino a quel momento. Sembri così viva. E' come se ti trovassi davvero qui. continuò lui, e lei, allora, forse iniziò a capire, immaginare cosa potesse essere accaduto. Steffen aveva perso qualcuno che non riusciva a dimenticare, un distacco che gli aveva fatto così tanto male da non lasciare spazio ad altro. Quel pensiero occupava non solo i suoi malinconici occhi, ma anche tutto il resto, comprese le sue giornate. Fu allora che, con cautela, Drasil ritirò appena la mano dal suo viso, non per distaccarsi da lui, ma per lasciarvi una lieve carezza, un gesto che non voleva essere invadente. Si era rotto qualcosa dentro il ragazzo che lei purtroppo non avrebbe mai potuto riparare. Lasciò che Steffen conducesse il suo palmo della mano sotto le narici, così che avrebbe potuto respirare quel profumo e sperando, forse, di potervi riconoscere note a lui familiari. Non sarebbe stato così, Drasil questo lo sapeva, e fu proprio quel pensiero a lasciare che anche il viso stesso della donna si intristisse ancora. Non avrebbe potuto essere quella che lui cercava, non avrebbe potuto dargli ciò che lui desiderava riavere indietro. Era stata sicuramente una donna fortunata, e questo Drasil lo sapeva, ma illuderlo e fingere di essere qualcun altro non avrebbe fatto altro che peggiorare il suo stato d’animo, una volta tornato cosciente di ciò che stava avvenendo intorno a loro. Eppure, niente fino a quel momento fu così tremendamente triste e forte come le parole che seguirono, in uno scivolo amaro che le labbra di Steffen impersonarono. Sto ripagando il mio debito, giorno per giorno. Voglio che tu sia fiera di me. Voglio che tu abbia giustizia. Ti ho lasciata andare senza dirti addio, senza dirti che t'amavo profondamente. Non fare niente per me. E' giusto così… un lamento, una richiesta d’aiuto, una sofferenza palpabile. Non sapeva come reagire, Drasil, non voleva che lui s’illudesse, non voleva che lui credesse di essere tornato assieme alla donna che diceva di aver amato. Drasil non era pronta per un dolore come quello, non conosceva quel tipo di amore così viscerale che, nel momento in cui scompare, distrugge tutto quello che invece resta. E con Steffen, la fine di quel sentimento aveva generato quella stessa conseguenza: un ammasso di macerie che si tirava dietro da chissà quanto tempo, incapace di lasciare tutto via, lontano dalle proprie spalle ormai stanche e affaticate. Prese un profondo respiro, Drasil, cercando di pensare ad una soluzione, ad un modo in cui avrebbe potuto riportarlo al presente. Decise quindi di scuoterlo ancora, ricordargli dove si trovasse e, soprattutto, con chi. Gli fece notare di essere lì con lui, e non colei che Steffen aveva immaginato fosse tornata per rimediare al tempo che li aveva divisi, alla morte che aveva deciso di separarli. E' stata lei a condurti da me, vero? le chiese quindi, avendola finalmente riconosciuta. Lo sguardo, cupo come poco prima, si era fatto appena più vispo e attento. Scosse il capo Drasil, poco convinta, incapace di scegliere le parole giuste da dire, quelle che avrebbero fatto meno male. Eppure, nello stato in cui aveva compreso finalmente lui si trovasse, niente che lei avrebbe detto sarebbe stato d’aiuto. Preferì quindi tacere, lasciando che fosse lui a riaprir bocca per comunicare con lei. E' notte fonda, Drasil. Non dovresti trovarti qui. E' pericoloso, per quanto Besaid sembri la città perfetta. Non ci sono sempre brave persone qui. constatò, restando per un breve istante dinanzi a lei, immobile, prima che potesse sollevare una mano in direzione del viso della donna per accarezzarlo lievemente. Quel contatto, lieve e gentile, mandò in frantumi i tentativi di Drasil che, stranita, aveva sempre sperato in attenzioni di ogni tipo da parte sua. Arrossì violentemente mentre il suo stomaco sembrò fare due piccole capriole silenziose. Quell’emozione, sebbene del tutto positiva e fresca, nuova, andò a scontrarsi contro la malinconia che si era generata dentro il suo petto vedendo Steffen in quello stato, perso nella propria sofferenza. Quegli occhi, quelle mani, quella carezza lei non avrebbe potuto dimenticarli mai. Inclinò appena il capo da un lato, lasciando che la propria pelle si scontrasse contro i polpastrelli ruvidi della mano di Steffen, per poi schiudere appena le labbra e attendere, ancora una volta, di riuscire a trovare le parole giuste da dire. «Sono qui per portarti al sicuro.»
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    disse lei semplicemente. Cos’altro avrebbe potuto esserci? Chi altro avrebbe potuto spingerla a camminare nel buio della sera? Solo lui, solo il pensiero che lui stesse bene. Io non… prese a dire allora lui, interrompendosi e lasciando che, per una volta, ci fosse qualcuno a prendersi finalmente cura di lui. Si arricciarono, le labbra di Drasil, pronta a desistere, pronta a premere contro quelle convinzioni di cui lui sembrava volersi circondare. Eppure, notò un tentennamento nello sguardo del ragazzo e, per un solo istante, tutto sembrò immobilizzarsi, persino il tempo. Ok… s’arrese, Steffen, annuendo con il capo seppur restando con le spalle posate contro il muro. Allora Drasil Sorrise appena, chinando appena il capo e andando a stringere la mano di Steffen con la propria, fredda e delicata per via della temperatura troppo bassa della sera. «Lascia che per una volta ci sia qualcuno ad occuparsi di te.» gli disse, ricercando il suo sguardo con il proprio e lasciando che le proprie iridi chiare si fissassero nelle sue, ancora umide ed incerte, impaurite e malinconiche. «…permetti che sia io a prendermi cura di te, per stasera.» disse lei, quasi implorandolo di lasciare che lei finalmente si avvicinasse a lui. Strinse quindi la sua mano, le dita che si chiudevano attorno a quelle più possenti di Steffen mentre la gemella andava a posizionarsi tra la schiena di lui e il muro di mattonelle. Lo spinse appena verso di sé mentre gli si affiancava, cercando di lasciare che lui si spostasse con il proprio peso su di lei, cercando di fornirgli un appoggio che, sapeva, non sarebbe stato mai resistente come la parete su cui aveva posato le proprie spalle fino a quel momento. Ma avrebbe resistito, per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, in quel momento. Voleva solo vederlo in condizioni migliori, lasciare che riposasse e lasciasse i turbamenti lontano dalla propria mente. «Vieni, ti sorreggo. Ce la fai?» chiese poi, una volta essere riuscita a fargli fare un passo nella propria direzione. Si tenne stretta a lui, permettendogli di affiancarsi a lei e cercando di sorreggerlo quindi dalla schiena. Avanzò di qualche passo, cercando di tenerlo stretto a se e lanciando qualche sguardo nella sua direzione, cercando di capire se stesse meglio o se, ancora, fosse perso nei propri pensieri. «Dove vivi, Steffen? Hai le chiavi con te?» gli domandò, sperando in una risposta positiva. Più che altro, sapeva che tornare a casa in quelle condizioni, con Steffen aggrappato alle sue spalle, non sarebbe stato per niente facile, soprattutto perché si trovavano dalla parte opposta della città. «Ti porto a casa, ma devi cercare di indicarmi la strada. Va bene?» sussurrò ancora, sorridendo amichevolmente nella sua direzione, cercando di instaurare con lui una sorta di fiducia, di rassicurarlo come avrebbe potuto. Continuava però a sentirsi inerme, ripensando alle parole che poco prima da lui aveva udito. Quel pensiero continuava a tornare, richiamando la sua attenzione sul dolore che lo affliggeva, sul modo in cui l’aveva visto piangere, conferma di ciò che lei aveva sempre pensato, da quando lo aveva conosciuto. I fantasmi erano veri e continuavano a corrodere il suo cuore dall’interno. «Mi dispiace… per lei. Che tu l’abbia persa.» disse ad un tratto, evitando di guardarlo e cercando di non essere troppo invadente. Non voleva riaprire le sue ferite, ma sentiva il dovere di fargli sapere che non avrebbe sottovalutato quella sofferenza e che ne rispettava ogni singola nota. Era terribilmente e tristemente spezzato, Steffen, e lei sembrava voler maneggiare con estrema cautela e cura ogni coccio. «Se potessi donarti del tempo assieme a lei, lo farei.» sussurrò ancora, gli occhi leggermente più lucidi. Lo avrebbe fatto, se avesse potuto. Se suo fratello fosse stato ancora in vita, anche lei avrebbe fatto qualsiasi cosa per godere di attimi in più, di sorrisi da condividere con lui. Ma il destino la maggior parte delle volte riserva solo grandi punti interrogativi: sta a noi decidere a quali rispondere.
     
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    Steffen infine aveva ceduto, alle richieste di Drasil, alla sua gentilezza e alla sua proverbiale dolcezza. Aveva cercato di allontanarla da sé; seppur riuscendoci a stento. Doveva essere abituato, esperto, ormai. Aveva trascorso questo ultimo anno distaccandosi e inducendo chiunque lo amasse o avesse mai provato dell'affetto per lui ad allontanarsi: fingendo quasi che il loro rapporto non avesse mai avuto luogo.
    Steffen, avrebbe voluto fare lo stesso anche con Drasil. Benché si fossero conosciuti da così poco tempo, per quanto il loro primissimo incontro fu incoraggiato dalla mansione che il ragazzo svolgeva, umile e decisamente modesta se comparata a quella carriera posseduta e sfoggiata con soddisfazione solo negli anni antecedenti; Steffen non poteva negare e fingere che qualcosa era successo. Esattamente quel giorno, quando rispose alla chiamata dell'allora sconosciuta Drasil. Per lui non fu altro che una cliente come qualsiasi altra. A dire la verità, prima che quella porta potesse schiudersi - permettendogli di scorgerla con i suoi occhi - aveva finanche ipotizzato di ritrovarsi davanti un'anziana signora. Era confermato da una serie di esperienze pratiche e reali come, le persone eccessivamente avanti negli anni non riuscissero ad instaurare un ottimo rapporto con la tecnologia e finanche con gli elettrodomestici in generale. Pur tuttavia, quando quella porta fu aperta, Steffen si ritrovò davanti quella giovanissima personcina. Una figura gracile, delicata, con occhi grandissimi e puri. Sinceramente, non gli era mai successo di posare il suo sguardo su iridi tanto lucenti quanto innocenti. Rimase sinceramente e profondamente abbagliato, colpito, lacerato nella profondità della sua anima ma; quell'aspetto così rigido, così masochista, così oscuro e cattivo di se stesso: lo portò immediatamente a discostarsi, a raffreddarsi, distraendosi cosicché quelle sensazioni non potessero e non riuscissero a coinvolgerlo troppo.
    Non era servito a molto. Steffen si era semplicemente e ignobilmente illuso d'avercela fatta. Aveva sperato che tutto si svolgesse velocemente quel giorno, che tutto si concludesse esattamente come avrebbe dovuto, come succedeva continuamente. No, non era andata così. Bastò semplicemente quell'abbraccio così spensierato, così fanciullesco di Drasil, per indurlo ancora una volta nel mettere tutto in discussione. Lo aveva squassato tanto profondamente da indurlo ad allontanarsi, fuggendo, esattamente come avrebbe provveduto a fare un ladro: colto sul fatto. Nei giorni seguenti era ritornato alle sue abitudini, al suo inabissamento. Quel vizio non lo avrebbe mai abbandonato e quello scopo primario della sua esistenza, non sarebbe mai venuto meno. Ancora una volta però, come attraversato e avviluppato da una forza invisibile all'occhio umano, si era presentato davanti a quella soglia: rispondendo alla chiamata di Drasil. Anche in quell'occasione appena aveva varcato la soglia, non appena i suoi occhi scorsero quella fulgida presenza, qualcosa in lui, nel profondo del suo animo aveva assunto un mutamento: lo aveva percepito, catturato e si era terribilmente spaventato e indignato di sé. Aveva tentato d'essere franco con lei. Di dirle esattamente come stavano le cose, ma senza esporsi troppo. Determinati particolari dovevano essere conosciuti a lui stesso e a nessun altro. Non poteva neanche permetterle di perdere quella meravigliosa e pacifica luce, quella che sembrava emanare con un sorriso, giacché anche di questo non si sarebbe mai perdonato.
    Sì, Drasil stava esercitando un fascino del tutto mistico in lui. Steffen però, spasmodicamente tentava di combatterlo: sapendo quanto fosse sbagliato tutto questo. Glielo disse, tra le righe. Sospettò che il messaggio fosse stato compreso e intuito dalla ragazza biondissima ma... No, quella notte, non si sentì totalmente in forza per poterla combattere e scacciare malamente: come invero avrebbe dovuto fare, come una parte di lui gli stava prepotentemente gridando di provvedere nell'adempiere.
    Come avrebbe mai potuto resistere? Le sue facoltà erano obnubilate e distorte dall'eccessivo alcool ingerito. Aveva dato veramente il peggio di sé quella notte ma, non avrebbe mai potuto immaginare oppure organizzare niente di diverso. Non era solo la dipendenza ad ammaliarlo a tal punto da recarsi sempre, tutte le sere, in pub come quello: ma la data, soprattutto la data di quella nottata lo aveva spronato ad affogarsi e annientarsi nel solo ed unico modo che gli era concesso. L'aveva perduta quel giorno di un anno prima. Aveva lasciato che il suo egoismo le impedisse di ricevere in cambio un sorriso, una carezza, una dolcissima parola sussurrata all'orecchio; amorevolmente. Il suo menefreghismo l'avevano costretta a morire da sola, circondata da quei macchinari intenti a risuonare lievi nell'ambiente e in quella stanza troppo fredda, troppo spoglia, troppo anonima di un ospedale statale. Aveva sicuramente invocato il suo nome, sussurrandolo flebilmente. Presumibilmente aveva anche pianto, lasciandosi scappare una lacrima dagli occhi: belli, esattamente come quelli di Drasil. Lo aveva - generosamente - perdonato della sua ambizione troppo cieca e intensa. E lui cosa aveva fatto per lei? Quale contributo le permise di ottenere in quei pochi mesi di vita e di sofferenza misti insieme? Assolutamente nulla. Perché lui era il nulla. Ed altro non avrebbe mai potuto meritarsi di possedere. Tentò di farglielo comprendere a Drasil, nei vaneggiamenti dell'ebrezza ma non ci era riuscito. Eppure, fu così caldo, confortante e rassicurante quel mezzo abbraccio. Sentirla a lui così vicina. Quanto tempo era trascorso da quell'ultima volta in cui si era sentito così... amato da qualcuno? No, forse il termine amare era eccessivo ma, considerato e voluto bene, sì, questo poteva andare. Ma in qualunque modo si chiamasse quella sensazione di benessere e di coinvolgimento, Steffen sapeva che il tempo trascorso da quell'ultima volta era tanto: tantissimo. A questo, esattamente a questo si era rifiutato d'avere e di possedere, in quell'ultimo anno. Si era lasciato abbracciare solo dalla solitudine, dalla freddezza dell'indifferenza e dalla vuotezza delle sue giornate. Non lo meritava. Non lo meritava ma... Non aveva le forze per resistere e discostarsi da lei. Socchiuse gli occhi, respirando profondamente mentre quelle sottili e fragili braccia - stranamente abbigliate di determinazione - lo avvolsero. Lo indussero a muoversi, lentamente e cautamente, certo, ma lo invitarono a scostarsi da quella parete: ghiacciata, esattamente com'era divenuto lui.
    «Vieni, ti sorreggo. Ce la fai?» Sì, sarebbe riuscito a sorreggersi anche se le ginocchia parevano determinate ad abbandonarlo. Doveva sforzarsi però, evitando quindi che il suo peso ricadesse totalmente e smorto su quelle braccia, così odorose di buono: esattamente come lo era quel viso, quella pelle fredda, ma dipinta di rosa, soprattutto sulle guance. Così come profumavano di buono i suoi capelli dorati. Inclinò il capo, annuendo lentamente quasi come se quella mossa non l'avesse attuata. Non poté castrarsi né moderarsi. Fu trafitto e invogliato ad assecondare quello spruzzo di desiderio. Con la punta del naso, sfiorò la ciocca dorata della ragazza, assorbendone un profondissimo respiro: deliziandosi si quell'effluvio così caratteristico, così suo e personale. «Dove vivi, Steffen? Hai le chiavi con te? Ti porto a casa, ma devi cercare di indicarmi la strada. Va bene?» Socchiuse gli occhi, senza neppure accorgersi d'averlo fatto. Fu talmente rapito da quella benefica sensazione da distaccarsi dalla realtà. Eppure, la voce di Drasil lo risvegliò quel tanto. Era difficoltoso parlare, era diventato pure difficile ascoltare e comprendere. Sbatté le palpebre, tentando di conquistarsi un pizzico di lucidità; della quale abbisognava Drasil. Solo col suo aiuto, avrebbe potuto salvaguardarlo, esattamente come lui accettò e le permise di voler fare. Non lontano. Avanti per questa strada e poi... Poi a sinistra. Rispose avvertendo ancora una volta le palpebre farsi pesantissime. Non poteva abbandonarsi al sonno o al decadimento. Si strinse maggiormente a Drasil, non volendo affondarla o limitarla ulteriormente, costringerla a faticare: ma non lo fece con intenzione, fu più forte di lui. Trascese le sue volontà effettive.
    Lentamente procedettero in quel cammino. Steffen ignorò lo sguardo di coloro che incontravano e che li scorgevano. Non era inusuale che, in determinate sere, i più giovani o irresponsabili esagerassero con i festeggiamenti. Li osservavano, comprendendo lo stato devastato di Steffen, ma nessuno intervenne mai. Li fecero passare, esattamente come loro stessi proseguire con quel cammino: il quale li avrebbe condotti - i passanti - ovunque avessero voluto dirigersi. Quell'incedere sembrò durare un'eternità. A tratti Steffen non riusciva neanche a comprendere se effettivamente camminasse o se diversamente, fosse solo una trasposizione della sua mente: una fantasia, un sogno, poiché in quell'ipotetica realtà poteva benissimo trovarsi accasciato sul marciapiede, svenuto e isolato dal mondo, abbandonato in quel vicoletto. Ma no... No bastò un passo ulteriore, l'ondata di quel profumo, appartenente a Drasil per risvegliarlo da qualsiasi sbagliata concezione.
    Fermarono il passo solo quando furono davanti alla soglia dello stabile. Una costruzione decisamente poco accogliente, fatiscente, abitata prevalentemente da gente disagiata o molto, molto limitata economicamente. Appartamenti affittati esclusivamente da stranieri, da uomini e donne single, i quali dovevano sempre lottare per uno stipendio: dovendo finanche sfiancarsi nel ricoprire ben due lavori diversi. Turni interminabili. Gente come era divenuto Steffen. Disadattati, anime vaganti ma privati della scintilla di vita. Esseri che sopravvivevano, poiché troppo codardi per agire: liberandosi personalmente dalle proprie afflizioni. «Mi dispiace… per lei. Che tu l’abbia persa. Se potessi donarti del tempo assieme a lei, lo farei.» L'aveva udita e non mancò anche di guardarla, con i suoi occhi rossi, liquidi, spenti e dannatamente rattristati quanto privati dalla volontà di vivere. Mosse lievemente la rima buccale destra, distendendola quel poco. Apprezzò la gentilezza di Drasil. Dunque era questa l'empatia? Il dispiacere autentico e senza biasimo o pena, compassione umiliante? Era in questo modo che scorreva nell'animo e nel corpo di una persona, inondandone una seconda? Era proprio questa la sensazione benefica che lasciava propagare dalla mente sino agli arti? Umanità. Il primo contatto dopo un lunghissimo anno - per Steffen - di volontario esilio da qualsiasi approccio potesse considerarsi tale. E' stata colpa mia. Disse breve, chinando il capo e infine maldestramente andò alla ricerca delle chiavi, con le quali aprire la porta: potendo così entrare nella struttura e successivamente varcare la soglia dell'appartamento del manutentore.
     
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    Gli offrì il proprio aiuto, Drasil, consapevole di quanto lui ne avesse il bisogno. In tutto quel caos però, le lacrime di Steffen non smettevano di rigargli le guance arrossate, mentre il freddo s’insinuava sotto gli indumenti e raggiungeva la sua pelle pallida. Non aveva avuto alcuna idea, fino a quel momento, di cosa in realtà lo turbasse. Poi, come una doccia fredda, ogni dubbio era divenuto certezza e, finalmente, Drasil aveva compreso. Si trattava di amore, qualcosa che lei ancora non aveva mai effettivamente conosciuto e che la spingeva ad essere curiosa, a capire come ci si sentisse nel momento in cui il cuore iniziava a martellare nel petto per qualcun altro, qualcuno con il quale sarebbe stato forse tutto più facile. Steffen aveva amato e lo aveva fatto incondizionatamente, tanto da permettere a quell’amore di modellare la sua vita seguendone le forme, fino a quando sparendo nel nulla non aveva lasciato che un incolmabile vuoto dentro di lui. Se ne dispiacque, la giovane donna, mentre posava il proprio sguardo affranto sul viso stanco dell’uomo. Cercò di aiutarlo come potè, accollandosi quel peso sulle proprie spalle per breve tempo e provando a segnare per lui una via nuova da percorrere, questa volta di fianco a qualcuno.
    Si lasciò andare, Steffen, accettando quella proposta d’aiuto e lasciandosi trasportare da Drasil lungo le vie scure della città. Non lontano. Avanti per questa strada e poi... Poi a sinistra. le aveva spiegato in quello che a lei parve solo un sussurro. Cercò di sostenerlo nel miglior modo possibile, evitando he potesse scivolare da un momento all’altro e cercando di fargli sentire quanto lei gli fosse vicina, e non solo fisicamente, lì come una colonna portante nel mezzo di un edificio a rischio di crollo. Non avrebbe saputo bene dove collocarsi, in tutta quella faccenda, così come ancora non aveva la minima idea del perché effettivamente provasse tutto quell’interesse per Steffen e la sua situazione non solo fisica, ma anche psichica. Non lo avrebbe fatto con chiunque, sebbene fosse caratterialmente ben disposta a farlo. In lui vi era qualcosa di diverso, una luce che l’avrebbe accompagnata alla fine del tunnel, uguale quanto lungo potesse essere. «Buon segno.» sibilò Drasil mentre un leggero sorriso le si apriva sul viso candido. Sperò con tutta se stessa che Steffen non fosse così confuso da non ricordare dove abitasse, e che quella brutta cera potesse trasformarsi ben presto in un colorito più vivace.
    Il tragitto non fu molto lungo, sebbene il peso del corpo di Steffen si affaticasse su di lei. Tentò comunque di non darglielo a vedere, cercando di essergli d’aiuto nell’unico modo che in quel momento sembrava palesarsi di mezzo a loro. Di tanto in tanto, qualcuno attraversava la strada solo per evitare di incrociarli, considerando la situazione forse alquanto bizzarra. Drasil non capiva fino in fondo la rettilinea affilata di quegli sguardi, il corrucciarsi delle sopracciglia e le labbra schiuse di chi evitava di passare loro accanto. Nel mondo che l’aveva vista nascere, Drasil aveva vissuto solo una piccola parte di ciò che l’avrebbe potuta legare al resto delle anime, lasciando che la propria mente e il proprio cuore si cibassero di una solitudine che, a volte, solo sua madre e suo fratello erano stati capaci di riempire o acquietare.
    Notò il passo di Steffen farsi sempre più lento fino a fermarsi dinanzi ad un edificio un po’ malandato, decisamente diverso da quello in cui era stata accolta Drasil. Non per questo però fu in grado di commentarne l’aspetto o addirittura pensare qualcosa di negativo al riguardo. Aveva vissuto nella miseria anche lei, sapeva perfettamente quale fosse l’aspetto di una casa spoglia, priva quasi anche delle pareti. Non giudicò nulla di ciò che i suoi occhi scorsero in quel frangente, portando il proprio sguardo sul viso magro di Steffen e cercando di cogliere i suoi sentimenti, le sue sensazioni. Confessò di volergli essere vicina, di voler poter fare in modo che lui riavesse il tempo perduto, quello per cui continuava a distruggersi in quella maniera. Ma non avrebbe potuto, Drasil. Purtroppo non ne aveva le capacità, e così come lei combatteva ogni giorno la mancanza provata nei confronti di Yggs, Steffen avrebbe dovuto sollevare il mento e guardare in faccia la realtà, convincersi di essere al mondo per altri motivi. L’amore, dopo tutto, non era mai una certezza per nessuno e mai lo sarebbe stata. Questo Drasil lo aveva imparato a proprie spese. E' stata colpa mia. sussurrò solamente, Steffen, di fronte a quelle parole udite dalla donna. Non conosceva il susseguirsi degli avvenimenti che lo avevano portato a ridursi in quello stato, così come non conosceva l’amore che aveva scatenato quella distruzione nei suoi occhi chiari. Lo vide trafficare alla ricerca delle chiavi e, quando finalmente sembrò averle ripescate, allungò una mano verso di esse, sfilandogliele con gentilezza. Gli diede le spalle, scivolando via dalla sua presa e lasciando che per qualche breve istante restasse in piedi senza il suo aiuto, mentre con la coda dell’occhio si accertava che ce la facesse. Infilò le chiavi nella toppa, alla ricerca di quella giusta che avrebbe permesso loro di farsi strada all’interno dell’appartamento. Quando la trovò, fece scattare lievemente la serratura, spingendosi contro l’uscio e allungando una mano nuovamente verso Steffen, per tirarlo con se al caldo della piccola abitazione. Lasciò che il ragazzo camminasse dinanzi a lei, per poi accertarsi che entrambi fossero dentro e richiudendosi la porta alle spalle. Non aveva dimenticato le parole appena proferite da Steffen, prima di entrare in casa. Al buio, Drasil seguì il ragazzo con lo sguardo mentre cercava di muoversi fra quelle mura a lui familiari, a lei del tutto sconosciute. Cercò un interruttore della luce mentre gli occhi si abituavano al buio e cercavano di non perdere di vista la sagoma di Steffen. Con le braccia allargate e i palmi che scivolavano lungo le pareti, Drasil incontrò finalmente un quadratino di plastica in rilievo, che s’impegnò a pigiare. La stanza prese luce e lo sguardo di Drasil potè finalmente vagare lungo quegli spazi. Tutto, in quella stanza, rifletteva il malessere che Steffen si trascinava dietro. C’era un po’ di confusione, indumenti sparsi qua e la, bottiglie di birra sul pavimento, un letto disfatto si ergeva nell’angolo più vicino, di fianco ad un piccolo tavolo da pranzo, anch’esso ricolmo di cartacce e cartoni di pizza. Insomma, Steffen era la pura e vera rappresentazione che in quel frangente apparve urlando, dal pavimento al soffitto, manifestandosi sotto forma di caos non solo materiale, ma anche fisico. Le parve di essergli entrata dentro, quasi. Camminò lentamente in quel piccolo spazio, curiosa di comprenderne ogni più piccola parte. Si avvicinò a Steffen, prenderlo gentilmente per mano e stringendola appena. «Che ne dici di fare una doccia e poi riposare?» propose Drasil, lasciando poi cadere la tracolla nera sul pavimento, quasi volesse imporgli la sua presenza.
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    Non se ne sarebbe andata: non in quel momento. Sapeva di non poterlo lasciare da solo, voleva solamente fargli capire di non doversi tenere sempre tutto dentro, gelosamente custodito sotto quella pelle affaticata, ormai stanca. Ci provava Drasil, nel più puro dei modi, a stargli accanto anche se lui forse avrebbe preferito allontanarla. Si allontanò da Steffen sfilandosi il cappottino e lasciando che questo si adagiasse sullo schienale di una sedia li vicino, per poi tornare da lui e invitarlo a fare lo stesso. «Mettilo via, su.» incitò lei, sorridendogli dolcemente e portando le sue mani delicate attorno al tessuto della giacca di Steffen, aiutandolo a sfilarsela e appendendola poi con cura all’attaccapanni. Si voltò nuovamente, incamminandosi con fare pensieroso ad una porta che fiancheggiava il bancone della cucina, nel monolocale in cui si trovavano. L’aprì, scoprendovi un piccolo bagno dai toni chiari e una vasca di medie dimensioni. Si affrettò ad entrarvi, recandosi vicino al lavello della vasca e lasciando che il marmo bianco venisse sovrastato da un fitto strato di acqua calda. Lasciò cadere due gocce di bagnoschiuma e accese i riscaldamenti prima di uscire nuovamente dalla stanza per poter raggiungere Steffen. «Vieni qui e togli quei vestiti.» disse lei, gentilmente. Non pensava al fatto che lui potesse imbarazzarsi di ritrovarsi nudo di fronte a lei, per Drasil in quel momento non vi era nulla di diverso che una vicinanza sentimentale, niente di fisico. Apprezzava Steffen, ma vederlo in quello stato cancellava ogni sorta di significato, ogni sorta di attrazione. Voleva solo vederlo stare bene, niente di più.
    Mentre si avvicinava a lui, lo sguardo puntato in quello malinconico dell’uomo, Drasil sospirò. «Qualsiasi cosa sia successa, Steffen, non puoi fartene una colpa per il resto della vita. Devi tornare a vivere. Se non vuoi farlo per te, fallo per chi vuole esserti vicino.» sussurrò, chinando appena il capo e lasciando che la propria mano andasse a stringere amichevolmente la sua. Non avrebbe potuto cambiare nulla, Drasil. Non avrebbe potuto modificare il corso degli eventi, riportare indietro quella vita interrotta. Ma avrebbe potuto dargli una nuova possibilità, l’opzione di credere che qualcosa di buono avrebbe potuto esserci comunque. «Permetti a te stesso di provare a ricominciare.» sussurrò, e un sorriso malinconico si specchiò sul suo viso.
     
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    Nessuno a parte Steffen aveva varcato l'uscio del suo appartamento. Nessuno era stato considerato dal giovane uomo un ospite gradito. Quei tempi erano ormai volati via, appartenevano ad un passato - neanche troppo lontano - capace d'essere percepito dall'ex medico come un qualcosa di irrecuperabile. In tutta sincerità; una parte di lui sperava che questo trascorso non potesse e dovesse mai più riaffiorare. Era cambiato, era mutato, era divenuto un uomo completamente diverso e, conseguentemente, anche ciò che a quel tempo lo aveva contraddistinto e lo aveva reso un determinato essere: quel tratto ormai era stato cancellato. Non occupava neanche più un piccolissimo spazio della sua anima e del suo cuore: o quanto meno, era ciò che Steffen stava cercando spasmodicamente di attuare; annientandone ogni traccia in se stesso. La solitudine e l'isolamento era tutto ciò a cui ambiva, non conoscendo altro e non potendo punirsi in nessun altro modo. Anni prima, nonostante i ritmi intensi del suo lavoro, il suo temperamento era riuscito a conquistarsi la simpatia e il rispetto dei suoi amici, dei suoi colleghi e la stima dei suoi pazienti. Molte personalità sembravano intente a fare a gara, desiderando ricevere da lui uno sguardo d'apprezzamento; un saluto affabile o semplicemente un parere onesto e cortese. Persino dopo quel terribile periodo, alcuni, furono disposti a non allontanarselo dalle loro vite; sperando in questo modo di far presto riaffiorare quel Steffen tanto conosciuto ed apprezzato. Miseramente però, si ritrovarono costretti ad affrontare un'insormontabile sfida, sopraffatti dalla presenza di quel muro invalicabile e ripido: eretto ed edificato dallo stesso giovane uomo. Avevano lottato, combattuto, avevano pazientato e avevano anche cercando di comprenderlo, sperando che il giorno seguente; un passo avanti, sarebbe stato compiuto da lui stesso. Ancora una volta, i loro auspici furono disillusi. Steffen dimostrò di peggiorare ora dopo ora, sicché stanchi, spossati, del tutto svuotati dall'energia decisero di lasciarlo andare: permettendogli quindi di inseguire quel sentiero da lui stesso scelto seppur sapessero quanto nocivo e dannoso fosse stato.
    Drasil, era la prima persona a varcare l'uscio di quella soglia. Neppure le donne con le quali Steffen era incline nel trascorrere qualche minuto, liberandosi di qualche prurito naturale; avevano mai superato quella soglia. No, Steffen aveva preferito sempre concedersi e distrarsi, liberandosi da quel poco di stress mediante incontri sporadici, brevi, senza ombra di dubbio intensi ma; privi di sentimento, del tutto discostanti da un qualcosa di troppo intimo - paradossalmente parlando. Naturalmente la circostanza di Drasil, l'aveva in qualche modo avvantaggiata nell'opera, sia pure, avrebbe potuto disinteressarsi totalmente di Steffen; quando lo scorse in quell'orrido stato in quel vicolo. Aveva dimostrato di possedere un temperamento nobile, sensibile, empatico e generoso. Indubbiamente, Steffen, ne rimase sinceramente stregato e ammaliato. Pur tuttavia, una parte di sé; stentava a tollerare tanta ammirazione. Non voleva, l'ex medico, affiatarsi e vincolarsi eccessivamente a qualcuno; non voleva affezionarsi ad una persona, specialmente sapendo e sospettando quanto bene e quanto sollievo avrebbe potuto donargli. Col tempo, era certo, Drasil sarebbe stata capace di scacciargli da dosso quel sacco colmo di mattoni e di pietre; liberandolo dalla stessa prigione nel quale lui stesso volle insinuarsi e costringersi. Non poteva permettere che questo accadesse e, aveva tentato di combatterla sin da quel primissimo giorno. Dall'istante in cui l'aveva sentita parlargli, dal momento in cui osservò le sue gestualità e gli sguardi stessi che la bella giovanissima bionda aveva rivolto e riversato esclusivamente su di lui; Steffen aveva intuito tutto. Presumibilmente forse, quella latente fiammella di superbia e vanità personale avevano acuito le sue considerazioni e le sue stesse supposizioni; pur tuttavia, l'abbraccio e quel secondo incontro - apparentemente privo di chissà quale scopo specifico - erano stati per lui molto più eloquenti e descrittivi. Proprio per questo, pur provando una fiammella sottile e flebile di piacevolezza, si era costretto a negarsela. Aveva parlato più che chiaramente con Drasil. Aveva evidenziato un atteggiamento oltremodo irrispettoso e brusco, incline e determinato nel colpirla nei sentimenti sensibili; cosicché un altro passato vincolante e determinante da parte della giovine mai sarebbe accaduto e avvenuto. Eppure... Eccola lì. Lo aveva veduto, non aveva mancato di soccorrerlo. Era rimasta al suo fianco, nonostante Steffen l'avesse esortata e consigliata di andarsene per la sua strada. Lo aveva abbracciato, facendogli percepire il tepore dolce delle sue braccia sottili e della sua buona e amorevole anima. Adesso, lo condusse nel suo stesso appartamento; avanzando, superando egregiamente tutti gli sbarramenti - metaforicamente parlando - che Steffen le aveva lanciato contro.
    Perché esternare tanta bontà nei suoi confronti? Era un uomo che aveva sbagliato. Era stato un individuo ignobile ed egoista. Non meritava altro che disinteresse. Era giusto che pagasse e che imparasse a sopravvivere con la sua colpevolezza e, che mai, smettesse di fare ammenda; d'essere punito e in qualche modo schifato dalla fortuna o dalle belle circostanze. Per quale assurdo motivo, lei era così buona e generosa da concedergli una seconda chance? Forse perché non conosceva tutta la storia. Se l'avesse saputa, nel minimo dettaglio probabilmente.... No, Drasil era speciale. Steffen lo aveva capito subito. Lei non sarebbe stata come tanti altri, avvezzi e inclini a giudicarlo tempestivamente. Lei, sarebbe stata capace di restargli al fianco, prodigandosi affinché si sentisse meglio: andasse avanti, lasciandosi alle spalle il passato. Drasil seppe benissimo come muoversi. Prese possesso di ogni cosa, di ogni piccolissimo aspetto; anche quello che poteva sembrare quanto più irrilevante. Se solo Steffen fosse stato abbastanza lucido, forse, - anzi quasi certamente - avrebbe scorto quella luce spezzata negli occhi grandi e gentili della ragazza. Non appena la bionda aveva contemplato ed esaminato alcuni dettagli del suo modesto monolocale; aveva esternato dispiacere e pena, forse anche compassione. Lo stato in cui vigeva, nel quale si costringeva a stare il giovane uomo, descriveva completamente il tumulto e la malinconia del suo vivere quotidiano. In effetti, seppe trascrivere egregiamente l'afflizione e il dolore, lo spasmo, che occupava qualsiasi spiraglio del suo cuore e della sua anima. Una donna tanto empatica, non avrebbe mai potuto non percepirlo.
    Dopo essersi privata del soprabito e dopo aver abbandonato la sua borsa a tracolla sul pavimento; immediatamente ritornò da lui. Steffen rimase col capo chino, leggermente ciondolante e mollo; come se il collo avesse perduto la forza di sostenerlo. Era palese come, l'effetto dell'eccessivo alcool ingerito continuasse ad obnubilarlo tutto. Presumibilmente era divenuto un poco più vigile e sveglio, rispetto a quando si abbandonò solitariamente nel vicolo; ma era ancora lungi dall'essere vigile e desto. «Che ne dici di fare una doccia e poi riposare? Mettilo via, su.» Issò semplicemente le iridi, mentre il capo continuava nell'essere abbassato verso il suo stesso sterno mascolino; quindi piatto. Guardò diretto il viso, il bel viso di Drasil. Neppure in quella circostanza, la sua beltà era sfumata o si era affievolita. Non aveva perduto la lucentezza del suo incarnato chiaro e roseo, salutare. I suoi capelli biondi non avevano smesso d'essere così setosi nell'aspetto e conseguentemente anche al tatto; qualora il ragazzo avesse potuto toccarli e sentirseli scivolare tra i polpastrelli. Le sue labbra, non avevano perduto quella morbidezza, quella voluttuosità ammaliante, rispecchiando sempre il primo pensiero che sopraggiunse a Steffen quando le contemplò la primissima volta, ossia: quanto fossero succulente, gustose, esattamente come avrebbe potuto esserlo un frutto maturato naturalmente attaccato al ramo del proprio albero. Neanche l'effluvio della sua pelle, forse le gocce di profumo che provvide a spruzzarsi al lato del sottilissimo collo femmineo era scemato. Dio!, Steffen non aveva mai creduto al paranormale, ai miti legati esclusivamente al campo religioso e mistico ma... Drasil, apparì a lui simile ad un angelo. Troppo celestiale per starsene qui, a contatto stretto di malvagi e di immeritevoli come lui era e si sentiva d'essere. Non si sentì di controbattere. Abbassò le iridi chiare, ora rese un poco più scure e ambrate dall'illuminazione della stanza. Le lampadine difatti, espandevano una luminosità quasi seppiata e scura, ombrosa, benché il loro scopo fosse quello di risplendere e rischiarare l'ambiente durante la notte e l'oscurità dilagante. I bulbi erano così arrossati, parevano quasi sul punto di sanguinare ma, al contempo, brillavano a causa dell'acquosità accentuata presente in essi. Mosse lentamente le sue braccia, volendo avvantaggiarla, assecondarla, ma non fu capace. Lo aiutò lei.
    La mente di Steffen si spense per qualche secondo. Gli effetti dell'alcool comportavano anche questo. Non seppe dire se perse coscienza per qualche brandello di momento o se diversamente; la sua mente lo invitò a muoversi e fare cose senza tuttavia memorizzare d'averle appena attuate; comunque sia, era riuscito ad avvicinarsi a Drasil. Si era spostata, scostata da lui, perché? Cosa aveva fatto? Cosa le aveva detto? L'osservò di soppiatto, di nascosto, temendo d'aver esagerato: d'aver evidenziato anche con lei il peggio di se stesso. Era decisa ad andarsene adesso? Era determinata a fare come avevano fatto - giustamente - tutti gli altri? No, Steffen sentì il cuore stringersi di timore e di dispiacere, qualora questo fosse avvenuto. Era strano, paradossale, incomprensibile. Ciò era questo che voleva ma, al contempo, immaginarsi un risvolto simile, una conclusione tanto drastica: lo destabilizzava e lo scoraggiava, lo rattristiva nel profondo. Ma no, no no: non era successo niente di tutto ciò. Drasil era dinnanzi a lui, e a Steffen sembrò quasi di poterne cogliere un leggero sorriso distenderle le labbra. Non c'era gioia, solo dispiacere e pena in esso; compassione ma non gli interessò. Lo considerò bello come gli altri, come tutti quelli che lei gli donò e gli consentì di godere e contemplare. Quelli che riversò a lui stesso, senza uno scopo apparente, senza richiedere nulla in cambio e senza pretendere alcunché. Erano in quel piccolissimo bagno. Lo invitò a spogliarsi, cosicché potesse farsi il bagno: prima di potersi coricare e dormire, appisolare, concludendo quella giornata troppo straziante per lui. Si rese conto in quel momento d'essere stato privato dal giubbotto. Lento, arcuò la schiena in avanti e tra le dita andò stringendo il tessuto della sua maglia. La sfilò a quel modo, facendosela risalire indosso sino a privarsela: liberandosi le braccia e il capo. L'indumento ricadde a terra, non lontano dai suoi piedi. Divaricò il braccio sinistro e con esso, si creò un supporto. Adagiò il palmo sulla parete vicina, mentre con i piedi - prima il destro - sfilò il calzare da quello sinistro. Ripeté la medesima procedura anche col sinistro per il destro. Ultimata; condusse entrambi i palmi alla sua bassa vita, ricercando il passante della cintura: accessorio logorato un po' dal troppo utilizzo ma, ancora capace di finalizzare il suo scopo.
    «Qualsiasi cosa sia successa, Steffen, non puoi fartene una colpa per il resto della vita. Devi tornare a vivere. Se non vuoi farlo per te, fallo per chi vuole esserti vicino. Permetti a te stesso di provare a ricominciare.» Fermò ogni suo movimento. Semplicemente si bloccò, esattamente come se qualcuno alle sue spalle avesse provveduto a rovesciargli addosso un secchio colmo d'acqua fredda e cubetti di ghiaccio. Ritornò a guardarla, trattenendo per qualche secondo anche il fiato. Quelle parole lo colpirono profondamente. Lo scalfirono, lo trafissero. No, non fu la prima ad esporre quel parere, quella considerazione, quell'incoraggiamento. Sarebbe stato ipocrita affermare il contrario. Molte volte lo aveva sentito ma, sinceramente, mai sembrarono più autentiche delle passate. Chi voleva restargli accanto? A questo pensò prontamente la sua mente ancora offuscata dall'alcool. Chi? Nessuno voleva ciò che era diventato. Questo era la verità. Tutti desideravano il vecchio Steffen ma, non sarebbe mai più ritornato. Sentì il tocco della sua mano. Era morbida, calda, comprensiva e incoraggiante al contempo. Gli sembrò d'avvertire mediante quel tocco anche uno sbuffo di speranza e auspicio per l'avvenire. Chi vuole starmi vicino, Drasil? Eh? Chi? Domandò biascicando un po' le parole che tuttavia cercò di rendere comprensibili al suo udito. Tu? E' così, non è vero? Chiese di nuovo, distendendo la rima buccale destra, sfoggiando un sorrisetto sarcastico ma non maligno: dispiaciuto e sconsolato alla sola idea d'aver centrato la questione, d'essere riuscito a svelarne l'essenza vera e onesta. Condusse il palmo sinistro al profilo della ragazza. Le sue dita sfiorarono e solleticarono la sua pelle morbida.
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    Tracciò delicatissimamente col polpastrello la linea dei suoi contorni, dei suoi lineamenti femminili e armoniosi. Sarebbe meglio di no. Continuò dicendo, discendendo con quelle dita dalla tempia, all'occhio, spostandosi sul setto nasale della ragazza e sopraggiungendo alle labbra di lei. Col pollice, smosse e toccò accarezzandolo il labbro inferiore: carnoso. Spettò poi al mento un po' appuntito ma complessivamente arrotondato sulla parte più esterna. Lento, placido, apparentemente interminabile Steffen dilungò il suo viso verso quello di Drasil. Una forza incontrollabile, intensa, centripeta lo aveva avviluppato e costretto nel spezzare quella misera distanza tra loro. Socchiuse gli occhi, inclinando quel tanto il capo, facendosi così prossimo alla bocca di lei. Il fiato tiepido gli solleticava il viso. Lui, col suo, avrebbe soltanto costretto la ragazza a disgustarsi dall'olezzo di alcool. Trattenne quindi il fiato, deglutendo subito dopo. Una parte di me lo vorrebbe, Drasil. Sfiorò la punta del naso di lei col suo stesso. L'ho capito da quel giorno. Dall'istante in cui mi hai sorriso, senza un perché. Il labbro di Steffen lambì quello della ragazza. M'avresti fatto del bene. Strinse le fauci, espirando dalle narici. Il fiato uscì da esse tremolanti, assecondando quindi lo sbatacchio del suo petto e del suo stomaco; di ogni singola membra del suo fisico. Infine, pigiò la sua bocca su quella della bionda.
     
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