Make that money, fake that bunny

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    EINAR FREDRIK DAHL
    BEING ME CAN ONLY MEAN FEELING SCARED TO BREATHE


    Nervosismo. Come un pizzicore alla pelle, gli tormentava mani e braccia espandendosi lentamente verso le gambe e il resto del corpo in una scia fastidiosa e pungente. Se inizialmente l'unico movimento percettibile in tutto quel buio era il suo tallone stressato, ora era possibile individuare con distinzione la sua figura allampanata che a grandi passi marciava avanti e indietro, lentamente. Era in anticipo, lo sapeva benissimo, ma quel genere di situazioni compromettenti lo agitavano sempre accollandogli un'insofferenza percepibile già a distanza di settimane. Detestava sentirsi così, detestava quegli appuntamenti al buio che provocavano tutto fuorché piacere, e detestava la consapevolezza di non potervi rinunciare; la voce carezzevole della necessità gli aveva sfiorato i lobi con la sua lingua velenosa e biforcuta obbligandolo ad andare avanti, sempre avanti, sempre tra le braccia di quella dipendenza tanto malsana per il suo corpo quanto salutare per la sua mente. Come ad ognuno di quegli incontri programmati -in quei minuti di disarmante attesa- gli balenò davanti agli occhi la strada della codardia, che come un fulmine si mostrò in tutto il suo splendente ed inafferrabile fulgore. Questione di secondi: i piedi di Einar pesavano come macigni, e in un baleno il pensiero di fuggire si dissipò nelle tenebre della notte. In fin dei conti cos'era la vera codardia, scappare dal ragazzo o scappare dal dolore divenuto ormai un tutt'uno con la sua esistenza?
    Le foglie morte scricchiolavano sotto la suola degli scarponcini neri, accartocciate in vulnerabili involucri ormai privi di vita. Non aveva tempo e testa per notare quel genere di cose, ma in un altro momento avrebbe apprezzato la mitezza di quella serata. Non c'era vento né nuvole, solo un cielo stellato ed un silenzio assordante, rotto solo da sporadici e lontani fruscii animaleschi. Il Luna Park di Besaid era senza dubbio un luogo di ritrovo inquietante, ma bisognava ammettere che aveva un certo fascino spettrale, così bagnato di luce dal quarto di luna decrescente che faceva brillare le catene delle giostre lucidate di recente e i sedili imbottiti della ruota panoramica. Era sotto di essa il luogo d'incontro tra Einar e Poison.
    Be', era ovvio che il ragazzo avrebbe preferito un confortevole baretto in centro, ma il carico che il suo giovane compare trasportava era tanto prezioso quanto illegale, e per quel mese il norvegese ne aveva avuto a sufficienza di screzi con la polizia. Quindi addio tazza di caffè fumante e profumo di pasticcini e benvenuti gelo alle caviglie e ansia di essere divorato vivo da un cinghiale.
    Un sospiro profondo, i pugni stretti nelle tasche del mantello grigio piombo. E se gli avesse fatto una soffiata e ad attenderlo ai cancelli ci fossero stati grossi uomini in divisa e auto a luci rosse e blu? E se avesse deciso di non presentarsi e lasciarlo là tutta la notte da solo come un povero cretino? E se avesse portato con sé una gang per imbavagliarlo, picchiarlo e derubarlo? No, doveva calmarsi. Il giovane non lo aveva mai tradito finora, perché farlo adesso. Un sassolino danzante destò la sua attenzione facendogli saettare il corpo a trecentosessanta gradi, e impaurito indietreggiò di un passo.
    « Gesù, tu mi vuoi morto » soffiò con un mezzo sorriso in direzione dell'ombra familiare di fronte a lui, il cuore palpitante che ancora non cennava a rilassarsi. Si massaggiò con la mano destra il petto per qualche istante prima di guardarlo con occhi da cerbiatto. « Bene, rapido e simultaneo come se non fosse mai successo, mh? » allungò la mano dando un colpetto alla tasca destra della giacca, rigonfia del vecchio portafogli dagli angoli scuciti. In un altro contesto gli avrebbe fatto piacere scambiare qualche chiacchiera leggera, ma temeva che qualcuno potesse vederli insieme e presupporre i fatti. In fin dei conti il loro era un rapporto di lavoro dove non c'era spazio per la confidenza, e per quanto Einar ne apprezzasse la professionalità, rimaneva lo stesso incuriosito da quel ragazzo -più giovane di lui- con lo sguardo fermo e vissuto come quello di un adulto.

    Edited by bad experience. - 3/1/2019, 00:59
     
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    Phobos 'Poison' Schneider|19 y.o.|Chaotic criminal

    Molti affermano che l’arte sia nata con l’uomo stesso, come forma d'espressione di qualcosa in grado di prescindere la necessità. Riprodurre qualcosa di esistente, dare una forma a delle idee, è poi divenuto esso stesso necessità. Siamo nati con l’arte e sempre l’abbiamo perseguita, affascinati dai milioni di modi che essa ci fornisce per esprimerci e distinguerci. Ci serviamo di essa, e del nostro ego essa si alimenta, crescendo, tanto da superare confini, tempo e ideologie. Cristallizziamo nell’arte ciò che siamo stati, e nonostante ciò essa ci sembra incompleta. Ci rendiamo conto, quindi, che l’arte non è solo quella che esce dalla nostra mente e dalle nostre mani, ma qualcosa già esistente in natura. E tentiamo di emularla allora, di completarla, consci del fatto che in fondo non abbiamo inventato nulla di nuovo. Cos’è che ci rende artisti, allora? Non è la nostra bravura ad esteriorizzare ciò che proviamo, no, ma la nostra capacità di interiorizzare quell’arte che è tutta intorno a noi.

    Per la prima volta nella sua vita, Poison era impegnato nell’organizzazione di qualcosa di legale. Tutto a norma di legge, tutto organizzato con le massime misure di sicurezza affinché i più facoltosi cittadini Besaidiani potessero passare una piacevole serata godendo della bellezza dell’arte. Tutti tranne Poison, ovviamente, che di legale aveva ben poco e che probabilmente si sarebbe presentato in incognito al vernissage, osservando le facce incuriosite di coloro che si chiedevano chi fosse colui che si firmava come “S”. Sapeva sedare una rissa, piegare le volontà altrui sottomettendole col terrore. Sapeva gestire la rete di spaccio di una intera città, privare qualcuno della vita senza lasciare la minima traccia e provare il minimo rimorso, sciogliere un corpo fino a farlo sparire come per magia. Eppure, quella cazzata sfuggiva al suo controllo. Non era capace, Poison, di adattarsi ad un format. ”Naavke mi ha chiesto il titolo della mostra da inserire nel programma e io ho risposto ‘Eeeeeaaaaah’(?)” Sbuffò, spazientito, interpellando Milo, che se ne stava svaccato sul divano a fumare. A breve, Zombieboy sarebbe dovuto andare a lavoro, e sicuramente tutto sperava di doversi sorbire, tranne i dubbi esistenziali di Poison. ”Insomma, dovrebbe esserci un filo conduttore tra le opere –che al momento non c’è- riassumibile in poche parole –che non mi sovvengono. Volevo anche creare qualche ibrido tra la parte astratta e quella dei personaggi. Che dici? Vabbè, si aspetta, prima il titolo.” Milo sembrò pensarci su. Ma la verità era che stava pensando l’ennesima stronzata. ”Mmmm….Cinquanta sfumature del cazzo che me ne frega”. L’iniziale sorriso di Poison si trasformò in una espressione delusa. ”E daiiii. Serio, pensavo tipo a qualcosa che includesse il caos, ciò che non è definito. Insomma, una stronzata generica in cui posso raccogliere roba random.” Che in effetti era esattamente ciò che lo rappresentava. ”Cinquanta sfumature di caos?”. Poison continuò a sbuffare. ”E basta con ste cinquanta sfumature!””Cinquanta sfumature di coglione” Al terzo ‘cinquanta sfumature’ finalmente Poison capì che per quel giorno non c’era speranza di fare un discorso serio con Milo. ”Cinquanta rotture di cazzo!” Sclerò alla fine, chiudendo il foglio su cui stava prendendo appunti e arrendendosi. ”Vabbè, faccio da me, troietta.” Come aveva fatto fino ad allora, in effetti. Rubò all’amico gli ultimi due tiri di canna e tolse il disturbo, lasciandolo alle proprie occupazioni e tornando alle sue. C’erano giorni in cui Phobos avvertiva proprio la necessità di convertire in immagini più o meno riconoscibili ciò che tormentava il suo animo. Era come liberarsi di qualcosa, per lui, di un cancro che rischiava di manomettere ogni sua facoltà. Ma non era quello il giorno. Si era bloccato, e non poter controllare ciò lo rendeva dannatamente nervoso. Ma si poteva, in fondo, incanalare il caos?

    . . . . .


    ”Fanculo!” Sbraitò, senza che alcuno potesse udirlo, chiuso in quella rimessa degli attrezzi che da qualche anno era divenuta il suo laboratorio – e deposito della droga. Alcune tele giacevano poggiate alla parete, sovrapposte, in penombra. Altre erano disordinatamente arrotolate e poggiate su un tavolo. Quella davanti a lui, con la vernice ancora fresca, era adagiata su un cavalletto di fortuna. La fissava, Phobos, totalmente contrariato dall’inespressività di quei colori che all’inizio gli erano sembrati perfetti. Ci ragionò, poi tirò fuori l’accendino dalla tasca e iniziò a dar fuoco al bordo inferiore di quella tela, che pian piano iniziò a consumarsi sotto quel calore. Ah, se avesse potuto fermare il tempo, nell’esatto momento in cui la materia si sottometteva alle fiamme, immortalando il preciso attimo del trapasso beh, quella sì che sarebbe stata una meravigliosa opera d’arte. Ghignò, Phobos, incrociando le braccia sporche di tempera per fermarsi un attimo a guardare quello spettacolo. La distruzione era qualcosa che lo affascinava dannatamente. Lo ammaliavano, le fiamme, tanto colorate eppure portatrici di una unica tonalità: la somma di tutti i colori. Lasciò che il fuoco consumasse quella tela e quel cavalletto, lo lasciò estinguersi da solo, ed infine volse lo sguardo all’orologio. La notte era calata da un pezzo su Besaid, avvolgendo la cittadina col chiarore di una luna splendidamente luminosa. Aveva appuntamento con un cliente, a breve, non molto lontano da dove si trovava al momento. Era presto, eppure decise di avviarsi un po’ prima, almeno per svagare un po’ la mente. A quanto pareva quella non era la serata giusta per dipingere, e forzare l’ispirazione non era un buon modo per costruire qualcosa di buono. Ancora una volta l’arte si sacrificava per il mondo reale, i doveri prevalevano sui piaceri. Lavò le mani cercando di togliere la vernice alla meglio, indossò il cord jacket grigio imbottito e dopo aver recuperato il pacco che avrebbe dovuto consegnare si chiuse la porta della rimessa alle spalle, facendo tintinnare il mazzo di chiavi sulla superficie ferrosa della porta.
    La morfina non era esattamente una droga convenzionale, e il ragazzo ci aveva messo un paio di giorni a reperirla per il suo cliente, ormai divenuto una faccia conosciuta. In pochi ne facevano uso, giusto poche persone affette da malattie degenerative o reduci da traumatici incidenti. Non sapeva a quale categoria appartenesse il ragazzo, non che gli importasse, anche se la curiosità di chiedergli che cazzo se ne facesse della morfina quando si poteva avere uno sballo migliore e più sicuro con tanta altra roba gli era balenata in mente qualche volta. Non ci mise molto a raggiungere la parte del Luna Park ancora in funzione. Le giostre e le luci erano ormai state spente da un pezzo, nessuno si avventurava più in quel luogo che ormai sembrava essere divenuto un tabù. Era quello il regno in cui Poison conduceva i suoi affari, uno dei luoghi che aveva contrassegnato col suo marchio, il suo terreno di caccia in cui ogni avventore diveniva potenziale preda. Conosceva a menadito quegli spazi, i ferri cigolanti delle giostre, probabilmente conosceva anche il numero esatto dei seggiolini di ogni attrazione. Era affascinante pensare a come quel luogo, sempre pieno di vita durante il giorno, all’improvviso si spegnesse, e cadesse in un silenzio tombale come se morisse. In attesa del ragazzo con cui aveva appuntamento, si arrampicò sul tettino della biglietteria della ruota panoramica e si perse a guardare la luna ei magnifici riflessi bluastri che essa produceva. Luci, che prepotenti si infrangevano sulle superfici lucide creando una miriade di riflessi che assumevano gli spettri più svariati, e divenivano opache quando il fumo della sigaretta che aveva tra le labbra si frapponeva tra esse e il suo punto di vista. Il rumore di alcuni passi attirò la sua attenzione. Il ragazzo era arrivato prima del previsto. Non si mosse subito, accertandosi prima che fosse solo e beandosi del fatto che egli non avesse scorto la sua presenza. Era affascinante osservare cosa le persone facessero quando nessuno le guardava. Si muoveva agitato, lui, passeggiava avanti e indietro, sbuffava a volte, si guardava intorno circospetto. Quella sua inquietudine lo divertiva alquanto, ma fu altro a far distendere le sue labbra in un sorriso sornione. Alcuni giunti metallici delle sue vesti brillavano del riflesso di quella luna luminosa, che di un azzurro tenue tingeva ogni cosa. Si muoveva, lui, disegnando scie intorno a sé che in un solo istante svanivano. Ecco cosa cercava. Ecco qual era il volto dell’inquietudine.
    Linee. Linee effimere che si disperdono. Punti in movimento che lasciano una scia.
    Era come quando si osservavano le stelle cadenti. Si seguiva la loro tratta, il loro attraversare il cielo, e infine si restava con l’amaro in bocca, quando esse alla fine scomparivano, cercandole ancora, col desiderio di continuare a seguire il loro percorso. Era quella l’inquietudine che cercava: la precarietà.
    Linee verticali originate dall’abisso, una volta celeste che all’improvviso crollava. Linee irregolari, spezzate, curve, mosse, come quelle che Einar creava col suo confuso incedere. L’irrequietezza, la fuga dall’incertezza, il continuo girare su se stessi nell’ indecisione.
    Era questo che si andava formando nella mente contorta di Phobos, mentre osservava lo sventurato avventore di quel Luna Park. Ciò che insoddisfatto aveva cercato per quell’intera giornata si era materializzato, ora, grazie a semplice luce e ai movimenti scattosi di quel ragazzo. Linee. Ciò che mancava erano delle semplici, stupide, linee.
    Avrebbe potuto rimanere ad osservarlo per ore, ma ben presto si decise a saltare giù da quel tettino, rompendo il silenzio senza accorgimenti di sorta, e facendo scricchiolare i sassi sotto al suo peso. ”Buh!” Lo vide sussultare e voltarsi nella sua direzione. Stava proprio sulle spine il ragazzo.
    ”Gesù, tu mi vuoi morto”. Il ghigno dipinto sul viso di Poison si alimentò di una risata divertita e cristallina. ”Oh, non temere…se ti avessi voluto morto lo saresti già”. In effetti, quella non era una bugia. Insomma, quel ragazzo, che pareva avere la sua età, sarebbe stato una preda fin troppo facile. Ma far fuori clienti non era nella politica di Poison – e in quella del buisness in generale- e quel ragazzo non rappresentava una minaccia per nessuno. Finchè fosse stato così, beh, avrebbe potuto ritenersi al sicuro, almeno da lui. Era a disagio, si vedeva, a differenza del suo spacciatore che invece lo osservava quieto, con le mani in tasca. Sembrava essere dotato di sangue freddo, Poison, come il serpente che lo rappresentava, dannatamente a proprio agio in quello che era il suo naturale habitat. Fu l’istinto, quella sua vile parte incontrollabile, a portarlo a toccare il coltello a scatto che aveva in tasca, quando il suo interlocutore corse con la mano verso la propria. Era insita nella sua natura, quella parte animalesca in grado di spingerlo ad attaccare prima di divenire vittima. La legge del più forte, era questo che lo aveva fatto sopravvivere.
    ”Bene, rapido e simultaneo come se non fosse mai successo, mh?” Poison guardò basito il ragazzo, o meglio ciò che riusciva a scorgere di lui, ed alzò gli occhi al cielo, sospirando esasperato. ”Oh cielo, datti una calmata, bello, di che cazzo hai paura?” Stava dannatamente esagerando. Insomma, se non se ne era accorto, era Poison lo spacciatore, quello che rischiava di tornarsene in gattabuia alla velocità della luce. Se poi il ragazzo stesse facendo i conti con i propri sensi di colpa, beh, quello poteva farlo pure a casa.
    Da bravo predatore quale era, Poison si trovava spesso a doversi guadagnare la fiducia di quelli che, trascinati a fondo dalle loro dipendenze, stringevano il loro patto col diavolo e col suo emissario. Così, ridacchiando ancora, tirò fuori dalla giacca il pacco, accuratamente imballato con pluriball e scotch. Lo lanciò al volo ad Einar, senza nemmeno avvicinarsi, mostrandogli –almeno così credeva- la propria fiducia. La verità era che il ragazzo non avrebbe potuto fuggire molto lontano. Non aveva alternative, aveva scelto lui quella strada, e Poison usava quella consapevolezza come arma. ”Puoi controllare, se vuoi” Affermò, indicando il pacco che ora il ragazzo aveva tra le mani e muovendo qualche passo in quello spazio. Attese, estraendo dalla tasca un tocchetto di fumo e iniziando a squagliarlo con l’accendino per rollare una canna. ”Fumi?” Chiese, in un tono stranamente quasi gentile, per poi avvicinarsi un po’ di più a riscuotere quanto dovuto. Non smetteva di osservarlo, Poison, studiando le sue reazioni ad ogni sua mossa, e nutrendo la sua ritrovata ispirazione di quella sua inquietudine, che lui e l’ambiente che li circondava generavano. Non smetteva, il ragazzo forgiato dalla paura, di vedere la bellezza nell’oscurità altrui, ammaliato da quell’altalena dalle corde logore sospesa sul ciglio del caos, su cui ogni essere umano prima o poi saliva.
     
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    EINAR FREDRIK DAHL
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    Ogni settimana vedeva quel volto, eppure ancora non riusciva ad abituarcisi: per lui rappresentava una medaglia i cui lati celavano emozioni contrastanti. Si sentiva sollevato, perché svegliarsi anche solo una mattina senza essere contorto dal dolore rappresentava una piccola vittoria; d'altra parte Einar era consapevole che parte dei suoi risparmi finivano in sostanze che lo degradavano dall'interno, e che presto avrebbe dovuto aumentare per raggiungere il medesimo effetto. E Poison, che rendeva possibile tutto questo, era per il giovane un angelo del paradiso e dell'inferno racchiusi nello stesso corpo.
    « Oh, non temere…se ti avessi voluto morto lo saresti già » sconcertato, Einar aggrottò le sopracciglia cercando di mostrare un sorriso tirato a quel riso leggero. Conosceva bene la pericolosità di quelle parole, erano anni ormai che aveva a che fare con personaggi di quel mestiere e sapeva che non bisognava scherzare con il fuoco se si aveva preziosa la vita. Non che per lui la sua lo fosse, ma se avesse voluto crepare avrebbe preferito un modo più tradizionale piuttosto che finire in un vicolo con la testa fracassata in una pozza di torbido sangue rappreso.
    Continuò a scrutarlo, incapace di assumere lo stesso atteggiamento pacato che il suo interlocutore mostrava con beffarda indifferenza. « Pensi sia facile farmi fuori » un mormorio appena percettibile, detto con insofferente arresa. Era stufo di essere visto come l'animale debole del branco, il cucciolo zoppo di antilope che già all'inizio del documentario della National Geographic si sa che il futuro gli avrebbe riservato una brutta fine. Ma non poteva mentirsi, era consapevole che in questo caso, se non in tutti, era lui la preda più ambita e facile da eliminare, e la sua elevata ingenuità di certo non lo aiutava a combattere quella guerra ad armi pari. Sì, lui era quello che scappava, scappava sempre lasciando tracce dappertutto. Masticato dalla società che faceva di lui ciò che voleva, non era capace ad opporsi e prendere parola, a risaltare e mettersi in mostra per condurre le redini della situazione. Faceva parte piuttosto del ceto che annaspa ed è invisibile agli occhi altrui, che va avanti come può dibattendosi senza forze in un groviglio di obblighi e convenzioni troppo strette. La cosa più paradossale era che Einar avrebbe potuto fare di lui tutto ciò che voleva senza che l'altro lo sapesse: grazie alla sua particolarità viaggiava nelle tenebre in un tutt'uno con la notte e vedeva, sentiva tutto. Un'ombra eterea che percepiva e veniva a conoscenza della parte più nascosta delle persone, di ciò che in solitudine facevano e dei mostri che rivelavano, convinti che nessuno potesse scoprirli. Ma sfortunatamente, non era il tipo che si faceva i fatti degli altri per poi distribuirli ai quattro venti.
    Tutto ciò che voleva fare adesso era concludere l'ennesimo affare settimanale, lasciarsi con una stretta di mano, andare a casa e ammazzarsi di caffè per passare la notte parzialmente in bianco nell'immobilità della sua stanza. « Oh cielo, datti una calmata, bello, di che cazzo hai paura? »
    « Che ne so, di finire in qualche buco di prigione con te forse » sospirò ironico dopo un'attimo, rendendosi conto di quanto diavolo quella scusa fosse traballante. Semplicemente, il timore che qualcuno della città di sua conoscenza venisse a sapere di quel piccolo granello che macchiava la sua identità lo attanagliava dalla paura con invisibili catene. Non poteva permettersi di perdere il lavoro, non poteva sopportare di essere visto come un drogato, non avrebbe retto l'ennesima sberla in faccia della comunità. Afferrò al volo il pacco guardandolo con sospetto, puntando poi lo sguardo in quello rilassato di Poison. Diffidente, si fece strada a fatica con le dita dalle punte rovinate dal nervosismo fino a liberare un lato della confezione. Lo mise alla luce della luna per esaminarlo con minuzia, e infine, soddisfatto, lo ripose con cura nella tasca interna del mantello. « Mi sembra tutto a posto » si morse la lingua, incerto. « Forse... Cioè se riesci ad aumentare le dosi, prossimamente » un rantolo, lo sguardo puntato in un punto indefinito dietro il ragazzo. Se la sua mente era speciale, di certo il suo organismo era lo stesso di qualsiasi umano, e il consumo di morfina gli induceva obbligatoriamente dipendenza, assuefazione e tolleranza; gli effetti con il passare del tempo divenivano sempre più brevi e leggeri ed intensificare la quantità gli restava l'unica soluzione. Un altro passo verso il baratro, verso la fine. Con un senso di vuoto si chiese quando sarebbe morto per overdose. Non ne assumeva in maniera eccessiva, ma continuando su quella strada era certo che non avrebbe retto molto a lungo. Smilzo, rachitico e malaticcio sarebbe stato il modo migliore per caratterizzare l'aspetto di Einar.
    « Fumi? » tornò con i piedi per terra, sbattendo un paio di volte le palpebre per far svanire l'immagine del suo corpo privo di vita disteso sul pavimento. « Sì ma ora posso pagarti solo in natura » gli lanciò il rotolino di banconote con una risata leggera, sporcata di muta tristezza dal riflesso del lugubre pensiero precedente non ancora del tutto scomparso. S'incamminò in un angolo più buio, rassegnato ormai all'idea di condividere parte di quella notte in compagnia dello spacciatore. Forse si sarebbe rilassato un poco, la tensione vibrava ancora sulla sua pelle, tesa come le corde di un violino. Aspettò che l'altro terminasse il lavoro, e con le mani in tasca e il viso completamente oscurato dal nero socchiuse le labbra emettendo un alito di vapore perlaceo. « Perché Poison? Sembra il nome di una marca di profumo scadente » sogghignò dopo qualche secondo di intensa riflessione, spezzando l'imbarazzante silenzio pesante come l'odore di fumo bruciato che aleggiava tra loro.
     
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    Orfanotrofio di Besaid, febbraio 2005.


    ”Ehi, mostriciattolo, ma è vero che puoi uccidere una persona semplicemente standogli vicino?” Lo schernì Garrett, detto “palla di lardo”, evidentemente incredulo di fronte a quella che sembrava essere una voce e nulla più. Era diventata una prova di coraggio, in quell’orfanotrofio, avvicinarsi al mostro e tornare illesi. Aveva sei anni, Phobos senzacognome, ed era già un fenomeno da baraccone. “Poison”, lo chiamavano, come una specie di anti-eroe che loro erano tenuti a sconfiggere, per diventare grandi, rispettabili. Era diventato una sorta di Sfinge muta, alla cui guardia pochi sfuggivano. Non li assecondava, il ragazzino marchiato dalla morte, eppure ogni qual volta qualcuno di loro si avvicinava a lui, lasciava che quel serpente invisibile che si portava dietro attaccasse, che impedisse loro di sfiorarlo, di alzare le mani. Era lui a decretare chi avrebbe superato la prova e chi no, lui a scegliere chi far passare. E di certo Palladilardo non sarebbe stato tra questi. Aveva solo otto anni, ma era già così pieno di sé da essere divenuto il capetto degli altri orfanelli. La gloria eterna era l’unica cosa che gli mancava, e di certo Phobos non sarebbe stato il suo mezzo per raggiungerla. Ci provava a starsene in disparte, a rifuggire gli scontri, eppure il tumulto sembrava giungere da lui ogni volta, come un monito, ad incitarlo a prevalere sugli altri. I piccoli leader erano di certo coloro che odiava di più, quelli che lo sfidavano ogni volta, pronti a distruggere il suo trono fatto di terrore. Non sarebbero passati, quelli come lui, anche se gli fosse costato la vita. E dal momento in cui oltrepassavano il limite, Phobos si sentiva sollevato da ogni possibilità. Come una vipera, il ragazzo restava immobile sperando che l’animale più grosso non lo calpestasse, ma nell’istante in cui si avvicinava, di riflesso, lui attaccava. ”Perché, vuoi provare a vedere se è vero?” Rispose sprezzante, alzando lo sguardo verso quella figura che all’epoca sembrava un gigante, posando il pennarello con cui, in quell’angolino, stava colorando il muro. Strafottente, senza paura, così era sempre stato Phobos, a cui mai nessuno osava avvicinarsi per paura, di cui mai nessuno si sforzava di capire le ragioni. Rise, Garrett, ridendo insieme agli altri e facendo un passo avanti. Mentalmente Phobos aveva disegnato un cerchio intorno a sé, uno spazio vitale che nessuno avrebbe dovuto oltrepassare. Così, quando ciccione si avvicinò spavaldo, come Remo che varcò il solco primigenio sprezzante degli ammonimenti, lasciò semplicemente che l’istinto prendesse il sopravvento, rendendolo la bestia che gli altri volevano che fosse. Percepiva quel suo potere, così come percepiva le energie venir meno man mano che quel veleno si propagava nel corpo dell’altro bambino. Rideva, lui, fin quando non fu costretto ad accasciarsi in preda a una crisi respiratoria, col corpo scosso da movimenti involontari e convulsi. Non parlava più, ora, lo sciocco Palladilardo, non osava più schernirlo. Non importava, a Phobos, che quel bambino stesse morendo. Il potere che quel ruolo gli dava apparentemente lo inebriava, lo spingeva a resistere al dolore. Gli dava uno strano –e malsano per un bambino di quell’età- senso di piacere, prevalere sugli altri. Una delle operatrici corse ad allontanare Garrett da lui, mettendo a repentaglio la propria vita, appena in tempo. Sarebbe stato male, quel bambino tanto gradasso, eppure sarebbe sopravvissuto abbastanza per imparare la lezione o divenire un mostro lui stesso. Non per merito di Phobos, ovviamente, che affascinato da quella forma di sadico gioco, non si sarebbe fermato di sua spontanea iniziativa. Non chiesero spiegazioni a lui, che rimase in quell’angolo, nessuno si preoccupò del sangue che gli usciva dal naso e che non accennava a fermarsi. Solo una bambina, quando tutti furono corsi in infermeria, si fermò a guardarlo. Non aveva difese ora, Phobos, che non fossero il suo disprezzo verso le altre persone o la sua rabbia che mai sembrava avere fine. Sorrise, quella bambina dal caschetto biondo, non sembrava cattiva. Prese un fazzoletto e mosse qualche passo verso di lui, esitante, quasi attendendo un permesso. Con le mani imbrattate di sangue, mentre cercava di fermare l’epitassi, il bambino raccolse il pennarello, e sul pavimento disegnò una porta, così come la si disegna nei progetti edili. Una semplice linea curva innestata su una dritta. ”Puoi entrare, adesso.” Disse, rivolgendosi a quella bambina che, per prima, non aveva avuto paura del mostro, e che sorridendo si inginocchiò avanti a lui spingendogli la testa all’indietro, così come aveva visto fare alle maestre a scuola. Non era un mostro, Phobos, di questo era consapevole. Era solo un bambino spaventato, che aveva però deciso di non avere paura di sé stesso, di bastarsi, di difendersi. E se nessuno aveva mai superato la prova di Poison, se nessuno aveva completato tutte le missioni di quel sadico gioco di potere, era semplicemente perché, nessuno aveva scelto di vedere il bambino, oltre il mostro. ”Ti chiami davvero Poison?” Rise, il bambino dai ricci d’ebano, di fronte a quella affermazione. Non sapeva se quella bambina fosse matta, tanto matta da non percepire il pericolo, o forse solo ingenua. Ciò che seppe però, era che tra milioni di persone sbagliate, a volte, poteva nascerne una “giusta”.

    Today


    Linee. Movimenti. Persone. Sentimenti. Tutto sembrava fatto per essere messo in contenitori già impostati, pronti ad essere ordinatamente impilati tra gli scaffali di quella società che tendeva ad omologare tutti. Ma erano le essenze che Phobos cercava, ciò che non tutti riuscivano a vedere. Quelle linee bluastre, le stesse che Einar produceva con il suo inquieto incedere, le voleva libere, come se incerte potessero essere pronte ad esplodere, o ad estinguersi. Immaginava quelle linee, e con esse componeva delle immagini mentali, pensando a come la mano avrebbe potuto imprigionare quel movimento, tanto da renderlo espressione di quel sentimento che sì, era facile percepire in quel momento e catturare, ma più difficile da rilasciare a spettatori ignari. La società forniva schemi, modelli, ed averli rifiutati non rendeva facile rendere noto un messaggio. Continuò a osservare quei riflessi, anche quando smise di celare la sua presenza a quel suo coetaneo, giunto in cerca di salvezza, o di perdizione. ”Pensi sia facile farmi fuori.” Non potè fare a meno di ghignare, di nuovo. Difesa. Ogni animale la alzava, sentendosi minacciato. E l’uomo lo faceva anche se ad essere minacciata non era solo la propria vita, ma anche il proprio orgoglio. Apparire forti per convincere l’altro a demordere, era questo il meccanismo. Lo stesso che induceva l’istrice ad alzare gli aculei, le falene a mostrare le mostruose figure che la natura aveva dipinto sulle loro ali, i felici ad alzare il pelo e mostrare i denti. Tutti ci difendiamo in maniera preventiva, perché sappiamo che se verremo attaccati, non è certo che sopravvivremo. Conosceva bene quello schema, Poison, che per una vita aveva adottato come una testuggine. Così come- abituato a fare i conti con la morte- conosceva bene la natura umana e la sua fragilità. ”Tutti siamo facili da far fuori.” Commentò, lasciando forse morire lì quel discorso. Non voleva essere una minaccia, quella di colui che a sua volta non si sentiva minacciato in quel momento. Solo un monito, un memento, in quel tacito gioco tra predatori. L’agitazione di Einar, in generale, lo faceva comunque ridere. Se da un lato i suoi movimenti continuavano ad ammaliarlo, portando la sua mente a viaggiare verso quel limbo situato tra arte astratta e il suo psicotico universo immaginario, dall’altro lo disorientava. Non capiva che diamine avesse da agitarsi, per una cosa che ormai facevano ogni fottuta settimana. ”Che ne so, di finire in qualche buco di prigione con te forse.” Si morse il labbro inferiore provando a togliersi, senza successo, quel sorrisino sghembo dalla faccia. Paura lecita, la sua. Non aveva bei ricordi del carcere, e di certo non aveva intenzione di tornarci. Non avrebbe permesso, stavolta, che Milo si trovasse di nuovo da solo ad affrontare la morte. Siamo più fragili da soli, che in branco. L’aveva promesso, a lui, a sé stesso. Aveva promesso di restare, di esserci, di impugnare le armi per la sua persona. Aveva promesso che a nulla la sua vita sarebbe valsa, se non a completare l’altra. Non era la prigione in sé a fare paura a Poison, che in quel luogo aveva trovato nient’altro che altri modi per prevalere. Era ciò che restava fuori, ciò che sfuggiva al suo controllo, a fargli paura. ”Beh, se ci finissi con me direi che ti andrebbe bene.” Gli fece un occhiolino, schernendolo e lanciandogli il pacco per iniziare a rollare una canna in tutta tranquillità. E il fatto che il ragazzo non avesse tentato la fuga era già abbastanza per rilassarsi. Nessun altro avrebbe osato mettere piede in quel luogo con intenzioni ostili, di questo Poison era quasi sicuro. ”Mi sembra tutto a posto. Forse... Cioè se riesci ad aumentare le dosi, prossimamente”. Alzò gli occhi verso di lui, dopo che ebbe proferito quella tentennante affermazione. Era davvero sicuro di quella scelta? Un primo passo verso il non ritorno, era ciò che aveva compiuto. Un altro schema che tutti seguivano. Che importava, come si moriva? Tutti, in un modo o nell’altro, compivano quel passo ogni giorno. Alzò le spalle, annuendo. ”Se vuoi.” Rispose. Era il suo lavoro – almeno quello più redditizio- soddisfare le richieste. E di certo non era intenzionato a perdere un cliente tanto assiduo. L’aumentare delle dosi sarebbe stato graduale, appena percettibile, più lento possibile. Lo vide impallidire, per un attimo. Chissà su cosa stava ragionando? ” Sì ma ora posso pagarti solo in natura”. Ridacchiò, di nuovo, decisamente di buon umore per quella sera in cui, dopo un immenso buco nell’acqua, aveva finalmente trovato un modo di rappresentare una parte del caos. ”Ehi, potrei prenderti sul serio, lo sai?” Ghignò. Le frasi ambigue erano sempre le sue preferite. Spiazzavano le persone, le rinchiudevano in quel limbo di incertezza che adorava veder dipinto sui loro volti. ”Ma basta che ti rilassi un attimo. A forza di panicare mi stai facendo venire l’ansia, cazzo.” Mimò una smorfietta seccata, e si sedette per terra con le gambe incrociate, attendendo che il ragazzo si affiancasse a lui e infilandosi in tasca il rotolino di banconote. Mancava solo un bel falò e quella serata sarebbe stata perfetta. Maledetti turni interminabili. Se il suo Zombietroietta fosse stato a casa lo avrebbe sicuramente trascinato ad accendere un fuoco da qualche parte. Magari avrebbero potuto fingere il rapimento, ma coinvolgere gli sbirri non era mai una buona idea. Mainagioia. ”Perché Poison? Sembra il nome di una marca di profumo scadente”.. Non gli aveva esattamente fatto un complimento, eppure non potè fare a meno di sorridere distrattamente. ” Ti chiami davvero Poison?” – “Ora puoi entrare”. nella sua mente si formò di nuovo quel ricordo, che nulla aveva a che vedere con Einar. Aveva imparato a circondarsi di porte stagne col tempo, Poison, in modo tale che nessuno potesse attivare al suo cuore, o a ferirlo in qualunque modo. Lasciava semplicemente aperta qualcuna di quelle porte, quella che lui decideva, come una trappola, per vedere in quanti avessero il coraggio di varcarla. Espirò una nuvola di fumo dalla bocca e passò la canna al ragazzo. ”Beh, è ciò che faccio, in effetti. Io avveleno, chiunque. Sto avvelenando il tuo fisico, avveleno gli animi delle persone, avveleno me stesso…Poison è il nome del mostro che sono. E un po’ fa paura, questo nome, non trovi?” Chiese di rimando. Non alluse alla propria particolarità in maniera diretta, né pronunciò quelle parole con tristezza o vergogna. Era sereno, Phobos, consapevole di essere realmente l’incarnazione di quel terrore di cui portava il nome. Non temeva sé stesso, non aveva più paura di ciò che era. Egli era la propria arma, re e difensore del suo regno, signore e vittima del suo inferno. E per gente come lui, un nome in grado di essere temuto era necessario. ”E tu invece? Come si chiama il tuo mostro?” Domanda strana, la sua, tanto che dovette voltarsi a guardare Einar per accertarsi che la capisse. C’erano tante riposte a quella domanda, e il ragazzo avrebbe semplicemente dovuto scegliere quale dare, quale delle sue porte aprire senza minare la propria sicurezza, o semplicemente affidandosi alla fiducia. Ognuno aveva i propri mostri a divorarlo, questo era un dato di fatto, oppure, come Phobos, decideva di divenire il mostro e divorare ogni cosa, consumando ciò che restava della propria anima giorno dopo giorno, e facendo la guardia a quel tesoro che, in quel tempo incerto, era ritenuto il più prezioso.
    Dopo rileggo scusa, ci saranno errori abominevoli ma mia madre sta ansiando per apparecchiare cia1
     
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3 replies since 2/1/2019, 00:27   160 views
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