Run Ariel, run!

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  1. woweya‚
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    Ariel Olsen - 21
    Non era questione di contatti umani, di quelli ne avevo tanti e non mi riferisco al lato sessuale della mia vita, quello era un completo disastro ma avendo ricevuto un'istruzione prettamente militare avevo imparato a controllare qualsiasi mio impulso primitivo, solo la paura avevo lasciato libera di esprimersi perché quella è fondamentale ed è l'arma più forte che l'essere umano possa avere, è solo grazie ad essa se siamo sopravvissuti su questo pianeta fino ad oggi, certamente devi saperla gestire perché se lasci che ti paralizzi allora sei morto e io in questo ero brava, forse la migliore.
    Non era nemmeno necessità di poter tornare a fidarmi di qualcuno perché la mia vita illegale era basata sul concetto di fiducia, chiunque decideva di affidarsi a me per un qualsiasi lavoro lo faceva perché si fidava ed era un po' come si io fossi la fidanzata di ognuno di loro, pronta a morire per portare a termine il mio compito.
    Forse era solo voglia di poter uscire in libertà di casa senza dover controllare chiunque mi stesse intorno per paura che una pistola potesse emergere e scagliare il proprio fuoco contro di me perché era esattamente quello che il governo aveva invitato a fare, viva o morta.
    Ero forte e in gamba ma non mi spiegavo perché fossi riuscita a resistere così a lungo vivendo in una città non così sperduta, tutti i miei ex compagni erano spariti dalla circolazione ritirandosi chissà dove e probabilmente cambiando identità, io ero l'unica che continuavo ad essere ciò che ero stata, continuavo a portarmi in giro quegli origami a forma di volpe ed a non coprirmi i tatuaggi che oltre ad attirare l'attenzione rappresentavano un segno di riconoscimento inconfondibile.
    Ero molto impegnata nel sociale, era sotto gli occhi di tutti quanto io spendessi per aiutare i più deboli, non era un segreto il fatto che diversi cittadini di Besaid, ex senzatetto, erano riusciti a costruirsi una vita grazie a me e io ci avevo costruito un'organizzazione no-profit senza dirlo a nessuno, gli davo da mangiare e a volte soldi per tirare avanti. Questo li teneva fedeli a me, erano diventati i miei occhi in città e allo stesso tempo metteva in crisi il giudizio delle persone che non sapevano più se io facessi parte dei cattivi o dei buoni.
    Forse era questo che mi consentiva di vivere, catturarmi avrebbe certamente causato qualche disordine in città.
    Per questo avevo pensato di presentarmi alla stazione di polizia e consegnarmi di mia spontanea volontà sperando di trovare un accordo, sarei rientrata nell'esercito e mi avrebbero spedito da qualche parte, a combattere chi sa dove ma lontano dalla madrepatria, questo era il mio piano e non mi ero ancora resa conto che era una grande stronzata che non avrebbe mai funzionato.
    Per attuarlo dovevo però riprendere un rigido allenamento, uno di quelli che piaceva a me, fuori dalla palestra e all'aria aperta, la spiaggia era un ottimo posto per mettere sotto sforzo il proprio fisico, correre sull'asfalto o su una superficie piana è una cosa che possono fare tutti, la sabbia invece rappresenta un ostacolo aggiuntivo.
    Per complicare le cose avevo pensato di indossare un paio di anfibi, decisamente poco adatti alla corsa ma quando sei nell'esercito non puoi metterti le Nike, e avevo spostato la mia pista sul bagnasciuga, lì dove la sabbia è bagnata e ad ogni passo sprofondi.
    Nelle orecchie avevo le cuffie e non c'era nessun suono gradevole che potesse alleviare la mia corsa, solo registrazioni audio di conflitti in chissà quale parte del Mondo, scoppi, spari e urla seguiti da minuti di silenzio che facevano crescere ancora di più la voglia di correre ma anche se acceleravo la guerra era sempre lì, nella mia testa e mentre quella confusione aumentava di volume un'altra cantilena si sollevava ma questa volta proveniva dalla mia voce bassa perché non era mia abitudine urlare o cantare, era più un bisbiglio.



    We play fair and we work hard and we're in harmony.
    M I C K E Y M O U S E

    Mickey Mouse. Mickey Mouse.

    Forever let us hold our banner high.
    High. High. High.

    Boys and girls from far and near you're as welcome as can be.
    M I C K E Y M O U S E

    Who's the leader of the club that's made for you and me?
    M I C K E Y M O U S E

    Who is marching coast to coast and far across the sea?
    M I C K E Y M O U S E




    Erano le sei e mezza del mattino e io stavo correndo da un'ora senza mai fermarmi.
     
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    #WARNING: omicidi, violenza e parolacce. Perché Poison non è una bella persona(?), anche se lo sembra.

    Phobos 'Poison' Schneider|19 y.o.|Chaotic criminal

    A volte si chiedeva se sarebbe finita. Se si sarebbe trovato a guardare l’alba pensando alla sua vita come un ricordo. Se si sarebbe trovato ad appendere la sua giacca al chiodo per dedicarsi semplicemente a qualcos’altro. Probabilmente sarebbe morto a breve in qualche sudicio vicolo di Besaid, solo come il cane che era sempre stato. Ma se avesse avuto un futuro? Se fosse arrivato un giorno in cui non avesse avuto più forze? A volte immaginava un’alba come quella, sulla veranda di una casa in riva al mare, piena di colori e suoni. Un violino appoggiato a terra, una fede tatuata sull’anulare, una tavolozza, una tela pronta a catturare quei colori. A volte immaginava di potersi lasciare alle spalle persino sé stesso, ciò che era, la sua vita, e ricominciare daccapo. Era come un premio, quel sogno, la fine di un’agonia, il momento in cui il caos avrebbe trovato il suo ordine.
    Non erano che sogni, quelli, nient’altro che sogni.

    Respirava a fatica, il vecchio. Con le nocche pallide cercava convulsamente di allentare il nodo della cravatta, anche se non era quella la causa primaria del suo senso di soffocamento. Per giorni e giorni l’aveva guardato decadere, per quei giorni ne era stato la causa. Si era logorato, il corpo di Mr. Richardson, divorato da quel veleno somministrato a gocce giorno dopo giorno. La sua pelle era divenuta pallida, quasi trasparente, i suoi occhi si erano venati di cremisi. I suoi muscoli avevano perso di volumetria, tanto da lasciare il suo corpo emaciato, come quello di una mummia. I capelli, un tempo candidi e folti si erano diradati e avevano perso luce, la sua bocca si era seccata e coperta di pelle morta. Come un cancro, un lento avvelenamento aveva divorato il fisico e l’aveva minato fino a condurlo a quella situazione irreversibile. I polmoni si erano ormai riempiti di liquido, i reni e il fegato avevano perso la loro funzionalità, il cuore stentava a sostenere quel corpo, già di per sé avanti con gli anni, ormai in stato di abbandono. L’aveva osservato, Poison, e imperterrito aveva portato avanti il suo compito, intrufolandosi in casa sua e sostituendo le sue medicine con un veleno che non avrebbe lasciato tracce nel suo sangue. Era questa la sorte che spettava a chi si opponeva alla Setta, a chi cercava di ostacolarne i piani: una morte lenta, dolorosa, di quelle che ti fanno sperare fino all’ultimo in una possibile guarigione. Di quelle di cui ti accorgi solo quando è ormai troppo tardi. Era riverso a terra, ora, Medoro Richardson, ex giudice in pensione che invece di godersi il meritato riposo nella sua villa a Besaid aveva deciso di non arrendersi e di mettere il naso dove non gli competeva. Lo osservava, Poison, senza battere ciglio, da dietro uno scaffale della sua grande libreria. Era l’ultimo atto quello, della recita che li aveva visti entrambi attori. Non faceva male, non provava nulla. Non era la prima volta quella, che Poison eseguiva un compito del genere. Era nato per quello, il bambino marchiato dalla morte, con le mani sporche del sangue di sua madre prima, e di altri poi. C’è chi nasce per fare del bene, per inventare nuove cure, per cambiare il mondo; e poi c’è chi nasce sull’altro piatto della bilancia, come l’altra metà dell’equilibrio, per spargere il male nel mondo e tenere fermo l’ago. Non era che una bilancia in fondo, quel mondo, non in bilico tra bene e male, ma tra vincitori e vinti.
    ”So che sei qui.” Pronunciò il vecchio, a fatica, continuando a guardare i decori del tappeto sul quale era riverso. Fu colto di sorpresa, il ragazzino, che fino ad allora aveva creduto di aver celato la propria presenza. Ma che avrebbe potuto fare, quel vecchio, senza più forse o speranza alcuna? Nemmeno estraendo il coltello che aveva in tasca mosse qualche passo in avanti, silenzioso come un’ombra, e si avvicinò a quella figura dolente. La bandana posta fin sopra il naso e il cappuccio della felpa calato non celavano all’uomo il suo sguardo. A che sarebbe servito, tanto? Forse nemmeno poteva vederlo, troppo impegnato a tossire sforzandosi. ”So chi ti manda, e ti perdono. Non sei che una pedina, anche tu, una vittima di tutto questo…” Non battè ciglio, quel bambino della morte. Non aveva detto che ovvietà, le ovvietà di un uomo che sempre aveva creduto nella giustizia. Non era una vittima, Poison, non lo era mai stata. Era nato marchiato dal sangue, come carnefice, come un lupo tra gli agnelli, e non aveva dovuto far altro che abbracciare la sua natura. Non c’era speranza di redenzione per coloro che, come lui, nemmeno la cercavano. E non se ne sarebbe fatto nulla del suo perdono, non se non si fosse sentito in colpa. Non era solo l’essere un semplice esecutore ad alleggerire il suo animo, non era questo a discolparlo. Era talmente abituato alla morte, ad esserne portatore, da essersi dipinto come la sua incarnazione. E che sia giusta o no, che la si perdoni o meno, la morte colpisce chiunque, senza chiedere spiegazioni e senza darne.
    Non rispose alle sue parole, il ragazzino che agli occhi di quel vecchio sembrava fatto d’ombra. E poi alzò lo sguardo verso di lui, l’uomo. Non si mosse, Phobos, mentre il suo cuore prese ad accelerare, quasi sentendosi scoperto di fronte a quello sguardo, attraversato da ciò che portava con sé. Era velato di lacrime, quello sguardo, intriso di paura. Aveva vissuto gran parte della sua vita, il giudice Richardson, eppure alla morte non si era mai pronti. Aveva paura, del momento del trapasso, poteva leggerlo in quello sguardo che ora lo aveva inchiodato al suolo, e lo teneva sotto accusa, incapace di muoversi o controbattere. ”Ti prego..” Implorò sforzandosi. Nessuna mossa riceveva in risposta, da colui che studiava le sue condizioni e la sua psiche, mettendo a repentaglio persino la propria. ”Ti prego, uccidimi. E’ questo il tuo compito, sei sempre stato qui per questo. Fallo, te ne prego…” Socchiuse leggermente le labbra, di fronte a quella richiesta disperata. L’ultima richiesta di un uomo che consapevole si inchinava di fronte alla morte e le chiedeva di prenderlo. Non chiedeva pietà, non chiedeva la salvezza. Chiedeva solo che fosse più breve, quel destino che entrambi sapevano gli fosse stato inflitto per ordine di Nero. Il carnefice, scosso nel profondo ma impassibile all’esterno, si avvicinò alla sua vittima, ancora di un passo. Gli era stato detto chi uccidere. Gli era stato detto di non lasciare tracce, e così era stato. Ma nessuno gli aveva detto come. Nessuno, se non lui stesso, gli aveva negato la pietà. Incrociò lo sguardo di quell’uomo morente, ora dannatamente vicino, e posò una mano velata dal guanto sulla sua guancia rigata di lacrime. ”Chiudi gli occhi, allora.” Forse sarebbe stato come addormentarsi. Forse sarebbe stato semplice. O forse no, perché il dono che Besaid gli aveva dato non era un qualcosa di caritatevole. Non sarebbe servito contatto fisico perché il veleno fluisse dalla sua mano all’organismo dell’uomo, sarebbe stato solo più veloce. Riconobbe la sensazione che spesso aveva provato. Era come se parte di sé, delle sue energie, si trasferisse nel corpo di un altro e iniziasse a invaderlo. Chiuse gli occhi, lui, come gli aveva ordinato, mentre il suo corpo iniziava ad essere colto da convulsioni sempre più fitte. Respirava male, il giudice, che piano si riverse con la schiena sul terreno e iniziò a soffocare col la sua stessa saliva. Ritrasse la mano, Poison, guardando gli ultimi istanti di quell’uomo come parte di un film. Non servì usare per molto la sua particolarità, su quel corpo ormai quasi morto. Non bastarono che una manciata di istanti perché gli spasmi si fermassero insieme al suo cuore. Ci furono rantoli, colpi sordi al pavimento, suoni gutturali. E poi il silenzio. Nemmeno i respiri erano più udibili in quella stanza, riempita solo dal ticchettio di un orologio a pendolo. Si fece indietro barcollando, il mietitore che quella notte aveva preso un’altra vita da donare al suo re degli spettri. Un’altra anima da mettere sulla bilancia, sul piatto opposto a quello in cui stava la piuma di Maat. Bilancia che l’anima di Poison, così gravata e logorata da quelle azioni avrebbe di certo fatto sballare.
    Tic tac, tic tac, batteva il pendolo.


    Guardava il sole sorgere sulla superficie piatta del mare, consapevole che quell’alba sarebbe stata forse la più bella che avrebbe visto. Che non ci sarebbe stato un futuro in cui quella vita sarebbe divenuta distante, in cui tutto sarebbe sembrato appartenere a qualcun altro. Nessuna casa in riva al mare, nessuna tavolozza su cui dipingere la quiete. Era nato marchiato dalla morte, Poison, e marchiato da essa avrebbe lasciato quel mondo.
    Non aveva lasciato tracce di quel delitto efferato, che a tutti sarebbe sembrata una morte naturale, eppure ne recava le conseguenze sulla propria pelle. Il sangue colava leggermente dal suo naso, i suoi sensi sembravano ovattati, la testa girava vorticosamente, mentre accompagnato dalle luci dell’alba camminava per quella spiaggia desolata. Succedeva sempre quando utilizzava la sua particolarità, c’erano delle conseguenze. Un monito, a ricordargli di non abusarne, di non infliggere morte se non necessario. Eppure aveva ceduto a quel briciolo di umanità rimasto nel suo animo, lo stesso che lo portava a sognare un futuro, lo stesso che lo spingeva ogni volta a tornare da Milo e quasi a convincerlo che nulla fosse accaduto. Era lì che avrebbe voluto tornare, da quegli occhi che mai lo avrebbero accusato, nemmeno se avessero visto quanto nera e putrida fosse la sua anima corrotta. Rimandò quel momento, quando le forze vennero meno e lo costrinsero a fermarsi. Si sedette con le gambe incrociate su una delle rocce che emergevano dalla sabbia, e respirò a pieni polmoni quell’aria fredda, asciugandosi gli ultimi rimasugli di sangue rappreso dal naso con la manica della felpa nera e perdendosi a guardare l’orizzonte.
    Perdendosi ancora tra quei sogni che forse, erano divenuti insieme al suo mondo immaginario il suo modo per non crollare. Probabilmente li avrebbe portati a Melor, quei colori, li avrebbe dipinti sul mantello di qualcuno di quei guerrieri. Dell’Aurora, che con la sua danza portava la quiete.
    Sfilò una sigaretta dal pacchetto e l’accese, inquinando i propri polmoni con quell’odore familiare. Non era solo, a quanto pareva. Qualcuno correva su quella spiaggia, con passo sicuro. Una ragazza, dal fisico esile e pesanti anfibi. Di certo una mise poco adatta alla ginnastica mattutina Malgy mode on, ma chi era lui per giudicare qualcuno? Le fece comunque cenno di rallentare, con il palmo della mano aperto, quando la vide andare dritta verso un ammasso di ferraglia in parte celata dalla sabbia. A volte le maree portavano con sé rifiuti di ogni genere, a volte erano le persone ad abbandonare quegli oggetti che poi divenivano relitti. Non che gli importasse granché della –non poi così tanto- sconosciuta (i suoi amici spacciatori gli avevano riferito di una specie di wonder woman che andava a in giro a fare la vendicatrice degli oppressi), ma aveva già visto abbastanza violenza per quella notte, e si sarebbe volentieri risparmiato la scena della ragazza che si falciava le gambe con i ferri arrugginiti.
    ”Ehi, splendore, occhio a quei ferri…” Esordì con tono calmo, indicando l’ammasso di ferraglia che spuntava dalla sabbia. Ma quella aveva le cuffie, probabilmente nemmeno l’aveva sentito. Cavoli suoi oh, lui la sua buona azione l’aveva fatta. Certo, bravo, vuoi un applauso Phobos?”. Espirò una boccata di fumo, che repentina si disperse nell’aria, senza staccare il culo da quella roccia, neanche ci fosse rimasto attaccato come Teseo e Piritoo. Continuò ad osservarla, distrattamente, senza scomporsi più di tanto.
    Mi chiamo Phobos Schneider, e la dannazione eterna è la mia condanna.
     
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  3. woweya‚
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    Ariel Olsen - 21
    Avevo incrociato un ragazzo lungo la spiaggia, doveva avere la mia età su per giù, forse leggermente più piccolo.
    Agitava le mani e per un istante avevo pensato di colpirlo in qualche modo, era un riflesso che non potevo controllare, ma dal labiale avevo intuito mi stesse avvisando di qualcosa ma capii tutto quando sotto la suola della scarpa sentii palesarsi un oggetto duro e sottile, doveva essere un piccolo paletto di ferro.
    alleggerii il carico su quella gamba per non farmi trapassare il piede da parte a parte ma nel farlo caddi a terra di lato, sentii qualcosa di freddo sfiorarmi la tempia, mossi le dita dei piedi, non ero paralizzata.
    Poi con la coda dell'occhio guardai a destra e a sinistra e scoprii che quei brividi di freddo erano provocati da un altro pezzo di ferro, pochi centimetri più in là e probabilmente ci avrei rimesso la vita, scoppiai in una risatina isterica, sarebbe stato veramente da stupide andarsene così.
    Mi alzai, avevo solo il braccio e il fianco leggermente tagliuzzati ma non era nulla di grave, nulla che un po' di acqua di mare non potesse disinfettare.
    Una volta in piedi riguardai il luogo del misfatto e scossi il capo e spostai tutta quella ferraglia più in là, verso la spiaggia dove avrebbe attentato meno alla vita delle persone.
    Mi tolsi pantaloni e scarpe e mi buttai in acqua, soffocai un grido di dolore tra le labbra serrate e tornai fuori guardando il ragazzo di prima. Avresti dovuto spostarle invece di fare il vigile Commentai quando ero ancora distante da lui.
    Arrivai davanti al suo personaggio e lo fissai per qualche istante Hai forse assunto droghe? Indicai con l'indice il suo naso, si vedeva ancora qualche macchiolina di sangue secco, non aveva fatto a botte, di quello ne ero sicura data la mancanza di lividi.
    Sfilai una sigaretta dal suo pacchetto e la appoggiai tra le labbra, mi sedetti al suo fianco mentre la accendevo, rimasi in silenzio, sembravamo una di quelle coppie da film con storie d'amore tra personaggi fuori dal comune.
    Interruppi il silenzio solo dopo svariati minuti Tu non mi hai mai visto ok? Dimmi cosa vuoi in cambio del tuo silenzio La mia voce era priva di emozione, sapevo che avremmo trovato un accordo perché io piacevo alla gente, non me l'ero mai tirata in vita mia e mai sarei diventata una snob, ero quel genere di persona che tutti amavano, una ragazza di bell'aspetto e semplice.

    Buttai fuori il fumo dalle labbra, ad ogni respiro il fianco mi doleva, guardavo l'orizzonte con sguardo perso, sapevo che non sarei potuta tornare a casa, non ora che avevo combinato quel casino, ero troppo al centro dell'attenzione e paradossalmente era più sicuro vivere per strada in quel momento.
    A volte avrei voluto tornare indietro e aver studiato come qualunque persona sana di mente invece di seguire le orme di mio padre, magari sarei diventata un medico o un avvocato di successo, invece ero solo una ricercata con problemi di ansia e manie di protagonismo.
    Mi piaceva essere così autonoma e non avere paura di niente, cioè di certo non volevo essere la ragazza che si scandalizza per qualche ubriaco molesto.
    Mi allungai verso di lui, era decisamente povero, non mi sarei stupita se mi avesse confessato di dormire su qualche panchina ma nonostante la mia vicinanza ai senza tetto non lo avevo mai visto.
    Mi allontanai per recuperare la mia roba e tornai da lui, presi da una busta una manciata di banconote, dovevano essere cinquemila corone, gliele infilai nella tasca, non avevo più parlato. Appoggiai la testa alla sua spalla Non è il mio modo di comprarti, consideralo un incentivo a darti una ripulita. Feci una pausa e buttai fuori altro fumo che a causa del vento ritorno indietro annegando i nostri volti. Ho bisogno di un posto dove stare per qualche tempo, non mi interessa cosa fai, non parlo con le forze dell'ordine, credo tu lo sappia Chiusi gli occhi per un istante, sembravo indifesa in quel momento, come se le emozioni avessero preso il sopravvento ma avevo imparato col tempo a relazionarmi con le persone a come ottenere il massimo con il minimo sforzo, con questo non voglio dire che non mi importasse nulla delle persone con cui mi relazionavo, ero solo diventata brava ad ottenere ciò che volevo.
    Avevo scoperto la potenza del contatto fisico, non del sesso, ecco se fossi stata un verme senza cuore probabilmente mi sarebbe bastato levargli i pantaloni per ottenere qualsiasi cosa ma non ero così, a mio modo la dignità l'avevo sempre conservata.
    Era sufficiente un abbraccio o un qualsiasi contatto fisico, era un modo per dire Ehy, non mi fai schifo.
    Guardai il mio braccio e lo lasciai ricadere, erano passati quindici minuti da quando mi ero seduta al suo fianco e ancora non sapevo il suo nome e sinceramente non mi interessava al momento.
    Rabbrividii quando una brezza gelida si alzò poco dopo, avrei potuto alzarmi e rivestirmi ma non ne avevo voglia, avevo bisogno di qualche minuto ancora di umanità per ricordarti che nel mondo non c'era soltanto odio e persone che mi davano la caccia.
     
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    Phobos 'Poison' Schneider|19 y.o.|Chaotic criminal

    Il caos è un moto perpetuo. Non conosce quiete, stasi o tregua alcuna. Si muove in maniera incoerente, senza una direzione e senza un punto d'origine. Come nembi di fumo si adatta allo spazio che trova, contamina ogni superficie che incontra, la muove, la divora.
    Nulla sembrava riuscire ad acquietare il caos che regnava nell'animo di Phobos Schneider; non un'alba silente, non il suono di un pianoforte. Nemmeno Milo ci riusciva, ma semplicemente si adattava ad esso, modellandosi ogni volta affinché la sua non-forma non dovesse scontrarsi con qualcosa. Erano solo quella sensazione di torpore, il freddo del mattino e i colori dell'alba a far sembrare quel caos più distante da Poison, solo elementi in grado di distrarlo a dargli l'illusione di aver raggiunto un equilibrio. E lui era abituato ad essere caos puro, senza vincoli o limiti. C'era qualcosa però che lo turbava in quel momento, un briciolo di umanità che molesto iniziava a mettere in dubbio la legittimità delle sue azioni. Il germe di una regola sociale inventata da chissà chi che induceva a ritenere sbagliate alcune cose, e giuste altre. Per la prima volta un briciolo di empatia si era manifestato nella sua coscienza, rendendo la morte di qualcuno un elemento su cui riflettere. Probabilmente era solo stanco, e l'indomani avrebbe dimenticato quella fastidiosa sensazione. È un lavoro come un altro , si disse. Persino la sua buona azione quotidiana sembrò essere andata a puttane, dato che la tizia che correva per la spiaggia nemmeno si filò il suo avvertimento e rotolò malamente sui ferri occultati dalla sabbia. Fece per dire qualcosa e poi si arrestò. Possibile che sempre lui dovesse trovarsi in quelle situazioni? Non poteva, che so, caderci da sola o insieme a qualcun altro? Ora avrebbe persino dovuto alzare il culo ed andare a raccoglierne i pezzi? Bella scocciatura, davvero. Per fortuna non era morta ah meno male eh solo leggermente ferita. La vide rialzarsi in piedi in fretta, quasi più preoccupata di mostrarsi sana che della sua reale condizione fisica. Da brava cittadina(?) si premurò persino di spostare i ferri. Per poi iniziare a spogliarsi e andare a fare un piacevole bagno nel gelido mare norvegese. No, aspettate, WHAT? Poison seguì i suoi movimenti perplesso, con una poker face dipinta in volto. C'era da aspettarsi che a quell'ora girassero solo assassini e matti sotto al porticato di Teramo CENDODIGIOTTOOOO per quella spiaggia, ma tra tutti aveva beccato proprio l'elemento più tarato. Non gli pareva fosse una tossica, anzi, a quanto ne sapeva era più somigliante a uno sbirro. Insomma, non aveva mai avuto a che fare con lei...ma chissà, a Besaid c'erano più spacciatori che foglie sugli alberi, magari era una della North side. Senza fare una piega, e sbuffando l'ultima nuvoletta di fumo prima di gettare la sigaretta, restò ad osservare i suoi movimenti, con la testa da un'altra parte, fin quando non decise di uscire ed avvicinarsi a lui. Avrebbe anche dovuto fare conversazione? Pff, quella giornata non sarebbe mai finita.
    Avresti dovuto spostarle invece di fare il vigile. Alzò un sopracciglio, diffidente. Dire a Poison che "avrebbe dovuto" fare qualcosa era una partita persa. Lui faceva solo quello che voleva, quando voleva, come voleva. "Avresti potuto guardare dove mettevi i piedi invece di inseguire le farfalle". Controbattè, per nulla mosso verso un eventuale senso di colpa. La vide scrutare il suo volto, seria, e poi indicare il suo naso. "Hai forse assunto droghe?" Il ragazzo restò con la bocca semi aperta, allibito da quella domanda. A parte che, stordito com'era, non aveva capito subito da cosa lei avesse potuto notarlo, ma poi...ma di quali cazzi andava ad impicciarsi? "Ti sembrano domande da fare a uno sconosciuto?" Ribattè seccato quasi lei fosse stata maleducata. Quello era forse uno dei rari momenti in cui Phobos non era sotto l'effetto di qualche sostanza, un momento da incorniciare(?). Certo, test anti-droga non ne avrebbe passati. Si tirò indietro senza alzarsi, strofinandosi di nuovo il naso, su cui era rappreso ancora un po' di sangue. Perché nessuno pensava mai che le persone potessero soffrire di normali epitassi? Pff, gente malfidata! Non si mosse, anche se osservò i suoi movimenti, mentre lei senza nemmeno chiedere si prendeva una sigaretta dal suo pacchetto e si sedeva accanto a lui, ancora mezza nuda e bagnata fradicia, come fossero vecchi amici pronti a parlare delle loro pene d'amore davanti a quell'alba quieta. "Non mi hai mai visto ok? Dimmi cosa vuoi in cambio del tuo silenzio." Quasi al rallentatore, si voltò di nuovo verso la ragazza, con un'espressione ancor più perplessa dipinta in volto. "Sai che cazzo me ne frega di quello che fai e di dove vai?" Indicò eloquentemente il mare di fronte a loro. Quella era esattamente la misura della vastità del cazzo che gliene fregava a Poison dei problemi altrui. L'idea però di trarre un profitto dalla cosa lo sfiorò per un istante. Non che fosse il tipo che faceva soffiate agli sbirri, comunque. Lui era quello che restava nell'ombra e in essa si muoveva, che non si faceva notare, che come un serpente attendeva le sue prede sotto ai sassi. Mettersi a fare lo spifferatore e farsi notare tanto non era esattamente tra i suoi progetti. E se c'era una cosa che aveva imparato in galera, era che l'infamia nel mondo criminale è considerata esattamente come un reato in quello civile. "Chi ti cerca?" Chiese, immaginando la risposta, e soppesando così l'idea. Se fosse stato qualcun altro a cercarla, magari qualcuno legato alla setta o a qualche suo aggancio, magari avrebbe potuto considerare l'idea di venderla. E vendersi, in effetti, questo era quello che aveva sempre fatto. Cedere al miglior offerente era e sempre stato il suo modo di sopravvivere, la sua fonte di sostentamento, la base su cui aveva costruito ciò che era ora. Cedere a chi invece non offriva nulla, ma a cui lui aveva voluto offrire qualcosa era stato diverso. Aveva ceduto le sue capacità, la sua forza, la sua vita agli ideali di Libra semplicemente perché questi erano per lui uno scopo da perseguire, un modo per riempire le falle che la sua esistenza presentava. Aveva ceduto il suo cuore ad alcune persone senza nemmeno rendersene conto: un cuore che per lui non aveva valenza alcuna. La sfacciata vendicatrice degli oppressi si allontanò da lui, lasciandolo per un momento libero di dar sfogo ai suoi pensieri, che presto ritornarono ad affollarsi delle immagini di ciò che era successo pochi istanti prima. Il volto di quell'uomo, la sua supplica tanto straziante da aver mosso la coscienza che nemmeno credeva di avere, il dubbio che alla fine si era insinuato subdolamente nella sua mente: se giusto e sbagliato esistessero, questo cosa sarebbe? Non smise comunque di osservare quella tipa, carina certo, ma dannatamente pericolosa per la sua posizione, e stramba al punto giusto. La vide tornare accanto a lui, maledicendosi per non essersela svignata appena lei aveva voltato le spalle. Voleva solo tornare a casa, Poison, chiudersi al buio e fingere che non fosse giorno, che ci fosse ancora abbastanza tempo per lasciare che le ombre rimanessero invisibili. "Non è il mio modo di comprarti, consideralo un incentivo a darti una ripulita". La ragazza gli infilò tra le mani un pacco di soldi. "Ma che cazzo..." Sibilò. Chi cazzo andava a correre in spiaggia la mattina all'alba con addosso tutti quei soldi,e li dava alla gente per comprarla? Quella doveva essere matta, completamente andata. "Una ripulita...da cosa?" La guardò con faccia schifata. Quella sua affermazione esprimeva un tacito giudizio. Forse lo considerava un drogato -ed era vero-, un poveraccio -ed era vero-, magari sapeva della sua attività di spacciatore -vero anche quello. Ma cosa diavolo le faceva credere che lui volesse "darsi una ripulita" come diceva lei, o cambiare qualcosa nella sua vita? A lui la sua esistenza stava bene così. Se avesse voluto cambiare una vita, beh, quella era la vita di Milo. Solo per lui desiderava qualcosa di migliore, solo per lui avrebbe auspicato un'esistenza meno dura, fatta di benessere e sogni da realizzare, e non di criminalità e lavoro per niente gratificante. Come se ciò non fosse bastato, la tipa gli si accozzò, appoggiandosi alla sua spalla. Poco avvezzo al contatto fisico e a tale mancato rispetto degli spazi altrui, Poison si irrigidì come quando prendi su i gatti che un momento prima stavano facendo le fusa e li fai sporgere dalla finestra e ritrasse di qualche millimetro, sgranando gli occhi azzurri e schiarendosi la gola. " Ho bisogno di un posto dove stare per qualche tempo, non mi interessa cosa fai, non parlo con le forze dell'ordine, credo tu lo sappia". Ah, ecco dove voleva arrivare. I soldi, le smancerie, le premure...tutti avevano un secondo fine, persino coloro che si ritenevano persone integerrime. Sbuffò, chiedendosi quale strana congiunzione astrale fosse in atto in quel momento, e perché quel giorno gli fossero richieste tali opere di carità. Magari quello era un modo che il fato aveva per raddrizzare l'ago della bilancia. Una morte e una vita. Quello gli veniva chiesto in poco più di due ore. Ci pensò un attimo...in fondo non aveva nulla da temere. Chiunque entrasse nell'orbita di Poison accettava tacitamente di venir controllato da lui, di sottostare alle regole del rispettare gli spazi e le coscienze, di rispettare per essere rispettato. "Ok ma niente coccole" Cercò di divincolarsi facendole pat pat sulla testolina. "Io non faccio domande, tu non fai domande, ma ti tengo d'occhio". Era una minaccia quella? Certo che lo era, ed era necessaria. "Ci sarebbe la vecchia fabbrica di scarpe abbandonata vicino al Luna Park. È veramente messa male, e non posso assicurarti che non ti crolli addosso e che non ci piova dentro. Ma posso far si che nessuno ti disturbi lì". La piccola fabbrica caduta in disuso già negli anni '70 era dotata di un laboratorio dismesso e di un magazzino in cui c'era roba non ben identificata. Nessuno ci andava mai, se non qualche coppietta amante del fetish a scopare. Ed era nella zona controllata dal ragazzo e dalla sua gang, un posto relativamente sicuro, in cui nemmeno si andava a spacciare. Al massimo qualche cacciatore di fantasmi avrebbe potuto avventurarsi lì, ma a quanto ne sapeva non ce n'erano molti a Besaid, e al massimo l'avrebbero scambiata per una barbona. Non era una reggia, ma di certo non poteva pretendere che la ospitasse nella sua roulotte, che era comunque sempre troppo affollata per i suoi gusti. Nemmeno lui sapeva perché l'aveva fatto -oltre che per i soldi. Nonostante il suo essere egoista, Poison aveva un debole per i casi umani come lui, questo era evidente. "Hai un nome o posso continuare a chiamarti Pazza della spiaggia?" Chiese, continuando a discostarsi e mai ricambiando il suo abbraccio. Se c'erano braccia tra le quali avrebbe voluto cadere, erano quelle che non l'avevano mai cinto.

    non ho riletto sono a lavoro sorry. Il correttore del telefono potrebbe aver fatto magie.
     
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  5. woweya‚
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    Ariel Olsen - 21
    Il ragazzo sembrava piuttosto schivo e allergico al contatto fisico, non sembrava uno tanto a posto ma in fin dei conti non ero neppure io, rifiutò i miei soldi e la cosa mi fece pensare che non fosse uno che si vendeva facilmente, quel pensiero balenò nella mia testa per pochi istanti ma poi il mio istinto di sopravvivenza mi ricordò che chiunque ha un prezzo, forse non era abbastanza o forse non si fidava ancora del regalo di una sconosciuta.
    Lo guardai a lungo e mi bloccai Rispettami e io non rivelerò nulla su di te, potrei diventare anche la tua unica salvezza se solo me lo chiedessi Mormorai mentre riflettevo sulla sua proposta che decisi di reclinare Non se ne parla, non ti conosco e se tu vuoi offrirmi un posto ci devi venire con me, devo essere sicura che non farai scherzi. Fissai l'orizzonte Quindi ti rifaccio la domanda Vuoi darmi un letto per qualche giorno? Avrei preferito trovare una soluzione alternativa piuttosto che farmi buttare in una vecchia fabbrica dove sarei stata alla merce di chiunque. Lui sarebbe stato a conoscenza della mia dimora temporanea e avrebbe potuto anche chiamare la polizia in cambio del compenso, non dovevo fidarmi di nessuno, solo di me stessa.
    Storsi il naso quando mi chiese del suo nome, era forse scemo? Mi stupivo ancora del fatto che ci fossero persone che non mi conoscevano. Alzai il sopracciglio Non posso dirtelo, se te lo dicessi saresti in un sacco di casini e non escludo che dovrei farti sparire Poggiai la mano sul suo mento E non è una frase per fare la figa Recuperai dalla tasca dei pantaloni un pezzo di carta e lo piegai e ci giocai per un minuto e ventotto secondi, aprii il palmo della mano e glielo porsi in regalo, era uno dei tanti origami a forma di volpe che lasciavo sui posti in cui ero stata, di solito sui luoghi del delitto.
    L'ultimo che avevo lasciato era stato alla palestra di Besaid, lì dove avevo sparato ad un tossico per allontanarlo dalla ragazza che stavo proteggendo per conto di un riccone.
    Glielo misi tra le mani, magari gli avrebbe risvegliato qualche ricordo. Due sagome si avvicinavano, camminavano lungo il bagnasciuga lentamente, parlavano tra di loro, indossavano una polo bianca e dei pantaloncini sul verde scuro, una macchia rossa su entrambe le polo mi faceva pensare facessero parte di qualche istituzione.
    Mancavano circa centocinquanta metri quando riuscii ad identificarli, facevano parte di una società per il controllo delle spiagge, facevano avanti e indietro dodici volte al giorno per controllare che non ci fossero commerci illegali o situazioni di pericolo.
    Mi irrigidii, dal mio polso pendeva un piccolo braccialetto con attaccata una sfera di ridotte dimensioni, sembrava a tutti gli effetti un souvenir.
    Voltandomi abbracciai il ragazzo, il mio scopo era chiaro, spacciarci per una coppia a tutti gli effetti, premetti sulla sfera con un dito e una piccola lama uscì da essa, gli lasciai un leggero bacio sulla guancia e poi mi spostai sul suo orecchio Fai qualsiasi cazzata e mi assicurerò che la tua giornata finisca qua sussurrai mentre con una mano lo tenevo per la maglietta. Baciami il collo Gli ordinai mentre io nascondevo il volto contro di lui, cercavo di usare l'udito per capire dove si trovassero i miei nemici, il mio corpo era pronto a scattare, fremeva come quello di un leopardo prima di saltare contro la sua preda.
    Teniamo a bada gli ormoni, questo è un posto per famiglie Disse uno dei due.Io continuavo a non volermi mostrare in volto Stai zitto mormorai all'orecchio del ragazzo. Mi staccai da lui e lo guardai negli occhi continuando a dare le spalle ai due vigilanti che non sembravano nemmeno tanto interessati a noi, si erano fermati a conversare tra di loro, raccontavano delle rispettive mogli e di quanto fossero così un peso per la loro vita.
    Mi alzai e mi rimisi i pantaloni, presi la mano del ragazzo e me lo trascinai dietro, in direzione opposta alla loro, ritirai la mia arma di emergenza e tenni la mano di lui stretta per i successivi duecento metri, non fiatai fino a quando non lo liberai dalla mia presa. Ho sentito parlare di una certa setta, ne sai qualcosa? Era da diversi giorni che mi arrivavano indizi sulla presenza di una specie di organizzazione segreta che svolgeva attività criminali nella zona e sebbene non fossi un'amante di questo genere di cose mi premeva saperne di più, a volte le persone del governo si rivolgono a loro per disfarsi di persone scomode ed io facevo parte di questa categoria.
     
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4 replies since 16/2/2019, 13:30   182 views
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