I saw all the mirrors on earth and none of them reflected me..

Frida e Naavke

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  1. -Lisbeth
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    “Io sono la pausa tra due note che formano un vero accordo; cosa affatto rara, perché la nota della Morte tende a dominare. Ma le due si riconciliano nell'oscuro intervallo, tremanti; e la canzone resta immacolata”.

    Due note. E poi più nulla, solo silenzio. Vita e morte che si confrontavano con ferocia in un ballo mascherato, un passo dopo l’altro, verso la nascita e l’oblio, la luce e l’oscurità. E nel mezzo, una pausa, che poteva durare il tempo di un’esistenza intera o di una breve canzone, Durante la quale il musicista come un abile prestigiatore cercava di ingannare il tempo, rinchiudendolo e intrappolandolo in una stasi malinconicamente eterna, alternando il sentire emozionale delle proprie dita a una tecnica cospiratrice così abile nel creare pathos e colori senza l’uso dei gradienti, che anche la Morte arretrava il proprio passo mettendosi ad ascoltare. Un canto orfico fatto d’amore, un oscuro intervallo dalle capacità salvifiche, ma anche con la potenzialità di uccidere in ogni attimo una piccola parte dell’animo umano. Si moriva d’amore o era la morte a voler dominare l’oggetto privilegiato delle rime dei poeti nell’ultimo e orgasmico amplesso finale? Era un caso che proprio la notte fosse il tempo o il palcoscenico degli amanti, in quell’ora più profonda che era quella dei sogni più belli? Si poteva amare e vivere di notte per poi consumarsi poco a poco ad ogni sorgere del sole; l’oscurità era profonda, come lo poteva essere un folle e pazzo amore, a differenza del riverbero che non lo era, così preso dalla propria egoistica essenza luminosa. Invece l’amore come la notte faceva tremare i cuori oltre che i polsi, portandoli ad accordarsi insieme, ma li induceva anche a battere a sorpresa, senza nessuna disciplina, ancora una volta. Oppure a scappare, a non mostrare mai veramente le proprie ferite, perché se si nasceva con la paura della morte, forse dentro di sé si aveva anche il timore inconfessabile del sentire troppo o troppo forte. Una paura di specchiarsi e vedere nell’altro gli stessi squarci sanguinanti e quell’amore racchiuso in un’insignificante pausa che poteva significare tutto dunque per alcuni. Attesa che diveniva creazione, arte per altri; la lama del coltello che affondava nella tenerezza della carne, morte in altri. Medicina e veleno che si sfioravano, guardandosi e intrappolandosi in un doloroso abbraccio, baciato dalla profondità di una notte che piangeva stelle come lacrime dorate, solo in apparenza pallide e offuscate del nostro pianto, ma che in realtà bruciavano incessantemente al loro interno. Sedeva la donna davanti a uno specchio, i fini capelli dorati scompigliati dall’alitare del vento che portava con sé la brina cangiante dell’inverno di Besaid e ne accarezzava con la mano gelida l’incarnato liscio come un vello di seta. Le labbra si tesero all’insù, laccate di un rosso simile a quello di un’ottima annata di vino, corposo armonioso e di razza, esercitandosi in un sorriso pronto per essere indossato, facendolo proprio come una seconda maschera, fatta di cortesia e curiosità, fascino e qualche bugia presi in prestito da vecchie foto ormai scolorite e da un ricordo spuntato dai recessi di una memoria ferita che l’avrebbe fatta sentire meno sola e inadatta in un ambiente che non le apparteneva. Pallida e mutevole, quasi dimenticandosi di respirare, avvertì la musica arrivare ed essa di suo spalancò le porte senza nemmeno prendersi prima la briga di bussare. La donna ne percepì anzi con un sussulto l’invasione prepotente e violenta nei propri spazi, inspirandola come se fosse una folata di vento, ma che era invece l’inizio della caccia selvaggia. Ne riconobbe immediatamente il talento mischiato alla voglia di essere quella musica, un insieme magistrale di abilità manuale e ritmo incalzante, ficcante, che non lasciava tregua. E quando sembrava darla, ecco che la caccia ricominciava. Brutale, selvaggia, appassionante. Le sue dita affusolate si mossero armonicamente e si intrecciarono sistemando l’abbozzo di treccia che le scendeva su per le spalle nude fino a scomparire sulla schiena, mentre nella stanza l’eco di una serie di accordi ribattuti dal ritmo irregolare, qui dolci e lì arrotondati, ne accompagnarono la vestizione. Di nuovo in piedi il proprio corpo si flesse, aderendo perfettamente all’abito dorato che l’avrebbe accompagnata durante la serata, un piccolo cimelio di famiglia, un indizio nascosto che lei non poteva sospettare che forse sarebbe stata un’offerta fin troppa ghiotta per il cacciatore da parte della preda o ancora solo la curiosità di giocare per una volta con la propria identità, proprio come faceva il fratello per sviarla, ricacciando indietro i propri abbracci, mutando il proprio aspetto ma non il proprio cuore. Avrebbe voluto così tanto Frida capire Cal come si sforzava di comprendere e amare chi aveva accanto, Scrutare cosa si celasse dietro all’oscurità di lui, salvarlo e non più dimenticarlo. Girò su se stessa, una, due e più volte, il ritmo ora era ridivenuto di nuovo più ruvido e brutale, e lo specchio indifferente sembrò restituirle l’immagine di qualcun altro, un dipinto surreale ma così tremendamente reale: la musica aveva evocato il passato e i fantasmi che infestavano la dimora, la suggestione e la sua fantasia avevano fatto il resto. La casa cessò di suonare, tornando ad essere la solita dimora austera e cadente e così anche Frida smise di muoversi, come la ballerina dal sorriso artefatto di un carillon dall’ingranaggio inceppato, sedendosi, di nuovo in attesa. L’attesa del resto era stata una condizione che aveva accomunato lei e Cal per molto tempo, per il resto i fratelli Hagen apparivano così differenti anche mentre suonavano. Lui così indisciplinato e pronto a sfiancarsi, il corpo che si torceva smanioso, per compiere i passaggi più arditi lottando al contempo con la propria mente che funzionava in un modo tutto proprio, a contraltare di una capacità di concentrazione impagabile verso ciò che gli rapiva il cuore. Lei invece così eterea e sognante anche quando suonava, un’incantatrice di occhi e cuori, eppure non lasciando mai che la musica la controllasse o ne limitasse gli altri interessi o svelasse i tanti segreti che si portava dentro, anzi evocandone altri e ingannando con la propria essenza duttile e mutevole. Ma mai con cattiveria, quello no. Solo con un pizzico di opportunismo, guidata com’era una volta cresciuta, dal desiderio di non rimanere intrappolata troppo tempo nell’immagine ideale che gli altri avevano sempre avuto di lei e in cui sembravano volerla rinchiuderla ogni volta. Lui virtuoso con abilità circensi fine a se stesse sembrava sfidare le note, servendosene per poi abbandonarle, lei inevitabilmente trascendentale e raffinata, ondeggiava fra la paura e il recondito desiderio di lasciarsi andare a quegli stessi sentimenti di meraviglia ma anche di sofferenza che portava riflessi negli occhi divisi fra l’onirico e il reale. Era per questo che non suonava da tanto, non poteva permettersi di essere così emotiva, fragile, addolorata e spezzata.. con un violino incastrato fra le mani. Come lo era invece nei pensieri più fuggiaschi che sembravano trovare sfogo solo durante le proprie sedute o nei propri incubi. Ma di quelli non parlava mai veramente con nessuno e con chi ne avrebbe dovuto discorrere in fondo? Erano sempre stati gli altri quelli da aiutare, da curare, da amare, e se il passato sembrava sfuggirle dalle dita come fine pagliuzze di grano, non desiderava perdere anche la Frida che era stata, quando si esibiva. Quei ricordi nessuno poteva strapparglieli, non ancora, non voleva, doveva serbare il controllo almeno su quella parte della propria memoria, anche al costo di rinunciare a qualcos’altro. Aveva scovato un vecchio baule dimenticato in cantina, che profumava di ricordanze e segreti, non sapeva dare che pochi nomi ai volti delle foto sgualcite e rovinate che vi aveva trovato dentro seppellite fra cianfrusaglie e vestiti. Parenti, amici, forse qualche nemico. Chi poteva dirlo, dal suo ritorno a Besaid aveva riacquistato pochi ricordi, ma Frida Johannessen non era abituata a forzare il corso del tempo, né a farsi dominare da esso, era Alice che seguiva il bianconiglio attraverso lo specchio per poi perdersi, ma anche tornare; la sua vita era sempre stata fatta di indizi e tracce, vicoli ciechi e sentieri imboccati all’improvviso. L’istinto le diceva di continuare a provare, forse sarebbe stato l’inizio di una nuova fase della propria esistenza o forse solo un ritorno alla famiglia e alla serenità che le era sempre mancata. Nel baule oltre alle foto e al vestito che indossava, aveva trovato anche una maschera di velluto. La stessa che la donna della foto recava indosso e che Frida aveva appeso allo specchio. Nera come i tasti, le alterazioni, di un pianoforte; nera come la notte che penetrava nella stanza attraverso la finestra aperta; nera come il manto oscuro della morte che vegliava su loro umani e la cui ombra seguiva la donna da un giorno di quasi un anno fa o forse da molti anni prima. Nera come certe anime di chi sfiorava per volontà o puro caso la vite altrui. Con la stessa enigmatica maestria delle dieci dita di un musicista che tessevano il bianco delle note. Il suo cappellaio matto personale entrò nella stanza, osservò la sorella di spalle cinta in un tessuto dorato che la faceva assomigliare a una stella cadente; la paura strisciante che qualcuno un giorno potesse portarla via di nuovo lontano da lui gli incrinò di un po' il cuore, ma non trovò espressione sul viso da eterno bambino. Cal Hagen rimase in silenzio, senza dire nulla come al suo solito, e lei fece finta di non accorgersi della presenza di qualcun altro nella stanza, assorta com’era fintamente nei propri pensieri, in realtà consapevole che se si fosse infine girata, lui le avrebbe voltato le spalle e sarebbe scomparso. Non si guardavano mai dritti negli occhi i fratelli Hagen se potevano evitarlo, i loro sguardi si riflettevano in degli specchi o negli altri, ma mai in loro stessi, lui apparentemente la ignorava, lei lo ricercava. Lui rimaneva senza parole, lei cercava di stimolarlo. Scalfendo o almeno tentando di intaccare quell’aspra corazza da cui si era fatto circondare da quando era partita. Ma in realtà lui le aveva già parlato a sufficienza quella sera e lo aveva fatto nell'unico modo adatto che conoscesse, con la musica, la loro musica. La sorella sarebbe stata come sempre in grado di interpretarlo, loro spiavano non visti l’uno le debolezze dell’altro, con intenti diversi certamente. Una delle mano della donna teneva stretta a sé quasi con rabbia una foto, il ritratto di una donna e di un uomo con lo sfondo di un dipinto; l’altra invece sembrava rifuggire quella maschera nera, rimanendone però inevitabilmente attratta. Sto per andare al ricevimento al museo, mi sarebbe piaciuto averti con me stasera. Ti avevo lasciato l’invito in camera.. Frida fu ben attenta a non alzare lo sguardo verso lo specchio in quel momento, immaginandosi da sola il sorriso beffardo che doveva essersi dipinto - come un ghigno - sul volto di Cal, sorridendo di rimando anche lei.
    Devo aspettarti alzato? Touché. Questa volta l’occhiataccia della donna incrociò per un momento l’espressione maligna del ragazzo biondo proprio dietro di lei, che però venne subito catturata da altro. Lo guardo di sottecchi per un momento, ma lui sembrava concentrato sulla foto che la donna teneva ancora fra le dita. Represse l’istinto di gettarla via, così d’avere nuovamente la completa attenzione del fratello o fingere che fosse così, anche solo per un breve istante.
    No, grazie ma non ficcarti in qualche guaio.. Ok? Più lei si mostrava amorevole, più lui scrollava le spalle distaccato, quasi sorpreso e infastidito che qualcuno potesse preoccuparsi così tanto per un’anima persa come si sentiva dentro segretamente il giovane Hagen. Nessuno prima di lei lo aveva fatto, per la loro famiglia era stato sempre e soprattutto un peso, un segreto da nascondere, uno dei tanti. Lui per la sorella avrebbe scelto una maschera bianca, non nera. Non assomigli per nulla alla mamma, Frida..
    Gelido e distante, una mancanza di empatia probabile conseguenza della patologia di cui soffriva o forse solo una delle sfumature di un carattere difficile, schietto e introverso: tutto quello e tanto altro era Cal Hagen. Quella stilettata verbale fatta di poche e secche parole prese la donna in contropiede e colpì Frida dove faceva più male. Nel ricordo di una donna, una madre con cui aveva condiviso lo stesso tetto per un decennio, senza serbare per questo nulla di lei nel presente, se non proprio l’esteriorità. Non accorgendosi che forse il fratello aveva inteso altro come al solito. Per lei sua madre era sempre stata Inge, anche dopo tutto quello che aveva scoperto e sofferto sulla propria pelle. E a chi? La voce della giovane donna si colorò di una nota tremante, aveva ora intuito a cosa o a chi si riferisse, era una domanda sciocca che non avrebbe probabilmente trovato risposta, superficiale, ma alle volte erano proprio le cose ovvie che sfuggivano alla vista. Il musicista diventato per un attimo cacciatore, si allungò in avanti e le strappò la maschera dalle dita, rigirandosela fra le mano stranamente impaurito, era stato per troppo tempo una vittima per non saper cogliere il pericolo che si celava dietro le maschere immaginarie e no, per poi decidersi titubante a calargliela sugli occhi. A nessuno.

    Il museo più importante di Besaid era ospitato in un edificio dalle fondamenta solide, con uno stile architettonico classico che faceva dell’eleganza eterna delle forme, lo scrigno ideale per custodire i prodotti più meritevoli e innovativi dell’arte del loro tempo. Tradizione e modernità in altri contesti avrebbero cozzato l’uno con l’altro, ma non lì, anche perché spesso si dimenticava che molte delle opere d’arte più amate erano state nel loro tempo una frattura con la tradizione dell’epoca. L’arte figurativa era stata la regina indiscussa dell’espressione pittorica per millenni, invece agli inizi del ventesimo secolo si era sentita l’esigenza di provare qualcosa di totalmente differente, almeno a livello concettuale, come l’astrattismo o il cubismo. Vi era stato lo svelamento dell’inadeguatezza delle forme e dei colori in quell’era così fluida, veloce e diversa dalle precedenti. Il velo era stato sollevato. Ma si era sempre figli del passato, perché le proprie origini erano lì e gli uomini non potevano farne a meno, e quello era anche il tema dell’evento che l’università di Besaid, in particolare i dipartimento di studi storici e artistici, avevano proposto al direttore e curatore del museo. Una raccolta fondi che avrebbe avuto come tema quello di una festa in maschera, con la partecipazione di figure di spicco della cittadina, e avrebbe preso vita in uno degli ambienti culturali più dinamici e sulla bocca di tutti nella piccola e misteriosa Besaid. Lo spunto poteva essere interessante se affrontato nella giusta maniera: il confronto fra la festa tipicamente cristiana del Carnevale, senza dimenticarsi le evidenti influenze greco romane alla sua origine, e il tema mitologico folkloristico della Grande Caccia tipica dei popoli scandinavi, che vedevano in molte varianti del racconto mitico il dio Odino in persona a guidarne le schiere infernali e caotiche. Ci poteva essere stata un’influenza reciproca fra due tradizioni così apparentemente diverse o erano l’una indipendente dall’altra? E come l’arte aveva interpretato il ruolo della maschera, elemento comune delle sfilate di travestimenti del carnevale, ma anche delle notti d’inverno con cui i popoli norreni celebravano in riti sfrenati la fine della stagione dei viaggi e l’inizio di quella dedicata alla caccia? Un ordine prestabilito che veniva rovesciato, anche se solo per un breve periodo, lasciando spazio al caos. Così lo schiavo poteva divenire il padrone, il povero il ricco, un sant’uomo un demone. Ci si mascherava per nascondersi o per dare sfogo alla propria personalità? Del resto l’arte del Novecento era qualcosa di ambiguo, di stupefacente anche in senso negativo, spesso non si cercava l’armonia, ma al contrario la rottura e lo strappo, si voleva trasmettere il movimento e la frammentarietà del tempo, la sua velocità tramite la simultaneità. Non vi era più un solo punto di vista, la prospettiva veniva distorta o messa in dubbio, sovrapponendo i livelli di narrazione, non più solo oggetti e figure fisse e congelate nel tempo, ma fluide, catturate nelle loro mutevolezze, nelle loro mancanze e anche nelle loro storture. Veniva a rompersi il limite ideale fra tela e spettatore, incominciavano a sparire i confini. Le forme distorte che più che vissute passivamente, dovevano essere interpretate. Non più esaltazione dunque di un ideale o di un messaggio universale, del vero o del sublime, ma la volontà di comunicare la fragilità dell’espressione umana in un mondo nuovo, dove erano possibili infinite interpretazioni, ma non si poteva dire quale fosse più aderente all’intento di chi creava. Da qui l’enigma e le atmosfere oniriche del surrealismo. E per questo uomini e donne mascherati si aggiravano chi timidi chi sfrontati in quell’ambiente allo stesso tempo elegante e provocatorio, spiando da dietro le loro maschere quadri, installazioni, documenti e discorsi. Nascondevano il viso, ma forse non la loro vera indole, protetti com’erano dall’anonimato. Una donna fasciata da un impalpabile vestito dorato che la faceva risplendere come un gioiello prezioso dai riflessi ambrati, li osservava, attenta, ascoltandone i discorsi curiosa. Nessuno sembrò volerne disturbare la solitudine, limitandosi a guardarla da lontano, cercando forse di capire chi si nascondesse dietro la maschera e le apparenze di donna sbucata da un altro tempo, da un antico ritratto o da una vecchia voto dai colori ormai consunti. Fino a quando un uomo dalla stazza tarchiata e rubiconda e con un sigaro spento nella bocca si avvicinò a lei con due flûte in mano. Senza accompagnatore mia cara Frida? Il professor Richardson l’aveva riconosciuta subito, nonostante il piccolo travestimento. Non sapeva se esserne lieta o meno, lei che si sentiva così banale, gli altri che continuavano a coglierne la particolarità. Devo essere una compagnia troppo noiosa professore, il mio invito è stato rispedito al mittente.. La dottoranda in storia medievale sorrise appena, accettando lo champagne e lasciando nel dubbio il suo capo dipartimento se stesse scherzando o meno. Ne dubito, ma non indagherò ulteriormente. Vorrà dire che ne approfitterò per presentarti a qualcuno.. ecco a proposito Karlsson, vieni qui. Ti va di parlarci del personaggio di Hellequin? Lei è la dottoressa Johannessen dell’università di Besaid. C’è quell’installazione all’ingresso, come dire particolare.. di chi è stata l’idea? Del misterioso curatore del museo o della tua galleria d’arte? L’uomo dall’abbigliamento distinto, con i capelli brizzolati e dagli occhi da furetto ben visibili dietro la maschera bianca calata sul viso, fece un cenno di saluto verso la donna e indirizzò un sorriso obliquo a Richardson che chiaramente stava cercando di prenderlo in fallo e aveva riposto il sigaro in tasca pronto a dare battaglia. Sempre in cerca di verità voi storici.. chi sono io per svelare il mistero. Ma forse la dottoressa Johannessen ha una sua idea in merito. L’avevano tirata in mezzo senza che lei potesse fuggire in tempo, mentre nel frattempo altri occhi si posavano su di loro, e qualcuno falsamente indifferente tese le orecchie per ascoltarne i discorsi. Un’idea sarebbe un raggiungimento troppo velleitario. Piuttosto un’interpretazione, se volete passarmi il termine. Hellequin come ce lo racconta lo storico Orderico Vitale era un demone ctonio gigante alla guida di una masnada di morti e dannati che infestavano durante certe notti d’inverno e di tempesta le coste della Normandia. La radice del nome fa presupporre un’origine germanica, c’è chi dice anche danese.. chi sa se chi oggi indossa la sua maschera sa di stare interpretare il re dell’inferno, da un punto di vista religioso, cristiano in questo caso.
    Lo sguardo della donna si fece più affilato. Ed è significativo che in origine le Hellequins fossero donne che cavalcano durante la Grande Caccia accanto alla dea della Morte, Hel. Donne che diventano uomini, dei o spiriti che diventano demoni. Forse proprio per questo l’autore o perché no l’autrice dell’installazione ha fatto dell’essere raffigurato un ermafrodito. Due identità in una. Echeggio del passato nelle forme classicheggianti e un intrigante riferimento verso il mondo attuale nell’abbigliamento tipico di una persona dei giorni nostri, all’appiattimento delle differenze, ma anche il tentativo di volerle preservare, rendendole arte. Frida infine tacque finendo di sorseggiare tranquillamente il proprio champagne non avendo potuto fare a meno di notare che quando lei aveva parlato di autrice, gli occhi di quel Karlsson si erano illuminati di una certa sorpresa, non senza un pizzico di ostilità. Forse aveva colto nel segno ipotizzando che l’autrice di quell’opera fosse una donna, che fosse una sua pupilla che avrebbe voluto presto lanciare alla ribalta delle cronache? Incominciò una vivace discussione, il professor Richardson e Karlsson non sembravano andare molto d’accordo ma erano entrambi due figure molto conosciute nell’ambiente culturale e universitario di Besaid. Dei punti di riferimento che amavano la dialettica ma anche troppo il suono della loro voce per i gusti poco competitivi di Frida. Approfittò di una leggera pausa per sussurrare qualcosa a Richardson, desiderosa di vedere altro: c’era in particolare una sezione del museo che avrebbe desiderato visitare da sola senza troppi occhi indiscreti intorno. Se l’invito a quella serata di cultura e beneficenza era stata un’ottima occasione di svago per staccare dalla propria quotidianità, aveva accettato soprattutto per altro. Professore, ho letto che è stata allestita appositamente per l’evento una piccola ala del museo dedicata una schiera di artisti nativi della città o che vi hanno comunque trascorso alcuni anni. Oh si i dannati di Besaid. Frida impallidì senza poterne fare a meno. Se puoi trovarlo interessante, si trovano oltre il corridoio che da sul giardino. Non è lontano. Ma non ti attardare troppo. Vorrei presentarti qualcun altro, ad esempio il direttore del museo.. ma nei pochi attimi in cui si era voltato per rispondere a una battuta salace di un collega e prendere di nuovo il sigaro dal taschino della giacca, per poi ricordarsi che non si poteva fumare all’interno, la donna era già sparita.

    L’eco di una musica lontana l’aveva condotta lì, un non luogo dove una parte di lei non era mai stata, ma un’altra invece si e dal quale non se ne era mai andata veramente. Si muoveva come un fantasma la donna con la maschera nera, ancora una volta eterea e trascendentale nella sala vuota dove echeggiava appena il borbottio delle stanze principali. Con il corpo che non sembrava avere peso sfiorava quelle vite intrappolate dall’altro lato della tela, qual era la realtà? Dov'era invece il limite della finzione? Occhi altri la scrutavano, bocche che non si vedevano le sussurravano, cuori apparentemente immoti la esortavano a non proseguire, A non guardare oltre, a tornare indietro, perché un attimo di troppo e anche lei sarebbe finita nella trappola, preda di quell’incantesimo, vittima di una caccia mentale più che fisica, dove la propria peggiore aguzzina era proprio lei e quella bruciante ossessione di conoscere e scavare, senza essere in grado di dire un giorno basta. Qualcuno o qualcosa l’avrebbe salvata o si sarebbe dovuta trarre in salvo da sola? Si voltò di scattò guardandosi all’indietro, ma non c’era nessuno sulle sue tracce. Non ancora. Una strana vibrazione nell’aria la condusse verso una nicchia poco illuminata dalla luce artificiale, ma risplendente della vernice color oro del quadro che custodiva e che sembrava colare oltre la cornice grazie alla purezza del pigmento e alla tecnica di rappresentazione. Tremò. Di fronte a lei una donna voluttuosa, seducente, dalla lunga chioma bionda e che piangeva lacrime della stessa lucentezza dei diamanti. Ma con un solo occhio da veggente, per di più chiuso, perché metà del viso, quella più in penombra, era ricoperta da una maschera. D’oro. Una donna mascherata che forse piangeva per la lontananza del proprio amore come la dea Freya faceva ogni volta che l'amato doveva partire, tingendo di riflessi infuocati le albe e i tramonti dei cieli del loro mondo. Forse invece lo faceva per un amore finito e bugiardo che aveva imprigionato molte donne prima di lei, più forti o più deboli, perchè si era così fragili e vulnerabili davanti a un cuore. O semplicemente piangeva perché ne sentiva dentro il bisogno. Aveva una rosa fra i capelli e un cuore le cui corde erano quelle di un violino. Si tolse la maschera la donna, non c’era più bisogno di nascondersi, di essere qualcun altro per stare lì, per ricordare. Ora avvertì chiaramente dei passi interrompere la placida monotonia del luogo dove si trovava e in cui certi fantasmi del proprio passato l’avevano condotta.

    Edited by -Lisbeth - 7/3/2019, 18:50
     
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    Pensi mai a come sarebbe se lasciassimo perdere tutto, Cassandra? Appoggiato allo stipite di pregiato mogano della porta di casa, Naavke incrociò le braccia tranquillo, lasciando riposare lo sguardo sulla figura di sua moglie, avvolta in un lungo abito chiaro ed etereo. Celesti come il ghiaccio posato sull'acqua e nascosto da essa, le iridi della donna si puntarono sulla macchina ora accesa, la luce dei fanali che filtrava attraverso esse. Ci penso spesso, ma il pensiero così come si forma, si frantuma appena ci guardo. Raggiungendo il fianco di Cassandra, Naavke inclinò appena il capo, tenendo gli occhi cervoni sul profilo affilato della donna che lo aveva scelto. Era curioso, sua moglie aveva uno spirito di osservazione fuori dal comune, non le sfuggiva alcun dettaglio, anche il più orrendo o il più microscopico, in ogni situazione. Vedo chi siamo, vedo ciò che nemmeno i nostri figli possono sapere di noi, e so che siamo fatti per questo, Naavke. L'uomo avvolto in un elegante abito scuro prese un ampio respiro, sollevando un braccio per porgere la mano - ricoperta come l'altra da un guanto nero - a Cassandra, che con calma la prese, intrecciando le dita con quelle del marito. Nonostante le parole della donna potessero sembrare opache nei loro significati, non lo erano per Naavke. Lui sapeva a cosa sua moglie si riferiva, e non poteva che concordare con lei. Sin da prima di sposarsi, i due avevano già scambiato parecchie promesse - una di queste la realizzazione della visione di un mondo diverso, rivoluzionario, un mondo appartenente a coloro che condividevano tale progetto. La Setta era stata costruita frammento dopo frammento con molta fatica ed intelligenza, e giorno dopo giorno, il progetto diventava sempre più rischioso. Tuttavia, la corsa per il destino di Besaid continuava, e Naavke riusciva ad intravederne il traguardo, nonostante ostacoli e pericoli si sarebbero potuti annidare in ogni millimetro di strada da lui percorsa. Anche gli Evjen si stancano, mh? Accennando un sorriso a quelle parole, Naavke si chinò leggermente per lasciare un bacio tra i capelli biondi della moglie, per poi scuotere appena il capo. Anche gli Evjen si stancano. Mentalmente, fisicamente, emotivamente, il lavoro di una famiglia sull'orlo della psicopatia avrebbe potuto essere estenuante, ed avere l'animo consumato e macchiato da terribili azioni iniziava a diventare pesante, come se ogni corpo, ferita e goccia di sangue lasciata indietro formasse una invisibile zavorra, pronta a portare a fondo il suo creatore. Tuttavia, Naavke doveva essere più forte di se stesso, più grande di quanto non fosse mai stato - per Cassandra, Coco ed Eyr, oltre che per i suoi seguaci. Indubbiamente, dei due coniugi era Cass ad essere la più solida, ed era per lei e con lei che Naavke desiderava costruire una Besaid diversa. Non doveva stancarsi, non poteva. Vogliamo andare? Cassandra sorrise anch'ella, di rimando, e dopo essersi chiusi la porta alle spalle, i coniugi si diressero verso il Kunstmuseum. La donna dai capelli dorati era una presenza fondamentale nella vita di Naavke; ogni volta che osservava quei meravigliosi occhi, rivedeva lo stesso momento, a Firenze, quando aveva capito di aver posato il suo sguardo su una donna che non gli avrebbe permesso di spostarlo mai più. Fiera, nobile, risoluta, eterea - così era Cassandra, una dea tanto meravigliosa quanto spietata, una compagna perfetta per un imperatore nero.
    E' tutto pronto? Benissimo. Si, stiamo arrivando. La cover dell'iphone scivolò lentamente contro il tessuto interno della giacca di Naavke, per poi sprofondare in una delle tasche tessute nella stoffa. Era tutto pronto, i primi invitati erano già sul posto, e come sempre il curatore si era accertato che ogni dettaglio fosse impeccabile. Il museo era preparato per l'occasione, ed era diventato da luogo di contemplazione artistica anche una sede per una raccolta fondi a tema. La lista di invitati era colma di persone che Nero conosceva, essendo la maggior parte di essi accademici della facoltà di storia dell'arte, direttori e direttrici di case d'asta norvegesi ed altri rappresentati di spicco della società Besaidiana. Non lo trovi ironico, Naavke? Tutte le persone che sono qui, ed anche noi in un certo senso... Siamo ricchi, potenti, e ci mascheriamo come faceva il popolo, proprio per schernire individui della nostra classe. Hai accettato la proposta di questo tema per abbracciarne il paradosso, non è così? Commentò la donna ricoperta di sottile stoffa e brillanti, mentre suo marito legava con cura e delicatezza in un fiocco i nastri che reggevano la sua maschera madreperla. Sbuffò una leggera risata, l'uomo in nero, avvertendo la sua compagna posargli una mano su una spalla, scrutandolo con attenzione per capire se avesse qualcosa fuori posto nella mise e nella sua maschera nera. Penso di aver fatto la mossa migliore. Non riuscire a convivere con i paradossi della vita è la morte dell'intelletto. Rispose lui, riprendendo la mano di Cassandra ed iniziando ad avviarsi oltre l'ingresso del museo insieme a lei. Il chiacchiericcio dei numerosi invitati si intrecciava con la musica che morbida riempiva il sottofondo della festa; i bicchieri tintinnavano e la luce si faceva più soffusa, per accogliere un'atmosfera rilassante senza privare gli sguardi degli avventori delle meravigliose opere d'arte esposte all'interno delle sale. Riprendendo il telefono, Naavke compose un numero conosciuto solo a lui, attendendo un paio di squilli prima di cominciare a parlare. Poison. Siamo qui, è tutto in ordine? Certo. Ottimo lavoro. Ah, quasi dimenticavo, sto allestendo gli spazi che ti serviranno, dunque incontrami domani per parlarne. Poison, più di altri membri della Setta, era prezioso ed insostituibile per Nero; era leale, spietato, giovane e coinvolto pienamente nella causa. Meritava una ricompensa, ed il suo genio criminale non poteva che essere eguagliato da uno artistico - il curatore gli avrebbe così offerto spazi diversi per esprimere entrambi. Il tipo di leadership che Naavke aveva deciso di adottare con la Setta era particolarmente difficile da mantenere, poichè oscillava di continuo tra una dittatura quasi assoluta ed un metodo corale d'azione. Nessun membro della Setta era considerato inferiore, tutti avevano libertà di parola, eppure al tempo stesso bisognava aderire ad una linea generale. Molto spesso, coloro che si univano a Libra erano persone in cerca di uno scopo, di un modo di vivere che fosse orientato verso un obbiettivo. Un demone, questo era Naavke: pronto a dare qualcosa di inestimabile a chi si rivolgeva a lui, in cambio delle loro anime in una transazione lenta, graduale, quasi invisibile.
    Un’idea sarebbe un raggiungimento troppo velleitario. Piuttosto un’interpretazione, se volete passarmi il termine. Hellequin come ce lo racconta lo storico Orderico Vitale era un demone ctonio gigante alla guida di una masnada di morti e dannati che infestavano durante certe notti d’inverno e di tempesta le coste della Normandia. La radice del nome fa presupporre un’origine germanica, c’è chi dice anche danese.. chi sa se chi oggi indossa la sua maschera sa di stare interpretare il re dell’inferno, da un punto di vista religioso, cristiano in questo caso. Ed è significativo che in origine le Hellequins fossero donne che cavalcano durante la Grande Caccia accanto alla dea della Morte, Hel. Donne che diventano uomini, dei o spiriti che diventano demoni. Forse proprio per questo l’autore o perché no l’autrice dell’installazione ha fatto dell’essere raffigurato un ermafrodito. Due identità in una. Echeggio del passato nelle forme classicheggianti e un intrigante riferimento verso il mondo attuale nell’abbigliamento tipico di una persona dei giorni nostri, all’appiattimento delle differenze, ma anche il tentativo di volerle preservare, rendendole arte. Ora solo, Naavke si aggirava tra gli invitati, in silenzio, mentre il suo udito si soffermò sul discorso che una sofisticata giovane donna stava formulando davanti a quelli che sembravano suoi colleghi. A giudicare dalla lista degli avventori, doveva trattarsi di Frida Johannessen, una storica medievale presso l'università. Le sue parole erano vibranti, il suo intelletto vivace. Le iridi scure del curatore si soffermarono sulla sua figura qualche istante, e lì per lì il pensiero di lasciar osservare quella donna da Cassandra - ora impegnata in discussioni delicate con altri ospiti - aveva attraversato la mente di Naavke più volte, dato che sua moglie aveva la particolarità preziosissima di riuscire a riconoscere i poteri altrui. Più gli occhi dell'uomo si concentrarono sulla donna, più altre associazioni affioravano: Inge, un'artista dalla creatività tormentata e poderosa si rifletteva ora su Frida, come se fossero due sagome di carta i cui contorni corrispondevano, in una sovrapposizione tra passato e presente - vivendo l’uno attraverso l’altro. Il vetro del bicchiere di vino rosso che era avvolto in una delle mani di Naavke gli toccò le labbra, in un gesto leggero ed automatico, al quale l'uomo rispose prendendo un sorso di liquido cremisi. Professore, ho letto che è stata allestita appositamente per l’evento una piccola ala del museo dedicata una schiera di artisti nativi della città o che vi hanno comunque trascorso alcuni anni. Iniziò la donna, ricevendo una risposta piuttosto esaustiva dal professor Richardson, un volto noto agli occhi del curatore. Oh si i dannati di Besaid. Se puoi trovarlo interessante, si trovano oltre il corridoio che da sul giardino. Non è lontano. Ma non ti attardare troppo. Vorrei presentarti qualcun altro, ad esempio il direttore del museo.. Immagazzinando le parole di Frida e dirigendosi fuori, Naavke si concesse un po' di solitudine, tirando fuori una sigaretta e accendendola con calma, iniziando a lasciarla bruciare. I dannati di Besaid. Ripetè in un respiro, socchiudendo gli occhi mentre avvertiva il fumo farsi strada nella sua gola. Trovava una profonda verità in quelle parole: in un modo o nell'altro, ciascun Besaidiano era ospitato in un luogo molto simile all'inferno, colmo di punizioni, contrappassi e tentazioni. C'era chi aveva perso la sua anima, chi voleva riscattarla, chi voleva darla via o chi assorbiva quelle altrui, e quella cittadina non era che un posto perfetto dove tastare il terreno prima del giorno del giudizio. Tutti erano condannati, e Naavke era solo un traghettatore, colui che avrebbe portato qualche anima in più in un luogo più libero, dove le catene non sarebbero più appartenute né alla città, nè ai suoi abitanti, ma sarebbero state spezzate in una anarchia di cui lui, Cassandra e l'organizzazione sarebbero stati gli orchestratori.
    Espirava fumo pacificamente, Naavke, lasciandolo scivolare fuori dalle labbra come se non sapesse che quel dolce vizio aveva il potere di uccidere. Lui, meglio di chiunque altro, sapeva cosa significasse conoscere le conseguenze della propria brama sulla vita e la morte. Poi apparì nuovamente, la donna mascherata in oro, che tanto assomigliava ad una dea bendata pronta a scagliare la sua freccia. Tuttavia, di cecità non si trattava. Quegli occhi, per quanto familiari, erano colmi di malinconia, di tristezza inespressa, di forza sommessa e continua, di frammenti di un passato complesso come un'opera d'arte. Fu nel momento in cui Frida si tolse la maschera nera, che Naavke si fermò qualche passo dietro di lei, continuando ad indossare la propria. "Un uomo non è del tutto se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità." Penso che Oscar Wilde non avesse tutti i torti, signorina Johannessen. Mansueto, così era il tono di voce dell'uomo, che affiancando la sua invitata, posò lo sguardo sui suoi occhi - quegli stessi occhi che aveva visto piangere diamanti pochi attimi prima nel quadro che ella stava osservando. Quella donna nel quadro sembra molto simile a lei, forse anch'ella protetta dall'assenza della sua maschera. Il suo discorso con i professori nel museo mi ha sinceramente affascinato. Ha ragione, tutto si trasforma, come le Hellequins che diventano ogni cosa e rappresentano la sintesi in una dialettica vitale infinita, e noi mortali non siamo da meno. Per questo ho scelto di esporre quell'opera… noi siamo esattamente come quelle creature, o come Baphomet, piccole schegge di tutto frantumate nell'universo destinate ad una personalissima dannazione, specialmente in questa città. Sono Naavke Evjen, e sono quello che nel museo dà una voce ed uno spazio ai dannati di Besaid. La sigaretta continuava a bruciare, e dopo averla intrappolata nuovamente tra le labbra, Naavke porse una delle sue mani guantate alla sua ospite, in un elegante e gentile gesto di presentazione. Dopodichè, espirò il fumo e prese un altro sorso di vino, svuotando il bicchiere che lo conteneva. Conosco il suo nome perchè mi sono occupato di redigere la lista degli invitati, e perchè conoscevo sua zia Inge. Lei ha un volto molto familiare ai miei occhi, nonostante sembra essere qui da poco. E' dannata anche lei, Frida, come tutti noi?
     
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1 replies since 6/3/2019, 21:47   210 views
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