Death, the other face of the life

per Valentin

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  1. autumn_rain
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    Morte. Una parola ripugnante per i più, da non pronunciare, da fuggire con ogni fibra del proprio corpo. Una figura alta, magra, dagli zigomi scavati e la carnagione color latte acido che risplende sotto un cappuccio tetro e consunto; morte è una donna che avanza, che ti strappa la vita ridendo beffarda e sadica, fiera essersi cibata delle tue esperienze sudate con un unico e veloce pasto.
    E così accade che – nell’immaginario comune – qualcuno se ne sta a costruire faticosamente la struttura della propria esperienza, quando la figura cupa per antonomasia con un soffio la distrugge, come un alito di vento su un castello di sabbia costruito su una riva bagnata.

    Morte. Perché nessuno ha mai pensato che possa essere una donna sofferente, emarginata, schifata dalla società, disprezzata dai vivi e costretta a vivere relegata in un antro? Perché nessuno mai l’ha immaginata come un uomo che, mendicante e scarno, nutre così tanta fame da cibarsi dell’amore dele esistenze altrui? Dopotutto, secondo Morten, la morte è solo l’altra faccia della medaglia della vita. Un filosofo importante direbbe che esattamente come il buio è mancanza di luce, la morte altro non è che mancanza di linfa vitale.

    Se la morte è opprimente, perché adesso – in piedi dinanzi a milioni di lapidi – al giovane Dahl sembra che quel posto pulluli di voci? Si ha l’impressione di udirle, mischiate al fruscio inesorabile del vento di Besaid che mai come ora gli è apparso così operoso. Lapidi fredde, conficcate nel caldo terreno, unici vessilli di eroi divenuti onorevoli dopo la loro dipartita e uniche compagne di quest’uomo alto e misterioso che si aggira al crepuscolo in un luogo così tanto desueto per la sua famiglia. Non si è mai visto un Dahl al cimitero, questo è chiaro: li si incontra per strada, vestiti di tutto punto e seguiti da orde di giornalisti; ci si imbatte davanti alla loro industria, un’azienda imponente come il loro nome e asettica quanto il loro cuore, ma mai al cimitero.
    “Un vero uomo non piange i propri morti”- continuava a ripetere suo padre, dopo la dipartita di suo suocero, ad un Morten piccolino e soffrente. Il bambino, all'epoca, lo guardò incupito e adirato, ma forse – se quest'oggi rivaluta il volto della morte- per qualche strano modo, ha assimilato parte di quell’assioma.
    L’indice e il medio stringono più violentemente una sigaretta accesa, dimentica nella sua mano destra, al solo ricordo di suo padre. Gli occhi vitrei sono fissi su una tomba di marmo bianco, con venature rosee, ma la fissano come se gli fosse estranea. Su di essa, un nome, a lettere auree un po’ gotiche : Elias Olsen. La sigaretta viene rigirata nuovamente tra le mani venose e lo sguardo spostato verso l’orizzonte: perché sente l’uomo che ha amato così distante? Perché – malgrado la Morte glielo abbia sottratto – non riesce a credere che sia la responsabile di quella triste perdita?
    Una parola fa breccia nella sua mente: vendetta. Quella parola non gli era mai appartenuta, prima della frase di suo padre dopo la morte del suo amato. Da lì, da quel singolo secondo seppe che Jorgen Dahl era stato lo spietato sicario che aveva stroncato la vita di Elias. Una serpe, che si aggira in famiglia, ha iniettato veleno proprio nel sangue di suo figlio, rendendolo bramoso di rivalsa. Come può, dunque, essere la morte la protagonista di questa scena? Essa ricevette un oltraggio, quando l’uomo di Jorgen gli strappò l’ascia per compiere un destino che nessuna Moira aveva segnato. Il filo della vita di Elias non sarebbe dovuto essere reciso, eppure qualcun altro- e non Atropo con le sue cesoie- lo aveva spezzato.

    Con una scarpa di vernice nera scaglia lontano un ciottolo, lasciandolo scontrarsi contro un albero. Il gesto non è irruento, ma piuttosto tipico di chi è annoiato da giornate troppo monotone. La cicatrice sotto al suo occhio destro appare risaltare ancora di più al buio, come se fosse incisa con un inchiostro simile al colore della luna dal naso camuso, la stessa che adesso – mentre il tempo inesorabilmente scorre – inizia ad osservare la scena curiosa. Cosa potrà mai esserci di interessante nel diventare spettatori di Morten, della sua giacca di pelle appoggiata accanto ad un piccolo rovo di rose, cresciuto spontaneamente da un seme che il vento avrà condotto fin lì e seppellito insieme agli altri, ignaro che un giorno avrebbe generato un frutto?
    Cosa potrà mai esserci di intrigante in quella camicia solitamente stirata e adesso sbottonata fino a metà petto e arrotolata sulle maniche, simboli evidenti di un’esistenza stretta su un corpo e una mente troppo avidi di libertà? Probabilmente, lo spettacolo sarà pietoso, eppure il motivetto che Morten inizia ad intonare, con la sua voce lievemente rauca ma passionale, fa ammutolire perfino il gracchiare dei neri corvi.
    Non sa se ci sia qualcuno e non gli importa: quella melodia è un ricordo che nessuno potrà mai sottrargli, un ricordo di cui nessuno è a conoscenza, se non l’uomo che ormai giace sottoterra e la cui lapide continua a fissare di tanto in tanto, come se volesse distogliervi lo sguardo ma ne è tuttavia calamitato, vero centro di gravità permanente.
    E nell’aria, mentre la cicca della sigaretta si consuma senza che venga aspirata, risuona – perfettamente intonata – Mariage d’amour di Chopin. Probabilmente, se qualcuno passasse di là e la udisse, se non scorgesse Morten, crederebbe solo di averla sognata.

    //In the stereo: Mariage d'amour
     
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    Morte. Come tutto ciò che trascende l'uomo, è impossibile rappresentarla accuratamente racchiudendola in delle parole ed intrappolandola in frasi che non le avrebbero reso giustizia. La morte non si descrive, ma si sente, si annusa, si tocca, si respira; ironicamente, si vive. Valentin aveva avuto modo di sperimentarla, di lottare contro di essa, e di danzare con lei come si fa con una persona che si ama profondamente e fugacemente. Ogni passione bruciante ed estrema finisce con la sofferenza, e quel gioco incastrato negli occhi cremisi di Val si era concluso nel tradimento; e così lei aveva fatto, l'entità dalle mille facce che si porta la vita via con sè: non era stata clemente con Valentin, si era presa gioco di lui, acquisendo proprio il suo volto per prendere Jaan e prosciugarlo sino all'ultima goccia di sangue. Chiunque nella posizione del ragazzo che aveva ucciso il suo amore avrebbe potuto facilmente respingere il cupo mietitore, ritenendolo crudele e impietoso; tuttavia, Valentin aveva deciso invece di viverlo, abbracciarlo ogni giorno, non perchè si fosse lasciato possedere da lui, ma perchè ricordarsi della sua esistenza continuamente l'avrebbe tenuto lontano dalle persone a cui teneva e da quella che amava. Sono il tuo volto, la tua mano, e la tua bocca, ma non mi potrai usare come tuo strumento. Non più. Era una sfida per Valentin tenere la morte lontana e non diventarne l'ambasciatore nel mondo dei vivi per via della sua particolarità; possedere un potere come il vampirismo poteva per molti aspetti considerato una fortuna, poichè rendeva i suoi portatori agili, forti, desiderabili agli occhi delle prede e capaci di diventare figli prediletti della notte. Eppure, era un dono impossibile da gestire, diverso da come descritto nel cinema e nella letteratura; ogni mero romanticismo affibbiato a quella condizione non era che una coltre di menzogna. Non c'era niente di affascinante, niente di attraente o bello nel nutrirsi di sangue umano, e Val lo aveva sperimentato in prima persona. Da vampiri, era così facile diventare mezzi di morte, spezzare vite innocenti in nome della sete; era stato così facile anche uccidere Jaan, sentirlo svuotarsi ed avvertire le sue forze scivolargli via dalle membra. Quella tragedia non era stata che una lezione, un monito della potenza della signora nera di cui Valentin si era trovato ad essere schiavo, e lui non aveva intenzione di dimenticarsene. Per questa ragione calpestava con calma il terreno del cimitero di Besaid ogni volta che svolgeva il suo lavoro, ritenendosi la persona più adatta per assorbire ciò che la morte portava al prossimo. Ne era stato la causa, avrebbe potuto forse esserne anche il sollievo?
    Il cielo ora prossimo al crepuscolo si era leggermente coperto di nuvole, sporcando di sporadico grigio il tessuto quasi scuro del cielo vicino alla sera. La ringrazio... Sembrava... Sembrava che dormisse, io- Scoppiando in un fragoroso pianto, la signora che si era avvicinata a Valentin per parlare con lui avvolse le braccia attorno al suo torace, incapace di guardare davanti a sè per via delle lacrime che le offuscavano la vista e cadevano pesantemente lungo il suo viso e contro la camicia scura del ragazzo, che in un riflesso avvolse a sua volta la donna con un braccio. Mi dispiace, davvero. Mormorò lui, sollevando lo sguardo sulla bara ormai chiusa e sotterrata del marito di lei. La morte aveva reclamato un altro premio a sè, portandosi via non solo un corpo ed un'anima, ma anche un pezzo del cuore di colei che era rimasta ancora viva. A distaccare la donna dal petto di Valentin furono i parenti di lei, che lo ringraziarono ancora una volta e la racchiusero in abbracci forse non desiderati, e Val era certo che le uniche braccia che quella donna avrebbe voluto attorno a sè non avrebbero mai più potuto esserle restituite - in questo caso, a causa di una malattia. I familiari si allontanarono una volta finito il funerale e la deposizione della bara, e dopo aver concluso ogni dettaglio, decise di andar via anche il ragazzo, che si soffermò per qualche attimo davanti alla tomba di quell'uomo di cui non conosceva altro se non le parole che sua moglie nel dolore della perdita aveva condiviso su di lui. Eppure, Val si sentiva così vicino a quel corpo freddo tanto quanto a quelle lacrime cocenti di cui aveva i segni sul tessuto della camicia. La morte ci rende uguali, vicini, dà significato alla vita stessa poichè la rende insostituibile ed unica. Il dolore della donna era così simile a quello che lui stesso aveva provato, che prendendo un respiro silenzioso, i suoi occhi si inumidirono; stava tornando ad opprimerlo il senso di colpa, l'amore mancato e la malinconia che essi portavano con sè. In quei momenti, Val desiderava pericolosamente di aver preso il posto di Jaan, per anestetizzare una volta per tutte quelle sofferenze, eppure non era lui che la morte aveva bramato. Per lui, lei aveva altri piani. Sbattendo un paio di volte le palpebre per scacciare le lacrime che vi si erano annidate, il ragazzo iniziò a fare marcia indietro, per uscire dal cimitero e riprendere la macchina. Voleva solo tornare a casa, da Holden, ed osservare la vita fiorire nei suoi occhi intensi e tristi. Passo dopo passo, il giovane si allontanava dall'ambiente a lui familiare costellato da lapidi di varie forme, grigie o abbracciate da edera e piante rampicanti nutrite dagli stessi corpi che nel morire stavano offrendo loro nuova vita. Camminava a testa bassa, Valentin, a volte troppo sopraffatto dal peso delle sue emozioni per non esserne schiacciato, ma non si accorse della figura più imponente di un altro uomo che era lì vicino e che aveva ostruito con la sua presenza il sentiero. Vagamente, un brano a lui familiare si scontrò contro le orecchie di Val, che perso tra i suoi pensieri non si era accorto pienamente da dove provenisse. Non riuscì a fermarsi, tant'è che andò a sbattere contro quell'uomo che non doveva averlo notato a sua volta, stando di spalle. Ah. Mi scusi. Borbottò cortesemente lui, insolitamente con un tono di voce più sommesso, e seccato anche solo al pensiero di essere visto da qualcuno in un momento di debolezza solo suo. La persona davanti a lui sembrava un uomo dal volto abbastanza noto, tant'è che Valentin ci mise qualche secondo per riconoscerlo. L'aveva visto online, quando andava a controllare le notizie su internet. Morten Dahl, doveva essere senz'altro lui; più volte Val aveva espresso sinceri apprezzamenti sul suo aspetto e sul suo modo di vestire Morten sei stato benedetto dalla parola della principessa, e nonostante non avesse seguito le vicende di quella famiglia, gli era parso di capire che fossero molto potenti ed anche molto complicati. Quella realizzazione di pochi attimi venne sostituita da una reazione di leggera preoccupazione, poichè la seconda cosa che fece il ragazzo dopo aver puntato gli occhi azzurri sull'uomo più alto fu girarsi qualche attimo per essere sicuro che non ci fossero fotografi. Se c'era una cosa che Valentin apprezzava più di qualsiasi altra cosa, contrariamente a quanto ci si potesse aspettare, era di stare in disparte nell'ombra. Se atti di vampirismo erano stati commessi a Besaid, era stato per mano sua, e se qualche vocina girava, il giovane non desiderava che assieme a qualche pettegolezzo ci fosse anche il suo volto nel mondo pubblico della piccola città.
     
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1 replies since 23/4/2019, 18:18   66 views
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