Le persone sono come le biciclette: riescono a mantenere l'equilibrio solo se continuano a muoversi

Nora e Lukazs

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    Era stato difficile riuscire a recuperare un briciolo di normalità dopo quanto era successo settimane prima. Essere “rapita” da un gruppo di pazzi che aveva cercato di ucciderla non aveva certo aiutato con la sua paranoia che si era fatta, se possibile, ancora più accentuata. Bastava un minimo rumore a farla trasalire e a farle scattare la mano sul telefono, pronta a richiedere aiuto, nel caso ce ne fosse stato il bisogno. Suo cugino era diventato una vera rottura di palle dopo quello spiacevole episodio ed era divenuto quasi impossibile uscire da sola senza che lui si lamentasse o le proponesse di accompagnarla. La faceva sentire come una bambina che non era in grado di badare a se stessa e la cosa le dava parecchio sui nervi. Quindi si ritrovava quasi a dover sgattaiolare fuori da casa sua come una ladra pur di poter avere un po’ di privacy e di tranquillità. Voleva bene a Roy e sapeva che anche lui ne voleva a lei, ma Nora continuava a necessitare di avere i suoi spazi e di vivere le sue giornate come meglio credeva, senza che qualcuno stesse lì a controllarla. Aveva dovuto trascorrere qualche giorno in ospedale, viste le ferite che aveva riportato e in quel caso i medici erano stati piuttosto irremovibili sul fatto che, in nessuno modo, le avrebbero permesso di uscire fino a che non si fosse ripresa. Era stata costretta quindi a starsene su quel letto che puzzava di anziani e di malati, nella stessa stanza di una vecchia che non faceva che lamentarsi e urlare di continuo. Era stata tentata di far esplodere con un sovraccarico i macchinari che la aiutavano a mangiare pur di farla stare zitta e avere un po’ di pace, ma qualcosa nella sua testa le aveva suggerito che non sarebbe stata la cosa più opportuna da fare e sarebbe soltanto finita nei guai. Si era sforzata di non ripensare a quei momenti, sebbene la paura le facesse ancora drizzare i peli delle braccia se lasciava che la sua mente vagasse per qualche istante di troppo. Se chiudeva gli occhi poteva ancora rivedere le immagini di Tim che l’avevano costretta a vedere. Ci aveva messo anni per riuscire a toglierselo un minimo alla testa e ora invece quel dolore e quei pensieri erano tornati prepotentemente a galla. Sapeva che non era colpa sua, lo aveva ammesso persino davanti a quelle persone, ma questo non cambiava le cose. Avrebbe voluto poter prendere a calci chiunque fosse stato dietro a quel rapimento, invece la polizia sembrava non essere ancora riuscita a cavarne piede. Lei e Roy avevano parlato dell’idea di cercarli da soli e di “dirgliene” quattro, ma ancora non erano riusciti ad occuparsene a pieno. Una parte di lei cercava semplicemente di non pensarci, di passare oltre, di fingere che non fosse mai capitato a lei, mentre l’altra avrebbe soltanto voluto cercare vendetta e lei non aveva ancora deciso quale delle due fosse meglio ascoltare.
    Non aveva più incontrato il medico che aveva condiviso con lei quelle ore terribili. Sicuramente anche lui doveva essere stato ricoverato, ma Nora si era semplicemente chiuse nel suo silenzio, evitando di avere a che fare con chiunque di loro. Per qualche stupido motivo, quando erano stati chiamati a scegliere di sacrificare qualcuno, aveva cercato di impedirgli di morire da solo, di rinunciare alla sua vita per salvare quella degli altri e il bacio che lui le aveva dato l’aveva lasciata un po’ stranita, ma non aveva voluto chiedere nulla. Lui non aveva cercato di avvicinarsi, di parlarle e di darle delle spiegazioni quindi lei aveva continuato ad andare avanti fingendo che non fosse mai successo. Probabilmente era stato un gesto dato dall’adrenalina del momento, dallo shock, qualcosa di cui si era pentito giusto un attimo dopo visto il carattere serio e un po’ riservato che aveva mostrato di avere. Nora non era una persona da frequentare e lei lo sapeva più che bene, quindi il pensiero che quel gesto da parte dell’uomo fosse stato davvero sentito non l’aveva sfiorata neanche per un momento. L’aveva conosciuta in ospedale, subito dopo un’overdose quindi, da medico, doveva sapere che qualcosa in lei non andava e che non era una persona da desiderare al proprio fianco. La cosa che più la infastidiva era che lui e quell’altro ragazzo avessero potuto vedere ciò che più la turbava, quell’incidente sul ponte e poi la caduta in acqua da cui lui non si era più risvegliato.
    Inspirò ed espirò con fatica, prima di riaprire gli occhi e sbuffare. Calciò velocemente un sassolino che si trovò sul suo cammino mentre continuava ad andare avanti, con il cappuccio tirato sul volto e le mani nelle tasche. Completamente vestita di nero e con le terribili occhiaie ad appesantirgli il volto non era esattamente un’immagine che ben si confaceva al panorama verde del parco in cui si trovava, ma a lei della natura e dei paesaggi non era mai importato granchè. Si trovava lì soltanto perché il pischellino, Poison, le aveva detto che gli sarebbe stato più comodo incontrarla lì per il loro piccolo scambio. In quelle ultime settimane la droga era stata una delle poche cose che l’aveva aiutata ad andare avanti e a trovare qualche attimo di pace in mezzo a quei pensieri fottuti.
    -Cazzo, sei sempre in ritardo. - protestò quindi, soltanto, quando lo vide, allungandogli i soldi e prendendo nella mano la bustina che lui gli diede in cambio, per poi fargli un leggero cenno con il capo. -Ci vediamo presto e.. vedi di non ficcarti in qualche altra stronzata. - aggiunse, con tono piatto e piuttosto pacato. Non riuscivano mai a scambiarsi due parole gentili senza offendersi o aggiungere qualcosa di stupido e ormai loro due si erano abituati a comunicare in quel modo. Era come se avessero creato un loro personalissimo linguaggio da cui non potevano più uscire. Essere gentile, d’altronde, non era mai stato il forte di Nora e non avrebbe certo iniziato a farlo solo per quel ragazzino. Aveva dovuto salutare diversi altri spacciatori prima di lui e non poteva sapere quando e se anche quel ragazzino se la sarebbe filata, quindi preferiva non rischiare di affezionarcisi troppo. Mise la bustina in tasca per poi estrarre un pacchetto di sigarette, sfilandone una e portandosela alle labbra per poi accendersela. L’odore di nicotina le riempì il naso alla prima boccata di fumo e chiuse gli occhi di nuovo, cercando di bearsi di quel momento di tranquillità. Aveva deciso di lasciare da parte il lavoro almeno per quel giorno e prendersi qualche ora di pausa lontana dagli apparecchi tecnologici di altra gente che facevano le bizze. Per un giorno il mondo poteva anche fare a meno di lei.
    Si voltò, un po’ troppo velocemente, senza neanche controllare dove stesse andando finendo con l’andare ad impattare con un tipo che si muoveva in direzione opposta. -Ehi cazzo, guarda dove metti i piedi. - protestò, piuttosto scocciata, cercando di focalizzare l’attenzione sul malcapitato, per poi ritrovarsi a battere le palpebre più volte quando riuscì a riconoscerlo. -Ah, sei tu. - disse, come se quella fosse stata la notizia più terribile della giornata. Rimane a fissarlo per diversi momenti, immobile e in silenzio. Non sapeva cosa dire, né che cosa fare, le relazioni personali non erano mai state il suo forte. <b>-Stai bene?</b – chiese quindi, dopo diversi secondi, cercando di dare voce ai pensieri che le si accavallavano nella mente.
     
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    La prima cosa che aveva percepito quando si era risvegliato su un letto d’ospedale, senza sapere minimamente come ci fosse arrivato, era quel familiare odore di lattice. La sua mente frastornata si era arrabattata nel cercare di cogliere il confine tra la realtà e il sogno agitato che non riusciva a ricordare. Non gli ci era voluto molto a capire perché fosse tanto difficile mettere insieme i pezzi di quel sogno, cosa che invece gli riusciva quasi sempre. Morfina, in una dose tale da impedirgli di percepire a pieno il proprio corpo, ma non di sentire delle leggere fitte di dolore alla testa e la sensazione di non riuscire a respirare. Forse era stata proprio quell’ultima sensazione, a riportare indietro i suoi ricordi, fino a ciò che era accaduto. A Nora trascinata dal cavallo, al sangue sulla scacchiera, a Valentin, al ragazzo trafitto dalla lancia, alle immagini riflesse in quella prigione trasparente, al tizio con le corna di cervo. Forse anche lui era stato parte di quel sogno contorto, ma non ricordava in che modo. E pian piano la consapevolezza di ciò che si era verificato aveva iniziato a farsi più vivida, più spaventosa ad ogni giorno che passava. La lenta ripresa era stata un’agonia. Le costole rotte l’avevano costretto a stare fermo per tanto, troppo tempo, nella solitudine in cui si era rinchiuso. Non l’aveva nemmeno detto alla sua famiglia. Avevano già tante cose a cui pensare, e probabilmente sua madre non avrebbe retto al colpo di vederlo di nuovo in un letto d’ospedale, dopo nemmeno un anno. Non che non fosse coccolato lì, quello era il luogo dove passava la maggior parte del suo tempo normalmente, e i suoi colleghi non mancavano certo di fargli visita quando potevano. Eppure Lukasz si era rinchiuso in una bolla di silenzio per un po’. Aveva visto qualcuno rivolgergli contro la propria vita, i propri fantasmi, e se lui era uno degli obiettivi cosa avrebbe impedito loro di rivoltargli contro anche i propri affetti? O magari colpirli per colpire lui? Il distacco gli era sembrata l’unica soluzione, almeno all’inizio, anche se rifiutare ogni forma di contatto non faceva che aumentare il tempo libero da poter dedicare a rivedere quelle immagini, a rivivere quei momenti, a porsi domande che non avrebbero ricevuto risposta. Aveva fatto ricerche, ma nessuna aveva avuto buon esito. Non sapeva nemmeno se la polizia stesse davvero indagando sulla cosa, nonostante tutti in quella città avessero visto la cupola, e almeno sentito parlare di ciò che era accaduto lì dentro. Nessun accenno a Libra, all’uomo incappucciato, o al gruppo criminale che sembrava aver organizzato quel gioco sadico. Tutto restava nell’ombra, celato dall’omertà che aveva avvolto la città intera. Impossibilitato ad andare alla ricerca dei colpevoli, si era limitato a chiedere se gli altri che erano con lui fossero sopravvissuti. A quanto pareva tutti, lentamente, stavano tornando alle loro vite. E probabilmente tutti, lui compreso, avrebbero provato a fingere che nulla fosse mai accaduto.
    Aveva insistito tanto per tornare a lavorare il prima possibile, non appena era riuscito a stare in piedi sulle proprie gambe. Occuparsi delle vite altrui rendeva più semplice non pensare alla propria, non porsi domande, fingere che tutto fosse esattamente come doveva essere. E così aveva fatto, anche se all’inizio molte attività gli erano state precluse. Aveva eclissato la propria esistenza mettendo sotto i riflettori le vite altrui, ma di notte gli incubi tornavano e il panico riprendeva a infilarsi sotto la sua pelle. Aveva fatto un buon lavoro con Helen, era quasi riuscito a domare le crisi conseguenti al disastro ferroviario. E poi tutto era andato a farsi benedire. Gli attacchi di panico erano peggiorati, ripresi sempre più forti, e alle immagini di quel disastro se ne erano aggiunte altre, confuse, distortamente spaventose. Nemmeno ricordava l’ultima volta in cui avesse dormito una notte di fila, senza interruzioni, senza svegliarsi urlando o in completa apnea. Curava le ferite degli altri illudendosi che così sarebbe sparito anche il dolore delle proprie, senza nemmeno rendersi conto che in realtà stava coprendo solo ciò che non voleva vedere, quel ritratto di Dorian Gray che assumeva sembianze mostruose di giorno in giorno. Era un bravo medico, Lukasz, ma non riusciva ad essere il medico di sé stesso. Nonostante continuasse a svolgere le mansioni che si era prefissato alla perfezione, era ormai divenuto percepibile che qualcosa non andasse. Il ragazzo posato e sempre sorridente era divenuto una bomba ad orologeria pronta ad esplodere, fatta di rabbia, rancore, frustrazione e senso di impotenza. Era quasi sempre stressato, si stizziva per qualsiasi cosa, non contava più fino a dieci prima di fare o dire qualcosa. praticamente che cazzo l’ho scritta a fare la scheda pg non se sa. Alcuni pensavano fosse impazzito, altri che fosse sempre stato così e si fosse solo semplicemente lasciato andare. Ma che importava cosa pensassero gli altri? Loro non erano saliti su quel treno. Loro non erano stati chiusi in nessuna cupola. L’unica quasi certezza che aveva era che forse trasferirsi a Besaid non era stata una buona idea. Aveva lasciato Varsavia con l’idea di iniziare una nuova vita lasciandosi alle spalle i pezzi della bolla di perfezione che era esplosa, eppure quel suo nuovo inizio non era stato affatto come l’aveva immaginato. Besaid l’aveva cambiato, non solo donandogli una particolarità terrificante, ma prendendo ciò che lui era nel profondo e accartocciandolo come un foglio da buttare. Era confuso, combattuto, dannatamente arrabbiato. Avrebbe voluto trovare le persone che avevano organizzato quella stupida partita a scacchi e strangolarli con le proprie mani – e questo non era mai stato un pensiero da Lukasz. Ma ciò che più lo spaventava, oltre alla consapevolezza dell’essere in costante pericolo o del poter far del male a qualcuno a causa della sua particolarità instabile, era la sensazione di sentirsi in trappola. Era la consapevolezza del fatto che ci fosse qualcuno tanto presuntuoso da voler controllare la sua vita, farne ciò che voleva. Qualcuno in grado di conoscerlo più di quanto lui conoscesse sé stesso, in grado di mostrargli le proprie paure e le proprie debolezze, di piegarlo e spezzarlo quando voleva. Avrebbe voluto fare qualcosa, dimostrare a quelle persone che la sua vita non gli apparteneva, che era sua e sua soltanto, e che solo lui poteva decidere cosa farne. Forse questo era esattamente ciò che aveva tentato di fare, contravvenendo alle regole e prendendo il posto di Nora o Valentin. Aveva provato a ribellarsi ai suoi burattinai. Eppure aveva come la sensazione che loro avessero già previsto quella mossa, anche se nessuna regola degli scacchi la consentiva.
    La Ripley l’aveva praticamente obbligato a prendersi una settimana di ferie, pur sapendo che preferiva stare in ospedale piuttosto che in quel silenzioso appartamento dalle persiane di sempre chiuse. Disse che staccare gli avrebbe fatto bene, che magari avrebbe potuto trovarsi degli hobby, o dormire tutto il giorno. La faceva facile lei, non poteva minimamente immaginare quali immagini prendessero forma nella sua mente non appena chiudeva gli occhi. Di certo avrebbe avuto il tempo di dedicarsi al suo progetto sui robot per la chirurgia non invasiva, che portava avanti da tempo e che probabilmente sarebbe stato candidato per il Willomhem Preis di Berlino del 2020, e gli specializzandi che gli avevano affidato avrebbero avuto una settimana di quiete. Eppure, era così dominato dal caos che non riusciva a restare troppo lungo concentrato su qualcosa di estremamente ordinato, basato su calcoli matematici e costanti meccaniche. Al secondo giorno di punizione –così la definiva lui- aveva così deciso di uscire di buon mattino e di fare una passeggiata al parco, come se tutto fosse normale, come se il mondo non stesse implodendo su sé stesso. Era rilassante guardare le paperelle che nuotavano placide nel laghetto del parco, guardarle immergersi e poi riapparire luccicanti sotto al sole del mattino. I bambini che giocavano nei prati, le nuvole che si muovevano lente nel cielo azzurro, il profumo dei fiori che ancora restavano. Era praticamente tutto perfetto. Lo sarebbe stato, se la sua testa non avesse continuato ad essere da un'altra parte, ancorata chissà dove o a chissà cosa. Camminava distratto, fissando con sguardo vuoto i riflessi che il sole produceva sulle increspature dell’acqua, quando qualcuno lo urtò, riportandolo momentaneamente sul pianeta terra. ”Ehi cazzo, guarda dove metti i piedi!” Non udiva quella voce da svariato tempo, eppure l’avrebbe riconosciuta ovunque, ancor prima di voltarsi e ritrovarsi faccia a faccia con Nora. Cazzo, Nora. Il solo vederla gli riportò in mente quel dettaglio. Come cazzo gli era venuto in mente di darle un bacio? Insomma, non che fosse brutta per carità, al contrario, ma insomma, stavano praticamente morendo! Non era proprio il caso, ecco. Che diamine gli aveva detto il cervello? ”Ah, sei tu.” Commentò lei quasi delusa. ”Già.” Un incontrone, proprio. Peggio di così non poteva andare. O si? Certo che sì. Potevano rinchiuderli in una cupola macellarli. Di nuovo. ”Stai bene?” Chiese lei, stranamente gentile. Non sapeva se le interessasse davvero. Dal poco che aveva capito di lei, Nora non era una persona che si curava molto degli altri, non dopo la storia del ragazzo nella macchina. Anche se in realtà nella cupola si era dimostrata compassionevole, anche più affettuosa del normale, quando gli aveva chiesto se volesse chiamare qualcuno o si era stretta a lui aspettando la morte. Ecco, quel gesto non l’aveva ancora capito. Si ree conto di conoscere più cose su di lei di quante ne volesse. Avrebbe preferito basarsi su ciò che lei avesse deciso di mostrare, per conoscerla, non su ciò che le circostanze avevano portato a galla. ”Bene.” Ma non benissimo. ”Più o meno.” Rispose, ammettendo che forse “bene” era un’esagerazione. Insomma, entrambi avevano vissuto quell’esperienza. Entrambi sapevano cosa comportasse, a livello fisico e mentale. ”E tu?” Chiese di rimando, come se quella fosse una normale conversazione tra conoscenti, come se tutto fosse normale. Fingere, non accettare, a che sarebbe servito? E quanto sarebbe durato? In effetti quella era la prima volta che vedeva Nora al di fuori di una situazione in cui la sua vita non fosse a rischio, quindi il suo metro di paragone sulle sue reali condizioni era un attimino falsato. Non sapeva se fosse il caso di accennare al bacio, ma la sua vicinanza accentuava ancor di più quel ricordo. E forse quello era il male minore, l’unica situazione risolvibile. ”Io...credo di doverti delle scuse. Per il bacio intendo. Insomma, non so che mi è preso. Quindi… quindi ecco, scusami.” Perché era completamente fuori luogo? Totalmente inadeguato? Perchè per fortuna almeno parte delle sensazioni che lo avevano spinto a compiere quel gesto erano scemate tanto che non ne serbava più memoria? Forse, ma non potè fare a meno di sentirsi a disagio. Stupido no? Preoccuparsi di una cosa del genere quando là fuori c’era qualcuno che li voleva morti. Si, era dannatamente stupido. Eppure era solo una piccola parte di quel movimento in grado di mantenere il suo instabile equilibrio.

    non ho riletto, perdoname. Dopo correggo tutto


    Edited by Iwar - 16/9/2019, 01:21
     
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    Le era capitato, in qualche raro momento di lucidità, di chiedersi come se la stessero passando gli altri poveri sventurati che, insieme a lei, avevano vissuto quell’esperienza quasi surreale. Anche loro provavano paura quando camminavano da soli per strada? Anche loro temevano che, chiunque fosse stato, avrebbe potuto raggiungerli di nuovo e tentare ancora una volta di ucciderli? Forse avrebbero dovuto cercare di mantenersi un contatto, creare una sorta di gruppo di sopravvissuti dove poter condividere le loro esperienze, dove sentirsi al sicuro, compresi, uniti. Una di quelle cose che si vedevano sempre nei telefilm polizieschi per le vittime dei serial killer o cose del genere, oppure una di quelle riunioni tipo alcolisti anonimi dove la gente andava per buttare fuori tutta la merda che si teneva dentro e sentirsi un po’ meglio. Ma Nora non era mai stata una da gruppi di sostegno, in grado di condividere il proprio dolore e le proprie paure con gli altri e neanche una molto abile nell’ascoltare. Suo padre aveva provato a farla partecipare a qualcuno di quei gruppi, quando era una bambina, per aiutarla ad imparare a comunicare con gli altri, per cercare di spingerla a creare dei legami, a sentirsi meno sola, meno sbagliata, meno diversa. Inutile dire che non aveva mai funzionato. Lei semplicemente i problemi tendeva ad evitarli, nascondendoli sotto il tappeto e sperando che non venissero più alla luce, per nessun motivo al mondo. Preferiva fingere che le cose non esistessero, piuttosto che affrontarli. Temeva di non essere abbastanza forte, di non essere brava abbastanza per potersela cavare restando in piedi sulle sue gamve e finiva quindi con l’accumulare ogni cosa, senza mai riuscire a ritrovarsi faccia a faccia con ciò che la turbava. Aveva tentato di parlarne con Helen, di tirare fuori quella brutta esperienza almeno con la sua psichiatra, ma non era riuscita a farlo neanche con lei. Era rimasta lì, in silenzio, a fissarla, lasciando che i secondi fluissero uno dopo l’altro, fino a che non era stato semplicemente troppo tardi e aveva quindi potuto finalmente fare ritorno a casa, nella solitudine della sua stanza, lei e nessun altro. Preferiva semplicemente evitare di pensarci, comportarsi come se, in effetti, si fosse trattato soltanto di un brutto sogno, da cui per fortuna era riuscita a svegliarsi. Un incubo che le aveva lasciato qualche cicatrice e delle ammaccature, ma anche quelle sarebbero andate via con il tempo, se soltanto avesse avuto la pazienza di aspettare a sufficienza. Le serviva soltanto la giusta spinta per riuscire ad andare avanti, per cercare di prendere sonno, almeno qualche volta e continuare così con la sua vita, un passo alla volta, senza fretta. Le giuste droghe e il desiderio di avere vendetta, era questo che la teneva ancora lucida e che le aveva impedito di avere qualche forma di crisi isterica che la costringesse a farsi ricoverare di nuovo in ospedale per una crisi psicotica. Detestava quei posti, soprattutto il reparto psichiatrico, dove erano sempre tutti così maledettamente pacati e accondiscendenti e avrebbe fatto di tutto per non finirci ancora.
    Più ci pensava e più si ritrova a credere che, in fin dei conti, la sfortuna maggiore fosse stata quella di riuscire a sopravvivere, di essere ancora lì, perfettamente in grado di ricordare e ragionare. Sarebbe stato tutto molto più semplice se soltanto si fosse lasciata andare, se avesse lasciato che quelle persone raggiungessero il loro scopo e allora perché si era opposta? Perché aveva cercato di rubare qualche minuto in più per lei e quelle altre persone? Perché non si era semplicemente arresa prima ancora di iniziare a combattere? Se era così vero, come lei non faceva altro che ripetere, che a lei vivere non interessava? Continuava a pensarci e ripensarci ma non riusciva a trovare alcuna risposta in grado di soddisfarla. Forse una cosa positiva quell’esperienza l’aveva portata, le aveva fatto capire che, in fondo, anche lei voleva vivere, essere qualcuno. Il problema era che, come suo solito, non era in grado di esternarlo né di dimostrarlo a pieno, neanche a se stessa. Continuava a sforzarsi di tenere tutti alla larga, di non lasciare avvicinare nessuno perchè sentiva di essere sbagliata, di non essere in grado di portare qualcosa di nuovo nelle vite delle persone ed essere soltanto in grado di distruggere, ma forse la verità era che lei ad avere paura che gli altri potessero mandarla in mille pezzi. Aveva conosciuto l’amore e l’affetto e li aveva persi nella maniera peggiore che si potesse immaginare, senza mai avere davvero la forza di rialzarsi e riprendere in mano la sua vita per poter ricominciare. Forse era questo che avevano cercato di dirle le persone che l’avevano costretta a partecipare a quel gioco di pessimo gusto, anche se non avevano certo trovato la maniera migliore per trasmetterglielo. Sapeva che non poteva continuare a trascorrere la sua esistenza costantemente appesa ad un filo, in bilico tra la vita e la morte, senza mai prendere una decisione definitiva, prima o poi avrebbe dovuto assumersi la responsabilità delle sue scelte, decidere di provarci, di darsi un’altra opportunità, ma continuava a pensare che fosse troppo difficile e che per le persone come lei, quelle strane, quelle poco socievoli e incapaci di capire il prossimo, fosse molto meglio stare da sole.
    Dopotutto lei stava bene con i suoi computer, nel suo piccolo negozio, oppure nel suo laboratorio all’Univsersità di Besaid, in cui non metteva piede ormai da diversi mesi. Le erano arrivate numerose email da parte delle persone con cui avrebbe dovuto collaborare e che da altre che invece dovevano tenere sotto controllo gli avanzamenti delle sue ricerche, ma non si era ancora preoccupata di rispondere a nessuno. Era andata avanti da sola, come faceva sempre, tenendo bene a mente la scadenza definitiva, senza preoccuparsi di rendere partecipi gli altri della sua tabella di marcia. Continuavano a spingere affinchè lei desse un volto all’intelligenza artificiale a cui stava lavorando e lei continuava a declinare il loro invito senza dare mai troppe spiegazioni. Perché mai avrebbe dovuto dare un’apparenza umana a qualcosa di così perfetto e razionale? Perché avrebbe dovuto costringerlo all’interno dei canoni del sesso femminile o maschile e programmare per lui soltanto azioni adatte al genere che qualcuno aveva deciso per lui? La scienza non era forse qualcosa in grado di andare ben oltre i semplici esseri umani? Per lei la sua creazione era perfetta così com’era, nella sua schietta e bellissima natura metallica, con tutte le sue componenti in vista. Certe volte le sembrava davvero di riuscire a parlarci, in quel linguaggio che era soltanto loro e che nessun altro avrebbe potuto comprendere, fatto di impulsi elettromagnetici e di codici di progettazione. E lei se ne stava lì, ad osservarlo e ad ascoltarlo, come se al mondo non esistesse nient’altro. Avrebbe trascorso tutto il tempo che le rimaneva connessa ad una macchina di quel genere, se soltanto il mondo esterno non avesse reclamato la sua presenza e se il suo corpo non avesse richiesto cibo, acqua e sonno per poter sopravvivere ancora.
    Doveva prendersi una pausa, lo sapeva, altrimenti sarebbe impazzita definitivamente e non sarebbe mai riuscita a portare a termine la sua ricerca. Ma aveva bisogno dei suoi calmanti per poter staccare davvero. Camminando distrattamente, con la sua dose settimanale ben infilata nelle tasche, neanche si rese conto del mondo che le ruotava attorno e delle altre persone che avevano deciso di condividere il suo stesso spazio, o questo almeno prima di imbattersi contro l’unico che non si sarebbe mai aspettata di vedere in un semplice parco. Il suo saluto non fu certo dei migliori e neanche lui parve troppo felice di vederla non appena riconobbe la sua figura con chiarezza. Cercò di chiedere come se la passasse, pur sapendo quanto sciocca e del tutto fuori luogo dovesse suonare una domanda come quella per due come loro che forse non sarebbero stati davvero bene ancora per molto tempo, sempre che ci fosse davvero la speranza di riprendersi fino in fondo da quello che avevano vissuto. Diceva di stare bene, più o meno, anche se il suo volto stanco sembrava suggerire qualcosa di molto diverso. -Sono viva. - rispose lei, con tutta l’onestà di cui fosse capace. Ammettere di provare delle emozioni e riuscire a razionalizzarle a tal punto da riuscire a spiegarle a parole non era una cosa che le risultava semplice. Il suo sguardo rimase fermo su di lui, come se si aspettasse che, continuando a fissarlo, le parole da dire sarebbero venute a galla da sole, senza neanche doverci pensare, invece fu lui a continuare, chiedendole scusa per quel bacio che non riusciva a spiegarsi. Stirò le labbra leggermente in alto verso il lato sinistro, nel vago accenno di un sorriso divertito. -E perché ti stai scusando? - chiese lei, senza davvero riuscire a comprendere le regole basilari del comportamento interpersonale e che cosa ci fosse di così strano per lui. -So che non volevi farlo, non mi sono fatta alcuna strana idea. - continuò, stringendosi appena nelle spalle, come se fosse stato quello il problema, l’idea di poter aver creato qualche forma di illusione o speranza dentro di lei. -Avevi paura di morire e non sei stato razionale, hai agito d’istinto, senza riflettere. Può succedere. - disse ancora, come se lei fosse stata un’esperta di quel genere di cose e in effetti non era stata la prima volta in cui si era ritrovata ad un passo dalla morte e aveva quindi rischiato di fare qualcosa di terribilmente stupido. -Non sono una persona da frequentare. Lo so io, come lo sai perfettamente anche tu, vista la situazione in cui ci siamo incontrati la prima volta. - terminò quel discorso mantenendo per tutto il tempo lo stesso tono di voce perfettamente privo di ogni tono ed emozione. Parlava come se, in fin dei conti, non fosse lei il soggetto di quel discorso, come se stessero discutendo di qualcosa di lontano e irraggiungibile. -Quindi se è questo a tenerti sveglio la notte.. siamo a posto, non ci pensare. - minimizzò, chiudendo la faccenda come se davvero non la riguardasse, come se non fossero stati loro a viverla o come se lei non volesse razionalizzarla sino in fondo e chiedersi perché. -Ad ogni modo.. che cosa ci fai qui fuori? Pensavo ci vivessi dentro quel cazzo di ospedale. - chiese, tentando maldestramente di spostare il discorso su qualcosa di diverso, sempre troppo fredda e distaccata per poter dare davvero l’idea di chi stava bene, di chi era vivo, di chi sapeva che cosa stava facendo. Forse quella non era neanche la sua vita, forse lei non era davvero lì, forse lui non era mai esistito. Allungò una mano, posando il palmo contro la sua spalla, guardandolo con aria confusa, come se non fosse certa di quello che le stava accadendo attorno. -Ah, si. Sei reale. Che cosa stavamo dicendo? - domandò, sbattendo appena le palpebre, come se fosse stata un computer che finalmente riprendeva la connessione.
     
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    Lukasz Leon Lewandowski|30 y.o.|What remains.

    Spesso non si era completamente onesti con i pazienti. Spesso si diceva loro che col tempo sarebbero guariti, pur sapendo che quella era la più grossa cazzata della storia della medicina. A volte però, almeno secondo lui, il tener viva la speranza valeva una bugia. A livello fisico, questo spesso era vero: il tempo cicatrizzava ogni ferita, si guariva con esso, oppure le cose peggioravano. C’erano altri mali però che il tempo non riusciva a lenire. Gliel’avevano detto: “Passerà col tempo, vedrai”, “Presto non sarà che un lontano ricordo”. Stronzate, pure quelle. C’era qualcosa di più forte del passare del tempo, mali talmente radicati da non riuscire ad essere estirpati, celati in luoghi che la chirurgia non riusciva a raggiungere. Si annidavano nella mente, quei tarli che grazie ai traumi entravano indisturbati, e lì restavano e crescevano, come tumori incontrollati. Non bastava il tempo per quelli, né medicinale alcuno, né la distrazione. C’erano cose che restavano immobili fino a quando qualcosa di indefinito le smuoveva; ma non sempre questo accadeva. La verità è che il dolore non ha una scadenza, non è qualcosa che devi consumare entro una certa data e poi puoi buttare. Non c’è un tempo giusto per guarire da esso, e aspettarsi che accada ponendo dei limiti equivale ad abbracciare il fallimento. Ognuno custodisce quel dolore in modo diverso, ognuno reagisce diversamente, coi suoi tempi, ognuno stabilisce priorità diverse nella propria vita, e a nessuno mai si può chiedere di adeguarsi alla guarigione. Possono volerci giorni, oppure anni. Oppure si può imparare a convivere con quel tormento senza mai farne a meno, divenendone assuefatti, abituati. Ci sono mille modi per guarire o per non farlo, ma nessuno può sceglierlo. Rientra tra quelle tante cose che non possiamo controllare, che sfuggono alla nostra padronanza, contro cui lottiamo ogni giorno. E ultimamente nella vita di Lukasz, parecchie cose sembravano essere sfuggite al suo controllo. Non solo il dolore, la sua percezione, il suo inconscio modo di non affrontarlo. Era la sua intera vita ad essergli sfuggita di mano in tutti i suoi aspetti, e lui stava diventando una persona che, anche sforzandosi, non riusciva a comprendere. Era come mercurio. Per tutta la vita era rimasto chiuso in quel termometro, e tutto aveva sempre funzionato. Ma quando il termometro si era rotto, il mercurio era impazzito, e ne era uscito sfrecciando e disperdendosi per lo spazio che poteva raggiungere. Si sentiva esattamente così: come una pallina di mercurio impazzita e ormai completamente inutilizzabile per lo scopo che aveva, pericolosa, tossica per tutto ciò che toccava. Ci aveva provato, Lukasz, a convincersi che fare un passo avanti avrebbe un po’ alleggerito le sue scarpe dal fango che si trascinava dietro. Ma non era così semplice. Ad ogni passo, ad ogni palude, quelle scarpe pesavano di più, e lo trascinavano a fondo, fino alle ginocchia. Non c’era un tempo per guarire, non c’era un modo universale. Ed anche solo stare meglio, a volte, sembrava utopia pura. Fu strano incontrare Nora, in quel posto qualunque, in quel giorno qualunque. Tra tutte le persone che avrebbe potuto incontrare –e che probabilmente avrebbe evitato- lei era quella che meno si aspettava. Non in un posto come quello almeno, in cui le paperelle starnazzavano, i bambini urlavano contenti, e il sole splendeva. Ma se c’era qualcosa che aveva imparato, era che lasciarsi ingannare dalle apparenze era sbagliato. Magari anche la persona più cupa del mondo cercava la normalità. Era lui, quel giorno, quello fuori luogo, non lei. Una normalità fatta di convenevoli, di risposte vaghe e di circostanza. ”Sono viva” . Si, esattamente come quella. Certo che era viva, lo erano entrambi. Ma a che prezzo? Nessuno di loro probabilmente sarebbe stato in grado di raccontare a parole in che modo stesse vivendo quella convalescenza mentale, la paranoia che era seguita a quella morte quasi sfiorata, la consapevolezza di non essere padroni delle loro vite. Di qualcosa sembrava essere ancora cosciente, Lukasz, eppure nei fatti aveva dimostrato esattamente il contrario. Non era più padrone nemmeno delle proprie reazioni, da un po’ di tempo a quella parte. Ci aveva rimuginato, a volte, su quel bacio. Eppure tra tutte, a volte quella sembrava la cosa più sensata che avesse mai fatto. Una cosa a cui, a quanto pareva, Nora aveva già fornito una spiegazione. ”E perché ti stai scusando?” Quello che era dipinto sul suo viso era davvero un sorriso? Forse quella era la prima volta che la vedeva sorridere, o almeno tentare di farlo. Le dava una luce diversa, quell’espressione. Le donava. ”Avevi paura di morire e non sei stato razionale, hai agito d’istinto, senza riflettere. Può succedere.” Lukasz alzò un sopracciglio, dipingendosi un’espressione meravigliata in volto. Attenta analisi e parole ben scelte, non c’era che dire. Chi l’avrebbe mai detto che un giorno sarebbe stato psicanalizzato da Nora? Quello si che era il colmo. E comunque lei sembrava averla presa bene, stranamente. Data la sua indole, si aspettava il ceffone in faccia. Continuò a seguire il suo ragionamento. Stavolta però perdendone il senso. ”Non sono una persona da frequentare. Lo so io, come lo sai perfettamente anche tu, vista la situazione in cui ci siamo incontrati la prima volta.” Piegò la testa di lato. Forse Nora si teneva tanto a distanza dalle persone da aver dimenticato quanta oscurità si celasse in ognuna di esse. O forse era Lukasz a sottovalutare la pericolosità delle tendenze autodistruttive di Nora. Sottovalutare il pericolo però, era ormai divenuta una costante nella sua vita, che aveva abbandonato il tracciato del ragazzo prudente e calibrato. Tutto era divenuto istinto, caos. Tutto aveva perso di logica per acquisire praticità. Aveva perso di vista sé stesso, il giovane chirurgo, ed era divenuto qualcos’altro. Come acqua, era straripato dal suo contenitore ed aveva perso la forma che gli era stata imposta, divenendo qualcosa di illogico che si limitava a seguire le pendenze. Era davvero possibile giudicare qualcuno da così poco? Lukasz non era più così convinto. ”Non ho mai detto questo, e non lo penso. E se mi basassi sulla seconda occasione in cui ti ho incontrato? Sembravi molto più stabile di tutti noi messi insieme. Quindi non è questo il punto, non sei tu quella sbagliata.” Ciò che voleva dire era che Lukasz non aveva mai espresso un giudizio del genere sul suo conto. E anzi, se avesse dovuto sbilanciarsi su quel bacio, per quel poco che ricordava, si sarebbe probabilmente espresso in maniera positiva. Era stato qualcosa di dissonante in quell’inferno di sofferenza, qualcosa di buono da ricordare, in mezzo a tutti quegli incubi. Ciò che voleva intendere con le sue scuse, era che se lui era stato irrazionale, nemmeno lei aveva avuto possibilità di scelta, in quei pochi istanti confusi. Era di quella invasione del suo spazio che si sarebbe scusato. Il bacio in sé per sé, poteva valere niente o tutto. ”Sei completamente matta si, ma chi non lo è?” Sdrammatizzò, facendo spallucce e cercando di alleggerire la situazione. Beh insomma, una che, dopo che provi a salvarla, si butta tra le bracca della morte insieme a te senza nemmeno conoscerti, si, è matta. E in quel frangente lui era stato ancora più fuori di testa. Capire chi fosse quello da non frequentare, tra i due, sarebbe stato un dilemma irrisolvibile. Tornò sull’argomento pochi istanti dopo, lei, ancora serena. ”Quindi se è questo a tenerti sveglio la notte.. siamo a posto, non ci pensare.” Oh, fosse stato solo quello a tenerlo sveglio! Avrebbe risolto tutto. Peccato che i suoi incubi non riguardassero Nora, se non di riflesso ogni tanto. Un bacio non bastava a distruggere qualcosa, né a risolverlo. Abbozzò un sorriso. Quella faccenda era solo la punta dell’iceberg dei pensieri che sovraffollavano la mente del chirurgo. Ma andava fatto un passo alla volta. ”Ok.” Rispose semplicemente, dolcemente, come se davvero avesse risolto tutti i problemi. Non li avrebbe scaricati su quella quasi sconosciuta. Avevano già condiviso molto di più di quello che avrebbero dovuto. ”Ad ogni modo.. che cosa ci fai qui fuori? Pensavo ci vivessi dentro quel cazzo di ospedale.” Continuò lei. Sembrava anche troppo socievole quel giorno, strano ma vero. O forse spostava solo l’attenzione da qualcosa che voleva evitare di guardare. E Lukasz questo non lo avrebbe impedito, anzi. Non la conosceva affatto eppure conosceva pure troppo di lei, tanto da sapere cosa l’avrebbe ferita. Era questo il limbo a cui la cupola li aveva condannati. Rise, a quell’affermazione. In effetti ci viveva in quell’ospedale, a volte ci dormiva pure. Stare lì gli dava l’impressione che i fantasmi potessero restare chiusi fuori dalla porta scorrevole, che nessuna cupola o nessun treno avrebbe potuto imprigionarlo là dentro. Che su quelle superfici perfettamente igienizzate non potesse attaccarsi il nero che si sentiva addosso. ”Sono in ferie”. Provò ad affermare, fingendo di essere contento della cosa. Non gli riuscì nemmeno un po’. ”Ok, diciamo che mi hanno costretto a prenderle, le ferie. Chissà perché sembravano tutti entusiasti della cosa...” Disse, ironicamente. In realtà tutti si erano stupiti della sua assenza, tranne la Ripley che lo aveva condannato a quella agonia, non a torto. Il polacco aveva iniziato a dare un po’ di matto ultimamente, e aveva fatto scappare qualche specializzando. Il concetto di “fuori controllo” si era esteso ad ogni parte del suo essere. Non intaccava la sua professionalità e i risultati del suo lavoro, ma solo il suo modo di porsi, e la sua velocità nel prendere decisioni. Temeva che quella breve vacanza non avrebbe cambiato le cose, ma aveva eseguito gli ordini. Per lo meno così aveva ancora un posto di lavoro. ”In effetti credo di essere venuto qui al parco una sola volta da quando sono a Besaid. Tu invece? Ci vieni spesso?” Si aspettava una risposta negativa. Gli dava l’idea di una ragazza che non si trovasse bene in mezzo alla gente, e che cercasse spesso le sue confort zone. Ma quella era una parte di Nora che Lukasz non conosceva, che non aveva visto in ospedale, o in quella maledetta cupola. Ed era così che preferiva conoscere le persone. Con domande e risposte. Con sguardi e gesti. Non vivendo la loro vita, in qualche modo. Non si tornava indietro da una cosa del genere. Ma lo sguardo di Nora sembrava essere altrove, così come la sua mente. Forse non sentiva nemmeno la sua voce. Era come dissociata, fissa con lo sguardo vuoto sul laghetto. Si aggrappò alla sua spalla, muovendo la mano come se non lo percepisse davvero, prima di raggiungerla e stringerla contro la sua giacca. ”Nora?” Sussurrò il suo nome, spaventato. ”Ah, si. Sei reale. Che cosa stavamo dicendo?” Fu come se fosse tornata sulla terra, da chissà quale luogo in cui si era perduta. Lukasz la osservava. Niente alterazione delle pupille, niente cambiamento nel respiro, nessun altro segno di malessere. Solo disorientamento, associato a nessun altro sintomo. Strinse delicatamente l’altra mano intorno al suo braccio, per sostenerla in caso quella situazione si fosse verificata di nuovo. ”Nulla di importante. Vieni, siediti un attimo.” La accompagnò solo di qualche passo, verso la panchina in ferro battuto poco lontana, e la lasciò solo quando fu seduta. Chissà cosa intendeva, con quella domanda? Era reale? Nemmeno Lukasz poteva rispondere a quello. Non aveva certezze a cui attaccarsi. Non più, da un po’ di tempo a quella parte. Lasciò che si riprendesse un attimo, prima di sedersi accanto a lei. Quel genere di mancamenti potevano verificarsi per una molteplicità di fattori, più o meno gravi, fisici o psicologici. E per questi ultimi probabilmente non aveva modo di aiutarla. ”Ti succede spesso? Questa specie di dissociazione dalla realtà intendo…” Forse avrebbe dovuto smetterla di fare il medico petulante anche lì fuori, ma quella era la sua natura. Non poteva farci niente, era deformazione, la sua. E ciò che faceva non era solo un lavoro per lui. Era una vocazione. Passarono qualche istante su quella panchina, mentre il mondo scorreva intorno a loro, placido e ignaro di tutto. La smise di essere pressante con Nora, e di osservarne i sintomi, e si rannicchiò con le ginocchia contro il petto, guardando quello stupido laghetto pieno di paperelle e piante, oltre la ringhiera. ”Ci pensi mai a quello che è successo?” Domanda retorica, la sua. Chiunque ci avrebbe pensato, al loro posto. Lui non smetteva di farlo nemmeno un attimo, quando la sua mente era libera da altro. E non smetteva di sentirsi soffocato dall’idea di essere un burattino alla mercé di chissà chi. Quello no, non gli andava giù. ”So che dovremmo andare avanti e lasciarcelo alle spalle, ma… non riesco a smettere di chiedermi perché. Perché proprio noi? Perché tanta cattiveria? Perché dimostrarci di non essere padroni delle nostre vite? Perché qualcuno sa tutto di noi?” Non sapeva perché stesse ponendo quelle domande a Nora, in realtà inserite in un discorso molto vago. Era ovvio che nemmeno lei avrebbe potuto dare una risposta a tutto ciò. C’era un solo modo per mettere fine a quel tormento, Lukasz lo sapeva, e si trattava di iniziare un gioco pericoloso che probabilmente non avrebbe portato ad altro che ad ulteriori domande; o a morte certa. Non era una cosa da lui, eppure quel pensiero aveva sfiorato la mente di Lukasz milioni di volte, mentre la rabbia che covava dentro lievitava e si trasformava in odio. Forse era quello lo scopo di quei pazzi: seminare l’odio. Ma contro ciò, il ragazzo che nemmeno aveva mai provato quel sentimento, non poteva farci nulla. E se anche avesse voluto muovere un passo, non avrebbe saputo da dove iniziare. ”Gowno*! Quanto vorrei vederli in faccia…” Sospirò, passandosi una mano tra i capelli, senza nemmeno rendersi conto di aver cambiato lingua per un attimo. Vederli in faccia sì, per spaccargliela poi. Il suo tono di voce, sempre quieto, non tradiva il suo reale stato d’animo. L’odio che provava, il senso d’impotenza che lo teneva ancorato a quella panca, la voglia di spaccare le ossa a quegli stronzi che –lo sapeva- non si sarebbero fermati lì. Abbassò lo sguardo. Nemmeno sapeva perché si stesse sfogando proprio con Nora. Aveva già tanti di quei problemi… Magari era lì proprio per non pensare a quel giorno sulla Kaigaten, esattamente come lui. Magari ci era quasi riuscita. ”Scusami, giuro che cambio argomento. Facciamo due passi, se ti senti meglio?” Si alzò su alla svelta dalla panca, e abbozzò un sorriso. è bipolare ragà Si volse verso Nora, attendendo una sua risposta. Si mostrava spigliato, sereno, il giovane medico di Varsavia. Eppure era instabile, precario, come una foglia secca sferzata dal vento.


    *"Merda!"
     
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    Le capitava spesso ormai di rimanere a fissare il soffitto della sua camera senza sapere come fare ad addormentarsi. Dopo la cupola, dopo l’ultima esperienza di cui era stata vittima, era come se quel barlume di lucidità che le era rimasto, quell’attaccamento che si era sforzata di avere nei confronti della realtà, stesse via via scemando, lasciando il posto soltanto al vuoto e al silenzio. Ci si poteva svuotare davvero dei propri pensieri, della propria mente? Si poteva collegare il proprio cervello ad una macchina e azzerare ogni cosa? Fare completamente tabula rasa? Come se fosse stato un hard disk appena formattato? Se lo era chiesta svariate volte, mentre osservava una chiazza più scura di quel soffitto di cui non si era accorta prima. Da quanto era lì che la fissava? Quante cose erano cambiate attorno a lei senza che se ne accorgesse? E lei? Anche lei era cambiata? Si era sempre sforzata così tanto per non farlo, si era aggrappata con forza al dolore, cercando di farlo divenire una parte di lei, l’unica in grado di mostrarla la differenza tra la realtà e la finzione. Perché nel suo mondo, quello dove la sua mente poteva vivere, ben lontana dal suo corpo, non esisteva il dolore. Esisteva la memoria, sebbene fosse strutturata in maniera completamente diversa, ma non c’era traccia della sofferenza. Bastava un codice per cambiare le cose, qualunque cosa. La realtà invece era più complessa, aveva delle regole imprevedibili, così difficili da afferrare per lei e il dolore era l’unica luce che aveva trovato per segnarsi il cammino. Eppure ultimamente anche quello aveva iniziato ad affievolirsi e lei iniziava a sentirsi sempre più smarrita, come un marinaio in mezzo al mano senza alcuna bussola per tracciare la rotta e senza stelle nel cielo nero sopra di lui. come si poteva vivere senza provare più nulla? Senza sapere più se si era ancora in grado di provare qualcosa? Si sentiva così strana, senza più quel peso così pressante all’altezza del petto che l’aveva accompagnata per anni e che l’aveva fatta sentire davvero viva, piena. Ora invece, dopo che quelle persone l’avevano messa di fronte ai suoi incubi, alle sue paure più grandi, si sentiva come se con le parole che era stata costretta a pronunciare le avessero tirato fuori anche qualcos’altro e non ci fosse neanche più un cuore a battere dentro il suo petto. Ovviamente c’era, lo aveva verificato, aveva visto il macchinario per l’elettrocardiogramma accanto al lettino su cui era stata costretta a stare per qualche giorno dopo che la polizia li aveva ritrovati. Ancora una volta un ospedale, ancora una volta medici e ancora medici. Li detestava. Questo per lo meno non era cambiato in lei, o forse si?
    Perchè ora, guardando Lukazs dritto di fronte a lei non era un medico che vedeva, ma l’uomo con cui aveva condiviso uno dei momenti peggiori della sua vita, quello che, ancora una volta, le era sembrato l’ultimo, anche se non lo era stato. Era buffo come il destino sembrasse sempre divertirsi a prenderla in giro. Illuderla che fosse ad un passo dal liberarsi di tutto quanto, per poi riportarla indietro, con forza, spezzando il sogno per ributtarla nell’incubo. Perché che cos’era la vita dopotutto se non un susseguirsi di eventi spiacevoli, uno dopo l’altro, inframmezzati molto raramente da vaghi momenti piacevoli, che non facevano altro che incrinare le persone, illudendole che, prima o poi, tutto sarebbe potuto andare per il meglio. Ma il meglio non esisteva, lei lo sapeva. O per lo meno ormai era questo ciò in cui credeva, con tutta la forza che era rimasta nel suo esile corpo perennemente in bilico tra la veglia e il sonno. Si sentiva stanca, molto più di quanto fosse mai stata. Da quando Helen le aveva tolto gran parte delle medicine che prendeva non faceva che sentirsi sempre e costantemente stanca. Era quello il problema? Erano sempre state le pillole a tenerla sveglia? Oppure il suo corpo aveva semplicemente iniziato a cedere sotto i troppi colpi che aveva ricevuto?
    Neanche si sforzò di dare a Lukazs risposte troppo amichevoli e cordiali, non erano il suo genere, non era mai stata brava con quelle cose. Le persone erano il più grande mistero dell’universo e lei non le avrebbe mai capite. Aveva cercato in lungo e in largo un codice per comprenderli, per riuscire ad entrare davvero in contatto con loro, ma sembrava che nessuno fosse ancora riuscito a realizzarlo e lei non sapeva da dove partire per farlo. Possibile che, tra tutte le cose che esistevano nell’universo, loro fossero davvero la più complessa di tutte?
    Si limitò a constatare la cosa più ovvia di tutte. Era viva. O almeno era così che la faccenda poteva apparire dall’esterno. Lo vide alzare un sopracciglio, meravigliato, quando lei cercò di analizzare quanto era accaduto tra loro nel modo più razionale possibile. Tentava sempre di ridurre ogni cosa in semplici fattori analizzabili, privi di emozioni, di coinvolgimenti. Era più semplice analizzare le cose se ci si teneva distanti da esse. -Se non lo pensi allora sei pazzo anche tu. - disse, con tremenda serietà, guardandolo dritto negli occhi, come poteva non pensare che lei fosse sbagliata? -Io sono sbagliata. Lo sono sempre stata. - aggiunse poi, con la stessa fredda lucidità con cui gli aveva rivolto anche tutte le parole precedenti. Sapeva di esserlo, lo aveva saputo sin dalla prima volta in cui Emily glielo aveva urlato in faccia, dandole la colpa di tutti i suoi fallimenti, di tutto ciò che nella sua vita era andato male. Perché lei era stata un errore, il più grande di tutti i suoi sbagli e non aveva mai perso occasione di farglielo notare, di ripeterglielo ancora e ancora, fino a che quel tarlo non si era instaurato a fondo nella sua mente ed era diventato il presupposto di tutti i suoi pensieri e le sue azioni future. Non si scompone neanche quando lui le sbattè in faccio il fatto di ritenerla pazza a sua volta, come però pensava che fossero un po’ tutti. Si sbagliava. Non tutte le persone erano pazze, esistevano anche gli esseri umani normali, quelli che non avevano il bisogno costante di un medico per tenere insieme i pezzi della loro mente distrutta. Una parte di lei comprese che quello doveva essere un suo modo di sdrammatizzare, persino il tono della sua voce era suonato vagamente diverso, ma lei aveva sempre preferito prendere tutto alla lettera. Non aveva mai saputo cogliere il sarcasmo, non aveva mai imparato davvero a farlo. Persino con Roy, qualche volta, le capitava di non comprendere quando stesse scherzando e quando invece stesse dicendo la verità.
    Lo vide abbozzare un sorriso, prima di borbottare un tenue e dolce “ok”, anche se non sembrava affatto convinto che quello potesse bastare per mettere la parola fine su tutta quella faccenda. E come avrebbe potuto, dopotutto? Chi avrebbe mai potuto dimenticare quello che avevano vissuto? Si sforzò di sdrammatizzare lei a quel punto, senza sapere se quella fosse davvero la maniera migliore di affrontare la cosa, ma lui rise e lei sorrise di rimando, un’espressione appena accennata, lieta di non aver combinato un casino dietro l’lator, come faceva di solito quando apriva bocca. Immaginava di essere stata piuttosto cattiva con lui, giudicandolo senza neanche conoscerlo, ma non avrebbe saputo come chiedere scusa, come esporsi, esattamente come lui aveva fatto solo pochi momenti prima. Diceva di essere in ferie, anche se neppure lui sembrava troppo convinto di quello che aveva detto, o forse, semplicemente, non era quello che avrebbe voluto. Era stato costretto a prendersi quei giorni. -Perché qualcuno dovrebbe esserne felice? - chiese, ingenuamente, senza comprendere. Lei di norma lavorava da sola. Soltanto nel progetto che portava avanti per l’università aveva dei colleghi, ma non li frequentava quasi mai e di norma ignorava anche le loro email. -Qualche volta, dipende da chi devo incontrare. - disse, nella maniera più onesta possibile. Non era un tipo troppo salutare, non amava la natura, preferiva allenarsi nella palestra che si era creata da sola nel retro del suo negozio, dove nessuno poteva disturbarla o cercare di parlarle. -Preferisco gli spazi chiusi, dotati di computer. - spiegò poi, poco dopo, aggiungendo qualcosa sul proprio conto che immaginava lui dovesse già aver capito da solo. -Sei arrivato da molto in questa gabbia di matti? - chiese, prima di rendersi conto dell’infelice metafora che aveva appena utilizzato e che le aveva fatto involontariamente ripensare alla cupola. -A Besaid, intendo.- specificò quindi, piuttosto in fretta, affinchè lui non potesse fraintendere. La prima volta che lo aveva incontrato non aveva collegato il suo strano nome con il fatto che potesse non essere nato lì. Era così abituata a non interessarsi degli altri, a cercare tutto sul loro conto di nascosto, da non riuscire più a cogliere i piccoli dettagli quando se li trovava davanti. La sua risposta tuttavia non arrivò alle sue orecchie, si era smarrita per un istante, come se si fosse disconnessa dalla realtà. Lui sembrò controllarla, come se fosse alla ricerca di qualche sintomo che potesse fargli comprendere che cosa era appena successo, prima di accompagnarla verso una panchina in ferro battuto, perché lei potesse sedersi. -Perché? Sto bene. - protestò lei, anche se sapeva che quella non era la verità. Provava un leggero giramento di testa, appena più forte del solito, ma per i suoi standard poteva dire di stare abbastanza bene. Anche lui si sedette anche lei, continuava a fissarla, a studiarla, come se fosse tornata ad essere una delle sue pazienti. -Ah.. quello.. a volte, quando uso troppo la mia particolarità. - spiegò, come se fosse stato assolutamente normale. Da che lei ricordasse aveva sempre convissuto con quel piccolo bug che ogni tanto le mandava il cervello e che prima o poi, ne era certa, glielo avrebbe fritto del tutto. -Non sei a lavoro doc, smettila di preoccuparti per gli altri. - lo sgridò quindi, in tono bonario, prima che lui potesse andare avanti con quello che gli frullava per la testa in quel momento. spostò lo sguardo altrove, facendolo scorrere sul panorama circostante, notando solo con la cosa dell’occhio che lui si era portato le ginocchia al petto, rannicchiandosi su se stesso. -Di norma cerco di tenermi impegnata. - disse, con un’alzata di spalle. Era sempre stata abituata ad ignorare le cose piuttosto che affrontarle, quindi anche in quel frangente stava cercando di sforzarsi di fare lo stesso. -Non è detto che ci sia un perché. Non sempre le persone fanno le cose con uno scopo. - mormorò quindi, con sguardo distante e voce persa, mentre una parte di lei ripercorreva gli avvenimenti del suo passato. -E scoprire tutto sulle persone non è poi così difficile. Anche io posso farlo. Se vuoi posso mostrarti come si fa. - aggiunse, voltandosi appena nella sua direzione. Nora non si preoccupava mai dell’idea che quello che lei faceva, giorno dopo giorno, potesse rispondere all’accusa di stalking o di hacking. Sapeva come far sparire le sue tracce, come impedire alla polizia di trovarla, quindi non era difficile per lei concepire quella possibilità, pensa che, anche chi li aveva rapiti e aveva cercato di ucciderli, potesse utilizzare dei metodi simili ai suoi. L’unica cosa che doveva fare era capire esattamente quali utilizzassero, trovare un tassello, anche il più piccolo, che le permettesse di trovare una back door, un passo falso, qualcosa su cui fare leva per venire a capo della situazione. -Se li trovo, li uccido. - rispose lei, completando la frase che lui aveva lasciato a metà, con un tono di voce tremendamente calmo e tranquillo. Non sarebbe stata la prima volta, dopotutto, che pagava qualcuno per uccidere un’altra persona. Era così che lei e Magnus si erano conosciuti e da quel singolo episodio era nata un’ottima amicizia. Doveva soltanto trovarli e per come era fatta sapeva che non si sarebbe arresa fino a che non ci fosse riuscita. Forse il dottore non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo, lui le aiutava le persone, non faceva loro del male, ma poteva pensarci lei per entrambi.
    Si scusò di nuovo, alzandosi in piedi e proponendole di fare due passi, senza più pensare a quello che era successo. Lei annuì distrattamente, alzandosi a sua volta e iniziando a camminare, seguendo i suoi passi, lasciando che fosse lui a decidere la direzione. Sebbene neppure lui sembrava conoscere quel posto particolarmente bene, era convinta che sarebbero riuscito a trovare un’uscita se fosse stato necessario. Rimase in silenzio per qualche istante, indecisa se esprimere a voce alta quei pensieri o meno, poi si decise. -Hai ancora il messaggio che ti hanno mandato per attirarti? - chiese, perché lui aveva promesso di non parlare più dell’argomento, mentre lei non aveva detto nulla del genere. -Ho provato a utilizzare quello che hanno mandato a me per capire da dove può essere partito, e ho controllato il telefono di mio cugino, non lo hanno mandato da lì. - disse, mentre iniziava a partire con le sue teorie complottiste, raccontando all’altro che processo stava seguendo e dove stava cercando di andare a parare. -Ma solo da un messaggio non sono riuscita a ricavare molte informazioni. Magari se ne utilizzassi di più potrei riuscire a triangolare le informazioni, a trovare dei punti in comune e capire chi li ha mandati, o per lo meno dove si trovava quando lo ha fatto. - spiegò allora e forse quella doveva essere la volta in cui aveva parlato di più negli ultimi anni. Quando iniziava a parlare di qualcosa che riguardava il suo campo di interesse poteva diventare piuttosto logorroica anche lei. -Sembri stanco.. hai dormito? - chiese, dal nulla, dopo qualche minuto di camminata verso la parte più rigogliosa del parco, vicino a dove si trovavano alcuni giochi per bambini. Sorrise, un sorriso scocciato che le fece scuotere il capo. -Cazzo, l’ultima volta che sono stata qui era con quel coglione di mio padre. - disse, senza sapere neanche lei perché lo stesse rivelando proprio a lui, senza tuttavia fermarsi, anzi, accelerando il passo per lasciare quanta più strada possibile tra lei e quel maledetto parco giochi. Da dove hai detto che vieni? - chiese, anche se non era del tutto certa di avergli fatto quella domanda. -Hai fame? Dovrebbe esserci un chioschetto lì da qualche parte. - disse, indicando un punto non ben definito alla loro sinistra. Ricordava di essersi fermata lì una volta, di rientro da una delle sue solite serate decisamente poco legali.
     
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    Lukasz Leon Lewandowski|30 y.o.|What remains.

    Il tempo vola. Scorre e non aspetta nessuno.
    A volte Lukasz avrebbe voluto riavvolgerlo, non tanto per riparare agli errori ai quali ancora non aveva trovato una soluzione, quanto per rivivere sensazioni che aveva dimenticato. Cose che nella loro piccolezza lo avevano reso felice un tempo, e che ora si erano perse nella memoria, strappate via dal tempo che correva troppo velocemente. Avrebbe voluto tornare a ciò che era prima di quell’incidente ferroviario: un ragazzo tormentato da mille preoccupazioni, come tutti in questa vita, eppure tanto ordinato da avere la sensazione di riuscire a ordinare l’intero universo. Una scrivania senza oggetti, appuntamenti scritti su un’agenda, passi mossi al sole guardando la vita scorrere al suo stesso ritmo. Non ricordava quella sensazione di quiete, il chirurgo, solo alcune immagini ad essa legate, qualche dettaglio in mezzo.
    O ancora più indietro, al rumore di scarpe che sfrecciavano sui sanpietrini dei vialetti del centro, le grida concitate di bambini il sabato pomeriggio, che giocavano al sicuro lontani dalle macchine. Ricordava l’odore umido del muro di casa sua, sul quale poggiava il braccio e strusciava il naso, mentre contava, o recitava una filastrocca. Non ricordava nemmeno quella di spensieratezza, solo il fatto che quando si voltava, le statuine che evocava non erano reali. Si muovevano, tentennavano, ridevano nelle loro assurde posizioni. Non somigliavano affatto alle statue che erano nei musei o nelle piazze, non sarebbero mai state simili a quelle che il suo sguardo avrebbe incontrato un giorno, di fredda arenaria grigia. Era un gioco, quello, faceva ridere.
    Ricordava la reazione spaventata che aveva avuto da bambino quando una tigre allo zoo gli aveva ringhiato contro, ma non la paura stessa, né il sollievo provato stringendosi a sua madre, né la sensazione di quel terrore che scemava scacciato dalla risata divertita di lei. Se potessimo riavvolgere il nastro una volta, come rivivremmo quelle sensazioni più intensamente? Le imprimeremmo nella nostra coscienza per tirarle fuori al momento opportuno? Varrebbe la pena riviverle, pur sapendo che le dimenticheremo? Ci tortureremmo davvero con tanta bellezza pur sapendo che l’illusione svanirà, e che sostituiremo tanta bellezza con qualcosa di orribile e indelebile? Rinunceremmo ad esse, pur di cambiare strada, pur di evitare la sofferenza? Forse è per questo che non ci è concesso, forse è questo il motivo per cui ogni cosa ci viene concessa una volta sola. Il destino non ci permette di essere assuefatti da qualche sensazione. Esse cambiano, ogni volta, così come cambiamo noi. Cambiano in base alle circostanze, alle persone che incontriamo, alla nostra percezione. Siamo destinati a non rivivere mai lo stesso momento, anche se a volte i giorni ci sembrano tutti uguali. Anche se il dolore e la paura sembrano riuscire a rimanerci impressi molto più a lungo, recidivanti, sempre pronti a farci rivivere quelle sensazioni che non scemano mai.
    Osservò Nora attaccarsi alle sue sensazioni negative come lui stesso faceva con le proprie, umiliarsi come se mai si fosse accettata, cercando di convincere anche lui di quanto fosse sbagliata per quel mondo. Davvero esisteva qualcuno giusto, per esso? Qualcuno talmente in simbiosi con quell’universo maligno da non provare mai rabbia per il dolore che esso infliggeva? Forse siamo noi a renderci sbagliati, siamo noi a costruire quei modelli perfetti che poi non rispettiamo. Non poteva capire cosa spingesse Nora ad autoinfliggersi quella punizione, non ne conosceva le ragioni. Ma non credeva fosse giusto, nonostante tutto, sentirsi così. Sospirò, andando avanti. ”Non mi hai convinto.” Sentenziò, facendo spallucce. Per il lavoro che faceva si trovava ad avere a che fare con le persone più svariate. Chi tentava il suicidio, chi si autodistruggeva, chi si ribellava ai sistemi. Lui stesso poteva considerarsi un caso studio di quello. Ma se c’era qualcosa che accomunava quelle persone era che nessuno di loro poteva considerarsi un elemento fallato: c’era sempre una motivazione dietro ogni cosa, che fosse una patologia, un trauma, o semplicemente carattere. Sorvolò anche sul discorso del bacio, dopo che lei lo aveva liquidato senza porsi troppi problemi. La verità, ciò che rendeva tanto imbarazzante quell’incontro, era che non era solo quel bacio che Lukasz sentiva di averle rubato. Fosse stato solo per quello beh, magari sarebbe stato anche piacevole, se non fossero stati sul punto di morire. La verità era che sentiva di essersi appropriato di qualcosa di lei che mai lei avrebbe chiesto, e che di certo lei non avrebbe voluto condividere, non con un sconosciuto. Sensazioni, immagini riflesse in un cubo, sentimenti spezzati. Una di quelle cose che un medico non dovrebbe mai conoscere, per non lasciarsi coinvolgere. Qualcosa che gli aveva permesso di entrare troppo a fondo nella sua mente, stravolgendo le regole che tanto amava imporsi, i suoi canoni. La cosa era stata reciproca, certo, ma lei sembrava essere più resistente a certe cose. E se l’immagine di lei in quella macchina era sparita dalla sua mente quando anche il cubo si era dissolto, col passare del tempo era ritornata, portando con sé il quesito che lo portava a domandarsi se fosse giusto posseder frammenti delle vite di qualcun altro. Ma quello era un discorso che il chirurgo non avrebbe saputo tradurre in parole, norvegesi o nella sua lingua natìa. Quello era un silenzio, che sempre sarebbe rimasto sospeso tra loro, e che ruppe solo sdrammatizzando quella situazione, e cambiando discorso.
    Discorsi leggeri, che faremmo con tutti. E’ così che inganniamo il silenzio, è così che impediamo che ci divori. Parlare di cose banali, del tempo, delle nostre abitudini, è il nostro porto sicuro, il nostro modo di sopravvivere al silenzio, e di sentirci umani in grado di mantenere rapporti sociali. Perché qualcuno dovrebbe esserne felice? Oh, beh, c’erano mille e uno motivi per cui qualcuno avrebbe dovuto essere felice di non vederlo per un po’. Ok, magari aveva esagerato, i suoi pazienti lo adoravano, e i suoi colleghi avevano imparato conoscerlo, anche quando era divenuto talmente instabile da non sapere come prenderlo. ”Beh…potrei aver dato un po’ di matto ultimamente, e aver terrorizzato qualche specializzando che di sicuro ora starà tirando un sospiro di sollievo.” O forse no. Perché terrorizzare gli specializzandi era lo sport preferito dei chirurghi da sempre, e purtroppo per loro c’era ancora la Ripley che deteneva il primato ed era in servizio. Certo, un conto era farlo intenzionalmente come faceva lei- a scopo formativo, diceva- e un altro era sclerare in preda a chissà quale sbalzo d’umore come faceva Lukasz, dopo che qualche secondo prima aveva sparso cuoricini ovunque. Temeva che la cosa non sarebbe passata solo con qualche giorno di ferie, ma finché la cosa non andava a ledere la salute dei suoi pazienti, beh, aveva anche iniziato a fregarsene. ”Qualche volta, dipende da chi devo incontrare. Preferisco gli spazi chiusi, dotati di computer.” Di nuovo erano passati a parlare di cose che prescindevano i sentimenti. Ma era questo il modo in cui Lukasz voleva conoscere le persone, non in quello che li aveva legati nell’unico terribile istante che avevano trascorso insieme: con domande sciocche e risposte più o meno ovvie, sincere o meno. Era giusto conoscersi per ciò che ognuno voleva mostrare, nonostante a lungo andare questo gioco divenisse pericoloso. ”Ah, già è vero.” Ricordò solo allora della particolarità di Nora, del momento in cui aveva cercato di chiedere aiuto nella cupola, pur non prendendo in mano alcun apparecchio elettronico. Aveva intuito di cosa si trattasse, anche se il suo era stato solo un vano tentativo di mettere insieme i pezzi. Se la cosa riusciva a metterla a suo agio, beh, tanto meglio. Almeno lei riusciva a convivere con la sua particolarità. ”Cos’è che riesci a fare, esattamente? Tipo, comunicare attraverso la tecnologia?” Chiese, realmente curioso stavolta. Era un mondo tanto diverso dal suo, quello, o forse non troppo, dato che ormai la tecnologia era parte integrante di ogni cosa e che lui stesso cercava di applicarla alla chirurgia attraverso la sua ricerca. Affascinante certo, su questo non aveva dubbi. Mise le mani in tasca, muovendo qualche passo sul posto ed ascoltandola parlare. Aveva iniziato a vedere un’altra Nora, dalla cupola in poi, diversa dalla ragazza scontrosa che aveva conosciuto in ospedale. Forse entrambi erano diversi, spezzati, riscritti. ”Sei arrivato da molto in questa gabbia di matti? A Besaid, intendo.” Si sforzò di non ridere, con risultati non proprio ottimali, di fronte a quella definizione fornita da una Besaidiana. Se anche gli abitanti di quella città –sempre che Nora lo fosse da più tempo di lui- la definivano così, beh, allora non doveva aver sbagliato di molto il suo giudizio. Già accettare la cosa delle particolarità era stato difficile, così come la storia del perdere la memoria, figuriamoci il solo pensare alla storia della cupola. Quasi un anno. Ora che ci pensava, tra poco sarebbe stato un anno. Non sembravano passati che pochi giorni, da quando aveva smesso di contarli. Sembrava averlo fatto anche Nora, per un istante, prima che Lukasz potesse accorgersene. La accompagnò a sedersi, e si sedette accanto a lei. ”Ah.. quello... a volte, quando uso troppo la mia particolarità.” Quella era una cosa con cui aveva imparato a convivere solo di recente, qualcosa per il quale non aveva studiato, e che aveva conseguenze sul corpo e sulla mente come qualsiasi stato clinico. Non erano cose che si studiavano nei normali corsi di medicina, quelle (o forse all’università di Besaid sì, ma questo non lo sapeva in effetti), ma che si apprendevano solo vivendo lì. ”Non sei a lavoro doc, smettila di preoccuparti per gli altri.” Distolse lo sguardo, come colto in flagrante, a fare qualcosa che aveva per vizio. Beh, stava parlando con la stessa persona che si era butta in braccio alla torre degli scacchi per salvare gli altri, che pretendeva? Lukasz sapeva che quella non era una critica, quanto un modo di comunicargli che stava bene, o che non voleva il suo aiuto, quindi non la prese troppo seriamente. ”D’accordo, d’accordo la smetto!” Alzò le mani, in segno di resa, anche se quella era una cosa che mai sarebbe riuscito a fare. La cosa che più di tutte lo rendeva umano, una tendenza impossibile da cancellare. E probabilmente non si sarebbe arreso così facilmente, se si fosse reso conto che Nora non stava bene, ma per il momento tutto sembrava essere sotto controllo. A livello fisico almeno. A livello emozionale invece, volenti o nolenti, entrambi tornavano a ciò che era stato, a ciò che li aveva scossi e spezzati. E nonostante Lukasz non volesse turbare Nora ulteriormente, non potè fare a meno di esternare una minima parte di ciò che lo tormentava, che forse tormentava entrambi. ”Di norma cerco di tenermi impegnata.” Per lui era lo stesso. Lo aveva fatto dopo l’incidente, e poi dopo la cupola. ”Idem, ma non basta a quanto pare”. Ma non aveva funzionato. Anche quando si era accollato turni interminabili, anche quando si impediva di respirare, quel pensiero prima o poi ritornava. Bastava un attimo di distrazione, una pausa caffè, un attimo di esitazione prima di addormentarsi, un momento che ci si illudeva di concedersi, e quelle immagini tornavano. ”Non è detto che ci sia un perché. Non sempre le persone fanno le cose con uno scopo.” Quella forse era la cosa che non riusciva ad accettare. Che non esistesse una ragione, una causa con cui prendersela. Non accettava l’idea che potessero esistere umani in grado di ridurre in tali condizioni i loro simili senza ragione alcuna, solo per cattiveria o noia. ”Non ne sono convinto. Mi è sembrato qualcosa di troppo ben organizzato per non avere uno scopo, anche stupido.” Commentò, sovrappensiero, cercando di dare un ordine alle mille supposizioni che avevano affollato i suoi pensieri in quei giorni, e che a lungo andare avevano perso la loro logica e dando loro voce distrattamente, come se si trattasse di eventi accaduti a qualcun altro. ”E scoprire tutto sulle persone non è poi così difficile. Anche io posso farlo. Se vuoi posso mostrarti come si fa”.. Smise di lasciar vagare lo sguardo oltre la staccionata che contornava il laghetto, e riportò l’attenzione su di lei. In quel momento, l’idea che la cosa fosse sbagliata, o illegale, non lo sfiorò minimamente. Quella della vendetta era divenuta un’idea più forte della sua stessa morale, ultimamente. E se qualcuno era riuscito a colpirlo tanto a fondo da spezzare qualcosa di tanto forte come il suo credo, beh, allora meritava di essere ripagato con altrettanta violenza. ”Se si tratta di quelle persone, beh, allora hai tutta la mia attenzione”. Rispose. Scoprire tutto di tutti era esattamente quello che non voleva, così come invece era accaduto con Nora e Hansen nel cubo, ma se si trattava di trovare il punto debole del loro nemico, allora poteva valerne la pena. Non lo avrebbe mai fatto, Lukasz, un anno prima. Ma ora le cose erano cambiate; lui era cambiato così come la posta in gioco. ”Se li trovo, li uccido”. Non potè darle torto, nonostante non avesse la minima idea di cosa Nora fosse stata e fosse in grado di fare. Nemmeno l’immaginazione di Lukasz poteva arrivare a tal punto. Ma sicuramente in quel momento si sentì allo stesso modo, in grado di odiare qualcuno come mai aveva fatto in vita sua. In grado di desiderare qualcosa che fino ad allora mai avrebbe immaginato. Fece per abbandonare quel discorso che, lo sapeva, turbava entrambi, e si alzò, ma non passò molto tempo prima che Nora riprendesse il discorso. Non che la sua mente non avesse comunque continuato a vagare su esso, che era ormai un pensiero cotante da alternare al panico. ”Hai ancora il messaggio che ti hanno mandato per attirarti?” La guardò per un attimo spaesato, cercando di fare mente locale. ”Ho provato a utilizzare quello che hanno mandato a me per capire da dove può essere partito, e ho controllato il telefono di mio cugino, non lo hanno mandato da lì. Ma solo da un messaggio non sono riuscita a ricavare molte informazioni. Magari se ne utilizzassi di più potrei riuscire a triangolare le informazioni, a trovare dei punti in comune e capire chi li ha mandati, o per lo meno dove si trovava quando lo ha fatto.” Ascoltò le sue parole con attenzione, cercando di giungere a qualche dettaglio che forse lei non aveva considerato, senza successo alcuno. Nora era decisamente più avanti di lui in quel frangente. Rallentò il passo. ”Nessun messaggio. Ho ricevuto una chiamata dal centralino dell’ospedale, a nome di tale Chapman –tizio che ovviamente non esiste in tutta Besaid-“. Scosse la testa, abbastanza innervosito. Al solo pensarci Lukasz si sentiva un coglione per esserci cascato. Ma che diavolo poteva saperne di chi lavorava al centralino delle emergenze? Non aveva mai contatti con loro, ed ogni volta era gente diversa a chiamare! ”Ho fatto controllare i tabulati, comunque. Nessuna chiamata è partita a quell’ora da quel numero. Così come in realtà non c’era mai stata l’emergenza per la quale mi avevano chiamato, in effetti.” Si fermò, tirando fuori il cellulare dalla tasca. Odiava camminare e guardare il telefono contemporaneamente, gli faceva venire la nausea non guardare dove mettesse i piedi. Scorse tra le numerose chiamate, andando a ripescare quella ricevuta quel maledetto giorno. Il numero del centralino risultava averlo chiamato altre volte, sia prima che dopo. Passò il telefono a Nora, indicandole la chiamata contrassegnata dal giorno esatto del misfatto. Ben quattro minuti di conversazione con un tizio che gli aveva spiegato la strada per andare a farsi ammazzare. E’ questa, ma non so quanto tu possa ricavarne. L’unica conclusione a cui sono arrivato è che potrebbe trattarsi di qualcuno con una particolarità simile alla tua. Ed anche qualcuno che conosce bene l’ospedale e i suoi meccanismi interni, ma lì non mi pare ci sia nessuno con abilità del genere. “ Ogni volta che sembrava fare un passo avanti, Lukasz ne compiva uno indietro. Poi d’improvviso ebbe una specie di flash. ”Che poi il tizio con le corna di cervo chi diavolo era?” Quello era un elemento che non aveva considerato, dato che era praticamente incosciente. Ricordava però che avesse parlato di loro come se li avesse osservati, anche lui che si era presentato come il salvatore della situazione, guarda caso proprio alla fine. La cosa gli puzzava parecchio. Le lasciò il telefono, cosa di cui non era troppo geloso. Non erano di certo lì i suoi segreti –o almeno così credeva il medico, ignaro delle informazioni che invece quegli apparecchi potessero contenere-, nel povero iphone con l’angolo del vetro scheggiato e lo sfondo con la foto della scogliera di Besaid. Si strofinò gli occhi, cercando di riportare alla mente la scena dell’uomo vestito da cervo, che però risultava piuttosto confusa e dai contorni difformi. ”Sembri stanco.. hai dormito?” Quella domanda lo colse alla sprovvista, soprattutto perché proveniente da Nora. Abbozzo un sorrisetto divertito. Adesso era addirittura lei a preoccuparsi? Cielo, il mondo doveva essersi capovolto. ”Non molto.”.Rispose lapidario, ma sincero. E lui che pensava di passare inosservato. E invece probabilmente tutti se ne accorgevano. In quel periodo di pausa aveva cercato di ridurre il dosaggio dei tranquillanti, ma quella terapia autoimposta non aveva dato buoni frutti. Già gli attacchi di panico notturni tornavano anche con quelli, figuriamoci senza. La verità era che non bastava non pensare ai propri traumi, o fingere che non esistessero, per cancellarli. E a quello non aveva ancora trovato una soluzione. ”Va tutto bene, doc.” la rassicurò, canzonandola con lo stesso nomignolo con cui lei l’aveva chiamato prima, dato che ora i ruoli sembravano essersi invertiti, tanto da portare persino Nora a preoccuparsi per qualcuno. La verità era che lei voleva solo far credere di non interessarsi agli altri, o almeno era questo che Lukasz pensava. Aveva rischiato la sua vita, lei, per nessun motivo che non fosse stato non lasciarlo morire da solo. Se non era altruismo quello, allora non sapeva cosa lo fosse. Era ammmore quello in realtà, Liz, smettila di urlare(?). Riprese il cellulare e lo ripose di nuovo in tasca, riprendendo a camminare lungo il laghetto, senza sapere minimamente dove stessero andando. Vabbè, d qualche parte sarebbero arrivati! ”Cazzo, l’ultima volta che sono stata qui era con quel coglione di mio padre.” D’improvviso la vide innervosirsi, e accelerare il passo. Non capì perché gli avesse detto quella cosa se poi l’aveva apostrofato come tale. ”Hey, aspetta!” Allungò il passo pure lui, che era rimasto indietro come un’imbecille, raggiungendola. ”E? Insomma, che è successo poi? Che ne è stato di lui?” Chiese, forse un po’ invadente. Ma in fondo aveva visto cose ben peggiori del suo passato. Se lei avesse voluto parlarne, avrebbe potuto reggerlo. Saltavano da un discordo all’altro, come se stessero fuggendo ognuno dall’altro, pur rincorrendosi allo stesso tempo. C’erano parti che rivelavano i loro più oscuri segreti, altre che rivelavano le parti più superficiali di loro. Eppure ognuna di quelle cose non faceva paura quanto ciò che avevano già visto. ”Da dove hai detto che vieni?” Di nuovo sviò l’attenzione da sé, lei. Era un do ut des, quello cambio di informazioni. Forse la prima conversazione normale che avevano da quando si erano conosciuti. ”Non l’ho detto, credo. Sono polacco, nato e cresciuto a Varsavia. Città meravigliosa, anche se un po’ soffocante dopo un po’ in effetti. Ci sei mai stata?” Chiese di rimando. Magari sapeva già di cosa stava parlando, o magari l’aveva vista attraverso la sua particolarità, chi lo sapeva? ”Hai fame? Dovrebbe esserci un chioschetto lì da qualche parte”. Non potè che acconsentire a quella sua presa di iniziativa, proseguendo nella direzione indicata. ”Ti occupi di informatica anche per lavoro o fai altro?” Chiese poi, prendendo l’iniziativa. Sai? Mi sto occupando di una cosa del genere, ma applicata alla chirurgia, e mi piacerebbe avere qualche parere, visto che te ne intendi”. Le accennò al suo progetto, che al momento sembrava essere la cosa più normale della sua vita, anche se continuava a dargli rogne. Magari avrebbe potuto mostrarglielo, in qualche altra occasione. Robots are the new collezioni di farfalle mlmlml sto iniziando a svarionare help. Giunsero finalmente a quello che doveva essere il chiosco di cui parlava Nora, ma aveva le serrande chiuse e arrugginite, e una cascata di muschi e radici che dal tetto scendevano verso il basso. ”Ehm…da quanto non ci vieni?” Chiese, scoppiando a ridere. Non c’era un cazzo da ridere, eppure la prese con estrema leggerezza. ”Siamo sfigati, è un dato di fatto”. E con sfigati intendeva sfortunati. Su quello non c’erano dubbi. Certo, ironizzare sulla loro sfortuna non era proprio il massimo, dato che erano quasi morti a causa di questa, ma per una volta tanto almeno si poteva ridere delle sventure. Non c’erano cupole ad intrappolarli lì, se non quelle che loro stessi costruivano. Fece un mezzo giro su se stesso. ”Ok, potremmo uscire di qui e cercare qualcosa di aperto se…” Si guardò intorno. ”Se trovo la strada.” Scrutò una freccia di legno che indicava una delle uscite del parco, in lontananza. ”Trovata.” Si avviò verso quella direzione. Era la prima volta dopo tanto tempo forse che passava qualche istante senza pensare alla medicina o ai fantasmi che continuavano a tormentarlo ogni notte e ogni istante anche da sveglio. Era qualcosa di nuovo, per lui, come un fiore che nasce nel deserto. Qualcosa di destinato a svanire in un battito di ciglia, eppure sufficiente per riprendere fiato. Solo un momento. ”Che fai, vieni?” Serviva, a volte, qualcosa che non fosse parte dell’ordine, per domare il caos.

    Perdonami rileggo domani che sto svarowskirionando, di saranno degli oVVoVi. Domattina rileggo <3
     
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    Nora non aveva mai amato molto rivangare il passato. I ricordo piacevoli della sua vita erano così pochi che, voltandosi indietro, non avrebbe trovato altro che delusione e sconforto. La sua esperienza era fatta di tante cadute, di infiniti scivoloni da cui non era mai riuscita a risollevarsi del tutto. Aveva sempre pensato di essere lei la causa di tutti quanti i suoi problemi, lei la ragione principale per cui nulla nella sua vita andava mai per il verso giusto. Era nata per essere sbagliata, per essere sola e lo aveva accettato. Ogni volta che osservava un volto nuovo, che scambiava qualche chiacchiera con qualcuno, sapeva che quella sensazione di pace e di normalità non sarebbe durata che un attimo, in mezzo al vortice di emozioni negative che si agitavano nella sua mente e nel suo cuore. Aveva provato a spegnerle, a spegnere tutto, ma la mente non si poteva davvero fermare e neanche il cuore. Andavano avanti, che tu lo volessi o no e continuavano a farti provare qualcosa, che fosse positivo o negativo non aveva molta importanza. Ricordava ancora il modo in cui Tim le sorrideva dall’altro lato del letto, il modo in cui quella semplice espressione sapeva scaldarle il cuore come nient’altro aveva mai fatto. Ricordava Roy, quando erano bambini, che la cercava per avere al suo fianco qualcuno che lo capisse, che non lo giudicasse, perché quando nascevi e crescevi in una famiglia che non ti voleva l’unica cosa da fare era cercare qualcuno che ti accettasse, con i tuoi problemi, con le tue pecche, ma anche con tutto quello che potevi essere in grado di dare. Nora era sempre stata brava nell’accettare gli altri, nel trattenere i giudizi, quando era necessario, ma non era mai stata altrettanto brava ad aprirsi e a lasciare che qualcuno la accogliesse tra le sue braccia. Aveva imparato ad apprezzare il freddo e la solitudine e ormai non voleva altro che quello per se stessa. Era più semplice non doversi mai preoccupare di cosa gli altri pensavano di lei, non dover cercare di farsi comprendere, di farsi accettare. Neppure lei sapeva capire se stessa, neanche lei aveva mai fatto pace con tutto ciò che le si agitava dentro, come avrebbe mai potuto farlo qualcun altro? L’uomo era fondamentalmente una creatura egoista, che pensava sempre prima al proprio bene, ai propri desideri e soltanto dopo a quelli di tutti gli altri. Era quello a muovere il mondo, a spingere gli individui a cercare di ottenere sempre di più, a ergersi rispetto alla massa che sarebbe rimasta sempre sul fondo. A lei non era mai interessato troppo ottenere una posizione di prestigio, ottenere fama, potere. Era sempre stato il desiderio di Emilie, ciò in cui aveva sperato dal momento in cui aveva scelto di sposarsi con un medico, ciò che aveva tentato di costruire per se stessa e per sua figlia, senza tuttavia mai riuscirci. Nora stava meglio nell’ombra, nascosta dietro a uno schermo, dove nessuno avrebbe mai potuto vederla davvero. Provava un’incredibile pace nell’osservare gli altri a distanza, nel mantenere sempre quella superficie intermedia che non permetteva alcun tipo di contatto reale. Perché la finzione era molto più bella della realtà e ti lasciava molta più libertà. Si poteva essere chiunque, in qualunque momento, senza che avesse importanza chi si era davvero.
    -Cos’è una sfida a chi riesce a essere più convincente? - chiese, con una punta di sarcasmo nella voce, quando lui dichiarò di non essere d’accordo con quanto lei gli aveva appena detto. Lo accettava, non aveva mai preteso che gli altri avessero la sua stessa opinione. Il più delle volte le persone avevano idee molto contrastanti rispetto alle sue e dava quindi quasi per scontato il fatto che nessuno fosse in grado di comprenderla, di mettersi nei suoi panni. Neppure lei era in grado di raggiungere gli angoli più remoti della sua mente, quelli dove seppelliva tutto ciò che voleva dimenticare, ciò che non voleva potesse ferirla di nuovo. Il suo naturale egoismo la portava a cercare di nascondere persino a se stessa ciò che avrebbe potuto causarle dei problemi anche se, di facciata, non faceva che cercare qualcosa che potesse farle del male. Aveva fatto pace con il suo autolesionismo da molto tempo, con le ferite e le cicatrici che portava impresse nella pelle, così familiari da non fare più male. Qualcuno ne restava ancora scosso quando le vedeva per la prima volta e leggeva nei loro volti una serie di quesiti che mai avrebbero avuto il coraggio di esprimere ad alta voce. Erano buffe le persone, sempre così preoccupate dall’idea di essere giudicate da non riuscire mai ad essere davvero se stesse. Temevano così tanto l’opinione degli altri con il finire per diventare ciò che essi volevano, piuttosto che ciò che desideravano ardentemente nei loro cuori. Lei, per rendere tutto ancora più semplice, aveva semplicemente cercato di smettere di desiderare qualcosa. Perché decidere di soffrire per qualcosa che non si aveva quando si poteva evitare di volerlo? Erano loro a scegliere dopotutto, loro gli artefici del loro stesso destino.
    Un sorriso divertito e terribilmente sincero comparve sulle sue labbra quando Lukasz ammise di aver terrorizzato qualche tirocinante negli ultimi tempi con i suoi atteggiamenti u po’ sopra le righe. -Mi sarebbe piaciuto vederlo. - disse, spontaneamente, come faceva quasi sempre. Raramente si ferma a chiedersi se quello che diceva fosse giusto o sbagliato, se le sue parole avrebbe potuto ferire qualcuno. Il tatto non era mai stato una delle sue caratteristiche migliori. Tendeva spesso a parlare senza aver collegato perfettamente il cervello alla bocca, di getto, senza mettere un filtro. Non parlava mai molto, ma quando lo faceva spesso era a sproposito. Cercò di rispondere alle sue domande, anche quando questo le sembravano strane o quando pensava che in realtà non gli dovesse importare molto della risposta. Era come se, in quel momento, entrambi stessero cercando di non mantenere il silenzio troppo a lungo, riempiendolo con qualunque cosa, anche con osservazioni dette un po’ a caso, senza una reale connessione con ciò che avevano detto giusto poco prima. Era come se, improvvisamente, ci fosse qualcosa di strano tra di loro, anche se non riusciva a comprendere che cosa fosse. Era solo dovuto a ciò che avevano condiviso quel giorno? Al fatto che nessuno dei due sembrasse voler tirare davvero fuori l’argomento? O c’era qualcosa di più che lei ancora non riusciva a vedere? -Si anche. - rispose, quando lui poi le chiese qualche spiegazione in più riguardo la sua particolarità. Chiuse gli occhi per un momento, andando a cercare il telefono nella tasca del ragazzo, registrando il suo numero nella rubrica del telefono prima di fargli arrivare un messaggio, senza mettere mano al suo. “Posso anche utilizzarli a distanza” Gli scrisse quindi, riaprendo poi gli occhi e lasciando che lui leggesse il messaggio prima di continuare. -Posso utilizzare praticamente qualunque sistema elettronico senza il bisogno di entrarci direttamente contatto e a volte mi capita di leggere il linguaggio informatico come se fossero parole normali. E’ molto utile soprattutto per avere a che fare con i robot con le I.A. - andò avanti, cercando di dargli qualche indicazione in più, dato che si era mostrato interessato. Non ne aveva mai parlato davvero con nessuno perché mai qualcuno aveva provato a chiederglielo. -Posso anche manometterli o bucare più o meno qualunque sistema, o sovraccaricare gli apparecchi, facendoli andare in tilt o persino esplodere. - continuò, con una leggera scrollata di spalle, cercando di minimizzare il tutto. Era molto comodo e aveva delle buone utilità, ma per lei che ci conviveva da sempre era una cosa abbastanza normale e riteneva quindi che ci fossero particolarità molto più affascinanti della sua. -Tu invece? Ho visto qualcosa quando… ma non ho esattamente capito. - chiese a sua volta, senza voler parlare esplicitamente del rapimento, anche se ovviamente quello era l’unico momento in cui aveva visto Lukasz usare la sua particolarità.
    Lo vide ridere appena quando lei definì Besaid una gabbia di matti e un leggero sorriso si formò anche sulle sue labbra, lieta di non averlo offeso o turbato in alcun modo con le sue parole. Le dispiaceva, qualche volta, non riuscire a capire come rapportarsi con gli altri, come fare per evitare che tutti andassero via. Sapeva che la maggior parte delle volte era colpa sua, del suo atteggiamento, ma ancora non sapeva come rimediare. Un anno non era poi molto tempo però, probabilmente aveva ancora qualcosa da imparare e da scoprire su quel posto. Lasciò che lui la aiutasse a sedersi, preoccupato per quella sua temporanea assenza, ma cercò in fretta di tranquillizzarlo. -Non è la prima volta che capita e non sarà l’ultima quindi, sul serio, non preoccuparti. - gli disse quindi, sperando di suonare abbastanza convincente. Quello che non aggiunse era che, talvolta, aveva quasi l’impressione di non essere in grado di tornare indietro, di abbinare nuovamente la sua mente con il suo corpo. Forse un giorno si sarebbe persa per sempre, senza alcuna possibilità di tornare. Si chiedeva se qualcuno se ne sarebbe accorto, se qualcuno avrebbe sentito la sua mancanza, nonostante tutto. -Evidentemente non è la giusta attività. - gli rispose, soltanto, con una leggera scrollata di spalle, quando lui disse che cercare di tenersi impegnato non era abbastanza per distrarsi. Forse l’unica cosa da fare era semplicemente cercare di cambiare hobby, trovarne uno che riuscisse a prenderlo davvero, così tanto da fargli perdere la cognizione del tempo. Era così che lei riusciva a distrarsi. Alzò il capo, guardando verso il cielo con aria pensierosa quando lui le fece notare che quello che era accaduto loro sembrava troppo organizzato perché fosse una cosa del tutto casuale. Forse aveva ragione, ma allora quale poteva essere il nesso? Erano tutte persone molto diverse, che provenivano da ambienti molto diversi, non poteva esserci un reale schema logico dietro a quelle scelte. -Sicuramente in fondo a tutto c’era uno scopo, ma la scelta delle persone.. quella non mi sembrava avere uno schema. Non sono certa che ci abbiano scelto per un motivo preciso. - aggiunse quindi, cercando di chiarire quello che era il suo punto di vista. Sicuramente quelle persone volevano raggiungere un obiettivo, o magari dimostrare qualcosa a qualcuno, ma i soggetti che avevano scelto per farlo erano soltanto persone come tutte le altre che non avevano nulla di particolare.
    La sorprese la determinazione che mise nell’ascoltarla quando gli parlò della possibilità di scoprire qualcosa sulle persone. Ovviamente il suo interesse era raggiungere coloro che li avevano feriti, ma dovevano capire chi fossero prima di poter scoprire qualcosa su di loro. -Ancora non so chi siano. - specificò, perché lui non si illudesse troppo. Ancora, era quello il termine che aveva usato, perché il fatto che non lo sapesse in quel momento non voleva dire che quell’identità le sarebbe stata celata per sempre. Non si sarebbe fermata fino a che non fosse riuscita a scoprire qualcosa. Non ebbe poi alcun timore a rivelare, come se fosse stava la cosa più naturale del mondo, che ciò che desiderava era soltanto uccidere quelle persone. Forse non avrebbe potuto farlo con le sue mani, perché non conosceva sufficientemente bene le armi per poterci riuscire e perché non era certa che quel genere di lavoro svolto da lei sarebbe stato compiuto al meglio. Ma sapeva a chi rivolgersi e i soldi per ingaggiare qualcuno di molto più bravo non le mancavano di certo. Doveva soltanto trovare i responsabili poi il resto sarebbe stato sin troppo semplice. Si aspettava che un medico reagisse in maniera piuttosto dura contro parole come quelle, invece Lukasz rimase in silenzio, forse un po’ pensieroso, ma comunque in silenzio. Cercò di cambiare argomento, di fingere di non pensare più a quella storia, ma lei non riuscì a trattenersi a lungo, cercando di chiedergli qualche informazione più sui messaggi che aveva ricevuto. Era convinta che per tutti fosse stato utilizzato lo stesso metodo mentre, sentendolo parlare, si rendeva conto che non era stato così. Lui infatti era stato contattato dal centralino dell’ospedale, Chapman. Cercò di appuntarsi mentalmente quelle informazioni. Sarebbe stato più difficile forse recuperare una telefonata come quella, ma non impossibile, doveva soltanto avere le giuste coordinate. Lukasz aveva già fatto controllare i tabulati delle telefonate ricevute dall’ospedale in quell’orario, ma non era riuscito a trovare nulla. Lo vide comunque prendere il suo telefono dalla tasca, scorrere lungo l’elenco delle telefonate e poi porgerlo nella sua direzione, indicandole la telefonata incriminata che era durata per circa quattro minuti. Annuì distrattamente, mentre lui le diceva che probabilmente non sarebbe riuscita a ricavarne nulla visto che, forse, il tipo che li aveva colpiti doveva avere una particolarità simile a quella di lei. Si fermò per un istante, ragionando sulla cosa, cercando di capire come lei avrebbe potuto seguire i suoi stessi passi. Quello poteva essere un punto di partenza, ristudiare se stessa, comprendere il suo schema, per poi applicare la stessa cosa ad un altro. -A me hanno fatto arrivare un messaggio da mio cugino, dove mi scriveva che era in pericolo e aveva bisogno di aiuto. - spiegò, facendogli capire così che cosa era capitato a lei. Era chiaro che avessero cercato di colpire nei loro punti deboli, dove sapevano che avrebbero trovato terreno tenero. Ad ogni modo prese il telefono di lui, cercò di scavare leggermente più a fondo in quella telefonata ma si fermò quando iniziò a sentire il familiare mal di testa che la avvisava di un imminente svenimento. -Non posso provarci ora. - disse quindi, con uno sbuffo, massaggiandosi appena una delle tempie. -Potresti passare nel mio negozio uno di questi giorni? Lì ho tutta l’apparecchiatura che mi serve. - continuò, per poi dargli l’indirizzo di “On the net” e spiegargli come arrivarci. Visto che non era arrivato in città da tantissimo tempo dubitava che la conoscesse come il palmo della sua mano. Per lei invece, che non era mai stata altrove, il mondo sembrava decisamente un posto più piccolo.
    Si strinse nelle spalle, non sapendo davvero che cosa dire sullo strano uno con la maschera da cerco. -Non ne ho idea, ho provato a cercare qualcosa ma ad essere onesta non lo ricordo perfettamente. - disse, con un leggero sospiro. Ero così presa dall’agitazione del momento che tutti gli elementi apparentemente inutili non erano rimasti troppo impressi all’interno della sua mente. -Ha parlato di qualcosa però.. Libra? - chiese, come se non fosse sicura di aver sentito bene, né di averlo sentito a tutti gli effetti. Poteva essere stato un gioco della sua fantasia, oppure qualcosa che aveva mischiato durante il sonno. Aveva ragione, era tutto troppo ben architettato perché potesse essere una cosa del tutto casuale. -Non so perché ma… sul momento ho come dato per scontato che quel tizio centrasse qualcosa, anche se forse era soltanto la mia impressione. - aggiunse, stringendosi nelle spalle. Era sempre stata una da teorie complottiste lei, che ricamava sempre troppo su ciò che le accadeva per poter prendere troppo seriamente le sue impressioni. Gli restituì il telefono, preferendo non tenerlo troppo a lungo visto che in quel momento non poteva fare molto. Se glielo avesse portato con più calma e avesse avuto il tempo di trattenersi, magari sarebbero riusciti a capirne qualcosa. O magari no.
    Lo vide abbozzare un sorrisetto divertito quando lei mostrò un minimo di preoccupazione nei suoi confronti. Inarcò appena le sopracciglia nell’osservarlo, come a chiedergli dove avesse sbagliato in quel caso, nel porre quella domanda che a lei facevano spessissimo. Annuì appena, quando ammise di non aver dormito molto, senza chiedere informazioni in più. Anche lei non lo faceva mai, quindi non era certo la persona migliore per dare consigli su quell’argomento. Sorrise appena, scuotendo il capo, quando lui le restituì la battuta che gli aveva fatto pochi minuti prima. In un’altra situazione la parte meno divertente e più razionale di lei ci avrebbe tenuto a sottolineare che lei non era un medico e che non poteva quindi rivolgergli quelle stesse parole, ma per una volta preferì evitare e lasciare che la tensione si alleggerisse, anche se soltanto per un po’. Avevano entrambi bisogno di staccare dalle loro vite, in qualche modo, solo che forse nessuno dei due sapeva davvero come farlo. Erano entrambi troppo assorbiti da quello che facevano per potersene allontanare davvero. una risata vagamente nervosa fuoriuscì dalle sue labbra quando raggiunsero una zona da cui si teneva lontana da molto tempo ormai. Era come se una vita intera fosse passata e lei non sapesse più come rispecchiarsi in quella bambina. Accelerò il passo, cercando di allontanarsi in fretta da quell’area e lui le corse dietro, senza riuscire a capire che cosa fosse appena successo. Si fermò, inclinando appena il capo di lato nell’osservarlo quando lui le chiese che cosa era successo e che cosa ne fosse stato di lui. -Se n’è andato. - rispose, lapidaria, come se quella parte della sua vita neanche le appartenesse più. -Ha trovato una famiglia migliore, più normale, una figlia che gli piaceva molto di più e ci ha dimenticate. - continuò, raccontandolo come se avesse appena parlato di che cosa avesse mangiato il giorno prima. C’era stato un periodo in cui era stata triste per l’abbandono di Patrick, aveva provato a cercarlo, a farlo ricordare, ora non provava altro che rabbia e delusione nei suoi confronti. Spinta da quel momento di confessioni cercò di scoprire qualcosa di più sull’uomo che aveva davanti, chiedendogli quando meno da dove provenisse, per poi scuotere il capo quando le chiese se era mai stata in Polonia.-No, non sono mai andata via da questa città. - ammise poi. Non aveva mai avuto il coraggio di farlo, di allontanarsi da quella zona che ormai era divenuta sin troppo familiare.
    -Faccio molte cose. - rispose, con aria un po’ vaga, quando lui le chiese se nel suo lavoro si occupasse solo di informatica. Forse parlare del modo in cui hackerava alcuni sistemi governativi e aiutava dei criminali a uscirne puliti non era esattamente la cosa migliore da fare. Il suo interesse crebbe però quando lui le accennò ad alcune applicazioni per la chirurgia a cui stava lavorando e che magari avrebbe potuto mostrarle. Annuì energicamente e la sua espressione si fece molto più rilassata e concentrata a quel punto, come una bambina a cui era appena stato messo davanti un enorme contenitore di caramelle. -Sì, certo, assolutamente! Io ho un assegno di ricerca con l’Università di Besaid per lavorare alla realizzazione di un nuovo progetto sulle I.A. - spiegò, con un sorriso tranquillo sulle labbra, gesticolando appena mentre descriveva il suo nuovo progetto. -Non ho ancora deciso che aspetto dargli però, quegli stronzi pretendono che gli dia un volto. - continuò, con uno sbuffo davvero seccato, esprimendo tutto il suo disappunto per quella faccenda. Il chioschetto dove sperava di riuscire a trovare qualcosa da mangiare doveva aver chiuso già da un po’ di tempo e il ragazzo ironizzò sulla faccenda, appellandosi ad un po’ di sfortuna. Eppure era sicura di esserci andata di recente. Forse c’era davvero qualcosa che non andava nella sua mente, forse avrebbe dovuto fare qualche controllo. Rimase interdetta per qualche momento, confusa e immobile davanti a quella struttura, tanto che Lukasz dovette esortarla a seguirlo. Si riscosse, scuotendo appena il capo e tentando di non pensarci mentre lo raggiungeva con un leggero sprint. Non era strano per lei sentirsi disorientata ma doveva ammettere di avere un po’ di paura per la prima volta.
    Uscirono abbastanza in fretta da quel parco, evitando di perdersi in mezzo ai tanti sentieri. Una volta fuori i rumori della città li raggiunsero in fretta, accompagnati da tantissimi profumi. Non si era mai resa conto di quanti locali fossero sorti attorno a quel polmone verde, forse proprio per accogliere coloro che uscivano da lì. -Ho voglia di un hamburger e tantissime patatine. - disse, puntando in direzione di un fast food, senza neanche attendere la risposta di Lukasz. In realtà stava solo seguendo l’odore di un fast food, perché una volta entrare si ritrovò davanti una sorta di ristorantino dove non dovevi fare nessuna coda all’ingresso in attesa di essere servito e poi viaggiare con il tuo vassoio. Era ancora abbastanza presto quindi il locale non era gremito e non fu troppo difficile trovare un tavolo a cui accomodarsi. Una gentilissima cameriera offrì loro due menù e li salutò con un largo sorriso sulle labbra che Nora non contraccambiò. Diede una lettura veloce a quello che aveva davanti, prima di posarlo di nuovo di lato e guardare di nuovo il ragazzo che aveva preso posto di fronte a lei. -Quindi… dimmi un po’… cosa stai cercando di fare esattamente per aiutarti con la chirurgia? - chiese, visto che non era ancora riuscita a togliersi quel pensiero dalla testa. C’erano delle cose a cui non riusciva davvero a rinunciare, argomenti che sapevano intrigarla e appassionarla come quelli legati alla tecnologia. In effetti esistevano già degli apparecchi in grado di assistere i chirurghi durante le operazioni, aveva letto parecchie cose a riguardo, ma non sapeva quale di preciso fosse l’idea della persona che aveva davanti.
     
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