Run, baby, run!

Taylor x Debbie//

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    Sakura Blossom

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    Taylor Hoogan

    Il sobbollire del caffè era l’unico rumore nella stanza. Nemmeno il lieve soffiare del vento emetteva suoni, eppure entrava delicato col suo sospiro fresco ad accarezzare la pelle di Taylor appoggiato al bancone della cucina vicino la finestra. Indossava solo un paio di slip e i suoi tatuaggi, immagini di una vita intera impresse sulle braccia, sulla schiena e sul petto arrivando a lambire persino il collo a tratti. Disegni che sussurravano racconti di avvenimenti o sentimenti invisibili agli occhi, tutte quelle linee di diversi colori si rincorrevano tra di loro tessendo la trama di un’anima d’inchiostro esposta alla luce del sole. Come si poteva essere più nudi nella nudità? Esibire il proprio mondo interiore sulla superfice, eppure essere persone schive e mai pronte a mostrarsi davvero agli altri? Taylor era un’opera di perfetta incoerenza, un universo che si crede protetto da una nebulosa d’inchiostro che offusca la visuale, ma in realtà quella nebulosa non è così spessa come crede e permette di vedere molto più del previsto…
    L’improvviso fischio della caffettiera interruppe i pensieri di Taylor che si affrettò a prendere la macchinetta per spegnere quel suono così fastidioso per uno che si era appena svegliato. Si versò un’abbondante tazza di caffè, soffiò leggermente e ne mandò giù un sorso. Amaro, proprio come piaceva a lui. Taylor spense tutti i fornelli e si diresse verso il bancone della cucina con la sua tazza di caffè bollente e il piatto di uova strapazzate che aveva preparato prima. Si accomodò su uno degli sgabelli bianchi allineati uno accanto all’altro, col piede spostò quello più esterno per sistemarsi e si appoggiò con entrambi i gomiti al bancone. Alternava un morso e un sorso, in silenzio, come in un vecchio film muto.
    Per un istante Taylor chiuse gli occhi, godendosi la quiete del suo nuovo appartamento. Non si era trasferito da molto, fino a poche settimane prima era stato costretto a vivere con i suoi genitori e i suoi nonni materni. Taylor e la sua famiglia si erano trasferiti a Besaid da un anno perché la vecchia azienda di suo padre era fallita a causa del suo socio che aveva rubato dei soldi di nascosto per trattare con dei criminali della peggior specie. Era stato davvero difficile passare dagli Stati Uniti alla Norvegia e abituarsi a un clima e a una cultura totalmente opposte a quelle a cui erano sempre stati avvezzi. Strappati dalla propria terra natia contro la propria volontà, eppure salvati da quel luogo che aveva il sapore di lutto e speranza al contempo. I genitori di sua madre li avevano invitati a stare da loro a Besaid assicurandogli un lavoro e un tetto sopra la testa, mentre a San Antonio la gente mormorava e nonostante suo padre fosse stato scagionato da ogni accusa tutti credevano che fosse colpa sua se centinaia di persone avevano perso il lavoro. Troppe volte si erano ritrovati sui muri di casa scritte minatorie, insulti, addirittura qualcuno aveva ben pensato di lasciargli un sacchetto di pesce rancido con un biglietto che paragonava la loro famiglia al marciume e anche di peggio. Con quel peso sulle spalle e il nulla tra le mani la famiglia Hoogan fu costretta a lasciare gli Stati Uniti perché gli avevano pignorato ogni bene che possedevano per pagare i debiti dell’azienda. Quello str*nzo del socio di suo padre aveva ben pensato di scappare col suo bottino e di far perdere le sue tracce, così da lasciare a loro l’onere di tutto. Gli Hoogan erano stati costretti a metterci la faccia coi propri dipendenti, con le autorità e con la città intera. Nonostante fossero loro stessi vittime di una truffa, venivano trattati da carnefici rendendoli vittime anche di coloro che avevano bisogno di sfogare la propria rabbia per aver perso il lavoro esattamente come loro.
    Neanche ricominciare in Norvegia fu esattamente facile, i genitori di Emily (sua madre) erano prossimi alla pensione e avevano deciso di intestare il luna park di famiglia alla loro unica figlia e al loro nipote Taylor. Gli abitanti del posto non avevano subito visto di buon occhio quella mossa, li consideravano dei forestieri arrivati lì con chissà quale intenzione. Molti clienti abituali smisero di frequentare il luna park per via dei nuovi proprietari. Possibile che ultimamente ovunque mettessero le mani tutto finiva col rovinarsi? Ma i genitori di Emily, persone di forte tempra, non permisero agli Hoogan di arrendersi. Iniziarono ad organizzare diversi eventi per far conoscere Taylor e i suoi alla comunità, per far sì che la gente del posto si accorgesse che non erano cattive persone. Tempo di qualche mese e le cose parvero appianarsi: i vecchi clienti tornarono a frequentare il luna park portandosi dietro persino gente nuova. I genitori di Taylor avevano stretto delle vere amicizie lì a Besaid e anche se ci era voluto del tempo le loro fatiche vennero ripagate.
    A distanza di un anno Taylor e i suoi genitori erano riusciti a mettere da parte abbastanza soldi per non gravare sulle spalle della famiglia di Emily. Taylor decise di prendere un appartamento in affitto, mentre i suoi erano rimasti a vivere coi suoi nonni, ma ora potevano permettersi i lavori per dividere la casa e creare un proprio ingresso indipendente. Finalmente si erano ristabiliti gli equilibri, anche se Taylor pareva l’unico insoddisfatto e perennemente irrequieto. Era contento di avere la propria indipendenza e di vivere da solo, ma voleva tornare a costruire automobili, non voleva di certo passare l’eternità in quel luna park che vendeva inquietante felicità alla gente.
    Beep Beep
    Il suono della sveglia che aveva rimandato per sbaglio nel dormiveglia riempì l’atmosfera. Taylor si alzò controvoglia per spegnerla, poi prese la sua tazza di caffè e mandò giù tutto d’un fiato quel poco che era rimasto. Prese anche il piatto vuoto e mise il tutto nel lavandino, avrebbe lavato le stoviglie al suo rientro. Chiuse la finestra che si trovava esattamente sopra al lavabo, poi si diresse in camera da letto e indossò velocemente la sua tuta grigia della Nike e le scarpe da ginnastica. Andò in bagno a sciacquarsi di nuovo il viso, ne aveva davvero bisogno per non addormentarsi in piedi quella mattina. Mentre raggiungeva la porta fece una lista mentale di ciò che gli serviva per uscire: chiavi, portafoglio e telefono. Mise le prime nella tasca destra e gli altri due in quella sinistra chiudendo entrambe le zip per evitare di perdere qualcosa.
    Taylor si richiuse il portone alle spalle, dando un paio di mandate veloci, poi scese le scale a ritmo sostenuto per iniziare a prepararsi per l’allenamento di quella mattina. Ormai da anni Taylor andava a correre di buon’ora, era una routine che gli permetteva di mantenersi in forma e di sfogare lo stress in modo sano.
    Taylor scese in strada, la città era silenziosa e ancora sotto l’effetto soporifero di Morfeo, solo un paio di passanti si scorgevano in lontananza. Una nebbia sottile aleggiava sulla via, smorzando i colori vivaci dei palazzi della zona. Celeste, ocra, rosa si mescolavano a quel vapore pallido che accarezzava ogni superficie facendo perdere consistenza ai contorni degli oggetti. Persino gli alberi del parco lì accanto avevano assunto una forma asimmetrica per via della nebbia, pittrice astrattista che smussava i bordi con lievi pennellate di bianco.
    Taylor aveva iniziato a correre lentamente verso il parco, prima di fare sul serio doveva fare stretching per evitare di farsi male per aver spinto troppo il suo corpo a freddo. Di solito si fermava a sciogliere i muscoli in una piccola area attrezzata che si trovava sulla destra subito dopo l’entrata del parco, proprio di fronte al laghetto. Si avviò senza fretta, lasciando che l’aria fresca della mattina gli sferzasse la pelle delicatamente mentre raggiungeva la zona attrezzata. Si fermò continuando a correre sul posto, poi si andò a sedere accanto alle sbarre per le trazioni, allargò le gambe e con le mani si allungò per raggiungere i propri piedi. Tornò in posizione seduta e cominciò a fare lo stesso esercizio, però alternando l’allungamento prima a destra e poi a sinistra. Dopo aver fatto una serie da cinque distese il braccio destro verso il lato opposto tenendolo con la mano e molleggiando delicatamente, fece lo stesso con l’altro braccio ripetendo il movimento un paio di volte.
    Taylor si alzò in piedi per eseguire qualche altro esercizio, divaricò le gambe e con le mani andò a toccarsi i piedi, distendendo la schiena. Quando si tirò su si accorse che poco distante da lui c’era una ragazza che non aveva notato prima, aveva dei lunghi capelli dai riflessi rossi e gli occhi chiari. Si domandò se fino a quel momento non fosse stato talmente immerso nei suoi pensieri da non aver fatto caso a chi o cosa lo circondava, ma era quasi sicuro di essere solo quando era arrivato. Scrollò le spalle senza curarsene troppo e riprese i suoi esercizi.
    Il cinguettio degli uccelli e l’abbaiare di un cane in lontananza erano gli unici rumori che interrompevano il silenzio ovattato del parco. Taylor si allontanò dalla sbarra delle trazioni e si avvicinò alle sbarre basse per i salti, poggiò le mani su quella media e distese completamente le braccia, arcuando e rilassando la schiena con movimenti lenti. Si accorse che la ragazza gli si era avvicinata e che anche lei stava facendo lo stesso esercizio.
    ”E’ la prima volta che trovo compagnia a quest’ora del mattino. Anche tu sei una da fott*te sveglie masochiste?” piegò la gamba destra spingendovi il peso del corpo mentre l’altra era tesa dietro e poi fece cambio. Lentamente tornò in posizione eretta e appoggiò il piede sinistro alla sbarra, ultimo esercizio di allungamento prima di iniziare la corsa mattutina. Un paio di serie veloci da entrambe le parti ed era pronto, fece per andarsene, ma perché non rendere un po' più entusiasmante quell’allenamento?
    Taylor si accomodò sulla sbarra dietro le sue spalle, voltandosi a guardare la ragazza che ancora si stava sciogliendo. ”Che ne pensi di una gara? tre giri del lago, chi arriva ultimo paga il caffè all’altro? Potrei darti anche un po' di vantaggio visto che sei una ragazza.” la provocò senza un motivo reale, lui era fatto così un po' incosciente nel linguaggio il più delle volte. Incrociò le braccia al petto, sentendo la felpa tendersi sulle spalle. Un brivido di freddo gli percorse la schiena, il vento si era leggermente alzato e gli si era infilato sotto gli indumenti. ”Caz*o che freddo!”
    Si alzò di nuovo in piedi e le porse la mano puntando i suoi occhi verdi in quelli di lei: ”Comunque piacere, io sono Taylor.”
     
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    Il fruscio delle lenzuola era l’unico rumore che accompagnava il suo sonno turbolento quella notte. Si girava e rigirava, con un’espressione corrucciata e impaurita sul volto, senza riuscire a trovare rimedio. Si voltò ancora e ancora, alla ricerca di una posizione che la facesse sentire maggiormente al sicuro, che la tranquillizzasse, senza mai riuscire a trovarla. Muffin se ne stava acciambellato ai piedi del suo letto, a fissarla con aria incuriosita come se fosse stata una bestia strana, senza tuttavia muoversi, limitandosi a miagolare appena in sua direzione quando Deborah si muoveva troppo e minacciava di andare ad intaccare il suo spazio vitale. Erano due creature abbastanza solitarie, il gatto e la sua padrona, apprezzavano la compagnia delle altre persone, mantenendo però sempre uno spazio di sicurezza all’interno del quale rifugiarsi per poter ritrovare la propria pace. Si girò di nuovo mentre la sua fronte iniziava ad imperlarsi di sudore per la fatica che stava facendo nel cercare di sfuggire all’incubo che non sembrava avere fine. Non era la prima notte agitata della sua vita e non sarebbe di certo stata l’ultima, ormai lo aveva capito da tempo. Non si sarebbero interrotti fino a che non fosse riuscita a trovare una risposta in grado di farle mettere un punto a quella faccenda così spinosa per lei, che non le aveva mai lasciato tregua. Un altro scossone alle lenzuola e poi, spalando la bocca per riprendere fiato, si risvegliò di soprassalto mettendosi seduta. Sentiva il cuore agitarsi furioso nel suo petto mentre cercava di fare mente locale e di capire dove fosse e che cosa fosse appena successo. Ci mise diversi secondi a mettere a fuoco la sua camera, prendendo un profondo respiro per cercare di regolarizzarlo e placare il battito martellante del suo cuore. Lo aveva sognato di nuovo, l’incidente dei suoi genitori. E anche in quell’occasione l’auto che li aveva investiti era guidata da una figura interamente nera di cui non era riuscita a scorgere il viso, né alcun tratto distintivo. Non conosceva la sua identità, per quanto si fosse sforzata, per quanto avesse cercato in lungo e in largo nel tentativo di ricollegare i punti, non era mai riuscita a fare dei veri e propri passi in avanti. Ma sapeva che doveva esserci qualcosa che le stava sfuggendo, un piccolo dettaglio che le avrebbe permesso di trovare la pista giusta da seguire. Doveva soltanto avere pazienza anche se, quando si trattava dei suoi genitori, tendeva a non averne molta.
    Con uno sbuffo scocciato spostò quello che restava delle coperte da un lato e, lentamente, scese dal letto, cercando le pantofole che aveva calciato via la notte prima. Si stropicciò gli occhi mentre cercava di mettere a fuoco l’orario, le 5 del mattino. Era incredibile che, persino nel suo giorno libero, lei non riuscisse a svegliarsi ad un orario un po’ più umano. Si mosse verso la cucina, dove mise a fare il caffè mentre si preparava una spremuta d’energia, per iniziare la giornata con la giusta carica di vitamine. Era così che le diceva sempre sua madre, quando era appena una bambina. Sorrise malinconica, mentre osservava una delle ultime foto di famiglia che avevano scattato quando erano ancora tutti insieme, tenuta grazie ad una calamita sul fronte del frigorifero. I suoi fratelli continuavano a dirle che avrebbe dovuto toglierla da lì, metterla da parte, in un cassetto e cercare di superare la cosa, ma non lo avrebbe mai fatto. Glielo doveva, voleva assolutamente trovare una risposta, una spiegazione sensata a quello che era capitato allora, anche se ormai quel caso stava diventando un’ossessione per lei, tanto da non riuscire a smettere di staccare neanche quando dormiva. Il miagolio del suo gatto che cercava di attirare la sua attenzione creando un cerchio attorno alle sue gambe la riportò con la mente alla cucina in cui si trovava. -Lo so Muffin, lo so. - mormorò distrattamente, con la voce ancora impastata dal sonno, senza però spiegarsi in maniera troppo chiara. Si versò una tazza di caffè, ne mandò giù un lungo sorso e poi scavò all’interno della dispensa alla ricerca di qualcosa di adatto da dare al suo animale domestico. Le riserve iniziavano a scarseggiare, avrebbe fatto meglio a fare un salto al supermercato se voleva evitare di ritrovarsi con l’acqua alla gola. Versò il contenuto di una scatoletta all’interno di un piattino e lo offrì al gatto, per poi salutarlo con una leggera carezza al suo pelo folto e sorridere, tornando così alla sua colazione. Mangiò qualcosa di veloce, senza prestare troppa attenzione a quel momento della sua giornata. Aveva bisogno di uscire di casa, di fare qualcosa, o avrebbe finito con il chiudersi all’interno della sua stanza, seduta sul pavimento, con la testa nascosta tra le ginocchia, a pensare a tutti i ricordi peggiori della sua vita. Dopo aver lavato velocemente la tazza e le posate si buttò sotto il getto d’acqua gelida della doccia, sperando che il freddo le permettesse di svegliarsi in maniera più efficace e riattivasse le sinapsi del suo cervello. Detestava sentirsi in quel modo, in preda a delle emozioni che aveva sempre voluto tenere nascoste. Deborah non accettava mai di buon grado l’idea di chiedere aiuto, di avere bisogno delle altre persone. Era la prima ad offrirsi di fare qualcosa per gli altri, sempre in prima linea quando qualcuno aveva bisogno di lei, ma era restia all’idea di permettere alle altre persone di ricambiare la delicatezza che lei aveva bei loro confronti. I suoi fratelli avevano cercato di farle comprendere che poteva fidarsi di loro e dei suoi amici più cari, aprirsi ogni volta che ne aveva la necessità, ma lei continuava cocciutamente a voler fare tutto da sola. Mise addosso una tuta da ginnastica nera, sistemando poi i capelli in una pratica coda di cavallo che le avrebbe permesso di non doversi preoccupare di tenerli sempre lontani dal volto. Riempì la sua borraccia da sistemare in vita e sistemò sull’altro braccio il porta telefono con il porta documenti, a cui aggiunse le chiavi di casa. Si guardò allo specchio, per verificare di non aver perso nulla e poi, dopo aver fatto un piccolo riscaldamento in casa e aver indossato dei pratici guanti blu notte, uscì velocemente per iniziare con una piccola corsetta. Decise di prendere la strada che l’avrebbe condotta verso il Vennelyst Park, la sua meta preferita quando aveva bisogno di distrarsi un po’ e cercare di liberare la mente dai troppi pensieri. Adorava il profumo dell’erba bagnata e il silenzio che potevi percepire nelle prime ore del giorno. era sempre stata una persona mattiniere e preferiva di gran lunga andare a correre di buon ora, anche se talvolta era costretta a modificare la sua routine per via dei suoi orari lavorativi. Impiegò circa mezz’ora a raggiungere il parco e a quel punto rallentò per qualche minuto il ritmo dell’attività per poter riprendere un po’ di fiato e godersi il paesaggio naturale che la circondava. Imboccò il sentiero più veloce, alternando dei momenti di camminata veloce a degli scatti più repentini dove riusciva a scaricare un po’ della rabbia e della frustrazione che si portava dentro da tempo. Aveva pensato che sarebbe stato molto più semplice riuscire a fare luce su un caso di anni prima e toccare con mano quanto invece sembrasse impossibile poter fare giustizia riusciva a farle perdere la pazienza. Era possibile che lei, che tanto si prodigava per ottenere giustizia per gli altri, per trovare i colpevoli, non riuscisse a fare giustizia per le persone che più aveva amato al mondo?
    Dopo l’ennesimo scatto che l’aveva stancata più del previsto decise di prendersi una piccola pausa, praticando un po’ di stretching per allungare i muscoli e cercare quindi di non fermarsi del tutto. Chi si ferma è perduto! le diceva sempre scherzosamente suo padre ed era un piccolo dettaglio che aveva sempre cercato di tenere a mente, per quanto sciocco potesse essere. Si accorse di aver raggiunto di nuovo l’ingresso del parco e quindi si fermò in una piccola area attrezzata poco distante e di non fare il tutto con attrezzi improvvisati. Con una certa sorpresa notò la presenza di un altro ragazzo nella stessa area e cercò quindi di non disturbare, iniziando da una posizione abbastanza distante, così da non distrarlo dai suoi esercizi. Mandò giù qualche primo sorso d’acqua e poi iniziò l’allungamento socchiudendo appena gli occhi per qualche momento per rilassarsi un po’. Di norma metteva sempre della musica in sottofondo quando andava a correre ma in quell’occasione era stata così concentrata sull’evadere da casa sua da non essersi presa neanche un momento per scegliere la colonna sonora più adeguata. Sebbene avesse cercato di lasciare al ragazzo il suo spazio privato avevano comunque finito con l’incrociarsi su un esercizio alle sbarre basse. Sorrise, nel constatare che lui aveva avuto la sua stessa sorpresa nel ritrovarsi un compagno di allenamento. Sì, anche per me è stata una sorpresa trovare qualcun altro. - gli disse, senza tuttavia interrompere il suo esercizio, guardandolo per un momento, prima di riprendere i corretti movimenti. -Diciamo che sono una persona mattiniera, quando posso permettermelo. - spiegò, senza voler tuttavia ancora entrare nel merito del suo lavoro. Non sempre era una buona idea andare in giro a dire di essere un poliziotto, non tutti reagivano in maniera tranquilla e pacata.
    Con la coda dell’occhio notò il suo istinto iniziale di allontanarsi, per poi invece riavvicinarsi a lei e proporle una gara con in palio un caffè. Ridacchiò appena quando lui si offrì di darle un certo vantaggio, cercando di prenderla come una semplice battuta tra sconosciuti. Era stata abituata a quel genere di atteggiamenti quando aveva frequentato l’Accademia di Polizia e sebbene non li digerisse troppo allegramente aveva imparato a lasciarseli scivolare addosso. -Un vantaggio? Sul serio? Potrei anche essere la più grande maratoneta della Norvegia, non puoi saperlo. - scherzò lei mentre si tirava di nuovo su, sistemandosi in piedi per accettare la sua sfida. -Sai, di solito sono le ragazze ad avere freddo. - lo provocò quindi, a sua volta, con un sorrisetto irriverente sul volto, rivolgendogli una lunga occhiata. -Deborah… - rispose, allungando una mano guantata nella sua direzione, prima di guardarsi velocemente attorno. -Tre giri del lago hai detto? Bene, ci vediamo al traguardo Taylor, cerca di non farmi aspettare troppo. - disse, per poi scattare velocemente, senza neanche avvisarlo, iniziando a correre. Aveva deciso di optare per un comportamento leggermente scorretto, semplicemente perché era stata invitata a farlo e perché, per una volta, non aveva voglia di stare troppo a pensare a cosa fosse e a cosa fosse sbagliato. Sapeva che avrebbe potuto vincere in ogni caso, era stata abituata a percorrere lunghi tragitti per poter superare l’esame come detective, per essere pronta per possibili inseguimenti ed era sempre stata una tra le più veloci del suo corso, ma dopotutto perché scoprire troppo in fretta le proprie carte? Era di gran lunga più divertente permettergli di scoprirlo facendogli mangiare la sua polvere.
     
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    Taylor Hoogan

    La vita della gente ti scorre accanto e ti entra nelle orecchie, nella pelle anche quando non vuoi. La frenesia della città inizia dalle 8.00 in poi e tutto si accende al punto di diventare accecante, la melodia delle chiacchiere della gente impazza per le vie e ti assorda, l’odore delle emozioni delle persone impregna l’aria rendendola speziata a vari strati. Tutto si risveglia d’improvviso. Le anime vagano mescolando i frammenti della loro vita nello stesso luogo, creando un turbinio multi colore senza una forma ben definita, troppe schegge dai contorni differenti si accostano tra di loro per racchiuderle in una sola parola. Eppure prima di questo micro mondo ce n’è un altro, fatto di silenzio e di colori più delicati accarezzati da raggi ancora accennati. Un prequel di strade vuote, dove basta un solo passante per riempirle con l’eco della sua presenza che risuona selvaggiamente nel vuoto assoluto.
    “Crash!”
    Proprio in quella quiete indefinita quel sabato mattina si avvertì chiaro come un’esplosione l’incontro di due anime sconosciute. Taylor era uscito di buon’ora per allenarsi e si era diretto al Vennelyst Park che si trovava a pochi minuti di cammino da casa sua, doveva attraversare un paio di vie parallele per arrivarci e per godere dei suoi spazi verdi. Da quando si era trasferito a Nordengveien* il parco era diventato il suo punto di riferimento per gli allenamenti, a volte ci andava anche di pomeriggio se toccava a lui il turno mattutino al luna park. Prima, quando viveva con la sua famiglia, era costretto a correre lungo i marciapiedi di una zona più urbana e decisamente troppo lontana dagli spazi verdi di Besaid. Adesso invece apprezzava molto quella piccola area attrezzata vicino all’ingresso sud del Vennelyst Park, ci aveva messo davvero poco a raggiungerla e in quel momento stava facendo qualche esercizio di riscaldamento prima di iniziare la corsa di routine attorno al lago. La sua serie di allungamenti venne interrotta per una frazione di secondi dalla presenza di una ragazza che non aveva notato prima, una vera rarità incontrare qualcuno lì a quell’ora, con quel pensiero nella mente le rivolse la parola domandandole se anche le sue sveglie fossero dannatamente mattiniere.
    ”Sì, anche per me è stata una sorpresa trovare qualcun altro. Diciamo che sono una persona mattiniera, quando posso permettermelo.” anche la ragazza non interruppe il suo allenamento per scambiare due chiacchiere, entrambi continuavano a eseguire movimenti di riscaldamento, mentre con la coda dell’occhio si erano scrutati reciprocamente. A guardarla meglio era davvero una bella ragazza, semplice nel trucco e nell’abbigliamento, un punto a suo favore visto che Taylor considerava il make up (o come diavolo si diceva) una maschera che le donne usavano per non farsi vedere dalla gente per quello che erano realmente a un primo sguardo.
    ”Quindi oggi è il mio giorno fortunato?” le lanciò una frecciatina senza rifletterci troppo, solo un pizzico d’ironia a colorargli la voce. Taylor fece i suoi ultimi esercizi alla sbarra bassa e si mosse per andarsene, ma poi il suo istinto lo fece tentennare e le propose una sfida per movimentare quell’allenamento. Perché non sfruttare quell’inaspettata compagnia per condividere la solita corsa in solitaria? Taylor si finse un po' galante dandole l’opportunità di partire con un certo vantaggio, insomma lui si allenava da diversi anni nella corsa e non sapeva molto di quella ragazza, infatti ciò che gli rispose poco dopo confermò il suo pensiero: ”Un vantaggio? Sul serio? Potrei anche essere la più grande maratoneta della Norvegia, non puoi saperlo.” la ragazza era stata allo scherzo senza offendersi, almeno quello era ciò che dava a vedere. Taylor le rivolse un ghigno divertito per la sua reazione, effettivamente non essendo norvegese di origine non aveva la più pallida idea dei volti degli sportivi della zona. Viveva a Besaid da un anno, ma non si era impegnato molto per saperne di più su quel posto, soprattutto perché aveva iniziato ad accettare quel maledetto trasferimento da poco tempo.
    ”In quel caso perderei a testa alta e con onore, miss maratoneta!” le rispose con la voce naturalmente roca, le fece una riverenza scherzosa col capo e la osservò mentre si sollevava dall’esercizio di allungamento. In quel momento un alito di vento più forte degli altri lo fece imprecare a voce alta e fu il turno della ragazza di prendersi gioco di lui. ”Sai, di solito sono le ragazze ad avere freddo.” gli rivolse un sorriso impertinente che le donava parecchio, ma quello era un chiaro segno che lo stava prendendo per il culo! Effettivamente se lo meritava, lui era stato il primo a prendersi confidenza e a scherzare sul suo essere del gentil sesso.
    ”Caz*o, mi hai appena dato della femminuccia! Questo vuol dire che non mi risparmierò contro di te. Mi aspetta un caffè bollente pagato…” le lanciò uno sguardo di sfida, stringendo di più le braccia al petto. Sapeva farsi rispettare quella ragazza con quell’ironia dal sapore leggero, di primo impatto non sembrava una persona permalosa altrimenti Taylor si sarebbe beccato un sonoro schiaffo in viso. Non che non fosse già successo in passato per la sua strafottenza e alcune volte se lo era meritato e decisamente cercato. Sapeva essere un vero str*nzo quando si impegnava, ma di solito accadeva quando dall’altra parte si ritrovava ad avere a che fare con persone prive di carattere o di spessore che si aspettavano da lui atteggiamenti preimpostati e stereotipati. Invece fino a quel momento la conversazione era andata avanti senza grandi drammi perché la ragazza aveva capito i suoi toni sarcastici che non volevano essere offensivi o altro. Infatti nonostante le sue battute la giovane si presentò: ”Deborah…” gli porse una mano coperta da un guanto, lei era stata previdente a differenza sua sulla temperatura, anche se era strano andare a correre coi guanti. Non vi badò troppo in quel momento, le strinse la mano con veemenza guardandola negli occhi.
    ”Deborah…” ripeté il suo nome a bassa voce, come se così facendo lo avrebbe ricordato meglio.
    ”Tre giri del lago hai detto? Bene, ci vediamo al traguardo Taylor, cerca di non farmi aspettare troppo.” senza alcun preavviso la ragazza gli voltò le spalle ed iniziò a correre prima che lui potesse avere il tempo di realizzare l’avvenuto. Taylor scosse la testa con aria divertita e le andò dietro, non si aspettava una mossa scorretta da parte di Deborah. Mai giudicare un libro dalla copertina era la frase più banale che potesse passargli per la mente in quel momento, ma non la intendeva in senso negativo, quella ragazza fino a quel momento aveva reagito sempre in modo diverso rispetto a quello che si aspettava da lei.
    ”In realtà avevi davvero bisogno di quel vantaggio, eh?” la canzonò a voce alta mentre la raggiungeva. Era partita con uno sprint inaspettatamente veloce, aveva faticato per recuperarla al volo. Che fosse vero che si trattava di una maratoneta? ”Non te la cavi male con gli scatti, lo ammetto. Ma credo proprio che al traguardo avrò anche tempo per sbadigliare.” Taylor spinse più forte per sorpassarla e non aggiunse altro per guadagnare fiato, con la coda dell’occhio vide il lago accanto a se’ leggermente increspato per il soffio del vento e per via delle papere e dei cigni che nuotavano lentamente sulla superficie.
    Correva cercando di mantenere il respiro regolare almeno per il primo giro, di modo da dosare il tutto per i prossimi due giri. Il lago non era particolarmente grande, percorrerne l’intero perimetro non era un’impresa titanica, certo forse lui aveva esagerato proponendo di farlo per tre volte soprattutto tenendo conto del fatto che lo aveva proposto a una persona di cui non sapeva molto sulle sue condizioni fisiche. Ormai aveva fatto la sua mossa ed erano in gara, si lasciava accarezzare dal vento frizzante della mattina certo che Deborah non avrebbe recuperato terreno, invece si accorse con la coda dell’occhio che era al suo fianco mantenendo un ritmo sostenuto. Un ghigno divertito gli distese le labbra mentre terminava il loro primo giro del laghetto. Era un testa a testa il loro.
    ”Non è che sei una fott*ta maratoneta per davvero?” le domandò mentre continuavano a correre l’uno accanto all’altro, illuminati dai raggi solari che mano a mano filtravano sempre di più tra le fronde degli alti alberi del parco. Chissà qual era la verità…?




    Nordengveien è il nome di una via reale norvegese che ho utilizzato per rendere più credibile l'ambientazione!
     
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    Sentire i più reconditi desideri delle altre persone e percepire quelle che erano le loro intenzioni più prossime era un cruccio che aveva accompagnato Deborah sin dalla più tenera età. In principio aveva pensato che fosse una cosa carina, che avrebbe potuto aiutarla a capire maggiormente le persone e sapere che cosa aspettarsi da loro, come comportarsi in ogni circostanza. Era stato molto facile stringere la mano di suo padre, da bambina, e vedere il bellissimo regalo che aveva intenzione di fare alla mamma per il loro anniversario e aveva pensato che tutti i contatti con le altre persone, tutte le immagini che queste gli avrebbero trasmesso, o i pensieri, sarebbero stati altrettanto positive. Purtroppo aveva però scoperto in fretta quanto si sbagliasse e quanto, spesso, le intenzioni delle altre persone non fossero affatto positive. Era stato proprio dopo aver iniziato a vedere delle immagini non proprio positive che sua madre le aveva proposto di provare ad indossare dei guanti, nella speranza che un sottile strato di tessuto potesse proteggere la sua bambina da tutti gli orrori del mondo, e per fortuna la sua idea aveva funzionato. Da quel momento per Deborah indossare dei guanti che fungessero per lei da filtro nei confronti del resto del mondo era stata l’abitudine e quando restava senza, in particolare in casa, quando era da sola, si sentiva come se mancasse una parte importante di lei. Non percepire indosso la presenza di quello che per gli altri poteva sembrare un semplice accessorio, la faceva sentire esposta, vulnerabile. In alcune occasioni le capitava di ripensare, con un sorriso, a tutte le storie che i suoi genitori avevano inventato sui suoi guanti, quando era piccola, per cercare di farle sembrare meno strano doverli indossare e non farla sentire troppo sbagliata o diversa nei confronti degli altri bambini. I suoi guanti erano come il mantello dei supereroi, un tratto distintivo che la rendeva speciale e unica nel suo genere. Le particolarità erano senza dubbio una delle cose più bizzarre di Besaid e quella a cui i nuovi arrivati avevano forse più problemi ad abituarsi. Nel suo caso aveva dovuto imparare a conviverci abbastanza in fretta, per evitare che questa potesse schiacciarla o terrorizzarla a tal punto da convincerla a non uscire più di casa e non avere contatti con nessuno. Alcune persone sviluppavano delle particolarità distruttive, o molto difficili da tenere a bada, che rendevano la loro vita un inferno, altre invece avevano delle cose assolutamente positive, che non sembravano recare alcun tipo di problema alla loro routine quotidiana. Lei sentiva di essersi piazzata nel mezzo e di avere a che fare con qualcosa che poteva rivelarsi utile ma doloroso al tempo stesso e che andava quindi dosato e utilizzato con estrema cautela se non voleva subirne troppo gli effetti. Da quando aveva iniziato ad indossare i guanti non aveva più permesso alle persone di trasmetterle in maniera fortuita le loro intenzioni, aveva deciso che sarebbe stata lei a scegliere quando farlo e quando non farlo, quando concedere loro di sfiorarla davvero e quando invece rivolgere un fugace contatto, mantenendosi sempre alla giusta distanza di sicurezza. La sua forma di protezione nei confronti del mondo, l’unico lascito che sua madre aveva potuto concederle prima di andarsene in maniera prematura.
    -Fortuna, sfortuna, sono concetti relativi. Dipende tutto dal punto di vista. - mormorò, con una leggera scrollata di spalle, e un sorriso sul volto. Non aveva mai creduto troppo nella fortuna, preferendo credere che fossero le persone i veri artefici del proprio destino. Inoltre aveva sempre pensato che il concetto di fortuna e di sfortuna non fossero in alcun modo oggettivi. Quello che per qualcuno poteva considerarsi un evento incredibilmente fortunato poteva invece, per qualcun altro, essere un’incredibile sciagura. Il battito d’ali di una farfalla, si diceva, poteva generare un uragano dall’altro lato del mondo. Nel loro piccolo, qualcuno avrebbe potuto considerare fastidiosa l’idea di dover condividere il proprio allenamento con qualcuno, soprattutto se si era svegliato particolarmente presto per cercare di evitare quella possibilità. Per lei d’altronde non era affatto un problema e non sembrava esserlo neanche per il ragazzo che aveva deciso di attaccare bottone, salutandola per primo. Si sentì in un certo modo punta nell’orgoglio quando lui le propose una sfida, offrendole però un certo vantaggio soltanto perché lei era una ragazza. Immaginando che potesse semplicemente trattarsi del suo modo di attaccare bottone con le persone e di mostrarsi come un gentiluomo, cercò di stare al gioco, ironizzando sul fatto che concederle un vantaggio potesse essere una pessima idea. Neanche lei ovviamente poteva conoscere le capacità di lui, la sua resistenza nella corsa e la sua velocità, ma il suo carattere non le aveva mai permesso di rifiutare una sfida o di pensare, in partenza, di non poterla vincere. I suoi genitori le avevano insegnato a credere sempre in se stessa e nelle proprie capacità, a non darsi mai per vinta, neanche quando gli ostacoli sembravano inseparabili, e crescere con i suoi due fratelli le aveva insegnato a non sentirsi mai inferiore ad un ragazzo e a non pensare di poter avere qualcosa in meno di loro. Jan e Isak, infatti, erano stati i primi contro cui aveva dovuto combattere per provare il suo valore, e allo stesso tempo anche i primi in grado di riconoscerlo. -Ci vuoi anche una fetta di torta con quel caffè? - continuò a prenderlo in giro lei, senza accennare a far sparire dal suo volto quel sorriso di sfida che appariva sempre quando iniziava a tramare qualcosa. Crescere con due ragazzini d’altronde le aveva insegnato che le regole erano fatte per essere infrante e che i combattimenti duravano per tutto il tempo necessario*.
    Per questo motivo, del tutto intenzionata a vincere ad ogni costo, anche contro un completo sconosciuto che aveva appena incontrato, iniziò a partire senza dargli neanche il preavviso, giusto per coglierlo un po’ alla sprovvista. Rise, piuttosto divertita, quando lui le chiese se avesse effettivamente bisogno di quel vantaggio. -Mai abbassare la guardia.. - lo canzonò lei, con una leggera risata, continuando a correre, mentre lui accorciava lentamente le distanze. Partire troppo velocemente per i percorsi lunghi non era mai indicato, per poter tenere una buona resistenza era meglio procedere con un passo uniforme, senza sforzarsi troppo per evitare di affaticarsi troppo in fretta. -L’importante è crederci. - rispose, quando lui affermò con una certa sicurezza che, nonostante avesse avuto un ottimo sprint iniziale, sarebbe comunque riuscito a batterla senza troppi problemi. Lo vide accelerare per portarsi più avanti e lo lasciò fare, marcandolo stretto con una certa attenzione per non farlo scappare via troppo velocemente. Voleva studiarlo un po’ per capire quale era il suo passo e quanto si sarebbe dovuta impegnare quindi per riuscire a raggiungerlo. C’era una leggera brezza quella mattina, piuttosto piacevole, che però lasciava intendere che presto il clima sarebbe diventato più freddo e pungente e andare a correre a quell’ora del mattino non sarebbe più stata un’impresa da prendere alla leggera. Lentamente, poco prima di terminare il primo giro, accelerò lentamente, senza troppi sforzi, per riuscire a riportarsi di fianco a lui e fargli sapere che era ancora lì e che non aveva intenzione di mollare la presa. -Se te lo dicessi perderei tutto il mio mistero… - rispose soltanto, con un sorrisetto tranquillo, quando lui le chiese se la cosa della maratoneta fosse vera, per poi concentrarsi di nuovo sulla corsa e mantenere il silenzio, restando accanto a lui, passo dopo passo. Iniziò mentalmente a canticchiare alcune canzoni, che l’avrebbero aiutata a mantenere il ritmo durante la corsa, riuscendo così a terminare anche il secondo giro senza troppi problemi. Sapeva che il terzo non sarebbe stato abbastanza semplice, ma sulle note mentali di “Don’t stop me now” dei Queen cercò di accelerare gradatamente il passo, facendo un ultimo sforzo per staccarsi dal ragazzo e portare a termine quell’impresa. Cercò mentalmente di pensare che fosse una faccenda di lavoro, che fosse importante raggiungere la meta per prima per arrivare a catturare un criminale e quello riuscì a darle lo sprint necessario per accelerare ancora e concedersi un po’ di distacco. Non era tanto, ma era abbastanza per tagliare il traguardo per prima. Decelerò lentamente, senza fermarsi di botto, riprendendo lentamente fiato mentre si piegava appena verso il suolo.
    -Ok, lo ammetto sei stato un osso duro. - disse lei, dopo qualche momento, avvicinandosi a lui di qualche passo e porgendogli di nuovo la mano guantata in segno di approvazione. -Andiamo a prenderci quel caffè, ce lo siamo meritato. - aggiunse poi, rivolgendogli un leggero occhiolino, prima di prendere la strada per un piccolo baretto che si trovava all’interno del parco. Era uno dei pochi all’interno di quel perimetro ad essere aperto anche a quell’ora del mattino, oltre ad essere il suo preferito. Era lì che si fermava a fare colazione quando lavorava tutta la notte, prima di rientrare a casa. -Dentro o fuori? - chiese a Taylor, lasciandogli la scelta del tavolino giusto un attimo prima che la Signora Nilsen li accogliesse con un caloroso sorriso. -Detective Hagen! Che piacere vederla! Giorno libero? - le chiese radiosa, mentre depositava i menù sul loro tavolino. -Oh andiamo Julia, quante volte ti ho detto di chiamarmi semplicemente Debbie? - la ammonì lei con un’occhiata più seria, mentre l’altra donna le rivolgeva un veloce cenno della mano, come per dirle che non aveva alcuna importanza. -Vi lascio qualche minuto per decidere. - terminò, con un sorriso, allontanandosi verso l’interno del baretto, per lasciare ai due ragazzi un po’ di spazio. -Svelato l’arcano, non sono una maratoneta. - ammise a quel punto Debbie, poco dopo, con una leggera scrollata delle spalle e un sorriso tranquillo.

    *Fight Club, settima regola.
     
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    Sakura Blossom

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    Taylor Hoogan

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    Troppe volte si era ritrovato a dover correre nella sua vita e non per piacere come quella mattina, ma per sopravvivere o per agguantare tra le dita la vita di qualcun altro e distruggerla. Aveva lacerato pelle e muscoli, ma anche famiglie rovinando l’esistenza di padri e madri debitori con i Black Riders, la gang più temuta di San Antonio. Quante volte gli era stato commissionato di spaventare perfetti sconosciuti che avevano avuto la sventurata idea di fare affari col gruppo di cui lui stesso faceva parte? Troppe. Quante volte aveva rincorso per i vicoli persone di cui non sapeva nulla? Delle figure senza volto che per lui non erano altro che prede da destabilizzare mentalmente per ricordargli che avevano dei conti da saldare. Poi un giorno ricevette una commissione che per la prima volta mise Taylor stesso in fuga, i Black Riders gli avevano chiesto di uccidere un cliente per loro. In passato aveva minacciato e fatto pressione sulle persone, ma non aveva mai strappato l’anima a un corpo prima di allora. Non poteva dire di no, altrimenti avrebbe rischiato di morire lui stesso, ma come poteva adempiere ad un compito così disumano? Taylor non poteva definirsi uno stinco di santo, ma non era davvero privo di sentimenti come si mostrava al mondo, percepiva chiaramente il terrore delle sue vittime e a volte mosso a compassione le aveva lasciate fuggire inventando scuse credibili per ogni occasione. Anche in quel caso accadde la stessa cosa, Taylor incontrò l’uomo che avrebbe dovuto uccidere se non gli avesse restituito i soldi che doveva ai Black Riders, ma quando venne il momento di sparargli un colpo mortale al petto non ci riuscì. ”Vattene, caz*o! Fallo prima che cambi idea!” le mani sulla faccia, con la pistola che gli premeva sulla pelle. ”Porca Put*ana!” scaraventò a terra l’arma con la sicura inserita. Aveva fatto un casino, aveva appena firmato la sua condanna per l’inferno, sapeva che quella sua compassione del caz*o lo avrebbe rovinato prima o poi, il poi era giunto troppo presto e non sapeva cosa aspettarsi per quell’insubordinazione.
    Pochi giorni dopo Taylor giaceva a terra nel vialetto di casa sua, la gamba rotta e la spalla fuoriuscita dalla sua posizione naturale, lividi lungo tutte e due le braccia e sangue che sgorgava dalla bocca, in alcuni punti ormai rappreso. Da quanto tempo era lì fuori senza che nessuno lo avesse ancora notato? I suoi genitori erano a lavoro e lui aveva perso la cognizione del tempo, anche quella di se stesso a tratti. Era svenuto per il dolore almeno un paio di volte e non riusciva a gridare per farsi sentire dai vicini tanto sentiva la mandibola indolenzita. Forse era fratturata anche quella? Non poteva muoversi, sentiva il sapore ferroso del sangue sulla lingua e con la coda dell’occhio si accorse che a terra vicino al suo viso ce ne era dell’altro, non poteva muoversi altrimenti avrebbe perso conoscenza ancora.
    ”TAYLOR!” finalmente una voce familiare strillò il suo nome da una distanza non decifrabile, era sua madre la cui disperazione era percepibile ancor prima che la sua figura comparisse nel suo campo visivo. ”Che cosa è successo?” la donna ebbe il buon senso di non toccarlo, infilò le mani tremanti nella borsa facendola cadere a terra al suo fianco per l’agitazione, poi riuscì ad estrarne il cellulare e chiamò l’ambulanza. ”Fate presto, mio figlio è in condizioni disp…” l’audio scemò tutto d’un tratto, l’immagine di sua madre si fece sfocata, il vialetto di casa sua era diventato un caleidoscopio di ombre e colori, poi il buio completo.

    Quella mattina andare a correre si era rivelata fonte di una piacevole conoscenza, ormai era da diverso tempo che la parola “correre” non assumeva più significati nefasti nella vita di Taylor. La presenza della giovane ragazza che si stava allenando al suo fianco ne era una prova. ”Fortuna, sfortuna, sono concetti relativi. Dipende tutto dal punto di vista.” effettivamente non poteva darle torto, aveva appena detto una grande verità. Lui più di tutti aveva imparato a sue spese che ciascun individuo crea il proprio karma tramite le scelte che fa, il suo passato era costellato di decisioni sbagliate che si erano riversate su di lui in conseguenze negative, invece da quando si era trasferito a Besaid la sua vita era più calma e più serena. Anche quelle semplici chiacchiere sarebbero state un’utopia durante i suoi anni a San Antonio, non solo per le sue frequentazioni sbagliate, ma anche per il suo carattere irrequieto e sconsiderato. Quanti cambiamenti da quando si era lasciato alle spalle le macerie del suo passato, Besaid era stata la sua seconda occasione, la sua città della fenice, anche se ci aveva messo troppo tempo ad accettarlo.
    ”Allora è la mia giornata ‘relativamente’ fortunata!” le fece l’occhiolino mentre la osservava tornare in posizione eretta dai suoi esercizi. Un brivido di freddo lo fece passare per una femminuccia agli occhi della ragazza che si prese gioco di lui, in tutta risposta Taylor rimangiò la sua proposta di concederle un vantaggio, sottolineando che si sarebbe impegnato per batterla pregustando un caffè bollente gratis.
    ” Ci vuoi anche una fetta di torta con quel caffè?” Deborah aveva sempre la battuta pronta, non solo si era dimostrata disponibile a scherzare con un perfetto sconosciuto dall’aria poco raccomandabile come lui, ma gli teneva testa con battute divertenti e sagaci. Non sembrava troppo preoccupata dai suoi tatuaggi in evidente mostra sul collo o dalla sua barba curata, ma folta che gli copriva parte del viso. Chissà perché tatuaggi e barba lunga erano uno stereotipo collegato alle persone losche e pericolose? Lui effettivamente era stato entrambe le cose, anche se il suo io più profondo non era cattivo ed era stata proprio quella minuscola luce buona a far deragliare il treno della sua vita. Poteva una particella così piccola rivoluzionare tutto? A quanto pareva la risposta era affermativa. ”Certo che ci voglio anche la torta vicino, non capita tutti i giorni di farsi pagare la colazione da una ragazza.” c’era aria di sfida nell’aria, si scambiavano sorrisi impertinenti a vicenda, stuzzicandosi a chiacchiere prima di giungere alla vera competizione che iniziò senza un minimo di preavviso. Deborah gli intimò di non farla aspettare troppo al traguardo prima di partire con uno scatto che lo sorprese, ’però, veloce la ragazza!’ Taylor la raggiunse dovendo spingere più di quanto credesse per starle dietro, nonostante questo le chiese se per caso non fosse stata scorretta nei suoi riguardi perché aveva davvero bisogno di un piccolo vantaggio. ”Mai abbassare la guardia..” fu la risposta della ragazza alle sue provocazioni, non poté far altro che annuire alle sue parole, non voleva sprecare fiato prezioso per la gara, anche se dovette ammettere a voce alta che lo scatto di Deborah era stato notevole, ma che l’avrebbe attesa al traguardo sbadigliando se si fosse impegnato seriamente. ”L’importante è crederci.” a quelle parole Taylor spinse per staccarsi dalla ragazza, la sorpassò facilmente, ma pochi attimi dopo si accorse che Deborah era di nuovo al suo fianco. Un testa a testa che necessitava molta più energia di quanto credesse, infatti quando terminarono il primo giro in parità le chiese se per caso non fosse una maratoneta ed ottenne l’ennesima risposta ironica che lasciava la sua identità in sospeso: ”Se te lo dicessi perderei tutto il mio mistero…”
    ”Secondo me in realtà sei una specie di super eroina!” quello fu l’ultimo scambio di parole per tutto il resto della corsa, tre giri non erano pochi e loro avevano appena iniziato il secondo, se volevano arrivare fino in fondo dovevano stare attenti a dosare il fiato col contagocce. Il rumore dei loro passi e il loro respiro affannato si alternava ai suoni naturali del parco, di tanto in tanto il canto degli uccelli del mattino si armonizzava a loro. Non c’erano elementi di disturbo che potessero distrarli da quella competizione improvvisata, Taylor iniziò a pensare alla sua macchina da corsa preferita in movimento per motivarsi a non rallentare il passo. Quel rombo familiare nelle orecchie, lo aveva sentito così tante volte quando era andato a vedere le gare dal vivo. Dal momento che suo padre aveva un’azienda che produceva macchine da corsa, molte volte gli avevano regalato i biglietti gratuiti per le maggiori competizioni statunitensi. In quell’istante le immagini dei sorpassi più belli gli sfrecciavano nella mente, ma nonostante tutto sul finire dei tre giri Deborah lo sorpassò in uno sprint finale inaspettato e iniziò a rallentare solo dopo aver tagliato il traguardo. Anche Taylor decelerò lentamente, fermandosi un paio di passi più avanti di lei. Si portò le mani alle ginocchia e si appoggiò su di esse per riprendere fiato.
    ”Ok, lo ammetto sei stato un osso duro.” la ragazza gli porse la mano e lui la strinse con forza. ”Caz*o, io ti avevo sottovalutata! Sei stata una degna avversaria.” Taylor le rivolse uno sguardo di sorpresa mista ad ammirazione, non credeva che sarebbe stato così difficile batterla quando le aveva proposto una sfida. Anzi adesso toccava a lui offrirle la colazione e non gli dispiaceva affatto, anche senza partire all’improvviso probabilmente avrebbe perso perché si era approcciato con eccessiva sicurezza. ”Andiamo a prenderci quel caffè, ce lo siamo meritato.” il ragazzo annuì, seguendo Deborah verso un piccolo bar che si trovava all’interno del parco, qualche volta ci si era fermato anche lui per un caffè soprattutto quando dopo gli allenamenti doveva scappare velocemente a lavoro. ”Dentro o fuori?” gli chiese Deborah. ”Ci hai preso gusto a trattarmi come se fossi io la ragazza, eh! Allora facciamo dentro così ci scaldiamo un po'.” Taylor le rivolse un ghigno divertito e le fece cenno di entrare, ma mentre stavano per farlo si avvicinò la proprietaria del locale che salutò Deborah con calore e confidenza chiamandola “detective Hagen”. Quindi era una poliziotta? ’Woah! Ho gareggiato contro un fott*to sbirro, ecco perché era così veloce!’ si ritrovò a pensare con sorpresa.
    ” Oh andiamo Julia, quante volte ti ho detto di chiamarmi semplicemente Debbie?” da come parlavano le due donne probabilmente non era la prima volta che Debbie si fermava in quel posto, forse per le sue colazioni dopo allenamento? ”Vi lascio qualche minuto per decidere.” Julia rivolse un sorriso a entrambi e si allontanò verso l’interno. ”Svelato l’arcano, non sono una maratoneta.” la ragazza lo disse con serenità, come se non fosse un’informazione così rilevante, eppure non aveva idea di quanto quella notizia fosse un duro colpo da mandare giù. La fedina penale di Taylor non era esattamente immacolata e in passato, ogni tanto anche ora, aveva fatto uso di Marijuana e qualche altra sostanza stupefacente. Insomma lui era la persona più lontana eppure più vicina al mondo di quella ragazza, Deborah doveva aver messo le manette a molti come lui ed anche a vere fecce dell’umanità che avevano compiuto atti ben peggiori dei suoi. Una poliziotta e un ex membro di una gang, il destino aveva dato il meglio di se’ per farli incontrare in un contesto dove Taylor non fosse costretto a indossare le manette (e non per piacere).
    ”Sto per offrire la colazione a una donna di giustizia, devo stare attento a come rispondo altrimenti finisco in manette.” la voce leggermente roca di Taylor trasudava sarcasmo, sollevò le sopracciglia in un’espressione buffa prima di voltarsi e precedere Deborah all’interno del locale. Le fece cenno di accomodarsi ad un tavolino che si trovava nell’angolo più lontano dall’ingresso, da lì potevano ammirare il panorama del parco dalle vetrate che si estendevano lungo tutta la parete alla loro destra e lungo quella alle loro spalle. Si trattava di un piccolo locale dall’aria rustica, ma moderna: le sedie bicolore avevano lo schienale che a guardarlo da dietro sembrava sorretto da un cavalletto da pittura, invece i tavolini avevano le gambe sottili in metallo nero e le superfici in legno erano in noce e presentavano delle venature naturali più scure. L’intera stanza era illuminata da poche lampade da soffitto dalle forme circolari, molto moderne, in tinta col soffitto dai toni grigi. Il bancone del bar era la parte più originale di tutto il locale, la parte esteriore che dava verso la sala era composta da frammenti di legno fini di forma rettangolare che si incastravano tra di loro dando un senso di tridimensionalità, in quanto erano posizionati di proposito a profondità diverse ed erano di colori diversi.
    Taylor studiò il menù rapidamente per scegliere qualcosa da mangiare assieme a un caffè americano, quando trovò qualcosa che catturò la sua attenzione richiuse il libricino e dedicò tutta la sua attenzione alla ragazza. ”Allora, detective Hagen, mi pare di aver capito che prendi a calci nel culo i cattivi, quindi ci avevo preso! Sei davvero una specie di super eroina, no?” puntò i suoi occhi verdi in quelli di lei celando egregiamente quella strana sensazione che gli aveva suscitato la notizia di trovarsi davanti a una poliziotta. Non temeva di essere arrestato da un momento all’altro, ma più di essere giudicato da una persona che probabilmente non aveva un vissuto oscuro come il suo alle spalle. Aveva fatto cose di cui non andava fiero nel suo passato, ne aveva parlato solamente col suo unico amico e collega Finn fino a quel momento ed era stato difficile già con lui, figurarsi con qualcun altro. Quelli non erano di certo argomenti da toccare al primo incontro con una persona, ‘sai, sono stato con una gang per diversi anni quando vivevo a San Antonio, però… hey, costruivo macchine per pagarmi casa da solo.’ Quelle erano parole taboo per quella mattinata. Deborah non lo conosceva, non sapeva chi era stato, ma poteva mostrarle chi era diventato.
    ”Siete pronti?” Julia si era avvicinata a loro con passo leggero e Taylor non aveva notato la sua presenza finché non aveva proferito parola. Le lanciò un’occhiata veloce e poi si rivolse a Deborah: ”Cosa prendi?” era il suo turno di scegliere per prima visto che gli aveva permesso di decidere dove sedersi, come se davvero fosse lui la ragazza tra i due. Dopo il suo ordine Taylor si rivolse a Julia con quell’espressione neutra che in molti scambiavano per strafottenza. ”Io prendo un caffè americano senza zucchero e un muffin banana e cioccolato.” prese entrambi i menù dal tavolo e li porse alla proprietaria che gli fece l’occhiolino in segno di ringraziamento. Erano quelle piccolezze che facevano intuire che i suoi modi burberi erano solo un’apparenza, una difesa contro il mondo che aveva più spine e spigoli di quanto suggerisse la sua forma sferica.
    ”Non è la prima volta che vieni qui, vero?” con capo indicò la direzione in cui era appena sparita Julia dopo aver preso i loro ordini. ”Anche io ogni tanto mi fermo qui per un caffè, soprattutto se devo sbrigarmi per andare a quell’ammasso di ferraglia di luna park.” si fermò per un istante dopo aver proferito quelle parole, riflettendo sul fatto che Deborah non sapeva che lui lavorasse al Drømme, probabilmente stava pensando che era come uno studente che correva verso il divertimento. ”Io ci lavoro al luna park qui dietro, era dei miei nonni materni, ma ora lo gestiamo io e i miei genitori.” si affrettò ad aggiungere subito dopo. ”Non è esattamente ciò che vorrei fare per tutta la vita, ma per adesso ho bisogno di questo appoggio temporaneo. E tu invece? Hai sempre voluto diventare uno sbirro?” da quando aveva iniziato a parlarle Taylor non aveva mai distolto lo sguardo da Debbie, se non per prendere le ordinazioni, era un maledetto vizio quello di mantenere il contatto visivo perché non piaceva a tutti. Spostò lo sguardo verso la vetrata alle spalle della ragazza e vide i primi passanti della mattinata, altre persone che come loro andavano a correre, con la sola differenza che loro due erano già pronti per tornare a casa.
    ”Ecco le vostre ordinazioni.” Julia poggiò il vassoio sul tavolo per evitare di rovesciare tutto, posizionò con cura le ordinazioni giuste davanti ai due ragazzi rivolgendogli un sorriso rassicurante. Prima di andare via li squadrò per un istante, forse perché era la prima volta che li vedeva insieme e le sembravano un duo strano? Fatto sta che quell’occhiata trovò espressione nelle sue parole successive: ”Forse non dovrei permettermi di chiederlo… ma voi due come vi siete conosciuti?” una domanda indiscreta che restò per qualche istante sospesa nell’aria….
     
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    ..un luogo al di là del tempo e dello spazio..

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    Non era mai semplice per lei avere a che fare con le altre persone. Aveva imparato a farlo, per via del suo lavoro, a mostrarsi sempre serena e disponibile, a sorridere anche quando sentiva un fuoco divamparle nel petto per la rabbia o per la frustrazione, o quando si sentiva a pezzi e incredibilmente fragile per via di una pessima giornata. Il controllo delle emozioni era una cosa abbastanza importante per loro, che veniva valutata anche attraverso i test psico-attitudinali prima di avere il permesso di esercitare la professione. Un poliziotto che non sapeva tenere sotto controllo la sua rabbia poteva rischiare di aggredire qualcuno senza motivo e questo il dipartimento non poteva certo permetterselo. Le persone amavano approfittare delle debolezze degli altri, persino a lei era capitato in passato di essere oggetto delle attenzioni di alcuni bulli della sua scuola. Aveva cercato di cavarsela da sola, tenendo il segreto con il resto della famiglia, ma quando i suoi fratelli lo avevano scoperto avevano fatto in modo di sistemare la faccenda per lei. Si era infuriata, delusa dal fatto che loro avessero potuto pensare che lei non fosse in grado di cavarsela da sola, ma in cuor suo era stata piuttosto riconoscente per il loro aiuto. Avere dei fratelli più grandi poteva essere un ottimo affare in situazioni come quelle. Non lo avrebbe mai ammesso davanti a loro, perché ne sarebbe andato del suo onore, ma quei due erano stati una grande fonte di ispirazione per lei, soprattutto nei suoi primi anni d’età. E aveva cercato di ricambiare il loro affetto e le loro attenzioni ogni volta che ne aveva avuto l’occasione. Non amava il contatto con gli altri, non amava aprirsi, neanche con loro, eppure non era mai stata una persona incapace di mostrare affetto o riconoscenza. Semplicemente, tendeva a farlo soltanto a modo suo. I suoi slanci di affetto si limitavano di norma a pochissime occasioni all’anno, eppure, quando i suoi fratelli avevano avuto qualche frattura dovuta allo sport, o altri incidenti, era sempre stata in prima fila per accompagnarli ovunque loro avessero bisogno. Perché lei sapeva che, spesso, i gesti potevano valere molto più di qualunque parola. Rimanevano impressi nella memoria, come ricordi indelebili, mentre le parole spesso fuggivano via con la velocità di un battito di ciglia, senza lasciare alcuna traccia dietro di sé. Lei poi non era particolarmente brava con le parole. Ci si sforzava, più che poteva, e spesso tendeva a prendere in prestito frasi da qualche film o libro che le era rimasta particolarmente impressa, convinta che gli altri, in fin dei conti, sapessero molto meglio di lei come dire ogni cosa. Tendeva sempre a nascondersi, ad attaccare prima di dover essere costretta a difendersi, soprattutto con le parole. perché mostrare che qualcosa non andava avrebbe portato solo altre domande e lei avrebbe fatto di tutto pur di evitarle meglio che poteva.
    Eppure, qualche volta, ci provava. Lasciava che parte del suo cinismo e della sua paura fluissero via per lasciare il posto ad una ragazza un po’ più solare e tranquilla, disposta a dare un’occasione agli estranei che incontrava sul suo cammino. Dopotutto la vita era fatta di occasioni, bisognava soltanto sapere quando raccoglierle e quando invece lasciarle andare, senza pensarci. Era questo il trucco. Un trucco che, purtroppo, non aveva ancora imparato come compiere fino in fondo, ma non disperava di certo. Sorrise, quando l’altro non si lasciò scoraggiare dalla sua puntualizzazione riguardo alla fortuna. Non aveva mai apprezzato troppo l’idea che il mondo potesse essere diviso soltanto tra bianco e nero, amava piuttosto vederne tutte le sfumature, cercare di coglierle anche quando gli altri non riuscivano a vederle. Le sarebbe bastato poco per capire che cosa gli altri desiderassero, quali fossero i loro istinti più reconditi, ma aveva sempre preferito cercare di analizzare le persone, comprenderle, piuttosto che rubare le parti più segrete di loro senza neanche chiedere il permesso. Scosse il capo, divertita davanti alla certezza di lui di riuscire a batterla in quella gara di corsa senza quasi doversi impegnare. Lei, invece, avrebbe dato il meglio di sé pur di farlo ricredere. Non accettava mai troppo volentieri di perdere una sfida, soprattutto se si trattava di prove che riguardavano capacità fisiche. Non accettava le discriminazioni, non le erano mai andate giù, e sebbene immaginasse, dai toni scherzosi di lui, che si trattasse soltanto di qualche battuta, non si sarebbe comunque arresa all’idea di perdere con uno sconosciuto. Partendo quindi in maniera del tutto scorretta, senza dare il via, iniziò a correre per raggiungere il tanto agognato traguardo.
    -Addirittura? Una supereroina? - chiese, ora decisamente più divertita che in precedenza. -Non lo sai che i supereroi non esistono? Servono solo per far dormire tranquilli i bambini. - disse, come se stesse parlando della favola della buonanotte, o di Babbo Natale. Per quanto ne sapeva lei, i veri supereroi non erano altro che persone normali che combattevano quotidianamente contro i problemi della vita, per cercare di rendere il mondo un posto migliore, un pezzo alla volta. Non certo quelli che venivano invece rappresentati nei fumetti o nei film. Sebbene fosse una patita di quel genere di cose, non avrebbe mai potuto pensare che davvero qualcuno potesse pensare di mettersi a fare delle cose come quelle. Era una tipa prativa, pragmatica, le veniva difficile talvolta immaginare delle cose un po’ troppo fuori dalla norma. Eppure, anche Besaid aveva il suo uomo mascherato, anche vista la sua condotta illegale non si poteva certo dire che Deadpool fosse un supereroe.
    Accelerò appena, dopo aver pronunciato quelle ultime parole, cercando di creare un distacco che la lasciasse sola con i suoi pensieri. Le capitava spesso di avere la necessità di perderci in ciò che sentiva dentro, di guardarsi, di leggersi. Trovava incredibile che, proprio lei che era in grado di leggere così bene i desideri degli altri, talvolta non riuscisse a comprendere quali fossero davvero i suoi. Si sentiva come un’onda che si infrangeva sugli scogli e che poi tornava indietro con la risacca, per poi infrangersi ancora, senza imparare mai. Rallentò di nuovo, recuperando un passo stabile, lasciandosi sorpassare di nuovo prima dell’ultimo tratto di tragitto, quando diede l’accelerata definitiva per riuscire a portarsi in vantaggio.
    -Mai sottovalutare il proprio avversario. Non te lo ha mai insegnato nessuno? - domandò quindi, con un sorrisetto malizioso e divertito al tempo stesso. Il ragazzo tuttavia prese con una certa sportività la sconfitta e accettò la sua mano senza alcun risentimento. In fin dei conti non sembrava poi un tipo così male, nonostante l’aspetto potesse apparire quello di un tipo poco raccomandabile, magari sarebbe diventato il suo primo e unico compagno di allenamento. Scosse il capo, ridacchiando appena, quando lui le fece notare, facendogli scegliere dove sedersi, lo stava trattando come se fosse stato lui la donna all’interno del gruppo. -Fai troppa attenzione ai luoghi comuni. - gli disse, con aria molto tranquilla e rilassata, guardandolo tuttavia ben dritto negli occhi. -Sai, non sembra quello che la gente si aspetta che tu faccia corrisponde a quello che tu vorresti fare, non ragionare troppo per schemi o ti precluderai le cose più spontanee. - terminò, sfoderando quella pillola di saggezza come se in realtà avesse fatto un’osservazione sul tempo. Lei aveva superato la fase in cui si era posta dei limiti soltanto per il fatto di essere una ragazza. Non pensava che ci fossero delle cose adatte alle donne e altre adatte agli uomini, ognuno per quanto la riguardava era libero di comportarsi come più gli era congeniale, sempre che questo non andasse a ledere la persona di altri. Lasciare la scelta all’uno o all’altro, tuttavia, non faceva del male a nessuno, quindi non aveva alcuna intenzione di cambiare il suo modo di fare soltanto perché non ci si aspettava che una ragazza facesse quel tipo di domande.
    Decisero alla fine di sedersi all’interno del locale, così da riuscire a scaldarsi un po’ ed evitare il freddo pungente che ancora non sembrava accennare a scemare, anche se il sole piano piano si stava sollevando nel cielo. Osservò con la coda dell’occhio Taylor, quando la proprietaria del locale accennò al suo ruolo nella polizia e le parve, per un momento, di vederlo irrigidirsi appena. Non disse nulla però, quindi Debbie immaginò che fosse stata soltanto una sua impressione. Tendeva sempre a pensare che le persone la guardassero con occhi diversi dopo quella notizia. Diceva sempre agli altri di evitare di avere dei pregiudizi, ma probabilmente lei era la prima ad averne. Il suo sorriso infatti fu un po’ meno radioso dei precedenti davanti alla sua battuta sarcastica sul fatto che avrebbe potuto mettergli le manette solo per una risposta sbagliata. Impercettibilmente sentì la sua schiena irrigidirsi un minimo, portandola in una posizione leggermente più eretta e distinta. Non rispose quindi, a quella battuta, andando a sedersi verso il tavolino che lui le indicò poco dopo, da cui avrebbero potuto avere un’ottima visuale sul parco. Per un momento si perse all’interno dei suoi pensieri. Avrebbe preferito essere più abile nel fingere che determinate cose non le importassero, che tutto potesse semplicemente scivolarle addosso, ma non era così. Non era mai stata una ragazza insensibile, sebbene le fosse sempre stato piuttosto difficile esternare il suo affetto nei confronti della altre persone. Stava sempre al di là del muro che si era costruita attorno da sola, affinchè le persone non potessero mai fare un passo in più del dovuto nella sua direzione. Soltanto in pochissimi conoscevano l’accesso e lei, per il momento, non aveva alcuna intenzione di aumentare quel numero. Prese il menù tra le mani, senza tuttavia osservarlo davvero. In realtà ormai era da tempo che ordinava sempre le stesse cose, quindi non aveva davvero bisogno di leggerlo, ma sapeva essere un buon diversivo.
    Fu la sua voce a riportarla alla realtà, quando lui le chiese velatamente qualcosa in più in merito al suo lavoro. -No, di norma non è mia abitudine prendere a calci nessuno. - rispose, serissima , prima di lasciarsi andare ad una leggera risata che voleva intendere che stesse scherzando. Non indugiò invece oltre sulla faccenda dei supereroi, aveva già spiegato il suo punto di vista in merito e poi lei non si era mai sentita nulla del genere. Non era un’eroina, non si era mai definita tale. Era solo una persona normale che svolgeva quotidianamente la sua vita, con qualche alto e qualche basso, esattamente come tutti gli altri. Non era poi così diversa dalla proprietaria di quel locale. Si trattenne dal chiedergli che cosa lui facesse invece per guadagnarsi da vivere. Talvolta le persone lo prendevano come un tentativo da parte sua di fare loro un interrogatorio e si mettevano quindi sulla difensiva, mettendo subito in evidenza il fatto che non fossero dei criminali. Inoltre, se fosse stato per lei, lui non avrebbe ancora saputo che lei era un agente di polizia, quindi preferì che fosse lui a decidere se rivelarle o meno qualcosa in più sul proprio conto. In fin dei conti non erano che due estranei che si erano incontrati per un puro caso del destino. Julia tornò molto presto per chiedere le loro ordinazioni. Il locale in quel momento era praticamente vuoto e quindi lei non aveva molto da fare se non servire i suoi unici clienti così mattinieri. Taylor, evidentemente stanco di dover essere sempre lui quello che sceglieva per primo, la invitò a fare la sua ordinazione -Per me un espresso e un croissant con la crema alle nocciole.- mormorò quindi, con un sorriso, a cui Julia risposte annuendo appena, tra sé e sé. Forse non ci sarebbe stato neanche il bisogno di dirlo, ma capitava, in rare occasioni, che volesse cambiare un po’. Attese che anche lui scegliesse cosa prendere e poi fu anticipata da Taylor, prima di poter mettere al suo menù, che li prese entrambi e li riconsegnò alla proprietaria, che gli rispose con un occhiolino allegro. -Come fai a mangiare un muffin alla banana? - chiese quindi, vagamente contrariata, una volta che lei si fu allontanata. La sola idea le sembrava a dir poco bizzarra, e per “colazione” per di più! Nah, quello non era decisamente il suo genere, meglio andare su cose un po’ più classiche in quelle poche occasioni in cui si concedeva degli strappi alla sua dieta salutare.
    -No, diciamo che ci passo almeno una volta ogni due giorni. - rivelò, senza troppi giri di parole. Pensandoci bene era quasi più probabile trovare in quel parco e in quel piccolo baretto che a casa sua, ma quelli erano dettagli. Erano strano in effetti, visto che anche lui ogni tanto si fermava lì, che non si fossero mai incontrati. Ma forse, semplicemente, nessuno dei due aveva mai notato l’altro. Debbie non era una a cui piaceva stare a fissare le persone e cercare di studiarle se non stava accadendo nulla di sospetto in giro. Alcuni suoi colleghi sostenevano che il loro compito fosse quello di restare sempre vigili, in ogni momento, di non perdersi neanche un dettaglio, neppure quando erano di riposo. Lei invece era dell’idea di avere già troppi problemi nella sua vita e che fosse troppo breve per trascorrerla soltanto a guardare gli altri, senza mai concentrarsi su se stessi. Probabilmente era lei a sbagliare punto di vista, ma era sempre stata troppo testarda per poter cambiare idea in un battibaleno e dare retta agli altri, senza prima aver sperimentato di testa sua. Inclinò appena il capo di lato, incuriosita, quando le disse che quello era un punto in cui fermava prima di raggiungere il luna park. Sembrava strano che un tipo della sua età potesse trovare così affascinante un luogo come quello. Anche lei ci andava spesso, ma lo faceva per portare la sua nipotina il più delle volte o per qualche zuffa un po’ troppo accesa tra i clienti. Taylor, tuttavia, chiarì presto l’enigma rivelandole che lui, in quel posto, ci lavorava, o meglio lo gestiva insieme ai suoi parenti. In effetti, tempo prima, aveva sentito qualcosa in merito al cambio di proprietari, ma non aveva mai indagato troppo in merito. -No, non ne sembri molto felice infatti. - sottolineò, quando le disse che non era il suo sogno gestire il luna park per tutta la sua vita, ma che per il momento era una tappa della sua vita. La domanda successiva invece le arrivò come una secchiata d’acqua gelida in pieno volto. Era quello che aveva sempre desiderato? No. C’era stata una prima parte della sua vita, quando tutto scorreva tranquillo, in cui aveva pensato ai lavori più bizzarri. La prima idea, ovviamente, era stata quella di ispirarsi ai suoi genitori e diventare un avvocato. Loro erano stati il fulcro della sua infanzia e aveva sempre guardato a quelle due persone distinte e gentili come a degli esempi da seguire, delle figure da imitare per poter diventare una brava persone. Non erano mancate ovviamente idee folli come diventare un’astronauta, una diva dello sport.. In realtà, prima che le cose all’interno della loro famiglia mutassero radicalmente non aveva mai pensato davvero a che cosa volesse essere da grande. Le sembrava una cosa così lontana e irraggiungibile. Ma stare a spiegare tutte quelle cose sarebbe stato troppo lungo, troppo doloroso e a lei non era mai piaciuto farlo. L’unica con cui si fosse confidata davvero su cosa provasse dalla loro scomparsa era stata Mia, la sua migliore amica. Aprirsi le era sempre stato molto difficile. - Si.. ho sempre voluto aiutare gli altri a trovare giustizia e verità. - disse quindi, senza che quella piega più scura lasciasse la sua espressione. C’era una serietà molto più marcato nel suo sguardo e nella sua postura, che lasciava intendere chiaramente che quello non fosse affatto un argomento di cui era lieta di parlare. Giustizia e verità, era questo che cercava nel suo lavoro, perché era questo che cercava per se stessa. Senza dubbio uno strano modo di intendere il ruolo della polizia.
    I toni vennero smorzati dal ritorno di Julia, munita delle loro ordinazioni. Stava per andarsene ma, d’un tratto, sembrò cambiare idea, e soffermarsi a guardarli con aria incuriosita. -Ci avvaliamo della facoltà di non rispondere senza il nostro avvocato. - rispose lei, in maniera spiritosa, cercando di farla capire che no, non era proprio il genere di domanda da rivolgere a due clienti che vedeva insieme per la prima volta. La donna parve capire e, dopo un sorriso divertito e un nuovo occhiolino, li lasciò nuovamente soli. Deborah addentò il suo cornetto, senza neanche aspettare il via, cercando di usare la scusa della bocca piena per evitare di parlare ancora di lei. Il muro attorno alla sua persona era tornato solido e invalicabile. Allungò la mano in direzione della tazzina che conteneva il suo caffè proprio un istante prima che il suo telefono iniziasse a vibrare e che sul display apparisse il messaggio di un collega che le chiedeva di raggiungerla con urgenza in centrale perché avevano la necessità di coprire il turno di un collega malato. Alzò gli occhi al cielo e, con uno sbuffo piuttosto scocciato, mandò giù il caffè tutto d’un sorso. -Devo scappare, purtroppo anche i poliziotti si ammalano. - disse, giusto per dargli una veloce spiegazione e non sembrare semplicemente fuori di testa. - Ci vediamo domani per una rivincita? - chiese, attendo una sua risposta, prima di recuperare le sue cose e, con il cornetto ben stretto tra i denti, filare via velocemente per avere il tempo, quanto meno, di farsi una doccia prima di entrare in servizio.
     
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