Lost in the Dark

Eva x Leo

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    Sakura Blossom

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    Chante Eva Nguyen

    ”Quante volte ti ho già ripetuto che ti sei lasciata convincere perché mi vuoi bene?” Aidan passò un braccio attorno alle spalle della sorella, guidandola attraverso l’ingresso del Kunstmuseum. Mostrò i biglietti per entrambi e la lasciò andare solo davanti ai controlli di sicurezza. ”Non ti pare troppo tutto questo affetto in pubblico?” Eva mise giacca e borsa in una vaschetta per farla passare sotto i raggi x, ma prima di poter attraversare il varco suo fratello l’afferrò e le diede un sonoro bacio sulla guancia. Non disse nulla, sapeva che se avesse risposto con fare scocciato a quella provocazione Aidan non l’avrebbe mai lasciata in pace, così passò sotto il metal detector con l’espressione di chi andava al patibolo. Riprese le proprie cose e si fermò poco più avanti per indossare di nuovo la giacca scamosciata color caramello che le aveva regalato sua madre per Natale. ”Dai non fare quella faccia, sai che a Gerard farà piacere vederci. Si è impegnato molto per aiutare con la mostra temporanea sulla seconda guerra mondiale, quindi evita il tuo sarcasmo e di alzare il sopracciglio con quell’aria di fastidio per tutto. Ecco, l’hai appena fatto!” Aidan allungò una mano verso il suo viso per coprirle gli occhi. ”Ora sì che sei perfetta per andare dal nostro amico!” una risata sinceramente divertita prima di darle le spalle e avviarsi lungo la gradinata che portava al piano superiore. Eva aveva gli occhi ridotti a una fessura. ”La prossima volta che mi metti le mani in faccia non sorriderei così tanto fossi in te.” scosse la testa con aria più divertita che contrariata, per natura era una persona poco propensa al contatto con gli altri, ma c’erano due grandi eccezioni nella sua vita: suo fratello e il suo migliore amico Steve. Il primo era sempre stato il suo modello da cui attingere l’esempio per diventare una persona migliore, era grazie a lui se attualmente era in grado di essere diplomatica anche quando dentro ribolliva di rabbia o di desiderio di scappare. Se non fosse stato per tutte le volte che si era preso i suoi insulti e i suoi pugni, probabilmente non avrebbe capito quanto era importante avere vicino delle persone che ti amano e ti accettano per quello che sei. Non era stato semplice il loro rapporto da piccoli, perché Eva era una bambina scontrosa e affatto affabile, eppure Aidan non aveva mai smesso di andarle incontro, di abbracciarla ogni volta che lei gli gridava di lasciarla andare. Lei lo considerava appiccicoso e troppo felice, troppo in tutto, doveva darle i suoi spazi e questo puntualmente non avveniva soprattutto quando vivevano nella stessa casa coi genitori. Anche da quando viveva da sola – ormai da circa sei anni – non era riuscita a liberarsi di lui, almeno tre volte alla settimana bussava alla sua porta per scroccarle un caffè o una cena. Lei si lamentava sempre, ma alla fine le faceva piacere la sua compagnia e tra un’occhiataccia e qualche insulto lo coccolava a modo suo, preparandogli il suo piatto preferito o facendogli sempre trovare qualche dolce fatto in casa da accompagnare col caffè, ma guai a fargli sapere che lo aveva fatto per lui. Impossibile.
    L’altra persona che costituiva un punto di riferimento per lei era Steve, ma con lui la storia si era complicata da un anno a quella parte: era sparito di punto in bianco e aveva appreso dalla sua famiglia che era stato rinchiuso al Mørdesson Institute per colpa del suo potere che gli dava dei forti attacchi di panico e degli sbalzi di umore terrificanti. Eva non sapeva nulla di tutto questo, il suo amico non glielo aveva mai raccontato e poi scoprì perché. Un giorno mentre prendeva l’ascensore con un collega origliò la conversazione di due medici che non aveva mai visto prima e scoprì che ciò che gli aveva detto la famiglia di Steve era vero e che lui non le aveva raccontato nulla perché non ricordava le sue crisi. Da quel momento Eva iniziò una ricerca forsennata all’interno dell’istituto per ritrovarlo, ma non ci riuscì. Aveva aperto tutti gli archivi a cui aveva accesso, era entrata in ogni singola stanza di ogni piano a cui aveva accesso, ma nulla. Allora l’unica alternativa era riuscire a infiltrarsi nelle zone a lei proibite, ma non poteva chiedere aiuto a nessuno lì dentro, sapeva che l’influenza di Nikolaj era troppo forte per trovare degli alleati. Da quando aveva appreso la notizia che Steve era davvero lì non aveva mai smesso di cercare. Lo avrebbe trovato, era una promessa.
    ”Eva, Aidan, siete arrivati! Oggi inauguriamo la mostra e sono davvero contento che siate venuti per sostenermi!” Gerard interruppe i pensieri della ragazza andando loro incontro e abbracciandoli rapidamente prima di indirizzarli verso la prima serie di fotografie provenienti dalla Germania. ”Si tratta di una raccolta di foto e di oggetti risalenti all’epoca della seconda guerra mondiale. Siamo riusciti ad ottenere il contributo di diversi privati e musei di tutto il mondo. Pensa nella prossima sala dal museo della memoria di Hiroshima ci hanno inviato la divisa di un militare giapponese dell’epoca. E’ stato difficile coordinare il tutto, ma spero davvero che vi piaccia e che vi commuova un po’. Ci sono spaccati di vita vera qui dentro…” s’intuiva dalla sua voce leggermente rotta che era orgoglioso e davvero emozionato per quel progetto, sapevano che il loro amico era un appassionato di storia e che amava seriamente il suo lavoro. Eva non aveva mai visto in vita sua una persona così dedita a qualcosa come lui, era un amore viscerale e una curiosità maniacale che lo muovevano verso il passato e ogni suo mistero. In parte lo capiva, la storia era ciò che aveva reso il loro presente degno di tale nome, era la base di tutto ciò che avevano e di tutto ciò che sarebbe venuto in seguito. Un concetto affascinante eppure spaventoso allo stesso momento. Il tempo interrelato con avvenimenti il cui eco ancora risuonava nel presente. ”Sono certa che i vostri sforzi verranno apprezzati dalla gente, vedrai.” rivolse un mezzo sorriso a Gerard e poi si avvicinò alla prima foto della galleria. Sentiva suo fratello e il loro amico che commentavano il suo complimento velato, austero, ma pur sempre una gentilezza. Sapevano che un suo commento positivo era una rarità, ma soprattutto una profonda verità, non era in grado di illudere le persone con delle mezze verità per non ferirli. Meglio un colpo netto subito piuttosto che una bugia da svelare col tempo, prima o poi la realtà si fa notare, ma se fosse troppo tardi?
    Foto dopo foto ( X X X X X X ) i suoi occhi si posavano su ricordi reali di persone che non conosceva, ne poteva immaginare la sofferenza dalle espressioni dei volti che vedeva stampati in bianco e nero, ma la sua fantasia non era sufficiente per capire davvero cosa avevano vissuto. La sua attenzione venne catturata da una foto dove dei soldati stavano facendo visita a un cimitero di croci bianche su un vasto terreno brullo. Non sapeva dire per quale motivo sentiva una forte empatia nei confronti di quella scena, sentiva lo stomaco stretto nonostante non avesse mai sperimentato la guerra sulla propria pelle. Quello che sapeva di quel terrificante periodo storico lo aveva imparato a scuola, a Taupo e tramite qualche racconto della sua bisnonna. La Nuova Zelanda non si era tirata indietro durante il conflitto mondiale, aveva spedito delle truppe in Europa al fianco di Inghilterra e Francia. Anche il suo paese aveva fatto fronte a quella Germania Nazista che aveva sconvolto il mondo intero, non era rimasta indifferente neanche quando il campo di battaglia si spostò in una zona più vicina come il Giappone. Oltre alle truppe che rimasero in Europa vennero mandate altre squadre al fianco degli Stati Uniti, nessuna indecisione sul voler far sentire la propria presenza in difesa non solo della Nuova Zelanda, ma del mondo in cui tutti loro vivevano. Dovettero ritirare i loro battaglioni nel Pacifico sul finire della guerra per mancanza di manodopera nelle industrie e soprattutto perché i costi per mantenere due divisioni così grandi era troppo elevato. Solo quando terminò davvero il più grande conflitto di tutti i tempi, vennero ritirate anche le truppe che erano rimaste in Europa delle quali aveva fatto parte il fratello della bisnonna di Eva e Aidan, il quale aveva circa 36 anni all’epoca.
    ”Wow…” si ritrovò a bisbigliare Eva involontariamente, non aveva previsto un coinvolgimento emotivo in quella mostra, invece ricordare dei racconti dei suoi familiari di Taupo le aveva risvegliato qualcosa dentro che non credeva. Aidan le si avvicinò e le poggiò il mento sulla spalla in silenzio, provava esattamente quello che sentiva lei e non c’era bisogno di pronunciare parole inutili davanti a certe immagini. Si stavano dirigendo verso la sala successiva quando proprio da lì sentirono qualcuno gridare. ”Un medico, presto un medico!” si avvicinarono e videro una signora di mezza età inginocchiata accanto a un ragazzo che probabilmente era poco più giovane di loro due. Eva si affiancò alla donna senza nemmeno presentarsi come dottoressa, semplicemente osservò con attenzione il ragazzo che era sdraiato a terra, si accostò per sentire se ancora respirava e gli prese i battiti dal polso. ”E’ svenuto, Aidan trovami dell’acqua e qualcosa per tenergli le gambe sollevate, altrimenti tienigliele in alto di 45 gradi. Veloce!” era seria, nessuna esitazione o espressione fuori luogo. Sollevò il mento del giovane per evitare che la lingua gli ostruisse le vie respiratorie ed attese il rientro di suo fratello che portava con se’ una bottiglietta d’acqua, un bicchiere vuoto e un paio di cuscini. ”Sono troppo bassi quelli, per favore diamogli una smossa alla circolazione sollevandogli le gambe.” con una mano teneva il mento dello sconosciuto, con l’altra prese la bottiglietta, infilò il tappo tra i denti per aprirla il più rapidamente possibile e la poggiò di nuovo a terra accanto a se’. Ci volle qualche istante, ma parve che il ragazzo diede di nuovo segni di vita, si mosse e aprì gli occhi. Eva fece cenno al fratello di non lasciargli ancora le gambe, doveva prima accertarsi che fosse veramente cosciente. ”Come ti chiami?” lentamente lasciò la presa sul suo mento quando il giovane diede segno di volersi alzare. ”E’ troppo presto, resta ancora un attimo disteso. Cadendo hai sbattuto la testa a terra?” gli poggiò la mano sul petto per non farlo muovere troppo e per un attimo rimase ammutolita, quel tipo somigliava a uno dei soldati che aveva visto nelle foto. Sgranò gli occhi per la sorpresa, ma si riebbe subito, prese l’acqua e ne verso un po’ nel bicchiere per il povero malcapitato. ”Vuoi andare in ospedale per un controllo? Ti porto io, ci ho lavorato per anni.” fissava il ragazzo mentre con la mano faceva cenno a suo fratello di lasciare la presa. Studiò i lineamenti della persona distesa a terra, capelli biondi e un accenno di barba dello stesso colore, mandibola larga e occhi chiari intensi. Ancora una volta pensò al militare nella foto, ma non era il caso di dirgli che aveva un sosia durante la seconda guerra mondiale proprio in quel momento. ”Ti senti meglio, adesso?” gli rivolse un sorriso rassicurante e lentamente allontanò la mano dal suo petto ora che gli sembrava più tranquillo. ”Sono Eva, la tua nuova dottoressa di fiducia.” una battuta, aveva fatto una battuta! Aidan gesticolava come se fosse avvenuto chissà quale miracolo, ma effettivamente nessuno di loro sapeva che avevano davvero davanti un miracolo

    Edited by Aruna Divya - 17/1/2020, 23:22
     
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    Leo Wagner|27 y.o.|Soldier from the WW2| memories

    #warning: Questo post parla di nazismo e sterminio degli ebrei. Se siete sensibili al tema, o se vi da fastidio che qualcuno non esperto in materia ne parli, aggiungendo elementi fittizi alla storia, vi prego, non andate avanti nella lettura.

    Guardami, Leo, guardami. Respira. Ce ne andremo di qui, ne sono sicuro."
    ”Lo dici ogni giorno. Che giorno è oggi? Ho perso il conto.”
    ”Lo so, smetti di contare. E’ solo un giorno in più, uno qualunque, uno di quelli che sarai felice di aver dimenticato, tra qualche tempo”.

    . . .


    “La guerra è finita”.
    Così recitava il titolo del ritaglio di giornale che faceva da manifesto alla mostra allestita presso il Kunstmuseum. Sotto quel titolo, un gruppo di persone senza uniforme sventolava fiera una bandiera bianca, facendo salire i bambini su ciò che restava di un carro armato tedesco. La guerra è finita.
    Era terminata da settantacinque anni, quella maledetta guerra, e pochi ne serbavano ancora il ricordo. I pochi rimasti avevano talmente tanti anni sulle spalle da possedere solo gli strascichi di quegli orrori, molti ne avevano semplicemente letto le vicende sui libri, altri ancora ne avevano solo sentito parlare. Si ricordava il conflitto mondiale solo con una serie di date, nomi di battaglie, nomi di generali, numeri di vittime. Nessuno ne ricordava l’odore, il colore, il rumore, nessuno i volti, gli abiti, i nomi di quelli che erano solo un numero tra i numeri. La guerra era finita, ma non per tutti. Una guerra non può finire di colpo, solo perché un territorio viene conquistato o perché un generale viene ucciso. Una guerra finisce quando ogni orfano che essa lascia trova una casa, quando le ferite si rimarginano, quando tutte le mine vengono disinnescate, quando anche l’ultimo baccello d’odio viene seppellito dalla speranza di un mondo migliore. E non basta un giorno, o un evento a cancellare tutto questo: servono anni, buona politica, voglia di ricominciare senza ripetere gli stessi errori. Per Leo quella guerra non poteva essere finita, era passato troppo poco tempo da quando l’aveva combattuta, ne sentiva ancora gli strascichi sulla pelle, il sapore tra i denti. Mancava a quel soldato il momento in cui era stato dichiarato l’armistizio, quello in cui tutti erano tornati alle loro case ed avevano iniziato a ricostruire ciò che era andato distrutto, il momento in cui avevano messo su famiglia e avevano tramandato ai loro figli quelli orrori affinché nessuno li dimenticasse, così come avevano fatto suo padre e i suoi compagni di trincea, dopo la smobilitazione del fronte. Mancavano troppi tasselli a Leo, per spingerlo ad accettare che quella guerra fosse finita. Come era finita? Quanto ancora ci era voluto? Quanto realmente era durata la pace? Che ne era stato di coloro che erano sopravvissuti? Ci erano voluti settantacinque fottuti anni perché quella guerra divenisse qualcosa da ricordare senza trasporto, e lui aveva avuto poco più di un mese, per farlo. Troppo poco tempo anche per accettare l’assenza di Ernst, figurarsi per il lasciare andare tutti i propri demoni. Quella società a cui non sentiva di appartenere commemorava quel giorno la memoria, la fine di una guerra dalla quale sembrava non aver imparato nulla. Si denigravano i totalitarismi nel ventunesimo secolo, ogni forma di violenza e razzismo, ma solo a parole. Le ideologie che avevano scatenato il secondo conflitto mondiale erano ben lungi dall’essere morte. La guerra è finita, ma non per tutti.
    Chiunque avesse organizzato quella mostra voleva che i visitatori ricordassero qualcosa che non avevano mai vissuto, che si emozionassero facendo leva sulla pietà e la compassione. Ma lui, che di quella guerra non aveva dimenticato un solo istante, che continuava a combatterla per inerzia nei suoi incubi e nelle sue allucinazioni da sveglio, che vi era morto e camminava su quella terra ora come un fantasma, era pronto a riviverla? Sospirò, davanti a quell’ingresso. Quel posto gli ricordava casa, molto più di qualunque altro su quella terra. Purtroppo.
    Il percorso iniziava con un filmato proiettato su un muro. All’inizio sussultò, quando i rumori e la musica della marcia nazista iniziarono a divenire udibili, assordanti a suo parere. Ma era qualcosa di dannatamente familiare, quello. Ciò che non era familiare era quel grigio che accompagnava le immagini. Ricordava i vecchi proiettori, che non riuscivano a cogliere il colore. Ma ricordava anche quelle marce, le persone che vi prendevano parte, il rumore degli stivali che battevano a terra in sincrono. Per chilometri e chilometri aveva marciato, sotto l’ordine di qualche generale, sempre avanti, calpestando territori occupati e vinti, tra macerie e fumo di abitazioni su cui prima erano passati gli aerei, poi i carri armati. Eppure, tra quel fumo grigio e quelle divise grigie anch’esse, ricordava dei colori. Quelli delle fascette e delle scintillanti medagliette degli ufficiali, gli occhi delle persone, ogni volta diversi, i colori delle bandiere e il rosso della bandiera del Reich che prevaleva su tutte le altre, il rosso del sangue a terra. E c’era tanto verde, che spuntava anche nei luoghi più inaspettati. Alberi, foglie, campagne dai dorati campi di grano disseminate ovunque lo sguardo potesse vagare, papaveri rossi e tulipani di ogni colore. Erano quelli i veri colori che mancavano a rendere quella proiezione reale, che più che un documento sembrava uno strano sogno. Forse la pensavano come lui gli altri avventori della mostra, che avevano proseguito oltre senza nemmeno fermarsi a vedere come proseguisse quel filmato, che ripercorreva le tappe della seconda guerra mondiale a Besaid. Pure lui proseguì oltre, infastidito dalla sgranatura di quelle immagini che fino al giorno prima erano reali, che nella sua testa e nelle suo visioni, erano reali, e da quei rumori distorti, da quelle canzoni di cui conosceva a memoria le parole ma che il mondo aveva smesso di cantare da tanti anni. Proseguì, verso la seconda stanza, lasciando vuota la sala proiezioni.
    In quella raccolta non c’erano solo testimonianze riguardanti quel periodo a Besaid, ma di tutto il mondo. Ognuno aveva donato la storia di qualcuno che conosceva: un nonno, uno zio, qualcosa trovato in un libro dimenticato. E quindi oltre al norvegese figuravano scritte in tedesco, in francese, in inglese, perfino in giapponese. Corse con lo sguardo verso le prime foto, mentre la gola iniziava a stringersi in un grumo doloroso. Un aviatore inglese stava appoggiato al suo aereo, sorridente, lo sguardo fiero rivolto alla camera. Forse l’ultima foto quella, prima di una missione che lo avrebbe visto cadere in mare, lontano da tutto e da tutti.
    Oslo, 1942. Delle donne donavano alcuni oggetti in oro per dare il loro contributo al potenziamento della flotta. Nessuno piangeva in quella foto, nessuno non mostrava sguardo che non fosse pieno di fierezza. Ricordava quei tempi, in cui l’onore e l’orgoglio erano la prima cosa, in cui non c’era spazio per piangere o essere deboli, in cui sopravviveva solo chi si dimostrava invulnerabile. Era così diverso il suo mondo, da quello in cui viveva ora.
    Oslo, 1939. Un gruppo di ragazzi, senza divisa, veniva addestrato per la prima volta all’uso delle armi.
    Non erano in ordine cronologico o logico, quelle foto. Erano solo una serie di frammenti sparsi, ritagli di vite sparsi, relegati a rimanere per sempre senza colore o suono. Realtà annullate, dal tempo e dalla sregolatezza dell’uomo.
    Le foto che più facevano leva sul pubblico erano quelle relative allo sterminio degli ebrei e delle altre minoranze etniche. Le persone si soffermavano di più a guardarle, mosse da una pietà che non riservavano ad un aviatore morto in mare, di ragazzini costretti a imbracciare un fucile ed andare incoscientemente a morire, di donne che probabilmente si erano ridotte a mendicare e patire la fame, che magari erano morte di freddo, pur di vedere il proprio paese uscire indenne da una guerra che nemmeno avevano iniziato. Non sapeva, Leo, quali storie fossero state raccontate durante quei settantacinque anni, cosa rendesse la morte degli ebrei più penosa di quella di altri. Tutti si moriva in guerra: ebrei, tedeschi, francesi, libici, americani, italiani, giapponesi, slavi. Sposati, padri, madri, figli, eterosessuali o omosessuali, zingari o ricchi banchieri. Prigionieri o carcerieri, tutti si moriva in guerra. Ognuno diveniva la preda di qualcun altro, era un cerchio, e questo l’aveva imparato sulla propria pelle. Non faceva più pena di molte altre, la foto del cumulo di scarpe di prigionieri uccisi, proveniente da Auschwitz. Non ci era mai stato, Leo, ma immaginava che non fosse molto diverso da Dachau. Quelle erano solo delle fottute scarpe, che nemmeno in minima parte riflettevano il numero di vittime che quella guerra aveva causato, o di quelle che i campi di sterminio producevano. Quelle scarpe saranno state sì e no di un paio di carichi di prigionieri.

    Prigionieri che da soli se le erano tolte, quelle scarpe, con un fucile puntato alle loro spalle. Che poi si erano tolti i vestiti, e li avevano riposti a terra piegandoli in maniera ordinata. C’era molta più cura delle cose, a quel tempo. Anche di una divisa a righe che qualcun altro aveva imposto a quei prigionieri di indossare, forse al posto dell’unico vestito che avevano. Ed avevano marciato, in silenzio, pena la morte istantanea per chiunque fiatasse. Che stolti, erano. Se solo avessero saputo quanto più cruda e immeritevole sarebbe stata la loro morte, si sarebbero messi a gridare, e si sarebbero fatti fucilare all’istante, almeno forse non si sarebbero accorti di nulla. Ma nessuno tornava dalle camere a gas per raccontare com’era. Gli altri prigionieri che conoscevano ciò che avveniva lì dentro intervenivano solo dopo, quando nessuno rimaneva vivo ad ascoltare l’avvertimento. Per il resto, nessuno capiva i gesti sconnessi di uomini a cui era stata tagliata la lingua, e il cui compito era trasportare i corpi esanimi dei loro fratelli da un posto all’altro, attendendo il momento in cui qualcuno avrebbe trasportato il loro, di corpo. Marciavano, finché una piccola stanza non ospitava tutti i loro corpi nudi, finché la porta alle loro spalle non si chiudeva. Lì era concesso parlare, perché nessun soldato entrava con loro. Era concesso scambiarsi qualche domanda, una battuta magari, a cui nessuno rideva mai. Leo non sapeva cosa accadesse dopo, nessuno osava guardare dallo spioncino. Erano addestrati a guardare in faccia la morte, questo era vero. Ma le grida che si udivano quando la porta era chiusa da un po’, quando le persone si rendevano conto di ciò che realmente stava accadendo, dilaniavano l’anima. Quando capivano che la morte era imminente, che nessuno avrebbe potuto scappare, molti iniziavano a gridare in preda al panico, a piangere, a sbattere. Qualcuno forse pregava il suo Dio, ma nessuno poteva udirlo, in mezzo a quel fracasso che pian piano iniziava a perdere voci, le quali man mano venivano mozzate dall’incapacità di respirare. Insegnavano a quei soldati a rimanere impassibili a quelle grida, ad aspettare che il silenzio fosse totale. Gli insegnavano a non vomitare e sopportare la puzza e la vista di quei corpi morti, accasciati l’uno sull’altro, a non guardare i loro volti deformati dalla sofferenza e dalla dispnea. Gli insegnavano ad abituarsi all’odore che ogni giorno si percepiva in quel luogo, quello del fumo dei forni nei quali i corpi di quelle persone bruciavano. Gli fornivano “medicinali” in grado di renderli in grado di reggere tutto questo, a livello fisico. Ma a livello psicologico? Era vero, erano solo ordini quelli, e come tali erano semplici da eseguire. Nessuno di loro sceglieva di uccidere, erano la guerra e i governi a farlo per mano loro. E se a tratti ci si sentiva leggeri, e si rideva addirittura di ciò che accadeva lì dentro, a tratti si cadeva nella tentazione di puntarsi la pistola alla tempia, chiudere gli occhi e premere il grilletto. Di concedersi una morte onorevole, prima che qualcuno avesse deciso diversamente.

    Erano solo scarpe, quelle, che nessun rumore potevano fare. Eppure la gente le guardava e si commuoveva. Non lo aveva fatto nessuno, settantacinque anni prima. E ciò che era stato trovato, quando i campi di concentramento erano stati smantellati dai tedeschi in fuga, non era che una minima parte di ciò che era accaduto là dentro. Non erano che scarpe, quelle, fotografate in un luogo che nemmeno aveva mai visto. Eppure riuscivano a portarlo indietro, nel periodo più orribile della sua vita. Dachau, gli esperimenti, le veglie infinite, la diserzione di Axel, la pazzia sua e di Ernst. Erano solo scarpe, quelle, ma il suo cuore aveva preso ad accelerare, costringendolo ad arretrare e a respirare più forte. Prima che qualcuno potesse notare quanto tremassero le sue mani, e chiedersi il perché, passò rapido a un’altra stanza, saltando la parte della Shoah e ritrovandosi in una stanza in cui nulla sembrava familiare. La targa diceva “1945-1947, gli anni di ferro.” Quelle foto riguardavano ciò che era accaduto dopo, quando la guerra era finita. Qualcosa che Leo non aveva mai vissuto. E così, in quella stanza in cui solo un’altra signora si muoveva lenta tra le foto, riprese fiato, vagliando curioso le immagini che si susseguivano, stampate in piccoli formati. I suoi occhi rapidi cercavano volti familiari, tra quelli dei soldati che coi bagagli in spalla tornavano a casa. La speranza che Ernst fosse sopravvissuto, di averne la prova almeno alimentò di nuovo quel battito cardiaco accelerato, mentre il suo potere, mosso da meccanismi inconsci, iniziava a logorare la realtà intorno a lui, divorandone le energie. Le musiche, in ogni stanza diverse, iniziarono a tacere, senza che nessuno riuscisse a spiegarsi il perché. Le luci a tratti sfarfallavano, e Leo nemmeno se ne accorgeva. Non era irreale il silenzio che udiva, per lui. Nemmeno si accorse che la signora accanto a lui stava muovendo la bocca senza emettere alcun suono. E poi il suo sguardo cadde su una foto, senza nome, datata al 1946. Una donna, in un leggero abito bianco, teneva un bambino in braccio. Un bambino che ad occhi e croce avrà avuto un anno e mezzo. E smise di respirare, quando accettò la realtà dei fatti. Era Mira, la donna nella foto. Quella Mira, la sua Mira. Cavolo, l’avrebbe riconosciuta ovunque. E quello che teneva in braccio doveva essere suo figlio, quello che non aveva mai potuto conoscere, quello che l’aveva costretta a crescere da sola, in un mondo in cui una donna sola con un figlio veniva emarginata. La guerra era finita, e suo figlio aveva potuto vedere quel mondo nuovo. Suo figlio.
    Aveva iniziato ad iperventilare, mentre la testa aveva preso a girargli forte, stordendolo e costringendolo ad abbassare lo sguardo verso il pavimento, per non vomitare. Non era solo lo shock a renderlo instabile. La sua particolarità aveva iniziato a consumare ogni angolo della realtà. I colori in quella stanza, la gravità di alcuni oggetti, i suoni. Per un attimo tutto si fermò, le persone, le cose. Troppe variabili per essere controllate da qualcuno che non ne era minimamente in grado. Perse la cognizione di ogni cosa, e non riuscì a controllare le sue gambe, che sembravano aver perso la capacità di sorreggerlo, quando tutto divenne buio e confuso.

    All’esterno, tutto riprese il suo corso. La luce tornò, così come i colori, i suoni. Qualcuno gridò, ma sembrava così lontano. Troppo lontano perché potesse udirsi in mezzo alle grida che sentiva adesso. Quelle delle persone oltre una porta che non riusciva a vedere al momento, ma che sapeva benissimo come fosse fatta. Non esistevano parole per descrivere come realmente fossero quelle grida, il tono che avessero. Nessuno aveva creato termini adatti e tanto crudi. Racchiudevano tutta la disperazione di persone che nulla potevano fare per salvarsi, che sapevano che sarebbero morte. Avevano il tono delle grida di animali che vengono scuoiati vivi, raschiate, alcune talmente acute da riuscire a trapanarti l’anima. Esprimevano il panico più terribile e oscuro. Rendevano tangibile e reale la colpa di chi le ascoltava senza muoversi. Le sentiva quelle grida, sentiva solo quelle, e stavolta non poteva fare nulla per zittirle. Non si muoveva non perché gli era stato ordinato, ma perché non riusciva a farlo. Era intrappolato, costretto ad udire quegli straziati lamenti, per la legge del contrappasso. Fu quasi come fuggire, riuscire a percepire l’aria nei propri polmoni, una nota dissonante, in quello straziante limbo. Percepiva delle voci diverse, tra quelle grida. Sembravano più calme, le voci di qualcuno che non stava realmente morendo. E ben presto le grida iniziarono a scemare, come quando chi le emetteva si arrendeva alla morte. Le altre voci invece, divennero più vicine. Non riuscì a individuare quante fossero. Sussultò, quando finalmente riuscì ad aprire gli occhi, come se le forze gli fossero tornate tutte insieme. Sopra di lui stava una donna dalla pelle scura e i gli occhi imperscrutabili, lo guardava preoccupata. Scattò cercando di tirarsi su, notando che un altro uomo della sua stessa etnia era ai suoi piedi. Che fosse caduto prigioniero? Ma dove? La donna teneva la mano sul suo petto, lo teneva fermo. ”Come ti chiami?” Leo, stordito, capì a malapena cosa disse. Fece per alzarsi, di nuovo, notando ora che c’erano altre persone in quella stanza. Una signora che gli pareva di conoscere, e un altro ragazzo. Ah si, la signora era nel museo. Il museo. Si trovava al museo quindi? ”E’ troppo presto, resta ancora un attimo disteso. Cadendo hai sbattuto la testa a terra?” Sbattuto la testa a terra? Ma che diamine stava dicendo? Gli Avevano sparato! Ah no, quello era accaduto due mesi prima. Che diamine era successo? Momentaneamente immemore della storia di Mira e di suo figlio, cercò di riprendere la facoltà di parlare. Ma che lingua doveva parlare? Norvegese? Era sicuro di saperlo? ”Cosa? Io…non lo so.” Farfugliò confuso. Non aveva idea se avesse sbattuto la testa o meno. Insomma, era un attimino sfasato. ”Che…che è successo? Voi state bene? Gli venne istintivo di chiedere, quando il senso di spossatezza tipico di quando la sua particolarità prendeva il sopravvento iniziò a manifestarsi. Ne riconobbe i sintomi, almeno quelli. E sapeva che in alcuni casi poteva essere pericolosa, più per lui che per gli altri in realtà. Aveva una voce stranamente dolce, quella donna la cui pelle ricordava quella di alcune persone che aveva accompagnato in quella stanza, di cui probabilmente aveva udito le grida, mischiate alle altre. Ma quello era un tempo diverso, un tempo in cui almeno non si faceva più caso al colore della pelle, e non ci si basava sull’idea dell’ideologia di una razza, per giudicare le persone. La seconda guerra mondiale era finita, almeno in quel frangente. ”Vuoi andare in ospedale per un controllo? Ti porto io, ci ho lavorato per anni”. Sembravano gentili, le sue parole. Ben lungi dall’assomigliare a quelle di un nemico, di qualcuno che era ostile. Forse lo sarebbe stata, e lo sarebbero stati tutti, sapendo di avere avanti uno degli artefici di quegli orrori che ora erano impresi in delle fotografie in bianco e nero. Se solo avessero saputo che quello che le persone ricordavano oggi era solo la punta dell’iceberg di ciò che era accaduto ieri, probabilmente lo avrebbero condannato a morte. A ragione. Avrebbe meritato il processo, quel reo soldato, come tutti gli altri. Forse quello avrebbe scritto la parola fine, forse avrebbe zittito quelle grida. Alzò lo sguardo verso quella donna, dai modi fin troppo gentili nei confronti di un uomo che mai avrebbe meritato tale atteggiamento. Uno che aveva insultato quelle come lei in passato, che le aveva prese a calci, che aveva puntato loro un fucile contro e a cui aveva voltato le spalle, quando avevano iniziato a gridare. Donne a cui aveva strappato figli dalle braccia, speranze dall’animo, umanità dagli istinti. Solo ora iniziava quel percorso per Leo, che mai avrebbe condotto a una redenzione, ma all’accettazione. Al capire che la guerra era finita davvero.
    ”No, no, niente ospedale. Sto bene. Questa andrà benissimo, grazie”. Disse, alzandosi frastornato e prendendo la bottiglia d’acqua dalle sue mani. ”Deve essere stato, non so, un calo di zuccheri… il potere che fa un po’ i capricci, nulla di ché, sul serio.” Cercò, di dare e darsi una spiegazione, tranquillizzando quelle persone, che sembravano sinceramente preoccupate. Sentiva di non meritarsela, Leo, tanta compassione. ”Ti senti meglio, adesso?” Bevve un sorso d’acqua e annuì. ”Sono Eva, la tua nuova dottoressa di fiducia.” Sorrise lei. Fiducia? Fiducia di chi? Non esisteva la parola fiducia, nel vocabolario di Leo, non se non associata al nome di Ernst, che alla fine comunque l’aveva tradito, spedendolo da solo in un mondo in cui si sarebbe per sempre sentito sbagliato, fuori posto, sporco. ”Oh, mi chiamo Leo.” Si presentò, dato che prima, nella confusione, non lo aveva fatto. Riuscì a rimettersi in piedi, sotto agli occhi di forse troppa gente, ancora abbastanza pallido in volto. ”Grazie, davvero, mi dispiace avervi allarmato.” Le iridi verdi, dalle pupille un po’ più dilatate del normale, indagarono i volti di quelle persone. Tutti diversi, nessuno noto. Forse cercava qualcuno in quei volti, qualcuno che non avrebbe mai potuto trovare. Ricomponendo i tasselli, si voltò verso una delle pareti, mentre alcune di quelle persone tornavano alle loro occupazioni. Quella foto, di nuovo, gli fece effetto. ”Porca miseria” Sussurrò. Se suo figlio era ancora vivo, allora magari avrebbe potuto trovarlo. Per fare cosa, poi? Per rovinargli l’esistenza? Forse non era una buona idea. Volse di nuovo lo sguardo verso la donna che era rimasta in quella stanza, la dottoressa, cercando di nascondere la tensione che agitava il suo animo, ogni volta che guardava una di quelle immagini. Chissà cosa ci vedeva, lei che non aveva vissuto quella guerra, in quelle immagini? Avrebbe voluto chiederglielo, ma gli parve fuori luogo. Mosse qualche passo, ancora, in quella stanza, perdendola di vista. Forse era stata una cattiva idea andare lì, per un soldato le cui ferite sanguinavano ancora. Nel frattempo, notò qualcosa a terra che luccicava. Si trovò a raccogliere un orecchino. Purtroppo ricordava le cose fin troppo lucidamente da sapere che apparteneva alla donna che lo aveva soccorso. Non era molto, ma almeno avrebbe potuto ricambiare il favore, in parte. La cercò, nelle stanze accanto, trovandola da sola di fronte ad alcune foto. Dei soldati pregavano di fronte a delle croci. Alcuni posavano per una foto di squadrone. Nemmeno si accorse di chi c’era, finché non vide Ernst. Gli si spezzò il fiato in gola. Avrebbe riconosciuto ovunque quel sorriso sghembo e furbetto. Rimase a bocca aperta, nemmeno curandosi di essere nella stessa foto. E quando la donna si voltò si trovò con l’orecchino in mano e un’espressione spaesata. ”Ehm. Eva, giusto? Credo che questo sia suo, deve esserle caduto prima.” In effetti, ne indossava uno uguale, quindi forse la sua ipotesi era corretta. Non riusciva a staccare gli occhi da Ernst. E stavolta vide anche sé stesso, al suo fianco. Sembravano passati mille anni, da quel giorno. Eppure ricordava perfettamente il momento in cui avevano scattato quella foto. Erano a Besaid, il 20 gennaio del 1944.

    . . .


    ”Hai mai dimenticato qualcosa, di quella che è stata la tua vita? Un solo giorno, un istante?
    Io no, mai. “

     
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    La cosa più simile a una guerra che avesse visto era la danza Haka in Nuova Zelanda, se chiudeva gli occhi riusciva a vedere perfettamente lo spettacolo a cui aveva assistito diverso tempo fa.
    Buio sul palco, improvvisamente solo un occhio di bue diretto su una figura maschile. Indossava solo un pareo di un arancione intenso con dei disegni tribali neri che ne percorrevano tutto il bordo, sulle gambe - come se fossero il proseguimento dell’unico capo d’abbigliamento che indossava – una serie di tatuaggi che ne avvolgevano ogni centimetro fino alle caviglie. L’inchiostro nero si diramava a tratti in altri punti, un gioco di vuoti e ombre, sulla spalla dei segni semi concentrici e sul mento dei ricci spigolosi che serpeggiavano sino al labbro inferiore. Un guerriero Maori che stringeva tra le mani un bastone dalle estremità allargate, mosse dei passi in silenzio fino a raggiungere il centro del palco, dove con un movimento forte e sicuro aprì le gambe piegando le ginocchia prima di gridare: ”Taringa Whakarongo! Kia Rite! Kia Rite! ” (Ascoltate! Preparativi, pronti!) alle sue parole un gruppo di cinque uomini e tre donne entrò quasi correndo sul palco, posizionandosi alle sue spalle. ”Kia Mau! Ringa Ringa Pakia!” (In posizione! Batti le mani contro le cosce!) la voce dell’uomo era stentorea eppure graffiata mentre strillava col viso contratto per poi sgranare gli occhi. Il gruppo dietro di lui iniziò a seguire il suo ordine battendo con le mani sulle cosce creando un ritmo musicale potente alle sue parole. Il corpo era come uno strumento a percussione, risuonavano come un esercito di cento in quel teatro.
    Eva fissava quell’unione di spiritualità e musica sentendo la pelle farsi sensibile, dei leggerissimi brividi la percorrevano come se la sua spina dorsale fosse stata la corda di una chitarra. Un riverbero piacevole a contrasto con l’energia prepotente che arrivava dai ballerini dall’altro lato della sala. Uno tsunami di emozioni coinvolgeva tutti i presenti, alcuni ricopiavano le mosse dei guerrieri Maori che si muovevano in sincro sul palco, cercando di entrare in perfetta sintonia con la loro energia esplosiva. ” Waewae Takahia Kia Kino Nei Hoki! A Kia Kino Nei Hoki!” (Pesta i piedi più forte che puoi! Più forte che puoi!) quei lamenti di guerriglia divennero realtà attraverso i movimenti di quel gruppo che fece tremare l’atmosfera sbattendo coi piedi al suolo con una veemenza impressionante. Ancora l’uomo che diveniva musica attraverso gesti e ritmi incalzanti, canale veicolante di sentimenti troppo forti per essere espressi diversamente. ” Ka Mate, Ka Mate! Ka ora! Ka Mate Ka Mate! Ka ora!” (E’ la morte, è la morte! E’ la vita! E’ la morte, è la morte! E’ la vita!) alcuni degli uomini sgranarono gli occhi con aria minacciosa, mentre altri tirarono fuori la lingua come belve in procinto di attaccare. Nella tradizione Maori quel ballo serviva a intimorire gli avversari per evitare spargimenti di sangue non necessari e se non funzionava si ricorreva alla guerra e alla violenza. Per quel motivo gli uomini e le donne sul palco si muovevano con potenza fiera e indomita.
    Alla fine dello spettacolo gran parte del pubblico si alzò in piedi applaudendo con trasporto, anche Eva era balzata dalla sua sedia scrosciando le mani vigorosamente. Si voltò verso suo fratello Aidan e gli sorrise senza un motivo, le era venuta voglia di vivere intensamente e di fare qualcosa di forte quella sera. Aveva l’adrenalina in circolo che chiedeva di essere consumata fino all’ultima goccia. ”Andiamo?”


    Eva teneva la mano sul petto del ragazzo che sembrava piuttosto smarrito davanti alle sue domande, aveva bisogno di qualche attimo in più per riprendersi e lei lo sapeva. ”Cosa? Io… non lo so. Che… che è successo? Voi state bene?” quella domanda la sorprese non poco, perché aveva chiesto della sua incolumità quando era lui quello che aveva avuto bisogno di soccorso? ”Io sto molto bene. La signora qui accanto ti ha trovato svenuto a terra. Riesci a ricordare qualcosa?” gli dava del Tu perché le formalità con una persona che non si sentiva bene servivano solo a rendere più complessa la comprensione delle richieste o delle semplici domande. Eva non smise mai di esercitare una lieve pressione verso il basso sul ragazzo che sembrava smaniare per rimettersi in piedi dopo aver perso i sensi. Per un istante si perse nei tratti di quel giovane che somigliava perdutamente a uno degli uomini nelle foto in bianco e nero che aveva visto appese alla parete poco prima. Chissà che non fosse un suo antenato o altro, forse per quello si era agitato ed era svenuto? Chi aveva dei collegamenti con la guerra, anche remoti era più a rischio di somatizzazioni emotive come quella. Non chiese nulla però, gli rivolse un sorriso rassicurante chiedendogli se non volesse andare in ospedale. ”No, no, niente ospedale. Sto bene. Questa andrà benissimo, grazie. Deve essere stato, non so, un calo di zuccheri… il potere che fa un po’ i capricci, nulla di ché, sul serio.” alla parola potere si attivò il radar di Eva per le particolarità, da quando ne aveva sviluppata una stava cercando di arrivare a capirne il funzionamento e la genesi. Era diventata un’ossessione la sua, una sete di sapere atavica che non riusciva a placare. Per questo motivo aveva iniziato a lavorare nel Mørdesson Institute, lasciando il suo vecchio impiego presso l’ospedale pubblico, dove non le permettevano di dissetare la sua curiosità. ”Le particolarità sono come gli esseri umani, reagiscono alle emozioni forti e agli ambienti che ci destabilizzano. Comunque se credi che non ti serva di andare in ospedale sappi che sarò nei paraggi ancora per un bel po’. Siamo venuti a vedere questa mostra a cui ha contribuito un nostro amico.” avendo parlato al plurale col capo indicò suo fratello che fino a poco prima aveva assistito la ragazza tenendo le gambe dello sconosciuto in alto per riattivare la circolazione. Quando fu certa che il giovane aveva ripreso le capacità cognitive e che riuscisse a stare almeno seduto autonomamente si presentò con una battuta, cosa così insolita che Aidan iniziò a gesticolare verso il loro amico Gerard facendo segni che non avevano alcun senso dicendo a voce alta: ”Una battuta, Gerard, ti rendi conto? Per stasera arriverà la fine del mondo!” Aidan finse un mancamento sperando di non mancare di rispetto al tipo che si era appena presentato come Leo, scoppiando in una sonora risata seguito da Gerard che li fissava da poco lontano.
    ”Scusali…” Eva scosse la testa. ”Piacere di averti conosciuto Leo, speriamo di rivederci in circostanze più serene.” garbata e controllata, la sua voce bassa era una carezza leggera nell’aria. Era così impostata che suo fratello le ripeteva continuamente che doveva lasciarsi andare, lo faceva ogni singolo giorno della sua vita. Con quel pensiero nella mente aiutò Leo a rimettersi in piedi e gli diede una leggera pacca sulla spalla, suo fratello lo faceva sempre quando voleva essere amichevole con qualcuno. Probabilmente lei sarebbe apparsa minacciosa, ma ormai lo aveva fatto anche se il suo viso era vagamente corrucciato. Aveva scordato di sorridere, ecco cosa mancava! Non era pronta per tutto quel contatto con la gente, era propria negata così evitò di spremersi ulteriormente e si congedò con una smorfia che avrebbe dovuto essere un sorriso. ”Grazie, davvero, mi dispiace avervi allarmato.” l’espressione del ragazzo era ancora un po’ spaesata e il suo pallore era evidente, ma riusciva a fare frasi di senso compiuto e non aveva perso l’equilibrio nel momento in cui lo aveva aiutato ad alzarsi. ”Nessun problema, piuttosto cerca di non sforzarti troppo.” gli diede le spalle e si allontanò con un cenno della mano. Non si diresse verso suo fratello, ancora si sentiva il suo chiacchiericcio concitato con Gerard che commentavano la sua “epica battuta”. Eva sospirò, sapeva di non essere affabile e tutti i giorni cercava di sforzarsi un po’ per esserlo perché col lavoro che faceva era necessario trasmettere serenità ai pazienti, invece lei a volte li intimoriva e addirittura le era capitato di far piangere una bambina. Dopo quell’esperienza si era ripromessa almeno di provare a imparare a sorridere come un comune essere umano ed era quello che aveva tentato di fare con Leo con scarsi risultati. Lentamente Eva si diresse verso la sala successiva, strinse le braccia al petto per automatismo, teneva gli occhi incollati su quelle foto drammatiche che anche in bianco e nero rendevano una violenza fatta di colori cupi. Finalmente era sufficientemente lontana dalla voce di Aidan e poteva godersi il silenzio della sala poco affollata. Si soffermò davanti alla foto di un plotone militare, alcuni indossavano abiti quotidiani come pantaloni e camicia, altri invece portavano ancora la divisa. Erano tutti vicini, abbracciati gli uni agli altri col sorriso sulle labbra. ’C’era davvero qualcosa di cui essere contenti a quei tempi? Forse la propria vita?’ allungò le dita verso la foto, ma venne interrotta da una voce vagamente familiare. Si voltò con l’espressione di chi era stata colta in flagrante, effettivamente non avrebbe dovuto toccare le foto esposte. ”Ehm. Eva, giusto? Credo che questo sia suo, deve esserle caduto prima.” il ragazzo che aveva soccorso poco prima le mise in mano qualcosa che non riconobbe subito, poi si rese conto che era il suo orecchino. Doveva averlo perso prima e non se ne era nemmeno accorta, infatti si tastò il lobo nudo per accertarsi che fosse davvero suo. Lo inserì nel foro dell’orecchio e lo richiuse, sperando che non cadesse di nuovo. ”Grazie, siamo pari.” poche parole, ma dirette. Posò il suo sguardo su Leo, così aveva detto di chiamarsi il giovane, ma pareva distratto. Fissava la foto che aveva attirato anche la sua attenzione con la bocca aperta, come se avesse visto qualcosa di assurdo. Eva strinse gli occhi come per voler verificare di non aver perso dei dettagli importanti e solo in quel momento si rese conto che tra i visi dei militari ce n’era uno identico a quello di Leo. Eva sgranò gli occhi e si voltò verso il ragazzo al suo fianco. ”Un tuo parente?” indicò l’uomo che aveva visto sulla foto col dito. ”Ti somiglia incredibilmente, se non fosse impossibile direi che siete la stessa persona.” era talmente strabiliata da quelle due figure identiche che non riuscì a tenere per se’ quel commento, nonostante non fosse il classico tipo di persona da fare domande indiscrete. Un’altra cosa che però non espresse a voce alta era la preoccupazione per quello sconosciuto, il suo viso trapelava uno sconvolgimento emotivo che ovviamente per lei non aveva spiegazione. Eva assunse un’espressione cortese, come quando doveva dare qualche notizia importante a un paziente e si avvicinò di un solo passo a Leo. ”Perché non andiamo a prendere un caffè al bar del museo, così diamo una ravvivata alla tua circolazione? Credo che tu ne abbia bisogno, ti trovo ancora un po’ cinereo. E per favore dammi del tu, altrimenti mi farai sentire una signora di una certa età.” gli rivolse un sorriso più sincero di quanto non lo fosse stata la sua trovata di bere qualcosa insieme, aveva celato dietro a un consiglio medico la sua preoccupazione priva di fondamento. Non conosceva quel ragazzo, eppure c’era una strana empatia nei suoi confronti e non sapeva davvero dire perché.

    Il testo della canzone è tratto dalla danza Haka della squadra di Rugby All Blacks.


    Edited by Aruna Divya - 18/1/2020, 17:05
     
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    Leo Wagner|27 y.o.|Soldier from the WW2| memories

    #warning:(as usual) Questo post parla di nazismo e sterminio degli ebrei. Se siete sensibili al tema, o se vi da fastidio che qualcuno non esperto in materia ne parli, aggiungendo elementi fittizi alla storia, vi prego, non andate avanti nella lettura.

    To see a world in a grain of sand,
    And a heaven in a wild flower,
    Hold infinity in the palm of your hand,
    And eternity in an hour.


    Siamo così condizionati dal tempo e dal suo ordine, da quello che regola tutte le cose. Lasciamo che scorra tra le nostre mani, come sabbia, e che repentino svanisca lasciando sui nostri palmi solo strascichi d’innocenza. Non sempre vince il tempo. A volte si può tenere l’eternità in un’ora, in un giro di lancette. L’orologio segue i numeri, e poi ricomincia. Un altro giro, un’altra eternità possibile, o un labile istante all’apparenza. Non possiamo decidere di fermarlo, ma possiamo cercare di ricordare ogni istante che abbiamo vissuto, di non ripetere gli stessi errori e di far continuare le lancette a camminare. Ma il tempo è nemico della memoria, e pian piano cancella tutto ciò che è stato, facendo sì che ciclicamente si ripeta, in un’eternità sempre uguale, sempre peggiore. Il fiore selvatico appassisce e muore, e genera coi suoi pollini altri splendidi fiori. Ma essi non serberanno memoria dell’aspetto di quello prima, della sua esistenza, di quella che è stata la sua sorte. Si muore e nasce in maniera sempre uguale. Si vive ingiustamente in mille modi diversi, ma non poi così tanto. Ci sono talmente tante costanti nel moto ciclico, che potremmo trarne delle leggi, che mai rispetteremo.
    La guerra non cambia mai nell’essenza. Ne cambiano gli attori, gli scenari. Cambiano le motivazioni, gli equipaggiamenti, ma non ciò che si lascia dietro. L’aveva visto negli occhi di suo padre, ciò che la guerra lasciava. Vuoto. L’aveva udito nei racconti di altri che erano stati con lui, pochi che erano riusciti a esternare ciò che avevano vissuto. Uomini uguali con divise diverse, piazzati su due lati opposti di un campo, a cui veniva dato l’ordine di trucidarsi fin quando nessuno fosse rimasto in piedi. Otto non ne parlava mai, se non per raccontare quella storiella a Natale. Non aveva mai accennato nulla nemmeno nelle sue lettere, che altri scrivevano per lui. Si limitava solo a comunicare loro che era vivo, così come si era limitato a sopravvivere, una volta tornato. La verità era che aveva ucciso una parte di sé stesso, ogni volta che aveva sparato un colpo contro qualcun altro, fin quando di lui non era rimasta che una labile ombra. Fin quando non aveva deciso di abbracciare i suoi fratelli in divisa, nella morte. La guerra non cambia mai. Lascia orfani, reduci senza più anima, distruzione. E quando giunge alla fine, quasi ci si stupisce chiedendosi cosa l’abbia scatenata e come sia stato possibile lasciare che accadesse. Si fanno trattati, si stilano carte infinite. Eppure, non appena il granello di sabbia scivola dalla mano, si dimentica di come si sia arrivati a quel punto, e il ciclo ricomincia.

    Voci, volti nuovi, rumori, luci intense, era ciò che aveva contraddistinto ogni suo risveglio da un po’ di tempo a quella parte. Non si udivano più spari però, nessuna sirena che preannunciava un attacco aereo, nessun ordine impartito in piena notte. Erano solo volti e voci di persone comuni, vive, non emerse da qualche anfratto del suo inconscio. Lo scrutava apprensiva, quella donna dai tratti delicati e gli occhi innaturalmente scuri. Lo sovrastava quasi imponentemente. Dietro di lei non s’intravedevano che luci di un soffitto. E nonostante ci mise parecchio per riprendere il contatto con quella realtà che nemmeno conosceva e a cui probabilmente non si sarebbe mai abituato, Leo riebbe indietro la propria coscienza, e i propri ricordi. Tutti.
    ”Io sto molto bene. La signora qui accanto ti ha trovato svenuto a terra. Riesci a ricordare qualcosa?” Faceva domande, lei, fin troppe per chiunque. Non era abituato a tante attenzioni come quelle che le persone riservavano alle altre in quell’epoca. Solo Ernst si era soffermato a chiedere come stesse a volte, ma non in frangenti come quello. Lui scavava molto più a fondo, senza il bisogno di parole. Vedeva le ferite che erano precluse agli altri occhi, quelle che non sanguinavano all’esterno. Quelle di un animo forse troppo debole per resistere ai colpi che ogni giorno gli venivano inferti. Si massaggiò la testa. Non sentiva bernoccoli o presenza di sangue, solo un leggero intorpidimento dietro la nuca. ”Si, si mi ricordo. Insomma, non è che ci sia molto da ricordare. Ma non è niente davvero.” Si volse verso la signora caucasica che doveva essersi presa un bello spavento. Forse erano anche sue, le grida che aveva sentito tra le tante. ”Grazie per avermi soccorso, signora, non volevo arrecarle disturbo”. Si rivolse alla donna, per poi tornare a rivolgere la sua attenzione alla sua interlocutrice, e agli altri che dietro di lei lo osservavano come se stessero aspettando che dicesse qualcosa di illuminante.
    ”Le particolarità sono come gli esseri umani, reagiscono alle emozioni forti e agli ambienti che ci destabilizzano. Comunque se credi che non ti serva di andare in ospedale sappi che sarò nei paraggi ancora per un bel po’. Siamo venuti a vedere questa mostra a cui ha contribuito un nostro amico.”
    Le particolarità, ah sì, ecco come le chiamavano lì. Quegli strani scherzi della natura che a suo tempo avevano fatto impazzire i ricercatori nazisti. Chissà se alla fine erano riusciti ad usarle davvero, quelle particolarità, o come tutti ne avevano perso il ricordo? L’esito della guerra forse suggeriva la risposta. Forse gli abitanti di quella strana città si erano in parte salvati dal divenire esperimenti del Reich. La stessa fortuna non era toccata ad altri più ad est, che nonostante non possedessero alcuna stramba abilità erano divenute vittime immolate in nome della scienza. In nome di un progresso che a volte aspirava a sfociare nella fantascienza. Batté un paio di volte le ciglia, ascoltando la donna con sguardo abbastanza stralunato. ”Lo so, è che non riesco a controllarla molto bene, e a volte prende il sopravvento, tutto qui.” Era gentile, lei. Spostò lo sguardo sul suo amico, che sembrava sentirsi male pure lui. Avrebbe voluto chiedere in che modo aveva contribuito a quella mostra. In che modo avesse preservato la memoria di qualcosa che alla sua età non avrebbe potuto conoscere davvero. Ma tacque, in quel frangente, conscio che le domande portavano solo altre domande. E aveva promesso alla detective Hagen che non avrebbe dato nell’occhio. Si rialzò e lasciò che la donna gentile si congedasse da lui. ”Piacere di averti conosciuto Leo, speriamo di rivederci in circostanze più serene.” Rispose con un lieve cenno del capo e un sorriso abbozzato. Se avesse avuto un cappello avrebbe dovuto toglierlo, per educazione, ma indossava solo una felpa e dei jeans, un abbigliamento insolito per lui, ma a quanto pareva abbastanza in voga in quell’epoca. Ogni tanto si chiedeva perché la gente amasse strappare i jeans di proposito ed andarci in giro, nonostante potessero permettersi dei pantaloni interi. Quel dubbio lo attanagliava parecchio, così come la maggior parte dei quesiti sulle mode di quell’epoca. ”Nessun problema, piuttosto cerca di non sforzarti troppo”. Era anche troppo premurosa, lei, con un uomo che nemmeno conosceva. Aveva detto di essere una dottoressa, ma nemmeno i medici erano tanto premurosi, di solito. Che la sua fosse bontà d’animo? Leo ne rimase stupito. E il suo sguardo vagò di nuovo, in cerca di quegli affetti che aveva lasciato troppo presto, di nuovo alla ricerca di Mira e suo figlio. Chissà se avevano avuto una bella vita, dopotutto? Chissà se avevano potuto godere della quiete dopo la tempesta in cui tanto aveva sperato, quando le battaglie sembravano non fermarsi mai? Chissà se aveva pianto, la povera Mira, per lui? Forse lei sola l’aveva fatto, o forse nessuno aveva creduto alla sua morte all’inizio, dato che nessun corpo era mai stato trovato. Forse aveva sperato, per un po’. Forse aveva pensato che l’avesse abbandonata ed aveva imparato ad odiarlo. Chissà se Ernst era tornato a cercarla? Chissà se era sopravvissuto, Ernst, a quella battaglia? Si allontanò da quelle foto e da quei pensieri, che di nuovo iniziavano a scuoterlo nel profondo, prima che di nuovo quella sua strana particolarità prendesse il sopravvento. Si accorse solo allora dell’orecchino della donna, e andò a cercarla per riportarglielo. Era il minimo che potesse fare, dopotutto, a prescindere dal valore che esso poteva avere. La trovò in una stanza, e glielo porse. ”Grazie, siamo pari”. Abbozzò un sorrisetto, anche se una cavolata del genere di certo non poteva eguagliare la sua gentilezza.
    Ma il suo sguardo si perse oltre, tornò nel passato, a quel freddo gennaio del 1944, in cui in un momento tranquillo lo squadrone si mise in posa per una foto ricordo. Se fossero stati fortunati, avrebbero potuto averne una copia da tenere, da mandare ai loro cari. Avrebbero potuto mostrare il loro valore, ricordargli che stavano combattendo una guerra giusta, nonostante quella guerra li avesse condotti lontano dalle amate braccia e dalle sognate terre natie. Il suo sguardo non si soffermò sul proprio volto, ma su quello di Ernst, i cui occhi riuscivano a calamitare i suoi anche attraverso una vecchia foto. Conosceva anche gli altri. Hans, Henrich, Dimitri, Schmidt, il comandante Hoffen, il povero Kait, morto di una misteriosa malattia appena un mese dopo aver scattato quella foto. Chissà che ne era stato degli altri? Chissà se erano sopravvissuti, se avevano visto l’alba del nuovo mondo? Chissà se ne avevano affrontato le conseguenze o se, come suo padre, si erano legati un cappio al collo e avevano chiuso i loro conti in sospeso? La voce di lei sembrò risvegliarlo, come uno sparo, nel silenzio. ”Un tuo parente?” Leo si voltò di scatto e sgranò gli occhi. Che sapesse qualcosa, su Ernst? Ma no, impossibile, lei aveva guardato lui, in quella foto. ”Eh?” ”Ti somiglia incredibilmente, se non fosse impossibile direi che siete la stessa persona.” Certo che era impossibile. Doveva esserlo, agli occhi di tutti. Il nazismo era morto, e la sua caduta era celebrata in quella sfilata di foto. Ogni paese occupato festeggiava la sua libertà, in quell’epoca in cui quel totalitarismo aveva cambiato solo capo e stato. ”Che sciocchezza.” Rise nervosamente, scuotendo la testa, e cercando di risultare abbastanza convincente. ”In effetti, si, un po’ mi somiglia, credo. Ma non così tanto, dai. In realtà guardavo lui, somiglia a uno che conosco.” Indicò un volto a caso nella foto. Lui aveva conosciuto tutti loro in realtà, e cercò di sviare quel discorso passando per il finto scemo. Era finito il tempo in cui nessuno si azzardava a fare domande, e in cui si puntava la pistola contro chi sapeva troppo. Ora era il tempo di divenire un civile tra i civili, senza nessun soldato a fare la guardia. Si allontanò da quella, fingendo di guardare altre foto. Era evidente il suo stato emotivo, scosso, irrequieto, forse tanto evidente che anche Eva se ne accorse. ”Perché non andiamo a prendere un caffè al bar del museo, così diamo una ravvivata alla tua circolazione? Credo che tu ne abbia bisogno, ti trovo ancora un po’ cinereo. E per favore dammi del tu, altrimenti mi farai sentire una signora di una certa età.” Non era una proposta malvagia, dopotutto. Il caffè era una delle poche cose che erano addirittura migliorate lì, e che soprattutto ora tutti potevano permettersi. Nel 1944 una busta di caffè costava quanto dieci chili di grano, e nessuno rinunciava a tanto, per quella brodaglia. Agli ufficiali, ovviamente, tutto ciò era concesso. ”Volentieri, signo…ehm, Eva.” Fece per darle il braccio e accompagnarla, quando si ricordò poi che quel gesto non esprimeva lo stesso rispetto che denotava nella sua epoca, e che anzi, ora era un segno di confidenza che non poteva permettersi. Quindi il tutto si risolse in una sua sbracciata(?) dopo la quale fece per incamminarsi. ”Dovrà guidarmi lei, cioè tu.” Ricalcò di nuovo quel “tu”, a cui non era ancora abituato. A volte dava del lei persino a Hobi e Cat, e del voi al padrone dell’Egon. Hobi si scompisciava sempre quando dava del voi anche ai clienti. Chissà che aveva sempre da ridere di lui, quello screanzato? Attraversarono un paio di sale, e non lasciò che il suo sguardo si soffermasse su niente. Alcune divise però, non poterono non attirare la sua attenzione. Soprattutto quella di un ebreo tornato dal campo di concentramento. Ne ricordava ancora la puzza. Non venivano mai lavate, quelle, al massimo bruciate se appartenute a qualcuno morto di qualche pestilenza, o se troppo danneggiate. Passavano di persona in persona, come un’eredità di quella razza. Uno moriva, e la sua divisa passava a qualcun altro. Per un attimo gli parve di sentire di nuovo l’odore nauseabondo della pelle bruciata, e degli abiti che solo per miracolo non prendevano fuoco. Dei capelli arricciati dal calore, dei liquidi che subito venivano persi quando si perdeva il controllo dei propri apparati. Era così labile a volte, il confine tra la realtà e i ricordi, così lontana la prima e così vividi i secondi…

    ”A volte suonava l’allarme, in piena notte. Era il segno che qualcuno aveva provato a scappare. Si udivano spari e grida ancor prima di capire se fosse vero o no. Era da stupidi, eppure qualche ebreo provava davvero a scappare a volte, chissà con quale aspettativa. La maggior parte di loro però, non correva verso la libertà, ma verso la morte, ed era esattamente questo, che cercava. Una morte rapida, che mettesse fine a quei ritmi che avrebbero fiaccato anche il più resistente dei fisici. E allora si udivano spari, passi, l’abbaiare dei cani, si era costretti ad alzarsi controvoglia e a correre con le torce accese per scovare chiunque avesse tentato la fuga. Quando la luce illuminava qualcuno di loro, iniziava il tiro al piattello. Ognuno lanciava la sua pallottola, sperando di centrarlo in corsa. Oppure si udivano le grida, perché qualcuno aveva scelto una morte peggiore, lanciandosi sui recinti elettrificati. Morire fulminati era un’agonia orribile, forse ben peggiore di qualsiasi altra. Si restava attaccati e si continuava a venir folgorati compulsivamente, a sentire il proprio corpo bruciare e dilaniarsi, fin quando il cuore non si fermava o i polmoni non si carbonizzavano a tal punto da impedire di respirare. L’odore che si sentiva poi, era inconfondibile. Bisognava staccare la corrente, per togliere quei rivoltanti corpi da lì e bruciarli, ancora di più. Nessuno provava mai a scappare, quando accadeva. Tutti contemplavano il coraggio di chi ci aveva provato, sulle loro brande, ascoltando prima le grida e poi il silenzio. Ma se davvero si sceglieva una morte così, piuttosto che la vita, allora chi era il folle? Era davvero chi si condannava a questo, il pazzo, o chi lo portava a questo limite, con le proprie azioni e il proprio essere compulsivamente dispotico? E chi, come lui, vomitava a causa di quell’odore, che diamine poteva saperne di cosa significasse percepire il proprio corpo bruciare, e assumere quell’odore? Era davvero in posizione di giudicare, chi di ciò era la causa?

    Di nuovo quell’odore. Di nuovo rumori, grida, spari. Leo non ne vedeva la fonte, eppure li udiva, in lontananza, come se lui si trovasse nella sua stanza e fuori fosse scattato l’allarme. Le allucinazioni erano diverse, tra loro. A volte erano solo suoni, altre erano solo immagini, altre ancora un mix di esse, o solo sensazioni. Facevano paura, sempre, perché rappresentavano cose talmente reali da non fargli capire più quale fosse la realtà stessa. Lo inducevano a frammentare quella realtà, a ridurla in più parti, per capire quale di queste fosse reale e quale no. Respirava più velocemente, tremava leggermente, mentre indietreggiava allontanando da sé l’odore di quella divisa. Le luci, di nuovo, sfarfallarono. E di nuovo di fronte a lui, l’espressione apprensiva di Eva si manifestava. Altro che ospedale, probabilmente l’avrebbe fatto rinchiudere. ”Si, forse mi serve un po’ d’aria”. I rumori tacquero, le luci tornarono. Lei era ancora lì, davanti a lui. Non voleva che si preoccupasse, non voleva che indagasse oltre. ”Mi succede, a volte, non è una novità, né nulla di cui preoccuparsi. Andiamo..” Forse uscire da quel luogo gli avrebbe fatto bene. Forse non era stato saggio, andarci. Forse non era ancora pronto a seppellire quel Leo morto nel 1944 e a fingere di essere un altro. Forse non ci sarebbe ai riuscito. ”Hai mai la sensazione di riuscire a vedere le vite di chi ha indossato quegli abiti? O di quelle persone nelle foto? Immagini mai le loro storie? Fa sentire dannatamente piccoli, immaginarle tutte.” Le disse, all’improvviso, camminando. Forse quello poteva capirlo. Forse immaginando qualcosa poteva anche solo avvicinarsi a ciò che Leo provava. Era sempre stato questo il suo punto debole: vedere persone e storie anche nei prigionieri, nei nemici, nei bersagli. Era per questo che alla fine a Dachau era impazzito, da questo che Ernst aveva tentato di salvarlo. Era questo ciò per cui Axel era scappato ed era morto da disertore. Era il calpestare la propria umanità per obbedire agli ordini che l’aveva condannato per sempre.

    “Pensi mai al futuro? A quando avremo dei figli? Certamente li battezzeremo. Ma poi che faremo? Insegneremo loro ad amare gli altri, come Cristo ci impone, o insegneremo loro a sentirsi superiori a tutto? Tu che sceglieresti, Ernst? Crescerli come bravi ragazzi, umani, e condannarli a morte, o come mostri ma con la consapevolezza che vivranno e porteranno avanti le loro storie? Io non credo nessuna delle due. Non credo sia possibile esistere nel mondo che stiamo costruendo, o meglio, distruggendo.”


    Every night and every morn
    Some to misery are born,
    Every morn and every night
    Some are born to sweet delight.
    Some are born to sweet delight,
    Some are born to endless night.
    (from "Auguries of innocence", William Blake)

     
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    ”Quanta formalità…” si ritrovò a pensare di quel ragazzo mentre si scusava con la signora che lo aveva soccorso, se non fosse stato per lei chissà per quanto altro tempo sarebbe rimasto lì senza che nessuno se ne accorgesse. Il museo non era gremito, c’erano pochi spettatori visto che era un giorno infrasettimanale e si trattava di uno dei primi giorni di apertura della mostra. Sapevano che la maggioranza degli avventori si sarebbero concentrati nel weekend, proprio per quel motivo lei e suo fratello avevano scelto di andare a salutare Gerard in un momento più calmo. Anche se non sembrava Eva era una persona curiosa e alla fine del giro voleva porre delle domande al suo amico, la sua sete di conoscenza superava nettamente la sua sociopatia.
    ”Lo so, è che non riesco a controllarla molto bene, e a volte prende il sopravvento, tutto qui.” quell’affermazione suscitò l’attenzione di Eva, sentiva una scossa febbrile lungo la spina dorsale, avrebbe voluto fargli delle domande e scoprire di più sulla sua particolarità. Quello era uno di quei momenti in cui la sua lingua sarebbe stata più svelta della sua mente se non avesse avuto un autocontrollo ferreo. Quando si parlava di particolarità il suo corpo reagiva per conto suo, mettendo in circolo un’adrenalina non richiesta. I suoi pensieri navigavano verso una direzione mentre gli input cerebrali viravano nella direzione opposta. Nonostante ciò si congedò senza commentare e proseguì il suo giro della mostra, sapeva che non poteva importunare ogni singolo abitante di Besaid con il suo questionario per il suo compendio personale. All’età di venticinque anni aveva iniziato ad annotare su dei quaderni tutti i casi particolari o canonici che gli erano capitati in ospedale e poi al Mørdesson, ma non solo, aveva appuntato anche tutto ciò che aveva notato in giro per la città. Poteva definire la sua passione per le particolarità un’ossessione in piena regola, suo fratello le aveva regalato dei volumi rilegati per i suoi ventisette anni, stufo di vederla scrivere persino sui tovaglioli dei bar. Quante volte l’aveva trovata con le mani imbrattate d’inchiostro e gli occhi accesi da una scintilla sinistra, all’inizio Aidan non approvava le sue ricerche, arrivarono al punto di litigare così intensamente da non parlarsi più per un mese intero. Passato l’astio iniziale si confrontarono a mente lucida e cuore freddo, Eva gli spiegò ciò che aveva scoperto e i progressi che aveva fatto per conto proprio. Mettendolo a parte dei suoi segreti Aidan iniziò a capirla davvero e soprattutto a comprendere cosa la muovesse in quella direzione, a dimostrazione di ciò poche settimane dopo gli regalò quindici quaderni rilegati per organizzare razionalmente tutti i suoi dati. Per quel motivo suo fratello era una delle pochissime persone per cui nutriva un affetto sincero, nonostante le loro differenze trovavano sempre il modo di andarsi incontro e di trovare un compromesso per starsi accanto.
    Era ferma davanti alla foto di un plotone militare quando la voce del ragazzo che aveva soccorso prima interruppe il flusso dei suoi pensieri, si voltò a guardarlo mentre le porgeva l’orecchino che non si era resa conto di aver perso. Lo ringraziò e lo rimise al suo posto di appartenenza, stringendo un po’ gli occhi per guardarlo meglio. Si sbagliava o era identico a uno dei militari della foto su cui si era soffermata? Espresse a voce alta il suo dubbio, effettivamente sentirlo uscire dalla sua bocca rendeva quel ragionamento più assurdo di quanto non sembrasse nella sua mente. ”In effetti, si, un po’ mi somiglia, credo. Ma non così tanto, dai. In realtà guardavo lui, somiglia a uno che conosco.” Eva si voltò a guardare il viso che indicava il dito di Leo, inclinò il capo da un lato ed annuì in silenzio. Chiedere informazioni sulla persona in questione poteva implicare troppe varianti, soprattutto se somigliava a qualcuno risalente ai tempi della seconda guerra mondiale. Un pronipote? Storie tristi e ricordi massacranti? Quel ragazzo lo aveva conosciuto privo di sensi e non era il caso di spingere troppo l’acceleratore, soprattutto perché era ancora piuttosto pallido in viso. Così Eva gli propose di prendere un caffè al bar del museo per rimettere in moto la circolazione, al corso di primo intervento insegnano che quando una persona sviene serve il sale e non acqua e zucchero come da credenza popolare. Per esempio un caffè amaro era un ottimo modo per aiutare chi perdeva i sensi, in quel caso non avrebbe di certo impedito a Leo di metterci una bustina di zucchero se fosse stata di suo gradimento, non erano in ospedale e non poteva tirare fuori quel lato prepotente che serviva con i pazienti più recalcitranti. ”Volentieri, signo…ehm, Eva. Dovrà guidarmi lei, cioè tu.” quelle parole vennero accompagnate da dei movimenti delle braccia del ragazzo che non sapeva davvero come interpretare, sembrava che volesse nuotare nel vuoto, non aveva molto senso. Eva ridacchiò portandosi una mano a nascondere la bocca, i suoi occhi erano accesi della stessa ilarità che distendeva le sue labbra. ”Scusa, sei stato buffo. Comunque se seguiamo quell’indicazione lì dovremmo arrivare al bar senza problemi.” con il dito puntò un cartello bianco alle spalle del ragazzo dove erano stampati i simboli dell’uscita, del bar e della toilette. Si avviarono assieme sorpassando due o tre sale, stavano per varcare l’androne successivo quando le luci della stanza iniziarono a tremolare. Eva si voltò per guardarsi intorno, forse avevano problemi di corrente e poi si accorse che Leo tremava visibilmente col respiro accelerato. Pareva spaventato e agitato, forse prima gli era successa la stessa cosa, ma più intensa? Le luci intermittenti erano causa sua o era solo un caso che ci fosse stato uno sbalzo di corrente proprio in quel momento. ”Stai bene?” chiese muovendo qualche passo in sua direzione. ”Si, forse mi serve un po’ d’aria. Mi succede, a volte, non è una novità, né nulla di cui preoccuparsi. Andiamo…” aveva sviato l’argomento con classe, ma non era la prima volta che Eva assisteva a cose del genere e sapeva che alcune particolarità erano più forti e ingestibili di altre. Leo pareva prenderla alla leggera, eppure quelle piccole conseguenze a cui anche lei stessa aveva assistito potevano diventare molto più grandi se non imparava a incanalare il suo potere. Eva stessa aveva avuto molti problemi da giovane quando ancora non sapeva nulla delle anomalie di quella città, aveva ricevuto in dono quello che lei chiamava il sussurro del vento. Aveva appreso a sue spese che utilizzando il suo potere le tornavano indietro le correnti d’aria raffreddando la sua temperatura corporea, una volta aveva rischiato di gelarsi gli organi interni perché aveva utilizzato la sua particolarità senza rendersi conto di averlo fatto per quasi una giornata intera. I suoi genitori l’avevano portata in ospedale e lì scoprirono che non era alcun tipo di malattia o infezione ad averle procurato quel gelo sotto la pelle, era stata lei stessa a farlo. A Leo stava succedendo la stessa cosa, solo che lui non sembrava esattamente un ragazzino, possibile che non sapesse ancora controllare la sua particolarità? E se fosse arrivato da poco in città? ”C’è qualcosa in questo ambiente che ti scatena le crisi?” non poteva chiederglielo diversamente, avrebbe voluto essere una donna di tatto e sensibilità nel rivolgersi agli altri, ma non era mai stato il suo forte. ”Se senti di avere un altro attacco non esitare ad appoggiarti alla mia spalla, ti accelera questa particolarità o forse è solo una parte di ciò che ti succede? Se intacca persino l’esterno forse ha lo stesso principio di un’onda d’urto…” sussurrò l’ultima parte più a se stessa che al ragazzo, scosse la testa per evitare di cadere in trance da ragionamento e puntò gli occhi scuri su Leo. Lo scrutò per qualche istante prima di accordargli fiducia e di proseguire camminando al suo fianco per raggiungere il bar, quei pochi minuti di silenzio che seguirono erano riempiti dal ronzio della mente di Eva che aveva tutte le sinapsi allertate. ”Hai mai la sensazione di riuscire a vedere le vite di chi ha indossato quegli abiti? O di quelle persone nelle foto? Immagini mai le loro storie? Fa sentire dannatamente piccoli, immaginarle tutte.” quella domanda la colse alla sprovvista, non era esattamente ciò che si aspettava da una persona che aveva avuto due crolli nel giro di pochi minuti. Era davvero una persona fuori dall’ordinario e lo dimostrava in ogni cosa che faceva o diceva. Eva abbozzò un mezzo sorriso dal sapore amaro, anche se era certa che dovesse sembrare più una smorfia contrita, sapeva perfettamente di non saper sorridere nemmeno con tristezza. ”La mia immaginazione viaggia cercando di percorrere le loro storie, so che non potrò capirle mai fino in fondo non avendole vissute, gli orrori che hanno visto quelle persone sono indescrivibili. La foto su cui mi sono soffermata prima mi ha colpita perché quei soldati sorridevano e mi sono chiesta se dentro di loro fosse rimasto davvero qualche bagliore di gioia. Forse ciascuno di loro aveva qualcuno o qualcosa a casa per cui valeva la pena sopravvivere e per cui valeva la pena sorridere…” la sua voce era naturalmente calda e abbastanza profonda per essere un timbro femminile, rendeva quelle parole più solenni di quanto non avesse voluto. Infondere ulteriore serietà ad un discorso che già lo era di suo era un talento che detestava, molti la giudicavano superba per quell’intonazione che definivano “da maestrina”. ”Guarda, siamo arrivati.” col capo indicò la porta a vetri alla loro sinistra e vi si diressero insieme. Eva si avvicinò alla cassa ed estrasse il portafoglio, un chiaro messaggio che non gli avrebbe permesso di offrire, il tutto accompagnato da un’espressione che pareva minacciosa invece che seria. ”Un cappuccino con una spolverata di cannella per me. Per te?” attese che il ragazzo esprimesse la sua preferenza, pagò il conto e poi si voltò verso di lui per chiedergli dove preferisse accomodarsi. Lo seguì tra i tavoli e si sedettero uno di fronte all’altro. ”Come ti senti, adesso?” con la mano gli fece cenno di avvicinare la propria alla sua, con delicatezza gli circondò il polso con le dita per prendere i battiti. ”Sono un po’ più regolari, ma ancora leggermente accelerati.” lasciò andare la presa e sollevò una mano in segno di scusa, non indossava il camice bianco in quel momento eppure si comportava come se lo avesse. Si voltò a guardarsi intorno, nonostante facesse un lavoro che prevedeva molto contatto col pubblico non si sarebbe mai abituata a passare dei periodi prolungati di tempo in compagnia di qualcuno. Anche in quel caso si sentiva un po’ strana, fino a quel momento era riuscita a conversare cordialmente senza tirare fuori il suo lato brusco. In alcuni momenti si era sforzata di sorridere con scarso successo, suo fratello aveva perso un intero pomeriggio cercando di insegnarle come farlo senza spaventare la gente, nonostante ciò aveva mostrato un paio di smorfie di dubbia interpretazione.
    ”Quella cosa con le luci… l’hai fatta tu?” una domanda a bruciapelo senza possibilità di rispondere “grigio”.

    Edited by Aruna Divya - 20/3/2020, 17:36
     
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