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Debbie e Taylor

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    Non aveva ancora metabolizzato del tutto quello che lei e Taylor avevano condiviso la sera di Halloween. Era iniziato tutto come un giorno normale, tranquillo, impreziosito soltanto da dei costumi neanche troppo vistosi e invece erano finiti a dover combattere contro delle mummie assetate del loro sangue, che volevano trattenerli con loro in una piramide che chissà per quanto tempo era rimasta chiusa. L’illusione di cui erano stati vittime era stata così vivida che poteva ancora vederli quei corpi mutilati ricoperti di bende, ormai trasfigurati dal tempo e dall’umidità. Doveva ammettere che, chiunque avesse architettato quell’attrazione se la cavava piuttosto bene con le illusioni e con i giochi dell’orrore, magari Taylor avrebbe potuto cercarli per assumerli nel Luna Park e dare vita ad una nuova attrazione che avrebbe sicuramento catturato l’attenzione di tantissimi nuovi frequentatori. Dopotutto, chi non amava farsi spaventare un po’? Non era per questo che la meta più gettonata di solito era la Casa dei fantasmi? Anche lei l’aveva sempre adorata ed era lì che aveva costruito alcuni dei ricordi più belli e sereni con i suoi fratelli mentre cercavano di avanzare in mezzo a tutti i suoi cunicoli senza mai urlare. Erano stati loro a forgiarla, a insegnarle a non avere paura di niente e di nessuno. Se tuttavia con quel genere di cose ci sapeva fare, con le persone non aveva mai avuto lo stesso successo. Si teneva sempre distante, evitando di legarsi troppo se non con pochi fortunati che si potevano contare sulle dita di una mano: Jan, Isak, Mia, Ali. Loro erano forse gli unici a conoscere il lato più morbido e dolce di lei, questo che si premurava sempre di assicurarsi che stessero bene. Non era raro che fosse lei a fare il primo passo per sentirli e accertarsi delle loro condizioni psichiche e fisiche anche perché, al contrario, quando era lei ad avere bisogno di aiuto tendeva a chiudersi nel suo mondo, sollevando delle alte pareti per evitare che gli altri potessero raggiungerla e capire che qualcosa non andava. Mostrava sempre il sorriso, cercava di rimanere stabile, sicura, anche quando dentro di lei si agitava un universo di emozioni contrastanti che minacciavano di trascinarla verso il fondo.
    Sebbene le piacesse moltissimo la compagnia delle altre persone e non disdegnasse le feste e il chiasso, era sempre stata una persona piuttosto solitaria, che faticava a trovare il suo spazio all’interno di un gruppo. Le persone si aspettavano sempre che gli altri si aprissero, che raccontassero tutta la loro vita, un contatto umano, mentre lei, per via della sua particolarità, aveva sempre avuto paura di sapere troppo delle altre persone, di scoprirle in modi che le avrebbero soltanto fatto del male. Quindi, per evitare di ferire i loro sentimenti, rimaneva sempre un passo indietro, evitando di diventare una presenza stabile nella vita si troppe persone, perché sapeva di non poterlo reggere, di non poter dedicare loro tutto l’affetto e le attenzioni che si aspettavano. Le poche persone con cui riusciva ad avere un legame continuo erano tutte un po’ schive come lei e la accettavano per quello che era, senza tentare di cambiarla. Poteva sembrare lunatica e un po’ fuori di testa a volte, ma era soltanto il suo lato più fragile che veniva alla luce, incrinando il suo aspetto soldo e tranquillo. Ci provava a lasciarsi scivolare tutto addosso, a fingere che le parole e i gesti non la ferissero, così come aveva sempre fatto da piccola, quando gli altri ragazzini la additavano come quella strana perché poteva sempre dei guanti e se ne stava in disparte, ma in realtà, come tutti, era un essere umano anche lei e provava tante emozioni anche se non le piaceva dimostrarlo. Quello che gli altri non vedono non può essere usato per ferirti, dopotutto.
    Il rapporto tra lei e Taylor, negli ultimi tempi, si era fatto leggermente più stretto. Aveva iniziato a vedere come una piacevole abitudine quella di andare a correre insieme, di sentirsi ogni tanto per avere brevi aggiornamenti sulle vite dell’altro e, dopo quella bizzarra serata di Halloween, avevano iniziato a sentirsi un po’ più spesso. Dopotutto non era mica una cosa da tutti i giorni condividere un’esperienza come quella no? Per quanto fosse stata una semplice illusione, che non aveva lasciato nessun segno fisico su di loro, sarebbe comunque stato impossibile per lei dimenticarsi quello che avevano passato. Ogni immagine, ogni sensazione erano ancora vivide nella sua mente. Non poteva dire di non avere mai temuto per la sua vita o per quella di Taylor neanche per un istante, anzi, quando nell’illusione erano stati costretti a separarsi aveva fatto tutto il possibile per cercare di recuperarlo, però non si era mai fatta prendere dal panico. Gestire situazioni difficili e mantenere il sangue freddo, dopotutto, era il suo lavoro e anche se non era stata addestrata per rispondere ad un’invasioni di mummie o terribili insetti, aveva cercato di fare del suo meglio per non dare di matto. Scoprire che era stata tutta solo una finzione, comunque, le aveva tolto un gran bel peso dal petto e le aveva permesso di tirare un bel sospiro di sollievo. Ci avevano persino riso e scherzato su alla fine, utilizzando quell’aneddoto come una giornata come un’altra, qualcosa da raccontare agli amici senza avere nulla da temere.
    Non aveva quindi trovato per niente strano il fatto che, dopo qualche settimana, lui le avesse scritto per invitarla a mangiare insieme qualcosa, magari per cena. Il pensiero che potesse trattarsi di un appuntamento e non di una semplice uscita tra amici non le aveva mai neanche sfiorato l’anticamera del cervello ed era stata quindi lei a proporre il sushi, visto che i suoi fratelli non volevano mai accompagnarla e dopo un po’ le seccava ordinarlo sempre da asporto. Non si era quindi messa troppi problemi nella scelta dei vestiti, ritenendo di non aver nessun motivo per dover cercare di fare colpo o costringersi a mettere su qualcosa di elegante ma di terribilmente scomodo. Aveva optato per un paio di jeans neri, strappati in alcuni punti, una maglietta azzurra con una stampa un po’ surrealista sul davanti, una giacca sportiva, di quelle che utilizzava per raggiungere la palestra, su cui avrebbe indossato un giubbotto non troppo pesante, giusto per non avere freddo all’esterno e aveva completato il tutto con un paio di comode scarpe dai colori più disparati. Si era pettinata con un minimo di attenzione, giusto per non dare l’idea di qualcuno che era appena caduto giù dal letto dopo una lunghissima giornata di lavoro e aveva infilato dentro una borsa nera non troppo vistosa tutto l’essenziale: le chiavi di casa, dell’auto, il portafogli, un pacchetto di fazzoletti e qualche altra cosa pescata a caso dalle altre borse giusto per stare sicura. Si preoccupò di riempire le del cibo e dell’acqua di Muffin e poi, dopo averlo salutato con qualche coccola, uscì di casa, alla volta del ristorante giapponese in cui si erano dati appuntamento.
    Avendo deciso di incontrarsi durante la settimana per fortuna le strade non erano troppo trafficate e non fu quindi complicato trovare parcheggio piuttosto in centro, a soli pochi metri dall’ingresso del ristorante. Sfregandosi una mano guantata e l’altra per riscaldarsi un po’ accelerò leggermente il passo per raggiungere Taylor, che l’aveva informata di essere arrivato giusto pochi minuti prima. -Scusami, ho avuto una giornataccia e non sono proprio riuscita a tornare a casa in orario. - si scusò lei, a giusto due metri da lui, salutandolo con un largo sorriso sul volto. Niente baci sulla guancia o abbracci, come al solito, ci tenne a mantenere le distanze e a salutarlo semplicemente con un gesto della mano. Lo aveva avvisato, che avrebbe potuto tardare al massimo dieci minuti, ma le dispiaceva comunque di non essere riuscita ad arrivare in perfetto orario. -Beh? Entriamo? Io sto morendo di fame! - ammise, lasciandosi scappare una leggera risata, indicando con un veloce cenno del capo l’interno del locale.
     
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    Taylor Hoogan

    ”Cazzo Spotty, seduto!” Taylor dovette correre dietro a quella palla di pelo per tutta casa prima di riuscire a prenderlo. Lo sollevò con una mano per poi metterselo sotto braccio, era un cane di piccola taglia, ma era davvero vivace e fin troppo desideroso di giocare per i suoi gusti. Lo fece scendere dentro a un piccolo recintino che delimitava il suo spazio di movimento e soprattutto le sue possibilità di marcare il territorio in casa. Taylor sospirò, aveva promesso a Finn di occuparsi di Spotty finché non fossero finiti i lavori in casa sua per la sostituzione dei pavimenti. Il cane iniziò a guaire ancor prima che l’uomo mettesse un solo piede fuori dalla porta del suo appartamento. ”Se stanotte non mi svegli di nuovo con la pallina forse ti porterò a fare un giro extra domani. Fa il bravo.” gli accarezzò la testolina pelosa, andandogli a grattare delicatamente la parte posteriore delle orecchie. Finn gli aveva detto che quello era il suo punto debole e lui ogni tanto cercava di approfittarsi di questa informazione per ammansire il cucciolo nei momenti di frenesia. Taylor si allontanò scuotendo la testa, si andò a lavare le mani prima di uscire e poi si diresse verso il mobiletto all’entrata dove teneva portafoglio e chiavi. Prese tutto, aprì la porta e si avviò lungo la scalinata lì vicino. Una volta uscito all’esterno salì sul suv color ruggine della Peugeot che aveva comprato nel 2016 e si avviò verso il centro. Aveva ritoccato il suo veicolo nel corso degli anni, rendendolo un bolide insospettabile viste le sue apparenze da macchina sportiva.
    La viabilità era scorrevole a quell’ora della sera, l’unico punto un po’ rallentato era la via principale in pieno centro dove si susseguivano diversi semafori. Taylor svoltò a destra in una traversa che era il suo Santo Graal del parcheggio, lì riusciva sempre a trovare uno spazietto per le sue necessità. Una volta parcheggiato prese il telefono per scrivere a Debbie, ma trovò un suo messaggio che gli diceva che sarebbe arrivata con qualche minuto di ritardo.

    Ciao Deb, sono appena arrivato. Non preoccuparti, ci vediamo appena riesci a liberati.
    A dopo
    Taylor


    Mise il telefono in tasca e per qualche istante il suo sguardo rimase incastrato nel nulla, stava ripensando agli avvenimenti della sera di Halloween. Ancora non riusciva a convincersi che fosse tutto un gioco o solo un’attrazione festiva, avevano rischiato la pelle e le ferite sui loro corpi erano reali finché prigionieri della piramide. Dove fossero stati di preciso non lo sapevano dire, forse in Egitto o forse un’illusione di una particolarità o altre assurdità che avevano a che fare con lo spazio-tempo. Taylor aveva l’espressione contrita per il fatto che in quell’occasione di pericolo gli era sfuggita la trappola in cui era caduta Debbie, non se lo sarebbe mai perdonato se le fosse accaduto qualcosa. Sbatté un pugno contro il volante e poi scese dalla macchina per non perdersi in ricordi complicati. Raggiunse l’entrata del ristorante giapponese e si fermò all’esterno, ammirando le finestre di legno scuro da cui non si vedeva nulla perché un sottile tessuto bianco le copriva da dentro, però si vedeva distintamente il riflesso delle luci calde del locale. Spostò gli occhi sull’insegna luminosa sui toni del giallo dove c’era un carattere in lingua giapponese che molto probabilmente corrispondeva al nome del ristorante. Quel luogo era davvero particolare tra tutti quegli edifici in perfetto stile europeo pareva quasi stonare coi suoi tratti scuri e orientali, eppure era così affascinante rispetto a tutto il resto. Taylor si era distratto in quell’ambientazione idilliaca e per poco non si accorse che Debbie gli stava andando incontro, le rivolse un cenno di saluto con la mano prima che lo raggiungesse pochi istanti dopo. ”Scusami, ho avuto una giornataccia e non sono proprio riuscita a tornare a casa in orario.Beh? Entriamo? Io sto morendo di fame! ” la ragazza gli rivolse un sorriso radioso e lui non poté fare a meno di ricambiare, nessuno dei due si avvicinò per salutarsi più da vicino, magari con un abbraccio. Erano fatti così, diffidenti fino al midollo, nonostante il loro rapporto si stesse lentamente evolvendo in quanto a confidenza non erano tipi da effusioni soprattutto in pubblico. ”Ciao Debbie, non preoccuparti, sono arrivato da poco. Entriamo, anche io ho un certo languorino, mangerei due o tre barche di sushi!” si avviarono all’interno di un piccolo corridoio che precedeva l’entrata effettiva, si arrivava davanti a una di quelle porte scorrevoli in stile orientale che Taylor aprì per far passare Debbie. Quando furono dentro si rivolse a una ragazza minuta dai tratti orientali per chiederle a quale tavolo sarebbero stati assegnati. La giovane gli fece cenno di aspettare e tornò pochi istanti dopo. ”Seguitemi.” li accompagnò in fondo alla sala. Le pareti erano ricoperte di legno di bambù e su di esse erano raffigurate delle immagini molto famose in Giappone, le quali erano dipinte di nero con delle forme diverse così da ricordare dei timbri di grandi dimensioni. I tavoli, le sedie e persino il bancone della cucina giocavano sui toni del muro con la stessa colorazione del legno e dei dipinti neri, conferendo al locale un’atmosfera elegante, ma al contempo molto accogliente. ”Accomodatevi qui, *onegai shi masu.” la cameriera fece un lieve inchino, lasciò due menù sul tavolo e poi se ne andò per lasciargli il tempo di scegliere cosa ordinare. Taylor si voltò verso Debbie con aria perplessa. ”Ma tu hai capito l’ultima parte del discorso? Ha detto qualcosa tipo sì ma su? Cosa avrà voluto dire?” si accomodò e poi si tolse la giacca nera di pelle poggiandola sullo schienale della sedia. Si sistemò le maniche della felpa che si erano arrotolate nella giacca per poi rivolgere di nuovo la sua attenzione alla sua accompagnatrice. ”Ti avviso subito, io faccio schifo coi nomi di questi piatti! L’ultma volta che sono andato a mangiare giapponese ha ordinato Finn per me perché la cameriera credo che abbia bestemmiato nella sua lingua per colpa mia. Ma questi cazzo di nomi sono uno sciogli lingua!” le porse un menù e iniziò a guardare il suo con gli occhi stretti nel tentativo di ricordare qualche nome, ma la cosa sembrava quasi impossibile.
    ”Konbanwa, possiamo intanto ordinare qualcosa da bere?” un ragazzo sulla ventina probabilmente di origini giapponesi, si era avvicinato al loro tavolo con un inchino. Taylor gli fece un inchino con la testa per prenderlo un po’ in giro, ma con sua somma sorpresa quello replicò il suo gesto con un grande sorriso. Per un istante non seppe se proseguire con quella reazione a catena che aveva appena innescato, ma era davvero curioso di vedere fino a che punto si sarebbe spinto il ragazzo, così abbassò ancora il capo in un finto segno di rispetto e il giovane s’inchinò ancora. Ripeterono la stessa scena ancora per un paio di volte, poi Taylor decise che la fame era più forte della sua voglia di scherzare e si rivolse a Debbie con un ghigno divertito. ”Io prendo un’Asashi, la birra giapponese, tu?” attese che anche lei effettuasse l’ordinazione e solo quando il cameriere fu abbastanza lontano iniziò a ridere spontaneamente. ”Ma hai visto quante cazzo di volte si è inchinato? Se non avessi smesso avremmo proseguito per tutta la sera! Non so come ho fatto a non ridergli in faccia.” si ricompose parlando, cercando di far scemare l’ilarità. ”Parliamo delle cose davvero importanti, che cosa mangiamo?” mentre parlava di cibo la sua mente era un po’ distratta, stava osservando Debbie che con il suo abbigliamento casual molto colorato stava davvero bene. Entrambi si erano vestiti in maniera informale per quell’uscita, effettivamente anche le premesse lo erano state. Il suo “Perché non andiamo a mangiare qualcosa insieme domani sera?” non suonava affatto come un invito galante o un vero e proprio appuntamento, quindi era quasi scontato che non fosse previsto un abbigliamento sopra le righe. Eppure chissà per quale strano motivo da qualche parte in fondo a se stesso aveva sperato che quella potesse essere un’uscita differente dalle altre. Da quando erano rimasti intrappolati nella piramide a Halloween in Taylor era cambiato qualcosa impercettibilmente, sentiva un’insolito senso di protezione nei confronti di Debbie che non aveva nulla a che vedere con quello che poteva avere nei confronti di chiunque altro. Doveva smetterla di pensare a quelle cose, lui e Debbie erano solo amici...

    Onegai shi masu = Per Favore
    Konbanwa = Buonasera
     
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    Conduceva una vita abbastanza frenetica negli ultimi anni, da quando era entrare ufficialmente nel corpo di polizia come agente e poi, più tardi, era divenuta una detective. Amava il suo lavoro eppure in certe occasioni le sarebbe piaciuto potersi prendere una breve pausa da tutti quei problemi e starsene comodamente seduta alla scrivania, senza temere che il suo telefono personale potesse squillare da un momento all’altro per comunicarle una nuova emergenza. Certe volte capitavano delle giornate un po’ più tranquille, in cui aveva quanto meno il tempo di mangiare con calma, prendersi un caffè e scambiare delle chiacchiere con i colleghi, ma erano sempre seguite da numerose giornate in cui non riusciva quasi neanche a respirare. Quel giorno, ad esempio, le era sembrato che le cose da fare non sarebbero mai finite e che non sarebbe neppure riuscita ad uscire dalla Centrale in tempo per la cena. Fortunatamente ad una certa ora il capo aveva mandato tutti a casa, chiedendo di tornare il mattino seguente, anche per chi non sarebbe stato in turno, per portare a termine almeno i documenti più urgenti e fare un piccolo briefing su quanto ognuno era riuscito a scoprire, così che gli altri potessero proseguire con un lavoro un po’ più ordinato alle spalle. C’era una certa agitazione in città dopo gli avvenimenti della famosa cupola, che era stata sulla bocca di tutti per mesi e anche a seguito di quello che alcuni avevano definito lo spiacevole evento di Halloween. Nessuno aveva capito chi fossero i proprietari della misteriosa libreria dove avevano vissuto delle esperienze decisamente fuori dal normale, ma se lei si era divertita, apprezzando il trucco che avevano utilizzato, altri invece si erano presi davvero un grosso spavento e adesso pretendevano che qualcuno trovasse i proprietari per poter chiedere loro delle spiegazioni. Quello che tutte quelle persone non riuscivano a capire era che, quando si trattava di problemi con le particolarità, non era sempre così semplice riuscire a ottenere una risposta. Besaid non aveva un elenco delle particolarità delle persone, uno schedario che associava i nomi a delle caratteristiche particolari e quindi riuscire a collegare qualcosa a qualcuno richiedeva molte ricerche e tanti buchi nell’acqua. Facevano del loro meglio, ma a volte non riuscivano davvero a venire a capo del problema.
    Ad ogni modo, con qualche minuto di ritardo, riuscì finalmente a raggiungere Taylor in centro, dove si erano dati appuntamento per mangiare qualcosa insieme. Si trovava bene con lui e le piaceva il rapporto di amicizia che con il tempo avevano iniziato a stringere. Era bello avere qualcuno di nuovo con cui parlare e le piaceva il modo che aveva Taylor di prendere molte cose con leggerezza, riuscendo a strapparle una risata. All’apparenza poteva sembrare un soggetto particolarmente burbero e schivo invece ci si soffermava su di lui abbastanza da tentare di conoscerlo si poteva scoprire una persona a modo e anche particolarmente simpatica. Aveva lasciato che loro rapporto si generasse da solo, senza stare troppo a pensarci o a chiedersi che cosa la spingesse nella sua direzione. Non aveva mai amato troppo le definizioni all’interno delle relazioni anche perchè queste tendevano a spaventarla e a farla chiudere in se stessa. Erano poche le persone con cui nel tempo aveva deciso di mantenere i legami, con le quali si era aperta in maniera onesta e completa, lasciando che queste vedessero non soltanto il suo lato più forte e determinato, ma anche quello fragile e un po’ più insicuro. Con tutto il resto del mondo invece cercava sempre di apparire tranquilla, impossibile da scalfire e per questo faceva fatica a legarsi sino in fondo, a mostrarsi in maniera sincera. Preferiva restare a qualche passo di distanza, osservando la situazione con maggiore attenzione ed evitare di mostrare il fianco scoperto a troppe persone. Sebbene avesse una certa fiducia nel genere umano e si battesse ogni giorno per aiutare le persone non aveva comunque potuto fare a meno di notare che non tutti erano buoni e onesti e che non sempre mostrare troppi lati di se stessi era la cosa migliore di fare. Aveva bisogno di molto tempo prima di fidarsi davvero di qualcuno e permettergli di conoscerla.
    Sorrise tuttavia, in maniera spontanea, quando lo vide fermo a osservare l’insegna luminosa del ristorante dove avrebbero cenato quella sera, un edificio dai caratteri molto diversi rispetto a tutti gli altri che lo circondavano. Sembrava quasi come se qualcuno lo avesse inserito in un contesto esistente senza neanche farsi caso ed era per questo che saltava tanto all’occhio, attirando un buon numero di clienti. Era praticamente impossibile non notarlo. Dopo un breve saluto entrarono, fianco a fianco, all’interno del locale dove una ragazza li accompagni al loro tavolo, che si trovava in fondo alla sala principale, un po’ più appartato rispetto ai tavoli che si trovavano all’ingresso, dove si concentrava il maggiore via vai di persone. L’arredamento era particolarmente suggestivo ed era ottimo per immergersi in un’atmosfera orientale, anche se non poteva averne la certezza dato che lei non era mai stata in Giappone. Si accomodarono l’uno di fronte all’altra e la cameriera lasciò solo due menù prima di salutarli e dare loro il tempo di decidere che cosa ordinare. -Ah no, il giapponese non è mai stato il mio forte. - disse con una leggera risata mentre, togliendosi anche lei la giacca, iniziava a prendere un menù per dare un’occhiata dato che, ad essere sincera, non aveva idea di che cosa ordinare. Si sentiva come se la lunga giornata lavorativa l’avesse parzialmente svuotata. Tenendo i guanti strinse appena il menù, mentre Taylor la informava della sua incapacità di pronunciare quei nomi. Non era la prima volta che le parlava e ormai iniziava a pensare che dovesse trattarsi del suo migliore amico o qualcosa del genere. -I miei fratelli detestano pronunciarli, quindi le poche volte che riesco a convincerli a farmi compagnia mi lasciano tutto il lavoro. - rivelò, senza alcuna punta di fastidio nella voce. Parlare della sua famiglia, quella che le era rimasta, era una delle cose che sapevano accendere il suo sguardo scuro.
    Alternò lo sguardo tra il cameriere e Taylor quando questo si avvicinò per prendere almeno le ordinazioni delle bevande e tra di loro iniziò uno scambio di inchini decisamente improbabile che non sembrava avere fine. Debbie diede un leggero calcetto sotto il tavolo all’uomo, come a suggerirgli di smetterla anche perché altrimenti, probabilmente, avrebbe finito con il ridere in faccia ad entrambi. -Anche per me. - affermò, a quel punto, seguendo l’altro nell’ordinare una birra, per poi veder sparire il cameriere. -Non so come tu abbia fatto a cominciare. - mormorò lei, in risposta, facendogli eco con un’altra risata cristallina che a quel punto non riuscì più a trattenere. Per quanto lei fosse una persona abbastanza estroversa probabilmente non sarebbe mai riuscita a fare una cosa come quella. -Uhm.. potremmo ordinare la barca più grande che c’è nel menù per iniziare e poi vediamo come va. Che ne pensi? - chiese, dando un’ultima veloce occhiata al menù, per poi spostare lo sguardo su Taylor. Lei non aveva mai avuto troppi vizi riguardo il cibo, quindi lasciava spesso che fosse lo chef a decidere in che modo comporre la barca. Attese il suo punto di vista prima di proseguire. -Beh, io ho accennato alla mia terribile giornata lavorativa, tu invece? Che mi dici? - chiese, curiosa di sapere come fosse andata la sua giornata, nell’attesa che qualcuno venisse a raccogliere la loro ordinazione. Sebbene si sentissero in maniera abbastanza frequente scrivere i racconti per sms non era certo come sentirli dal vivo. Presto il ragazzo tornò con le loro birre, chiedendo inoltre se avevano già le idee chiare sul cibo. -Prendiamo la barca da 50 pezzi. - disse, con un sorriso tranquillo, guardandosi bene dal ricambiare il suo inchino e lasciando che si allontanasse in fretta, senza trattenerlo oltre. Il locale era piano quindi immaginava che ci sarebbero voluti diversi minuti prima di poter finalmente mangiare. -Sai, un tempo qui c’era un piccolo locale tipico, gestito da una coppia piuttosto anziana. I miei genitori ci portavano qui per tutte le occasioni importanti. - rivelò, con una punta di malinconia nella voce e nello sguardo, mentre sollevava appena il capo e si guardava attorno. -E’ cambiato parecchio da allora, ma direi che è meglio che vederlo vuoto e inutilizzato. - continuò, annuendo appena tra sé e sé. Dato che lui non era originario del luogo immaginava che non ne sapesse nulla, ma non aveva intenzione di soffermarsi troppo sul viale dei ricordi.
    Sfilò i guanti delicatamente quando finalmente dopo più di trenta minuti arrivò la loro ordinazione, depositandoli nella borsa che aveva appeso alla sedia, prendendo le bacchette tra le dita e sorridendo. -Beh, buon appetito. - disse, prima di acchiappare il primo nighiri e, dopo averlo intinto appena nella salsa di soia, mangiarlo con un solo morso.
     
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    Taylor Hoogan

    Guardandosi intorno pareva di non essere più in Norvegia, bensì in un ristorantino nel bel mezzo del Giappone, gli arredamenti erano moderni e di chiaro stampo asiatico. Dalla cucina a vista si vedevano i cuochi che con una maestria incredibile sfilettavano il pesce per poi dividerlo in piccole porzioni adatte ai roll o ai sashimi. Erano figure affascinanti con quei grembiuli neri, l’aria concentrata e i movimenti veloci e aggraziati anche con un coltello in mano. Taylor li guardava ammirato mentre raggiungevano il loro tavolo dove si accomodarono scortati da una giovane ragazza dai capelli scuri. Quando si congedò da loro disse qualcosa in giapponese che lasciò Taylor perplesso, infatti chiese a Debbie se per caso lei avesse capito qualcosa. Effettivamente non sapeva quante lingue parlasse e se ne avesse studiate diverse ai tempi della scuola, erano quelle piccole informazioni che col tempo avrebbe sicuramente imparato. Gli piaceva conversare con lei, non lo faceva mai sentire fuori luogo neanche quando lui sapeva di esserlo senza ombra di dubbio. Era cosciente del fatto che spesso utilizzava espressioni colorite – per citare i suoi colleghi di lavoro – e che non erano adatte a tutte le situazioni, cosa che a lui non importava minimamente. Se uno era stronzo perché chiamarlo diversamente? Non importava che indossasse un completo firmato da migliaia di dollari, l’anima non cambia colore se parli in maniera forbita, lo aveva sempre pensato.
    ”Allora per questa sera non voleranno imprecazioni in una lingua incomprensibile grazie a te! Forse anche ai tuoi fratelli che ti fanno fare molta pratica!” le rivolse un sorriso divertito, osservando i movimenti dei lineamenti del viso di lei mentre gli parlava. Teneva tra le mani d’inchiostro il menù, ma se ne era dimenticato per qualche istante. Portò di nuovo la sua attenzione su di esso guardando le immagini di pietanze che richiamavano il suo appetito, non era di certo uno di quelli dalla fame moderata e uscendo insieme Debbie lo aveva capito. Non aveva bisogno di far finta di cominciare le cene con quantità ridotte per risultare elegante agli occhi della sua accompagnatrice. Sin dal primo incontro al parco il loro rapporto era stato molto naturale, non si erano mai sforzati di apparire diversi agli occhi dell’altro. Infatti anche in quel momento Taylor si lasciò andare al suo lato più canzonatorio, iniziando un gioco di inchini col cameriere, non lo aveva fatto di proposito, ma una volta iniziato non poté resistere alla tentazione di vedere fino a che punto sarebbero arrivati. Sotto al tavolo gli arrivò un calcetto da Debbie che aveva l’espressione di chi non avrebbe potuto trattenere le risate ancora a lungo e infatti – quando il cameriere si congedò – scoppiarono a ridere insieme. ”Non so come tu abbia fatto a cominciare!” esclamò lei ed effettivamente neanche lui sapeva bene cosa risponderle. ”Non ne ho idea! Ho pensato che al secondo inchino non avrebbe risposto, invece non la finiva più! Prometto di non fare più inchini per tutta la sera!” disse con una venatura d’ironia nella voce, non era sicuro che avrebbe mantenuto la parola data proprio alla lettera, ma ci avrebbe provato. ”Dici la barca più grande come antipasto? Per me può andare!” le fece l’occhiolino e si appoggiò allo schienale facendo aderire perfettamente la schiena, aveva un’ottima postura dovuta al costante allenamento sportivo. Aveva trovato la sua dimensione andando a correre quasi tutti i giorni e allenandosi in palestra un paio di volte la settimana. Ci era voluto del tempo per riuscire a trovare un equilibrio da quando si era trasferito a Besaid, ormai era lì da poco più di un anno e anche se non era certo di poter chiamare quella città casa, ci stava facendo l’abitudine. Le persone come Debbie contribuivano a dare un tocco di familiarità a quel posto che altrimenti sarebbe stato un ammasso di edifici e strade incolori. Ciò che animava davvero Besaid erano le persone che avevano incrociato il suo cammino, vite che si accostavano alla sua come ombre argentee sul pavimento che si affiancavano per passeggiare accanto alla sua con le mani protese le une verso le altre in silenzio.
    ”La mia giornata oggi è stata una fottuta noia! L’unica cosa positiva è che sono stato chiuso in ufficio, niente mocciosi urlanti! Questo lavoro mi permette di pagare l’affitto del mio appartamento, ma non mi rende felice.” si interruppe quando il cameriere arrivò con le loro birre e per prendere l’ordinazione, per cominciare optarono per la barca da cinquanta pezzi, Debbie sì che lo conosceva bene. Attese che il giovane si ritirasse e come promesso non tentò nessun approccio e non fece alcun inchino, un sorriso sghembo gli si dipinse sulle labbra al pensiero. ”Ne parlavamo l’altro giorno, ma poi sono dovuto andare via, quindi non abbiamo mai finito il discorso. Quando vivevo a San Antonio mio padre possedeva un’azienda automobilistica, ci occupavamo di costruire auto da corsa. Un sogno, Deb, facevo esattamente ciò che desideravo.” mandò giù un sorso di birra e si bloccò per un istante, indeciso se pulirsi la bocca col tovagliolo o col dorso della mano. Fissò Debbie quell’istante di troppo che poteva far sorgere domande, decise di non pensarci troppo e lasciò il tovagliolo al suo posto. ”Dopo la frode del collega di mio padre il nostro cognome ha una grossa fottutissima macchia nera per il mondo automobilistico. Dire che sei un Hoogan è come dire che sei un terrorista. Molti non credono che mio padre sia stato ingannato, ma che fosse d’accordo col suo socio, quello stronzo del c… scusa, sto esagerando.” Taylor strinse i denti per un istante, rilassando la mandibola subito dopo, non voleva rovinarsi la serata ripensando troppo al passato. Sospirò nel tentativo di calmarsi, parlare di quell’argomento lo innervosiva sempre, anche se il tempo aveva sorpassato quell’evento con inclemenza, lui non lo aveva fatto allo stesso modo. Non c’era più motivo per l’ira di caricargli il petto, eppure non riusciva ad impedire a quell’onda irruente di prendere possesso del suo sistema nervoso. Rimase in silenzio il tempo sufficiente per non dire nulla di cui pentirsi, ma non ci fu bisogno di riprendere il discorso perché Debbie gli andò in soccorso parlando di quello stesso ristorante in cui erano seduti dove lei era già stata quando non era altro che un piccolo locale di zona. Taylor le rivolse un sorriso ancora leggermente teso, ma quel blocco negativo si sciolse presto quando i suoi occhi incontrarono quelli chiari di Debbie. ”Anche i tuoi compleanni rientravano negli eventi importanti?” si passò una mano sulla barba, il tatuaggio di una rosa rossa in bella vista illuminata dai faretti del locale. ”Hai un buon rapporto coi tuoi genitori?” chiese senza voltarsi a guardare il cameriere che era appena arrivato con la loro ordinazione. Nel suo campo visivo entrò una grande barca di legno colma di sushi di ogni genere e di ogni colore, il suo stomaco pareva formicolare per il desiderio di avventarsi su tutto quel cibo. ”Buon… aspetti, scusi…” alzò la mano verso il cameriere che si era appena allontanato dal loro tavolo, non aveva intenzione di ricominciare con gli inchini, chissà se Debbie lo avrebbe pensato. ”Come si dice nella vostra lingua Buon Appetito?” domandò al ragazzo indicando con la mano la barca straripante di sushi. ”Ittadakimasu” esclamò il cameriere con un inchino congiungendo le mani tra di loro come se fosse in preghiera. ”Quello che dice lui… non so ripeterlo!” afferrò le bacchette e scelse i primi nigiri da mettere nel suo piatto, quelli coi gamberi erano i suoi preferiti e sempre i primi a sparire. Se la cavava abbastanza bene con quei “legnetti”, era una delle poche cose in cui non serviva un traduttore o un qualsiasi supporto per incomunicabilità. Il sushi era un linguaggio universale per lui. Notò con piacere che quando iniziarono a mangiare Debbie aveva tolto i guanti e li aveva riposti nella sua borsa, non le aveva mai chiesto per quale motivo li indossasse con costanza. Di certo non era un fattore estetico, aveva delle belle mani senza particolari segni o sfregi. ”Prima di essere interrotti dall’arrivo del Titanic parlavamo della tua famiglia, per favore finisci il discorso.” un pezzo di salmone crudo finì nella sua bocca in un solo boccone mentre portava la sua attenzione su Debbie il cui sguardo pareva aver cambiato colore. Forse stavano toccando un argomento delicato? Se così fosse stato entrambi erano coscienti che prima o poi avrebbero dovuto affrontare la parte spinosa della loro vita, Taylor conosceva perfettamente il bagaglio sudicio del suo passato che si portava sulle spalle, ma non ancora quello di Debbie. Non sapeva se fosse più o meno gravoso del suo e per qualche assurdo motivo voleva saperlo, erano diventati buoni amici da poco tempo eppure c’era qualcosa che lo spingeva verso di lei involontariamente. Forse dopo l’evento traumatico che avevano condiviso ad Halloween era nato in lui un senso di protezione nei riguardi di quella ragazza più viscerale di quanto si aspettasse… o forse era solo confuso nei suoi riguardi. Era la prima donna dal carattere tenace e divertente che incontrava dopo tanto tempo, non era mai stato uno da relazioni importanti e sapeva che dopo un po’ di tempo era lui stesso a scappare a gambe levate. Aveva vissuto in un ambiente dove era temuto e rispettato per quasi tutta la vita, essere accarezzato o ascoltato non rientrava nelle sue consuetudini. Eppure da quando si era trasferito a Besaid era stato costretto a combattere col suo carattere nero e a smussare i suoi spigoli per accogliere il cambiamento. Si era reso conto nell’ultimo periodo che più opponeva resistenza a ciò che stava mutando nella sua vita, più finiva con l’arrabbiarsi e sprecare energie nel vuoto. Debbie era uno di quei cambiamenti piacevoli che era capitato per caso e fino a quel momento non si era posto troppe domande, uscivano, si allenavano insieme la mattina. Insomma tutte cose che potevano fare una comune coppia di amici, l’unico neo in quella relazione era dentro di lui, nei suoi sentimenti che comunicavano informazioni contrastanti. Anche in quel momento, indossando una tuta e illuminata dai faretti del locale Debbie gli sembrava davvero bella, ma non aveva senso quel calore che sentiva all’altezza del petto quando la guardava. Era solo un’amica o forse no?

    Edited by Aruna Divya - 18/3/2020, 16:14
     
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    Sorrise, divertita al pensiero che la pratica fatta con I suoi fratelli per pronunciare quei nomi potesse davvero esserle servita a qualcosa. Per un momento nella sua mente si fecero largo i loro visi sorridenti mentre per un attimo la voce di Isak riecheggiava nella sua mente, in un lamento come quello che aveva sentito la sera di Halloween quando gli aveva accennato qualcosa riguardo Taylor. Erano sempre stati molto protettivi con lei e quando era ancora un’adolescente avevano cercato di conoscere tutti i suoi amici per accertarsi che fossero persone che cui potessero fidarsi, che nulla di male le sarebbe mai successo. Ma certe cose purtroppo non si potevano mai controllare davvero, per quanto uno si sforzasse, gli incidenti erano sempre dietro l’angolo e in certi casi non si poteva fare nulla per prevenirli. E lei aveva cercato di liberarsi in fretta da quella loro morsa, di divenire indipendente, di prendere in mano la sua vita senza che qualcun altro potesse pensare di dover decidere per lei. Apprezzava il loro interessamento, il loro affetto, ma aveva sempre preferito cavarsela da sola piuttosto che aspettare che fossero gli altri a venire in suo soccorso. In quell’occasione, tuttavia, non pensava di aver bisogno di alcun tipo di protezione. Dopo l’esperienza quasi mistica vissuta insieme il loro legame si era intensificato e poteva dire che tra lei e Taylor ci fosse una bella amicizia, che non aveva bisogno di eccessivi abbellimenti o attenzioni esagerate nelle parole e nei gesti. Non si sentiva mai in dovere di apparire diversa da come era e quella sensazione liberatoria era una delle cose che più apprezzava del loro rapporto perché lui non andava mai alla ricerca di troppa eleganza o di gesti calcolati, ma anzi faceva e dicevo tutto quello che gli passava per la testa. Come dimostrò anche in quello scambio di inchini che sicuramente lei non avrebbe dimenticato. Non sapeva davvero come facesse, alcune volte, a tirare fuori scene esilaranti come quella, con assoluta naturalezza. Lei non era mai riuscita ad essere così spontanea con le altre persone, tendeva sempre a rimanere un po’ sulla difensiva, a mantenere una distanza di sicurezza. Rise, terribilmente divertita, quando lui promise di non fare più neanche un inchino per tutto il resto della serata, ironizzando poi sul fatto che probabilmente la barca più grande non sarebbe bastata per tutta la serata. -Oh beh, da qualcosa dovremo pur iniziare. - rispose lei prontamente, per poi rivolgergli qualche domanda, cercando di riempire il tempo durante l’attesa. A sentirlo parlare comunque non sembrava affatto il proprietario di un luna park, visto quanto poco amasse l’interazione con i clienti, soprattutto se si trattava di bambini. Però, in effetti, nessuno diceva neanche che le sue cose dovessero necessariamente essere collegate. Era un lavoro come un altro, una maniera di sopravvivere e lui stesso le disse, poco dopo, che quello non era affatto il suo sogno, ma soltanto un modo per pagare l’affitto. Gli interessavano molto di più i motori e in passato aveva potuto lavorare insieme a suo padre in un’azienda automobilistica dove realizzavano auto da corsa. Si fece decisamente più interessata mentre lui continuava a parlare, cercando di immaginare che tipo di vita potesse essere. Lei forse in un’officina si sarebbe annoiata a morte, ma poteva vedere come invece parlarne illuminasse lo sguardo di Taylor in un modo che non aveva mai visto. Chissà se anche lei, quando parlava del suo lavoro, suonava così appassionata. -E dici che le voci sono arrivate sino a qui? - chiese, quando lui le parlò della frode del socio di suo padre, che li aveva portati a dover chiudere tutto e li aveva messi in cattiva luce con il settore automobilistico. Lei non aveva idea di quanto quell’ambiente potesse essere vasto, né di come fosse organizzato. -Oh no, non preoccuparti, puoi parlarmene se ti aiuta. In genere sono brava ad ascoltare. - aggiunse poi, con un sorriso, quando lui si scusò perché forse aveva esagerato un po’. Poteva comprendere il suo fervore, perché era così che si sentiva anche lei quando le persona parlavano dell’incidente d’auto dei suoi, dando per scontato che fosse stato soltanto quello e niente più.
    -Qualche volta, sì. Anche se preferivo festeggiarli a casa, invitando tutti i miei amici. - gli disse, quando chiese se anche il suo compleanno era considerato in quelle “occasioni importanti” di cui lei aveva parlato. Fu la sua domanda successiva però a far calare il silenzio. Abbassò lo sguardo sul suo piatto vuoto mentre un’espressione decisamente più seria si faceva largo sul suo viso e lei serrava appena la mascella, non sapendo bene cosa dire in merito. Non era un argomento di cui le piaceva parlare, sebbene di certo non fosse neanche una cosa che nascondeva. -No, loro.. - iniziò, dopo una breve pausa, riuscendo ad aprire la bocca solo per qualche breve istante, pronta a iniziare un discorso forse un po’ troppo lungo, ma l’arrivo della loro cena la interruppe. Lasciò che fosse Taylor a parlare in quel caso e a ringraziare il cameriere, chiedendo persino una parola in giapponese per poter dare inizio alla cena. Sorrise, cercando di far passare quel magone che ora le stringeva la bocca dello stomaco. Tentò di sorridere, davanti a tutto il suo entusiasmo e attese che lui prendesse i primi pezzi prima di inforcare le bacchette e mettere qualcosa anche all’interno del suo piatto, senza prestare troppa attenzione a quello che stava scegliendo. Ci sarebbe voluto qualche minuto prima di riuscire a mangiare qualcosa, probabilmente. Sospirò appena, mentre lui, dopo aver mandato giù il primo boccone, la invitava a terminare il discorso che avevano iniziato prima. -Eravamo una famiglia molto unita. - disse mentre giocherellava con un pezzetto di pesce che aveva posizionato all’interno del suo piatto. -Ma.. hanno avuto un incidente d’auto quando avevo sedici anni. - spiegò, senza troppi giri di parole, preferendo togliere il dente immediatamente, senza rigirare inutilmente sulla faccenda o creare della suspense non necessaria. -Da allora siamo solo noi tre, io e i miei fratelli. Penso sia per questo che sono così protettivi con me. - aggiunse, con un leggero sorriso mentre, dopo aver intinto il pesce nella salsa di soia, si decise anche lei ad iniziare il pasto. Le mancavano, sarebbe stato sciocco negarlo o fingere che non fosse così, ma era anche grata per tutti i be ricordi e per i momenti trascorsi insieme, per tutto quello che le avevano insegnato negli anni che avevano condiviso. Doveva aver notato le chiamate indesiderate e i messaggi che le erano arrivati in alcune occasioni, proprio da parte di quei due, per accertarsi che fosse ancora tutta intera e che tutto fosse sotto controllo. -Mi mancano, speravo che con il tempo quel vuoto si sarebbe riempito ma… non è mai accaduto. - aggiunse, con un sorriso malinconico sul volto, risollevando però lo sguardo su quello di lui, così che capisse che stava bene, che non doveva scusarsi per la domanda. Sapeva che avrebbe potuto cambiare discorso, inventarsi una scusa o semplicemente dirgli che non voleva parlarne, ma aveva preferito farlo. Proprio come lui era stato sincero con lei nel raccontarle quello spiacevole episodio del suo passato, anche lei aveva scelto di fare lo stesso. Non aggiunse nulla però riguardo alle circostanze sospette dell’incidente, al fatto che lei pensasse che non avessero semplicemente travolto un albero senza vederlo e che qualcosa doveva essere accaduto. Un luogo affollato, dove tante persone avrebbero potuto sentirli, non era certo il luogo migliore per una faccenda così delicata e poi non era nelle sue intenzioni coinvolgerlo in qualcosa che sembrava essere decisamente più grande di lei. -Quello è stato anche l’anno in cui mi sono fatta il mio primo e unico tatuaggio. - aggiunse, con un sorriso un po’ più rilassato, mentre iniziava a mangiare con un certo gusto mentre la sua attenzione si spostava sulla sua migliore amica. -Me lo ha fatto la mia migliore amica, era uno dei suoi primi test, poi dopo qualche anno ha aperto un locale suo e ora è una tatuatrice. - continuò, mentre allungava il braccio per rubare qualche altro pezzetto di sushi e metterlo nel suo piatto. Mangiare la aiutava a distrarsi in quel caso, a concentrarsi su quello che aveva ancora, piuttosto che su ciò che aveva perso. -Tu invece ne hai parecchi. Hanno una storia? - chiese, abbastanza incuriosita, mentre puntava di nuovo il suo sguardo su di lui, osservando alcuni di quei disegni più visibili. Non aveva idea di quanti ne avesse in realtà, ma dal poco che poteva scorgere sembrava che avesse una vita intera impressa sulla pelle.
    Continuò ad osservarlo, mentre beveva un bel sorso di birra, rimanendo in attesa per qualche momento, sperando di non avergli appena fatto una pessima domanda. In effetti, sebbene avessero iniziato a vedersi spesso per gli allenamenti mattutini e a sentirsi di frequente era davvero poco ciò che sapevano l’uno dell’altra e forse era finalmente arrivato il momento di rimediare. Sebbene non le piacesse aprirsi con gli altri, mostrare le parti più fragili di lei, sapeva anche che in certi casi si doveva rischiare per poter ottenere in cambio qualcosa di buono.
     
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    Taylor Hoogan

    Mentre parlava a Debbie del suo vecchio lavoro aveva gli occhi illuminati da una luce che gli infiammava l’anima di rabbia ed entusiasmo al contempo. La prima per la brutta fine che avevano fatto, la seconda perché nonostante fosse passato diverso tempo dall’ultima volta in cui aveva posato le mani su un motore da corsa quello era ancora chiaramente il suo sogno. Non sarebbe riuscito ad immaginarsi diversamente, eppure aveva bisogno di lavorare e per ora il luna park era la sua safe zone a cui aggrapparsi per poter condurre una vita indipendente dalla sua famiglia. E poi… e poi c’era quello spaccato di passato che si affacciava su una balconata vista paura, sangue e ricatti. Come poteva raccontare a Debbie quel lato della sua vita così distante dalla persona che era diventato senza che credesse che facesse ancora parte del suo essere? Non era un discorso semplice, ma prima o poi sarebbe dovuto avvenire, per lei sarebbe stato facile scoprirlo facendo una ricerca sulla sua fedina penale. Non era mai stato arrestato per più di una notte e non aveva denunce pendenti a suo carico, era sempre stato prosciolto da ogni accusa. Spiegare a una persona che per mestiere faceva l’agente di polizia cosa lo avesse spinto a infilarsi nella vita malata e malsana di una gang era come parlare di carne a un vegano convinto. Cristo se avrebbe voluto togliersi quella zavorra dal collo, lì a Besaid nessuno lo temeva o lo considerava una persona da allontanare, anzi piaceva persino ai ragazzini del luna park che a volte volevano disegnargli un nuovo tatuaggio sulla pelle coi colori. Strinse i denti mentre il suo discorso verteva sul socio di suo padre e i suoi pensieri naufragavano nel buio. ”L’azienda di mio padre collaborava con molte società europee, quindi le chiacchiere hanno raggiunto tutti coloro con cui avevamo contatti. Una macchia d’olio di cattiverie gratuite, non hai idea di cosa abbiamo dovuto sopportare mentre eravamo a San Antonio… di cosa la gente sia stata in grado di fare credendo di essere stata pugnalata alle spalle da mio padre. Quando i primi feriti in quella cazzo di guerriglia eravamo noi…” decontrasse i muscoli del viso cercando il modo di non farsi rovinare quella bella serata dai ricordi del suo passato, Debbie era una di quelle persone che indipendentemente dal suo umore riusciva sempre a strappargli un mezzo sorriso. Non gli era chiaro come facesse a capire come incontrarsi con un caratteraccio come il suo, eppure era come avere accanto un copilota che seguiva le tue mosse senza bisogno di troppe spiegazioni. Taylor spostò l’attenzione da se’ alla ragazza per saperne di più di lei, le fece una domanda che solo a posteriori si rese conto di quanto fosse scomoda. Vide Debbie esitare e rimanere in silenzio finché non arrivò la barca di sushi che avevano ordinato, entrambi iniziarono a prendere qualche pezzo da mettere sul piatto. Taylor mandò giù un paio di nigiri al salmone mentre lei giocava col suo cibo nel piatto, la osservò in silenzio senza fare pressioni, lasciandole il suo tempo per parlare. Non aveva idea di aver toccato un tasto dolente per lei, eppure da una parte sentiva il desiderio di saperne di più, di capirla e di prendere con se’ parte di quell’espressione sofferente che le leggeva sul viso. Dio che pensiero troppo dolce per uno come lui! Fortuna che non c’era lo zucchero nel sushi sennò avrebbe avuto delle carie assicurate ai denti alla fine della serata. Eppure nonostante non uscisse molto spesso quel lato di Taylor da qualche parte nel profondo c’era e desiderava allungare una mano verso Debbie per aiutarla a portare quel bagaglio di ricordi così pesante. ”Eravamo una famiglia molto unita. Ma.. hanno avuto un incidente d’auto quando avevo sedici anni.” chiara e netta, tipico di lei, nessun fronzolo per dire una verità così devastante. La lasciò proseguire in silenzio, alternando un sorso di birra a qualche pezzo di sushi mentre le sue orecchie captavano non solo le sue parole, ma anche quel senso di nostalgia che permeava la sua voce. Cosa si diceva in quelle situazioni? Odiava le parole di circostanza, era un esperto in ronzii di sottofondo inopportuni di persone che ti ripetevano “andrà tutto bene” oppure “vedrai che passerà” e invece non era così. Posò le bacchette sul tovagliolo e si sporse sul tavolo cercando il contatto visivo con lei, voleva che la sincerità di ciò che stava per dire fosse un flusso diretto con lei. ”Mi dispiace, davvero tanto. Non sono bravo con il tatto e le parole gentili, lo sai, ma sei davvero una donna forte perché sorridi spesso nonostante quel vuoto che ti porti lì.” col dito indicò vagamente la zona del petto, ”sono convinto che i vuoti non si riempiano, impari solo a conviverci col tempo...” non aveva la presunzione di dare la sua opinione per verità assoluta, anzi tutto il contrario lui non aveva mai capito un cazzo nella vita altrimenti non avrebbe rovinato la sua in passato. Prese di nuovo le bacchette e riprese a mangiare più lentamente senza distogliere lo sguardo dalla ragazza, come se facendolo si sarebbe rotto qualcosa. Un silenzio breve intercorse tra di loro, come un respiro tra due battute in una melodia. ”Ho notato che i tuoi fratelli ti stanno molto dietro, li stimo, credo che farei lo stesso se fossi in loro. Anche se è evidente che sai badare a te stessa, niente pistola nella borsetta stasera?” le domandò per sdrammatizzare, non voleva renderle più difficile quel momento di grande onestà che avevano appena condiviso. Afferrò il boccale e lo fece girare a vuoto prima di mandare giù un lungo sorso di quel liquido ambrato fino a farlo sparire. ”Grazie…” disse Taylor senza darle altre spiegazioni, non era certo che fosse chiaro il suo messaggio implicito, ma sapeva che Debbie non era obbligata a raccontargli quelle cose di se’ e invece aveva scelto di renderlo partecipe. In quello erano molto simili, nessuno dei due utilizzava troppi abbellimenti per esprimere i propri sentimenti o i propri drammi, la verità era nuda tra di loro a prescindere da quanto dura fosse.
    ”Hai un tatuaggio? Dove?” era sorpreso di apprendere una cosa del genere, non credeva che fosse il tipo da avere dei marchi d’inchiostro come lui sulla pelle, ma un avvenimento come la morte di un genitore portava a fare quello e molto altro. ”Se la tua amica è brava chissà che non sia passato per il suo studio, ne ho provati diversi prima di incontrare quello che faceva per me qui a Besaid.” prese un po’ di wasabi da mettere nel piatto per intingervi un roll di granchio e divorarlo in un nanosecondo, fece la stessa cosa con un nigiri di tonno e intanto rifletteva su quale dei tanti disegni che indossava sulla pelle potesse essere il più interessante da raccontarle e da mostrarle. Lasciò le bacchette abbandonate nel piatto, una delle due rotolò sul tavolo finendo vicino alla barca ancora da svuotare. Arrotolò la manica sinistra della felpa fino alla spalla e allungò il braccio di modo che Debbie potesse osservare parte della sua vita dispiegarsi sulla sua pelle. ”Ho fatto il primo tatuaggio a 16 anni in uno studio dove non chiedevano il documento, quando sono tornato a casa a mia madre per poco non le veniva un infarto. Non ho scelto un punto nascosto per evitare di essere scoperto, le lettere sulle nocche sono state il mio primo schizzo d’inchiostro.” con le dita accarezzò la parola Hope per scorrere piano oltre soffermandosi su un dado da gioco col numero 13 sull’unica faccia visibile. ”Questo… questo è per ricordare un mio amico d’infanzia che è morto annegato nel fiume a 13 anni. Non ero presente, so che stava giocando con il suo vicino ed è successo…” andò avanti col dito che segnava la via come una bussola indicandole un altro numero identico ma di diverso stile poco sopra, poi saltò un gran lembo di pelle per andare a scoprire un altro 13 alla base del collo. ”Ne ho fatto uno in ogni città dove sono andato, per simboleggiare il fatto che non importa dove andrò, lo ricorderò sempre…” un sorriso nostalgico sulle labbra che sparì quando l’aprì per accogliere un pezzo di sushi che aveva preso dal suo piatto a mani nude. Deglutì rumorosamente pensando al fatto che non poteva ancora spiegarle il significato di molte cose che s’inerpicavano sulla sua pelle come rovi, c’era del sangue in quell’inchiostro, della sofferenza per cose che aveva fatto di cui non andava fiero ma che non doveva dimenticare. Se avesse scordato il male che aveva inflitto avrebbe potuto rifarlo e non lo avrebbe mai accettato, aveva smarrito la strada una volta ed era abbastanza. ”L’ultimo 13 sul collo me lo ha fatto Mia, una tatuatrice piuttosto talentuosa del posto. Non so se oltre alla tua amica conosci altri studi del genere, ma dopo tanti tentativi ho scelto il suo stile di disegno. Alcuni li abbiamo progettati assieme, non so mettere due righe vicine, ma ho uno stile personale e so esattamente cosa voglio.” ammise voltandosi a cercare il cameriere per ordinare una seconda birra visto che aveva finito la sua, con un cenno della mano indicò il ragazzo a Debbie nel caso in cui avesse voluto qualcosa anche lei. Si voltò di nuovo verso di lei e rimase in silenzio a guardarla, non sentiva la necessità di capire quell’improvviso desiderio di averla più vicino a se’. Era come se Debbie fosse la calamita col polo opposto al suo che l’attraeva magneticamente verso la sua direzione e quella semplice sensazione gli bastava. ”Se non hai il coprifuoco, dopo cena vorrei portarti da una parte…” disse all’improvviso senza nemmeno rifletterci troppo, anche se inconsciamente sapeva perfettamente di cosa parlava la sua bocca insolitamente impulsiva.

    Edited by Aruna Divya - 13/4/2020, 12:18
     
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    Fu abbastanza sorpresa di sentire I suoi racconti sulla vita che si era lasciato alle spalle, sull’azienda di famiglia che avevano dovuto chiudere per dei problemi che non avevano potuto gestire al meglio. Non poteva immaginare quando doveva essere difficile sapere di essere stati traditi da una persona che si pensava di conoscere bene, qualcuno di cui si fidavano e che invece aveva tramato alle loro spalle per poi trascinarli a fondo con lui. Annuì appena, seguendo il suo discorso, quando le spiegò che, avendo collaborato a lungo anche con alcune aziende europee era stato semplice far spargere le voci a macchia d’olio sino a diversi chilometri di distanza dal posto da cui provenivano. Poteva sentire la sua rabbia nel parlare di quello che avevano dovuto sopportare nella loro città per via di tutte le persone che avevano creduto alle voci e che quindi se la erano presa con loro senza dargli neppure il beneficio del dubbio. -Se è quello che vuoi comunque, se è quello che ti piace, spero che un giorno tu possa riprendere il tuo sogno e portarlo avanti. - gli disse comunque, con un sorriso di incoraggiamento, guardandolo dritto in volto. -Probabilmente ci vorrà un bel po’ di pazienza ma.. se è quello che vuoi davvero, sono sicura che troverai un modo. - terminò, annuendo appena tra sé e sé. Era un po’ lo stesso discorso che faceva a se stessa da anni, quello che le permetteva di andare avanti. Sapeva che, se si ci avesse creduto sino in fondo, prima o poi sarebbe riuscita ad arrivare al bandolo della matassa e avrebbe finalmente trovato le risposte che cercava da anni senza sosta. Lei non riusciva ad essere come i suoi fratelli, a fare come loro, a passarci sopra e a credere alla versione che gli avevano dato, lei voleva la verità, perché sapeva che loro la meritavano. Ci mise un po’ di tempo tuttavia a rispondere quando Taylor le chiese dei suoi genitori. Visto che non lo aveva mai accettato davvero, che non era riuscita a metterci una pietra sopra, era sempre un po’ complesso per lei parlarne, trovare le parole adatte per descrivere quello che era successo senza esporsi troppo, senza condividere i suoi dubbi per paura che qualcuno potesse sentirla. Era piuttosto paranoica su quell’argomento e ogni volta che parlava delle sue nuove scoperte o piste con qualcuno lo faceva sempre con molta circospezione, stando attenta al fatto che nessuno potesse sentirla.
    Sorrise appena quando lui ammise di non essere affatto bravo con quel genere di cose. Secondo la sua modesta opinione nessuno lo era davvero, ognuno cercava soltanto di dire quello che gli sembrava più giusto, o forse soltanto la prima cosa che gli passava per la testa pur di riempire il silenzio. -Qualcuno impara meglio degli altri a conviverci però. - rispose soltanto, dopo le sue parole, abbozzando l’ombra di un sorriso. Invidiava i suoi fratelli per il modo in cui erano riusciti ad andare avanti e con il tempo aveva smesso di cercare di coinvolgerli nella sua ricerca, lasciando che loro proseguissero con le loro vite. Prese le bacchette con più fermezza a quel punto, iniziando a riempire anche il suo piazzo con diverse pietanze cercando così anche lei di pensare a qualcosa di diverso. Non voleva rovinare la serata con il suo muso lungo e non voleva che lui si sentisse in colpa per averle fatto quella domanda. Sorrise, in maniera decisamente più felice e spontanea, quando lui tirò in ballo i suoi fratelli. -Sanno essere insopportabili a volte, anche se con il tempo sono diventati più moderati. - disse, mandando giù un pezzo di sushi in un solo boccone prima di andare avanti, ripensando al periodo immediatamente successivo alla scomparsa dei suoi. -All’inizio mi pedinavo quando uscivo se non gli presentavo i miei amici. Un incubo! - continuò, alzando gli occhi al cielo, accompagnando le sue parole con uno sbuffo decisamente irritato, per poi ricomporsi velocemente. -Eh no, niente pistola per oggi, perché? Avevi intenzione di cacciarti nei guai? - chiese, prendendolo un po’ in giro, lasciandosi andare ad una leggera risata mentre continuava a intingere il sushi nella salsa di soia e mangiare, iniziando a sentire l’atmosfera farsi un po’ più leggera. Sorseggiò lentamente la sua birra come accompagnamento al pasto e si fermò per un istante, guardando Taylor con aria confusa quando lui la ringraziò. Che cosa aveva fatto? Perché aveva pensato di doverle dire quel “grazie”? Continuò a guardarlo con aria confusa mentre mandava giù la sua birra, preferendo però non indagare sulle sue motivazioni, lasciando correre quella parola come se non l’avesse quasi sentita.
    -Oh sì, aspetta. - disse poi, quando lui le chiese del tatuaggio, posando per un momento le bacchette sul tavolo e portando le mani a raccogliere i capelli leggermente di lato, muovendo il busto di lato insieme alla testa per cercare di mostrargli il retro del collo, dove si trovava il simbolo dell’infinito che Mia aveva realizzato sulla sua pelle diversi anni prima. -E’ piuttosto brava, anche se forse io potrei essere un po’ di parte quando si parla di lei. - ammise, mentre il sorriso sulle sua labbra si faceva più largo, portandola quasi ad arricciare il naso. Si conoscevano da quando erano solo due ragazzine e le aveva sempre voluto bene come se fosse stata una sorella, piuttosto che un’amica. Non poteva immaginare la sua vita senza Mia e neanche avrebbe mai voluto farlo. Potevano sembrare strane messe l’una accanto all’altra visto che per certi aspetti erano molto diverse, ma non aveva mai avuto alcun dubbio sul loro rapporto. Avrebbe fatto di tutto per quella testolina bruna a tratti un po’ troppo sboccacciata e sapeva che anche lei avrebbe fatto lo stesso. Continuando a mangiare mantenne lo sguardo su di lui mentre si arrotolava la manica sinistra della felpa per mostrarle alcuni disegni più significativi di altri. Sorrise, quando lui le raccontò del suo primo tatuaggio che aveva fatto in un posto abbastanza visibile, facevano quindi preoccupare sua madre. -Sai, è buffo che il primo tatuaggio lo abbiamo fatto alla stessa età. - gli fece sapere lei, dopo aver notato quel curioso dettaglio che l’aveva fatta sorridere. -Ma io non ho avuto bisogno del documento falso, abbiamo fatto tutto di nascosto, i miei fratelli lo hanno scoperto dopo parecchio tempo. - spiegò, mentre una leggera risatina fuoriusciva dalle sue labbra. In effetti avere i capelli lunghi le era tornato molto utile in quell’occasione per evitare di sentirli lamentarsi. -Pensavo fosse il nome della tua prima ragazza comunque. - lo prese poi in giro per quella parola tatuata sulle nocche “Hope” che veniva utilizzato anche come nome femminile. Avrebbe potuto fare lo sborone con una ragazza con un nome come quello e dire di averlo fatto per lei solo per fare colpo. Si fece immediatamente seria però quando le parlò di un altro tatuaggio, quello che aveva fatto per ricordare un amico e si limitò ad annuire mentre lo guardava in volto. Era un pensiero carino e poteva comprenderlo dato che anche lei aveva fatto una cosa simile dopo la morte dei suoi genitori, anche se la sua era stata più una silenziosa promessa a loro che sarebbe andata avanti, che avrebbe trovato un modo per farlo.
    Sorrise, quando lui le raccontò della sua tradizione di imprimersi un 13 in ogni nuova città dove andava, per portare in qualche modo il suo amico sempre con sé. Era sul punto di dire cosa, di fare un commento su quanto le aveva appena detto ma si fermò quando lo sentì pronunciare un nome che conosceva sin troppo bene. -Hai detto Mia per caso? - chiese, inarcando appena il sopracciglio nel pensare a quanto fosse buffa quella situazione. -Mia Bryne? - domandò ancora, cercando di essere più specifica, per essere sicura che non fosse soltanto una coincidenza un po’ troppo bizzarra, anche se sapeva che lei era l’unica Mia ad avere uno studio da tatuatrice. -E’ la mia migliore amica! Quella di cui ti parlavo prima! Certo che è proprio piccolo il mondo. - aggiunse quindi, spiegando anche a lui il motivo per cui era scoppiata a ridere. Anche lei fece un cenno al cameriere, chiedendo a sua volta una seconda birra, prima di continuare a parlare. -Ci conosciamo da tantissimo tempo, ma come vedi non ci aggiorniamo molto sul lavoro. - gli disse, mentre continuava a sorridere. Avrebbe senza dubbio scritto a Mia una volta tornata a casa per farle sapere quello che aveva appena scoperto, ma in quel momento preferiva concentrarsi su Taylor e sulla loro cena, tanto la conosceva e sapeva che l’amica l’avrebbe tempestata di domande. Avrebbe voluto sapere come si erano conosciuti, da quanto si conoscevano e una serie di altri dettagli che in quel momento non aveva voglia di scrivere. Terminò il suo bicchiere di birra giusto un attimo prima che arrivasse quella sua battuta sul coprifuoco e ridacchiò, scuotendo appena il capo. -No, ho passato l’età del coprifuoco da un pezzo direi. - mormorò, mandando giù un altro pezzo di pesce, mentre il cameriere si avvicinava a portare loro altre due birre. -Però, aspetta, devo controllare la mia agenda, sai, sono una donna molto impegnata. - disse, fingendo un’aria altezzosa che di certo non le apparteneva, mentre frugava all’interno della sua borsa, estraendo poi un’agendina, che iniziò a sfogliare con finto interesse. -Si, dovrei essere libera. - continuò, prima di sfoderare un sorriso e risistemare l’agendina dentro la borsa. -Domani sono di riposo, non ho problemi di orario. - spiegò poi, rivolgendogli un leggero occhiolino, prima di terminare quello che aveva nel suo piatto. -A parte gli scherzi, come ti sembra questa città? Pensi che resterai? O stai già programmando il tuo prossimo 13? - chiese ad un tratto, incuriosita di avere qualche notizia su quello che aveva in mente per il futuro mentre si versava un altro po’ di birra, spostando velocemente lo sguardo da lui al bicchiere.
     
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    Taylor Hoogan

    Tra un nigiri e un sorso di birra ascoltò la risposta di Debbie al suo racconto sulle ingiustizie subite dalla sua famiglia per il tracollo della loro società. ”Vorrei tornare nel mondo della produzione dei motori, ma ci vorrà tempo, cazzo se ce ne vorrà tanto! Il luna park dei miei nonni non è la vita che voglio, non per sempre almeno.” Anche lui sperava fortemente che tra qualche anno tutti sarebbero andati oltre e che la vicenda degli Hoogan diventasse solo un ricordo sbiadito, così da permettergli di tornare nell’industria automobilistica. Non era un’impresa semplice e ne era cosciente, ma solo lo scorrere del tempo e le sue scelte potevano fare la differenza. Taylor riprese a mangiare, lasciando che stavolta fosse la ragazza a rivelargli qualcosa di se’. La conversazione aveva preso una piega inaspettatamente dolorosa, non era certo di sapersi esprimere con tatto davanti a certe situazioni, ma ci provò a dirle quanto fosse dispiaciuto per la perdita dei suoi genitori. Tentò di non farle pesare troppo sul petto quell’onestà che aveva apprezzato profondamente, avrebbe potuto evitare il discorso e invece Debbie aveva ritenuto opportuno condividere con lui parte del suo passato. Osservò le ombre scure dei ricordi che danzavano negli occhi della ragazza, mentre il suo stomaco con molta probabilità si era ristretto come un bocciolo appassito. Taylor cercò di andare dietro ai suoi tempi e ai suoi silenzi, facendo qualche battuta sciocca per alleggerire l’atmosfera. ”Quindi i tuoi fratelli all’inizio facevano il tuo mestiere, erano i tuoi detective privati! Dev’essere stato difficile sopravvivere a due fratelli maschi, io sono figlio unico e faccio fatica anche così! Però da una parte li capisco…” ribadì alzando le spalle come se avesse detto qualcosa di poca rilevanza e poi mandò giù un lungo sorso di birra. Poggiò il boccale vuoto sul tavolo e rivolse un sorriso malizioso a Debbie che gli chiese se aveva intenzione di mettersi nei guai quella sera, ”eppure dovresti averlo capito che sono un tipo poco raccomandabile. Attenta che potrei coinvolgerti nei miei guai.” L’ironia si avvolgeva alla sua voce come un nastro tra i capelli di una donna. Quella scintilla d’ilarità e il nuovo discorso che Debbie portò in tavola permise a entrambi di rilassarsi un po’, addentrandosi su un tema che per Taylor aveva un sapore rassicurante. I tatuaggi erano il sentiero d’inchiostro che percorreva tutta la sua pelle, raccontando per immagini la sua vita sin troppo complicata. Taylor sorrise quando la ragazza scostò i capelli dal collo per mostrargli il segno dell’infinito che una sua amica le aveva inciso sull’epidermide alla stessa età in cui lui aveva fatto il suo primo tatuaggio. ”Potrei dire la stessa cosa, anche io sono di parte quando si parla dei lavori della mia tatuatrice, anche se a volte ci siamo scontrati perché abbiamo entrambi un punto di vista fottutamente forte.” Taylor guardò Debbie, un sorriso le trasformò l’espressione mentre parlava della sua amica, ogni suo lineamento andò a rilassarsi o a contrarsi per portare il suo viso a dare un senso di apertura e solarità. Si vedeva che teneva molto a lei dal modo in cui ne parlava, un po’ la invidiava perché lui non era in grado di mostrare a quel modo l’affetto. Neanche quando nominava Finn le sue labbra si distendevano a quella maniera, anzi dalla sua bocca uscivano il doppio delle parolacce che servivano a mascherare quella sensazione di calore che gli provocava l’amicizia. Taylor era consapevole di non essere bravo ad esprimersi, infatti a volte si ritrovava in situazioni scomode causate dal suo atteggiamento difensivo e provocatorio. Con Debbie fortunatamente gli risultava più facile lasciarsi andare, non che fosse ancora arrivato al punto di dimostrarle apertamente che iniziava a tenerci a lei – soprattutto dopo Halloween – ma quando era con lei riusciva a smussare i suoi spigoli più affilati.
    ”Ora che mi ci fai pensare è vero, avevamo la stessa età! Comunque davvero i tuoi fratelli non hanno notato quello?” col dito indicò il suo collo e solo per un istante esitò davanti al desiderio di accarezzare coi polpastrelli quel simbolo dell’infinito sulla sua pelle. Scacciò quel pensiero e riprese il discorso. ”Non ho mai scritto il nome di una donna addosso, ero un cazzo di coglione in passato… non sono sicuro di essere migliorato adesso.” S’interruppe solo per mangiare con le mani l’ennesimo pezzo di sushi ricoperto di salsa di soia. ”Diciamo che non ero particolarmente affidabile in amore, mi è sempre rimasto difficile parlare di sentimenti e fare gesti che fanno salire il diabete.” ’A volte basterebbe saper guardare i piccoli gesti…’ quest’ultima parte rimase solo un pensiero vagabondo. Taylor fece mostra dei frammenti della sua vita impressi sulla sua pelle, accarezzando ogni tatuaggio di cui parlava a Debbie, come se provasse affetto per quei semplici disegni. Notò che lei si fece improvvisamente seria quando le spiegò perché il numero 13 ricorreva più volte in quel caos di linee e immagini, così come si accorse di un’ulteriore cambio d’espressione quando accennò allo studio della sua tatuatrice. ”Sì, esatto. Mia Bryne.” Scoprire a quel modo che le due donne erano amiche era davvero una sorpresa per lui, non gli era mai capitato di incontrarle insieme e tanto meno di sentirle parlare l’una dell’altra, o forse lo avevano fatto, ma lui non aveva idea del loro legame. Si ritrovò a scuotere la testa divertito dall’ennesima coincidenza, quanti piccoli tasselli accomunavano lui e Debbie, molti dei quali erano ancora tutti da scoprire. Mano a mano che passava il tempo quel enorme puzzle che erano le loro vite, andava componendosi e incastrandosi in forme sempre nuove. Taylor era stupito dalla quantità di fili conduttori che sembravano cercare di unirli sin dal primo momento in cui si erano incontrati. Mentre pensava quella cosa gli passò accanto il cameriere e lo fermò per ordinare un altro giro di birra. ”Ma come? E io che pensavo che alla tua età avessi ancora il coprifuoco!” le disse con un mezzo ghigno, gustandosi la scena di lei che andava a cercare la sua agenda per controllare degli ipotetici impegni. ”Allora devo ritenermi fortunato se lì sopra c’è qualche spazio bianco per me! Io ho dimenticato la mia agenda nel negozio dove volevo comprarla, pensa è rimasta sullo scaffale!” ricambiò l’occhiolino di Debbie con uno sguardo intenso, carico di elettricità. Non era uno che sorrideva spesso, una smorfia o un mezzo ghigno era il massimo che si poteva ottenere nei suoi momenti migliori.
    ”Se dovessi paragonare Besaid a San Antonio semplicemente come città ti direi che Besaid perde la partita senza dubbi. Però a San Antonio c’è tanta merda, Deb, non è bella gente quella che gira lì… lo so per esperienza personale. Per la gente che ho incontrato fino ad oggi Besaid acquista molti punti, anche per le persone come te…” mandò giù un sorso di birra fresca e si pulì la bocca col dorso della mano, stavolta senza nemmeno domandarsi se potesse risultare maleducato per Debbie. Non c’era bisogno di filtrare chi era con tutte quelle cazzate del Bon Ton o come diavolo si chiamava! Odiava i convenevoli, non facevano altro che alimentare una facciata di perfezione che sarebbe crollata solo col tempo. Tutte quelle stronzate da perbenisti servivano a deludere di più le persone, perché a scoprire il bluff di un ’grazie’ di circostanza non te lo insegnavano mica a scuola. Per quel motivo preferiva essere se stesso a costo di risultare sgradevole a volte, almeno chi accettava di stargli attorno, un giorno non gli avrebbe tolto la maschera per scoprire una bestia sotto di essa. ”Non lo so se rimarrò qui per sempre, so per certo che non tornerò negli Stati Uniti. Ho iniziato a chiamare questa cazzo città ‘casa’ solo ora, mi serve ancora del tempo per decidere dove mettere radici.” Sollevò il boccale e osservò il liquido ambrato oscillare da una parte all’altra come un’onda che s’infrange su uno scoglio di vetro. ”Mandiamola giù tutta d’un fiato perché finiti quei due nigiri nella barca c’è un posto che vorrei farti vedere. Pronta?” avvicinò il bicchiere alla bocca e con un cenno della mano diede il via alla bevuta che gli fece sporcare gran parte della barba con la schiuma chiara. Sbatté senza troppa forza il boccale sul tavolo e attese che Debbie facesse lo stesso prima di richiamare l’attenzione di uno dei camerieri per chiedere il conto. ”Te lo dico subito, stasera pago io, non accetto un no come risposta.” disse con fermezza. Prese il portafoglio dalla tasca dei pantaloni e fece cenno alla ragazza di seguirlo quando arrivò lo scontrino al tavolo. Taylor indossò la sua giacca nera di pelle e si avviò con Debbie verso l’uscita, fermandosi prima a saldare il conto alla cassa. Quando raggiunsero l’esterno la temperatura era leggermente più fresca rispetto a quando erano entrati e il cielo era diventato un’uniforme chiazza d’inchiostro nero attraversata da minuscoli punti di luce argentata. Nella penombra di un lampione non funzionante il locale assumeva un’aria misteriosa e vagamente minacciosa, sembrava un’ombra scura tra una distesa di edifici dai toni chiari e brillanti. Il ristorante era l’unica struttura attraversata da travi scure per quasi tutta la sua lunghezza, l’unica fonte di luce erano le finestre rivestite da cui s’intravedeva la vita al suo interno. Taylor si voltò verso la ragazza per proporle di seguirlo. ”Andiamo con la mia macchina se ti va, torniamo a riprendere la tua dopo.” Si avviarono assieme verso la via secondaria dove aveva parcheggiato, quando raggiunsero il suo suv aprì la portiera per Debbie senza soffermarsi al suo fianco, come se quella finta non curanza potesse mascherare il gesto gentile. Si accomodò al posto di guida e quando entrambi furono pronti si avviò per le strade che ormai erano diventate familiari per lui, accese la radio abbassandone il volume fino a rendere la musica un lieve sottofondo. ”Ti piacciono i Coldplay?” chiese riferendosi alla canzone che li accompagnava nel silenzio delle strade semi deserte, solo il lampeggiare dei semafori dava una parvenza di movimento sull’asfalto nudo. ”Ti sto portando in un posto che quando il mio umore fa davvero schifo mi permette di vedere le cose da una prospettiva diversa.” con una sola mano maneggiava il volante, mentre il suo sguardo si posò per una frazione di secondo su Debbie che parlava.
    La corsa del suv si arrestò in un parcheggio sterrato, Taylor spense il motore e scese dalla macchina. Davanti a loro un ingresso composto da arcate bianche sovrastate da delle torrette e disposte in un ordine che pareva casuale, vi erano delle mezze lune rosse che rendevano letterale il significato del nome Luna Park. Taylor prese un mazzo di chiavi dalla tasca sinistra, aveva un portachiavi di metallo a forma di motocicletta attaccato. Si voltò verso Debbie e le porse la mano. ”Ti presento il mio fottuto incubo di giorno, ma di sera quando non c’è nessuno è quasi sopportabile. Anzi c’è un punto che addirittura mi piace in solitudine, in due non siamo una folla, potrebbe quasi andare bene lo stesso.” Le rivolse un mezzo sorriso sollevando solo un angolo della bocca e si avviarono assieme verso una porticina laterale riservata allo staff, l’aprì e se la richiuse alle spalle quando furono all’interno. ”Aspettami qui.” suonava come un ordine, anche se non era quella l’intenzione delle sue parole, quella strafottenza naturale che possedeva echeggiava nella sua voce anche quando non voleva. Sparì dietro l’enorme scritta “Welcome” svoltando a destra verso la sala di controllo, vi entrò e premette un paio di pulsanti, sollevò lo sguardo verso la finestra davanti al pannello dei computer e si accertò di aver acceso le luci giuste e non solo. Taylor uscì dalla sala e la richiuse a chiave per sicurezza, tornò dove aveva lasciato Debbie incrociando le braccia al petto. ”Questo è il posto dove passo la maggior parte del mio tempo, sembra bello ma…” lasciò la frase in sospeso di proposito, cominciando a camminare lungo il sentiero tracciato che conduceva verso le diverse attrazioni. Attese che la ragazza lo seguisse e sorpassarono la giostra dei cavalli che era completamente spenta, proseguirono lungo il viale degli stand del cibo che riverberavano della luce multi colore dell’unica attrazione accesa. Davanti a loro si vedeva la ruota panoramica che – da quella distanza – pareva fondersi col cielo nero come un pianeta di metallo dai toni cangianti. Il riflesso delle luci blu e violette si disperdevano nel firmamento, mentre a terra disegnavano delle scie astratte come un arcobaleno scomposto. Quando raggiunsero la ruota panoramica, Taylor si fermò e per la prima volta da quando avevano lasciato il ristorante si chiese se il suo istinto lo aveva guidato nella direzione giusta. Si voltò a guardare Debbie e col capo indicò l’enorme ruota metallica. ”Vuoi provare?” In quelle parole si celava qualcosa di più profondo di un invito a salire con lui, solo che in quel momento neanche Taylor era consapevole fino in fondo di quell’emozione latente che aveva scaturito la compagnia di Debbie. Guardare il mondo dall’alto dal punto di vista delle stelle, era un privilegio che si sarebbero goduti assieme quella sera.

    Edited by Aruna Divya - 31/5/2020, 12:11
     
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    -E pensi di iniziare da zero tutto da solo? - chiese, incuriosita di capire come funzionasse quel mondo di cui lei non faceva parte neanche di striscio. Non aveva idea di che tipo di vita fosse, di quanta pazienza e dedizione potessero volerci, ma vedendo quanto lui sembrava appassionato di quel genere di cose credeva che in un modo o nell’altro ce l’avrebbe fatta. -O conosci già qualcuno che potrebbe supportarti? - domandò ancora, cercando di carpire qualche informazione in più. Magari anche l’amico di cui le parlava spesso, quello che lavora al Luna Park, poteva essere interessato ai motori e avere voglia di iniziare una nuova carriera insieme a lui, oppure c’erano altre persone con cui avrebbe potuto cominciare per poi continuare la sua strada da solo. Cercò di condividere con lui dei tasselli del suo passato, anche se non era mai semplice per lei parlare di quella parte della sua vita, dell’avvenimento che aveva cambiato ogni cosa. -Nah, non sono mai stati bravi quanto me. - scherzò a sua volta, cercando di aiutare Taylor a smorzare il tono della conversazione. Si rendeva conto di aver messo sul piatto un discorso abbastanza spinoso, ma non voleva che il resto della serata vertesse intorno a quello, né che lui pensasse di dover dire chissà che cosa. Era passato tanto tempo e quella ferita si era lentamente cicatrizzata anche se era ancora lì, pronta a farsi sentire nei momenti meno opportuni. -Ad essere onesta non potrei immaginare la mia vita senza di loro. E’ vero, a volte sono insopportabili ma so che lo fanno perché mi vogliono bene. - disse, ammettendo a voce alta delle cose che forse davanti ai suoi fratelli non avrebbe mai detto. Anche lei voleva loro bene e sarebbe stata capace di fare qualunque cosa per aiutarli se fossero stati in pericolo.
    Fortunatamente però il discorso si spostò presto su argomenti più tranquilli e lei gli mostrò il suo unico tatuaggio, prima di stare ad ascoltare alcune storie su quelli di lui. Era sempre curiosa di sapere che cosa si nascondesse dietro i gesti delle persone, che cosa portassero con sé in quei disegni che gli altri non avrebbero potuto capire senza un aiuto. Ricordava ancora l’esatto momento in cui aveva deciso di coinvolgere Mia in quella cosa, di chiederle aiuto e non se ne era pentita neanche per un istante. Sorrise, mentre scuoteva la testa prima di rispondere alla sua domanda. -No, l’idea che io a sedici anni potessi farlo non gli era mai balenata per la testa, quindi non hanno mai neppure provato a capirlo. - spiegò, mentre le veniva quasi da ridere a quel pensiero. -E poi i capelli sciolti aiutano a nasconderlo. - aggiunse, giusto per spiegare come aveva fatto a far passare tutto inosservato. Quando se ne erano accorti, diverso tempo dopo, avevano borbottato a lungo, fino a che non si erano resi conto che in fin dei conti non c’era nulla che potessero fare per farlo sparire e quindi lo avevano accettato. Quando scherzò sul fatto che avrebbe potuto pensare che “Hope” fosse il nome della sua prima ragazza, Taylor le spiegò che non era mai stato particolarmente affidabile sulle questioni amorose e che per lui era difficile parlare di sentimenti e forse persino esprimerli con i gesti. Poteva capirlo, anche lei non era mai stata brava con quel genere di cose e il fatto che si forzasse a mantenere le distanze per via della sua particolarità non l’aveva mai aiutata. -Anche per me è abbastanza difficile. - aggiunse, mentre continuava a guardarlo, senza sapere bene come esprimere il pensiero che aveva fatto capolino nella sua mente. -Non che io non riesca a volere bene alle persone, è solo che.. è complicato. - terminò, scuotendo appena il capo, come a voler cancellare quello che aveva appena detto. Non le piaceva parlare della sua particolarità e non le piaceva condividere quella faccenda con le persone, soprattutto in un luogo pubblico dove in tanti avrebbero potuto sentirlo. Era una questione personale per lei e ci teneva che rimanesse tale.
    Scoprire che Mia era la sua tatuatrice le strappò una risata. Non era l’unica presente a Besaid, quindi la cosa la colse un po’ alla sprovvista, ma non avrebbe potuto dire che aveva fatto una pessima scelta. Come lei stessa aveva detto poco prima era sempre di parte quando si trattava di lei. Si lasciò prendere un po’ in giro riguardo al coprifuoco, fingendo poi di avere un’agenda fitta di impegni e di dover fare i salti mortali per poter riuscire a racimolare un po’ di tempo da condividere con lui. -Si sentirà molto sola, abbandonata su quello scaffale, non hai pensato di andare a recuperarla? - domandò, con un sorrisetto divertito, continuando a stare al gioco. Quando si trovava insieme a persone con cui era perfettamente a suo agio tirava fuori il lato più sciocco di sé, che le faceva fare un sacco di battute non sempre divertenti. Gli chiese che cosa ne pensasse di quella cittadina, se pensasse di fuggire velocemente o se avesse intenzione di restare ancora un po’ e quando parlò di lei, mettendola nell’elenco delle cose belle di quella città, lei si accigliò appena, guardandolo con un’aria un po’ più seria. Immaginava che le due città dovessero essere molto diverse, anche se non aveva idea di come fosse San Antonio visto che non aveva mai neanche provato a cercarla su internet. Forse quella sarebbe stata la volta buona per scoprire un po’ di più del mondo, per guardare oltre. -Persone come me? - chiese, inizialmente, come se non avesse compreso bene le sue parole. -E’ il tuo modo carino di dirmi che sono piuttosto anonima e assomiglio a tante persone? - chiese, in maniera scherzosa eppure incuriosita. Aveva sempre dato per scontato di essere diversa dagli altri, ma non poteva sapere in effetti come apparisse davvero agli occhi di qualcun altro. Forse in fin dei conti non era che un granello di sabbia in mezzo ad un deserto sconfinato, una goccia d’acqua in mezzo al mare, solo che non se ne rendeva conto e per questo continuava a spingere per brillare ed ergersi tra la massa. Annuì appena mentre ammetteva di non sapere quanto a lungo sarebbe restato, anche se non pensava di tornare negli Stati Uniti. -Oh non preoccuparti, non hai un timer dietro la schiena che stabilisce entro quando devi decidere. La mia era solo una curiosità. - spiegò poi, stringendosi appena nelle spalle. -Io sono cresciuta qui, anche se sono nata a Oslo, ma ho così pochi ricordi di quella città che per me è normale chiamare casa questo posto. Ma mi chiedo spesso che cosa ne pensino le persone che arrivano con tanti ricordi di altri posti, che cosa le porti a scegliere di restare oppure no. - aggiunse ancora, cercando di rendere un po’ più chiaro il motivo della sua curiosità e quindi della sua domanda. Cercava sempre di comprendere le persone, anche se talvolta non le veniva bene come avrebbe voluto.
    Seguendo l’esempio di Taylor mandò giù tutta d’un fiato la birra che era rimasta nel suo boccale per poi emettere uno sbuffo scocciato quando il ragazzo si prese l’impegno di pagare. -E va bene.. ma la prossima volta tocca a me, senza storie. - si premurò di dirgli, prenotando già la possibilità di ricambiare il favore. Non le piaceva sentirsi in debito, neanche quando si trattava di una cena. -Scusami un momento. - chiese, prima di recarsi velocemente al bagno, per lavarsi le mani prima di rimettere i guanti, sentendosi così di nuovo completa. Poi, dopo aver preso la sua giacca, seguì Taylor verso l’uscita. Chiuse gli occhi per un momento, godendosi la brezza fresca della sera, annuendo con gli occhi ancora chiusi e il vento tra i capelli. -Ve bene, andiamo con la tua. - accettò, facendosi guidare verso la sua auto, abbastanza curiosa di capire dove avesse intenzione di portarla. Non pensava che la serata sarebbe avanti per molto quando avevano deciso di incontrarsi quella sera, ma non poteva dire che la cosa le dispiacesse. Era piacevole trascorrere del tempo insieme a lui, si sentiva a suo agio. -Grazie. - mormorò, con un sorriso, quando lui le aprì la portiere dell’auto per poi prendere posto sul suo SUV dal lato del passeggero. Non si era mai chiesta che tipo di macchina potesse avere, ma ora che la vedeva seduto al del guidatore le sembrava che quella gli calzasse a pennello. -Si, non mi dispiacciono. - rispose, ascoltando la musica in sottofondo mentre osservava fuori dall’auto. Le piaceva guardare all’esterno mentre sfrecciavano in avanti, la prospettiva mossa che acquistava la città era un paesaggio che non poteva godersi molto spesso visto che il più delle volte era lei a guidare, anche se in alcune occasioni Ali se ne prendeva l’onere e l’onore. Ma in servizio non poteva perdere tempo in quel modo, doveva osservare tutto nei dettagli e cogliere ogni minimo tratto storto o sospetto. -Qualcosa non va? Il tuo umore fa schifo in questo momento? - chiese, corrucciando appena la fronte e riportando quindi prontamente lo sguardo su di lui. C’era qualcosa che non era riuscita a cogliere? Una richiesta di aiuto che era passata inosservata? Si fece immediatamente più attenta e guardinga, lasciando perdere le luci della città. Poteva sembrare una persona impassibile e poco attenta agli altri, ma in realtà ci teneva a essere d’aiuto quando poteva.
    Uno sguardo incuriosito e anche un po’ confuso comparve sul suo volto quando il suv si fermò davanti all’ingresso del Luna Park. Era uno scherzo per caso? Non le aveva sempre detto di detestare quel posto? Ma non fece in tempo ad emettere alcun suono che la risposta ai suoi interrogativi arrivò direttamente dalle labbra di Taylor. -So anche stare zitta quando serve. - rispose, rivolgendogli un leggero occhiolino, quando ammise che quel posto gli piaceva di più in solitudine ma che in fin dei conti due persone non potevano definirsi una folla. Lo seguì attraverso una porticina laterale, riservata al personale e si guardò attorno, annuendo appena quando lui le chiese di attendere in quel punto. Tutto sembrava incredibilmente diverso in quella penombra, come se non fosse affatto il luogo chiassoso e luminoso che si poteva scorgere quando era aperto. Mosse qualche passo mentre continuava a guardarsi attorno, girando su se stessa e cercando di cogliere tutti quei dettagli che in mezzo al marasma di persone erano impossibili da cogliere, beandosi di quel silenzio e di quella pace. Sussultò appena quando alcune luci si accesero, precedendo il ritorno di Taylor. -Ma? - chiese, visto che lui aveva lasciato la frase in sospeso, iniziando a camminare lungo un sentiero definito da alcune attrazioni. Le affrettò il passo per raggiungerlo, incuriosita da quella strana caccia al tesoro per avere delle informazioni. -Stai cercando di detestare le mie abilità da detective? - chiese quindi, non capendo se fosse un test o se anche lui non riuscisse a raccontare alcune cose di sé, esattamente come capitava a lei. -Perché sappi che detesto farlo sulle persone che conosco - aggiunse, mentre continuava a seguirlo e a guardarlo. Sapeva che le sarebbe bastato togliersi i guanti e toccarlo per capire quali fossero i suoi desideri più profondi, quali fossero le sue intenzioni, ma non voleva farlo. Detestava utilizzare quella via per conoscere gli altri, preferiva che fossero loro a decidere di aprirsi, a raccontare passo passo quello che ritenevano opportuno. Neanche si rese conto che avevano seguito la strada per la ruota panoramica fino a che lui non si era fermato, chiedendole se le andasse di provarla. -E mi farai anche azionare la macchina? - chiese, con un sorrisetto furbetto, per poi lasciarsi andare ad uno un po’ più tranquillo. -Sai, mi sento come uno di quei bambini che chiede se può far partire la sirena della macchina della polizia. - spiegò poi, con una leggera risata, prima di tendere una mano guantata nella sua direzione e invitarlo a guidarla nella salita. In effetti non aveva idea di come funzionasse o di cosa facessero gli addetti quando loro salivano sui sedili e facevano partire la magia.
    Quando poi finalmente si posizionarono sui sedili e sistemarono la sbarra di sicurezza la ruota iniziò a muoversi lentamente, facendoli sollevare da terra. L’ultima volta che era salita su quell’attrazione era stato insieme a suo fratello e la sua famiglia, diversi mesi prima, ma in quel momento, con il mantello della notte ad avvolgerli e un silenzio quasi surreale tutto sembrava assumere colori molto diversi. Mantenendo il busto fermo come nelle indicazioni che si trovavano nel cartello a terra, allungò appena il volto per poter guardare le altre attrazioni e le case che si potevano iniziare a intravedere dall’alto. La città si faceva via via sempre più piccola e così anche i suoi rumori che ora arrivavano alle loro orecchie soltanto come eco distanti. Sorrise mentre tante luci colorate iniziavano a creare una qualche forma di armonia tutt’attorno a loro. una tela nera su cui risaltavano tutte quelle luci sparse, inserite senza un reale schema. -Quindi quando il mondo ti annoia vieni qui a giudicarlo dall’alto? - chiese, prendendolo un po’ in giro, mentre riportava lo sguardo verso di lui, continuando a sorridere. Solo in quel momento si rese conto di quanto fossero vicini, che lo spazio a disposizione ora era molto limitato mentre le loro gambe si sfioravano, senza neppure volerlo, per il semplice fatto di essere seduti uno accanto all’altra in uno stretto sedile di metallo. Rimase in silenzio, mentre osservava il volto di Taylor ad un soffio di quello di lei, poteva quasi sentirne il respiro caldo sulla pelle. Deglutì, silenziosamente, improvvisamente confusa e un po’ a disagio. Avrebbe voluto avere qualcosa di brillante da dire, una battuta da tirare fuori dal cilindro come faceva sempre, invece si limitò a restare in silenzio e lasciare che fosse lui a dire qualcosa.
     
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    Taylor Hoogan

    ”Da solo sarebbe complicato, anche se essere il proprietario di un’azienda automobilistica è il mio sogno. A Besaid non ci sono industrie specializzate per la costruzione di automobili da corsa, dovrei fare il pendolare da Bergen o addirittura valutare di trasferirmi a Oslo. Finn mi sta aiutando a capire come funzionano le cose da queste parti. Un fottuto casino…” si concentrò sui nigiri mentre al suo commento si succedeva un racconto sul passato di Debbie che non si aspettava, la sua sincerità lo aveva colto di sorpresa. Quella ragazza gli aveva permesso di affacciarsi sull’uscio della sua anima e non aveva idea di cosa lo avrebbe atteso al prossimo passo, eppure sentiva forte il desiderio di saperne di più su Debbie e sulla sua vita. ”Sbaglio o c’è dell’affetto nell’aria?” chiese con un ghigno divertito notando l’espressione di lei mentre parlava dei suoi fratelli. Lui non sapeva cosa volesse dire sopportare qualche domanda di troppo o qualche gesto invadente in segno d’affetto, era figlio unico e quando il mondo dei suoi genitori era crollato non avevano parlato molto dei loro sentimenti… anzi per niente. Ascoltando i discorsi della ragazza aveva l’impressione che ci fosse una forte unione tra i membri restanti di una famiglia che aveva affrontato una grande perdita. Esattamente l’opposto di quello che era accaduto nella sua, ciascuno percorreva una strada diversa coi propri sentimenti cuciti sotto la pelle dove nessuno poteva raggiungerli. Forse era anche per quella dinamica familiare così chiusa che aveva deciso di fare il suo primo tatuaggio molto giovane, per dare ai suoi genitori un indizio su ciò che gli vorticava dentro. Tutta la sua vita era disegnata in superfice, una corazza d’inchiostro per chi come lui aveva perso la chiave d’ingresso alle proprie profondità, o forse non ce l’aveva mai avuta.
    ”Quindi avevi i capelli lunghi anche da ragazzina. Cazzo, ora si spiega come quello sia passato inosservato!” indicò col dito il suo collo dove sapeva esserci il segno dell’infinito di cui gli aveva parlato prima. La conversazione tra di loro era molto naturale, si spostavano da un argomento ad un altro con la stessa semplicità con cui un pianista passa da un accordo a un altro. Taylor mandò giù un paio di nigiri mentre ascoltava la domanda di Debbie sul suo tatuaggio che poteva trarre in inganno, in fondo la Speranza secondo lui era donna. ”Allora le relazioni non sono un grande punto interrogativo solo per me! Quasi quasi mi fai sentire normale.” solo dopo aver parlato notò che lo sguardo della ragazza era velato di malinconia, perlomeno a lui sembrò così. Rimase in silenzio per qualche istante, ma il ronzio nella sua testa venne interrotto dal moto perpetuo di quella conversazione stimolante. Quella sera avevano scoperto diverse cose l’uno dell’altro e pareva che da parte di entrambi ci fosse una sete di conoscenza che seguiva un flusso tutto suo. Chiacchierando si resero conto che persino l’inchiostro che li marchiava sulla pelle aveva un filo conduttore comune: Mia Bryne. Osservò come i lineamenti di Debbie si distesero davanti a quel nome e come il suo tono di voce lasciasse trasparire un affetto che lo sorprese. Invidiava un po’ la sua capacità di esporsi a quel modo, lui non avrebbe mai parlato con la stessa gentilezza del suo amico Finn e non perché non gli volesse davvero bene.
    ”Dici che ho sedotto e abbandonato una povera agenda? Forse stasera dovremmo disdire, solo per non farle un torto…” le fece l’occhiolino con aria divertita, continuando sull’onda di quel gioco di battute che avevano iniziato. In realtà era contento che la loro serata si sarebbe prolungata, anche perché pareva che di domanda in domanda il tempo non bastasse mai. Debbie gli chiese qualche informazione sulla sua città natale, ma lui non era di certo la persona migliore a cui chiedere l’opinione. I suoi vissuti negativi a San Antonio avevano corrotto la sua obiettività. ”Anonima non direi proprio!” col capo indicò la sua tuta colorata per prenderla un po’ in giro. ”San Antonio è una città che non passa inosservata, esattamente come te. Riesci a dare colore a una fredda cittadina del nord…” lasciò la frase in sospeso non sapendo bene come proseguirla, abbassò lo sguardo sperando che la conversazione proseguisse su lidi più sicuri. Posò di nuovo lo sguardo su Debbie quando gli disse che non c’era un timer per prendere una decisione su dove mettere radici. Aveva ragione, ma lui al momento non aveva un motivo né per restare né per partire, era fermo in un limbo che si era costruito da solo senza volerlo. Aveva profondamente bisogno di ritrovare la corsia giusta sull’autostrada della vita prima di poter prendere delle decisioni concrete.
    Quando terminarono di mangiare si avviarono verso la cassa del locale. ”Va bene, la prossima volta tocca a te. Promesso.” le rivolse uno di quei mezzi sorrisi che scoprivano a malapena la dentatura, ma era pur sempre un sorriso, una rarità. Attese che Debbie tornasse dal bagno prima di uscire all’esterno e dirigersi verso la propria macchina, proponendole di tornare a prendere la sua più tardi. Si accomodarono all’interno della vettura e partirono in direzione di una meta che solo Taylor conosceva. Sulle note di una famosa canzone dei Coldplay imboccarono le strade semideserte della città, si respirava la quiete tipica delle notti norvegesi. ”A me invece piacciono molto come gruppo, sono stato a qualche loro concerto negli Stati Uniti. Sei mai stata a un concerto?” chiese mentre guardava l’asfalto in movimento davanti ai suoi occhi. Nella penombra un ghigno divertito gli distese le labbra quando la ragazza gli chiese del suo umore. Le spalle di Taylor vennero scosse da una risata silenziosa come un singulto a bocca chiusa. ”No, quello che volevo dire è che ti sto portando in un posto che di solito non condivido con gli altri. Capirai quando saremo lì.” scosse la testa ancora con quell’aria divertita impressa sul volto, intanto il soundtrack dello loro breve viaggio si era tramutato in un brano rock più veloce e ritmato, proprio come il suo umore.
    La notte accarezzava l’ingresso del luna park con le sue ombre, incupendone i colori e i contorni. A quell’ora della sera somigliava di più all’inferno che vedevano solo gli occhi di Taylor anche alla luce del giorno. ”E io a volte so addirittura spiegarmi bene, direi che siamo un buon team, non credi?” ricambiò il suo occhiolino e poi la guidò attraverso il passaggio staff fino all’interno del luna park dove le chiese di attenderlo per poter accedere alla sala di controllo. Pochi minuti dopo tornò di nuovo dalla ragazza facendole cenno di seguirlo lungo il sentiero deserto. ”Non ti conviene usare le tue abilità di detective su di me, scopriresti che sono più disastrato di quel che sembra.” quella battuta ironica non era così lontana dalla verità, il suo passato lo aveva quasi ammazzato più di una volta, mentre il suo presente cercava di inghiottirlo tra un morso di zucchero filato e una manciata di pop corn caramellati. Ma è una prigione troppo colorata e troppo felice. Hai mai parlato con quei cazzo di sfigati che indossano i costumi nei parchi? Sorridono a tutti e si mostrano sempre gentili, ma alcuni di loro odiano i bambini. Ecco perché non mi piace questo posto, non è reale.”
    Si fermò davanti alla ruota panoramica e si voltò verso Debbie per chiederle se voleva salirci. Soffermò il suo sguardo su quel sorriso furbetto che le colorava le labbra mentre gli chiedeva di poterla azionare, ci mise qualche secondo di troppo a riprendere il contatto con la realtà. ”Ti faccio azionare la ruota se tu fai azionare a me la sirena almeno una volta, ci stai?” allargò le braccia verso l’esterno con quel suo atteggiamento irriverente nei confronti del mondo. ”In realtà è semplice attivarla, bisogna inserire queste e fargli fare un solo scatto verso destra.” estrasse un paio di chiavi dalla tasca facendole oscillare davanti agli occhi della ragazza, ”poi premi il tasto rosso con la targhetta on e il gioco è fatto.” Taylor prese la mano guantata di Debbie per guidarla fino al pannello di controllo e le cedette le chiavi per lasciarla smanettare coi comandi. ”Se vuoi che la ruota si fermi in cima per qualche minuto di più, fai fare alla chiave due scatti verso destra.” aggiunse mentre la guardava armeggiare col pannello. Attese che terminasse di eseguire le sue istruzioni e poi la condusse all’interno della cabina dove presero posto seguendo le istruzioni di sicurezza da manuale. Con un leggerissimo movimento sussultorio la ruota cominciò la sua salita verso il cielo. Taylor rimase in silenzio lasciando che fosse Debbie la prima a parlare, voleva lasciarle il tempo di assaporare la magia che creava il progressivo allontanamento del mondo dalle piante dei piedi. Non avrebbe saputo spiegare a parole come lo faceva sentire vedere Besaid rimpicciolire fino a diventare un disegno astratto di luci nella notte, sapeva solo che il superfluo spariva nel vuoto tra il suolo e la cabina. Quell’invisibile nuvola di silenzio gli permise di osservare i lineamenti di Debbie illuminati dalle luci esterne della ruota panoramica, era una di quelle bellezze semplici senza artifici. Si rese conto di aver trattenuto il fiato solo quando la ragazza si voltò verso di lui per chiedergli se da lì giudicava il mondo intero. Deglutì e ristabilì l’equilibrio col respiro prima di parlare. ”Quando il mondo mi prende a bastonate vengo qui e lo osservo da un punto di vista diverso.” si schiarì la gola prima di proseguire, ”non sono un buon giudice, ho fatto così tante stronzate nella mia vita che non ho il permesso di puntare il dito sugli altri. Però posso osservare e quello che vedo in questo momento davanti a me è speciale a modo suo.” puntò gli occhi in quelli di Debbie e le scostò una ciocca di capelli ribelle dal volto, lasciò che le sue dita si soffermassero sulla sua pelle qualche istante in più. Posò il palmo aperto sulla guancia di lei, lasciando l’istinto libero di giocare la sua partita. Arrivò a sfiorare il naso della ragazza col proprio, sentendone il respiro addosso come una ventata di adrenalina sulla pelle. ”Secondo te adesso che intenzioni ho, detective?” un sussurro rauco a fior di labbra prima di annullare completamente la distanza tra di loro. Sentiva il cuore battere all’impazzata, pronto a uscirgli fuori dal petto. Non sapeva se Debbie avrebbe ricambiato il suo gesto impulsivo, ma ne era valsa la pena perché anche se non fossero stati sospesi in aria aveva la sensazione di volare. Si distaccò leggermente per osservare la sua reazione, dentro quella cabina nessuno dei due poteva scappare, ormai il dado era tratto. E se quello non fosse stato un appuntamento?
     
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    Annuì appena, distrattamente, nel sentirgli dire che forse avrebbe iniziato a fare il pendolare da Bergen o che si sarebbe addirittura trasferito a Oslo. Gli dispiaceva l’idea che sarebbe potuto andare via, che si sarebbe dimenticato di lei e delle altre persone che aveva conosciuto in quella città, ma se quello era il suo sogno avrebbe fatto bene a seguirlo e non stava certo a lei cercare di fargli cambiare idea e trattenerlo lì. Perché mai poi? Non erano altro che amici dopotutto. Sorrise invece, per niente a disagio, quando lui fece una battuta sull’affetto che aveva percepito nell’aria mentre parlava dei suoi fratelli. -Si, ma solo quando si tratta di loro. - mormorò quindi, in risposta, senza neppure provare a nasconderlo. Era molto felice del rapporto che aveva con loro e non avrebbe permesso a niente e a nessuno di rovinarlo. Certo, forse a tratti non sapevano capirla davvero e si perdevano i dettagli più schiocchi e alla portata di tutti, ma erano comunque i suoi fratelli e sapeva che loro ci mettevano tutto l’impegno di cui erano capaci. -Ma certo che siamo normali! Come hai potuto metterlo in dubbio? - scherzò lei, quando affrontarono il discorso dei sentimenti e dei problemi con le relazioni. Non era mai riuscita a uscire davvero dal suo guscio con qualcuno sotto quel frangente e forse era per questo che le sue relazioni non erano mai andate avanti troppo a lungo. Non si poteva trascorrere una vita intera al fianco di qualcuno che non era in grado di fidarsi di te, ma lei non era mai riuscita a lasciare che gli altri arrivassero davvero al suo cuore. Era una persona spigliata, solare, le veniva piuttosto semplice fare amicizia e non si considerava certo una persona troppo abbottonata, ma uscire qualche volta con qualcuno e iniziare una relazione seria erano due cose ben diverse e la seconda forse non faceva per lei. Non si sentiva a suo agio con il contatto fisico e temeva di sfiorare davvero le altre persone. Non voleva conoscere i loro desideri, i loro segreti. Era certa che la propria sfera più intima e personale dovesse rimanere al sicuro dentro la mente di ciascuno e non poter essere spiata da persone che avevano una particolarità come la sua. Se avesse potuto cambiarla con qualunque altra cosa lo avrebbe fatto, senza pensarci, ma purtroppo quella città non dava alcuna possibilità di scelta, se non quella di andare via e lasciarsi tutto alle spalle.
    Era curioso tuttavia come alcune persone in quella città sapessero incrociarsi in mezzo ad altri legami senza neppure rendersene conto, come nel caso di Mia. Le avrebbe chiesto qualcosa su Taylor una volta tornata a casa, o forse avrebbe lasciato che fosse il suo istinto a guidarla, ancora per un altro po’. -Assolutamente sì. Dovresti proprio vergognartene. - rispose, con una risata cristallina, continuando sul gioco dell’agenda abbandonata. Era sempre stata piuttosto attratta da quel genere di sciocchezze, quindi era coma sfondare una porta aperta con lei. Anche quando si trovava in macchina con Ali durante gli appostamenti non perdeva mai occasione per cercare di scherzare e alleggerire un po’ la situazione. Non le erano mai piaciuti i musi lunghi sulle altre persone. -Oh andiamo, non è poi così fredda, secondo me c’è di peggio. - aggiunse quindi, cercando di svincolarsi velocemente da quello che le era sembrato un velato complimento e tornare su argomenti decisamente più semplici. -Mi piacerebbe andare in America prima o poi comunque, immagino sia tutto diverso rispetto a questa cittadina sperduta nel nulla. - aggiunse poi, con un sorriso tranquillo e lo sguardo un po’ perso nei suoi pensieri. C’era tanto nel mondo da scoprire, tanto da fare. Una volta espresso il suo disappunto per la scelta del ragazzo di pagare per entrambi e aver risistemato i suoi fedeli guanti, si diressero verso la tappa successiva. Non aveva idea di dove intendesse portarla ma non cercò di scoprirlo prima del dovuto. Non si sentiva in pericolo, né in agitazione, quindi non c’era bisogno di preoccuparsi e cercare di prevedere le mosse di Taylor. Aveva imparato a fidarsi di lui, aiutata forse da quella strana esperienza che avevano condiviso la notte di Halloween. -Certo che sono stata a un concerto! Ah, ma per chi mi hai preso? - domandò quindi, scuotendo la testa con aria fintamente offesa di fronte ad una domanda come quella. Dava davvero l’idea di essere una persona che si muoveva così poco da casa sua? -Negli ultimi anni sono andata spesso insieme a una collega, una della scientifica. - aggiunse poi, forse ritenendo di dover rendere più credibile il suo racconto visto che lui si era posto il dubbio. Il suo sguardo rimase fisso sul paesaggio per la maggior parte del tempo, attratta, come ogni volta, dalle luci colorate della notte. La sorprese vederlo fermarsi di fronte al Luna Park. Lo aveva sentito parlare così male di quel posto che mai si sarebbe aspettata che avrebbe deciso di portarla proprio lì, ma era comunque curiosa di capire che cosa avesse in mente. Attese che lui accendesse le luci e poi lo seguì all’interno delle porte dedicate allo staff, guardandosi attorno con aria piuttosto incuriosita. Non aveva mai visto quel posto privo di persone e doveva ammettere che in quelle condizioni assumeva un’aria decisamente più suggestiva e affascinante. Era possibile cogliere dettagli che normalmente sarebbe stato impossibile vedere in mezzo alla folla che quotidianamente popolava le sue stradine e le attrazioni. -Un disastro eh? Beh, allora forse dovrei davvero impegnarmi per scoprire qualcosa in più. - mormorò, lasciando che una leggera risata facesse da eco alle sue parole. -Cavolo, lo fai sembrare davvero uno schifo così, spegni tutto l’entusiasmo. - mormorò, accennando un leggero broncio da bimba, prima di farsi più seria. -Certo, immagino che ogni lavoro abbia i suoi pregi e i suoi difetti, che non tutti riescono a vedere. - continuò quindi, con un leggero sorriso, mentre continuava a seguirlo.
    Una volta davanti alla ruota, con un ritrovato spirito da bambina, chiese di poter azionare la ruota e lui in cambio chiese di poter azione la sirena della polizia. Rise, visto che tra tutte le cose quella era l’ultima che si sarebbe aspettata di sentire uscire dalle sue labbra, poi annuì. -D’accordo. Affare fatto! - rispose, mentre allungava una mano guantata nella sua direzione per suggellare l’accordo. Ascoltò con attenzione le sue spiegazioni poi, cercando di memorizzare quei piccoli passaggi per evitare di commettere qualche pasticcio che li avrebbe costretti a restare là sopra per tutta la notte. Prese le chiavi che lui le stava sventolando davanti alla faccia e, senza farselo ripetere due volte, si portò davanti alla console, per ripetere le operazioni che lui le aveva elencato, facendo fare anche alla chiave i due scatti aggiuntivi affinchè si fermasse in cima per qualche minuto in più, così da permettere loro di osservare il paesaggio con calma e tranquillità. Una volta effettuati tutti i passaggi entrarono all’interno di una delle cabina e presero posto, eseguendo tutte le istruzioni scritte nel pannello che spiegava come effettuare tutto in sicurezza. Poco dopo, la ruota iniziò lentamente a salire con un leggero dondolio. Sorrise nell’osservare quel paesaggio notturno, decisamente più bello di quello che tanto le piaceva osservare dai finestrini delle auto. Era un tripudio di colori e movimenti che non era semplice riuscire a cogliere e forse per questo tutto sembrava così incredibile, come se non fosse neppure reale. Allungò appena il capo, nel tentativo di osservare più da vicino, di non perdersi neanche un dettaglio di un’esperienza che probabilmente non avrebbe avuto modo di ripetere tanto presto, né tanto facilmente. Annuì, voltandosi nella sua direzione mentre continuava a sorridere davanti alla sua risposta. Il mondo non era un posto semplice e lei lo sapeva bene. Quella sera avevano scoperto alcune ombre nel passato l’uno dell’altra e forse per questo era divenuto un po’ più semplice capirsi, sentirsi quasi due anime affini. -Tutti abbiamo commesso qualche sciocchezza, però sì, la vista da qui è davvero bella. - ammise, senza più cercare di nascondersi dietro qualche battuta. Soltanto quando sentì la sua mano contro il suo viso, nel tentativo di spostare una ciocca di capelli dal suo volto, si rese conto di non aver interpretato del tutto le sue parole precedenti. Si fermò, mentre sentiva il cuore iniziare a battere in maniera un po’ più frenetica all’interno del suo petto e i suoi occhi andavano a fissarsi dentro quello di lui, dove poteva scorgere il suo riflesso dall’aria forse un po’ confusa. La sua mano calda si posò contro la sua guancia, resa un po’ più fredda dall’aria fresca della notte, per poi avvicinare il volto al suo sino a far sfiorare i loro nasi. Quasi neppure colse il significato delle sue parole, troppo concentrata nel guardare di fronte a sé, con il respiro quasi sospeso un attimo prima che le loro labbra si congiungessero. Colta alla sprovvista rimase ferma ancora per diversi istanti, confusa da ciò che non era riuscita a leggere e quindi a prevedere sino a quel momento, anche se con le labbra calde di lui sulle sue tutto sembrava improvvisamente più chiaro e semplice da comprendere. Taylor si discostò abbastanza in fretta, allontanandosi lentamente e leggermente per guardarla, in attesa di una risposta o di qualunque genere di reazione. Solo in quel momento parve finalmente risvegliarsi dalla paralisi in cui era caduta per qualche istante, andando a sua volta ad annullare le distanze tra loro posando lei le sue labbra su quelle di Taylor e allungando una mano verso il suo collo, per avvicinarlo a sé. Il loro rapporto era nato in maniera così spontanea che lei non si era quasi neppure resa conto di quello che stava accadendo, di come i pezzi avessero iniziato a incastrarsi senza neppure il bisogno di cercarli. Si avvicinò di qualche altro centimetro, andando a far combaciare il petto contro quello di lui mentre continuava a muovere le labbra contro quelle di lui senza invadenza. Il tessuto dei suoi guanti andò a perdersi tra i capelli chiari di lui mentre lei respirava a pieni polmoni il suo profumo, rendendosi conto soltanto in quel momento di quanto la sua presenza la facesse sentire più tranquilla. Non avrebbe certo potuto negare che Taylor fosse un bel ragazzo, e non comprendeva come avesse fatto a non pensarci prima. Non sapeva come sarebbero andate a finire le cose, ma in quel momento non le importava. Si separò soltanto dopo diversi istanti, posando per un momento il naso contro il suo, sorridendo appena. -Si, beh, avevi ragione, quello che si vede è abbastanza singolare. - disse di nuovo, stavolta parlando di una vista decisamente diversa da quella che si poteva scorgere all’esterno della ruota. Sorrise di nuovo, mentre sentiva il battito farsi lentamente più regolare e continuava a guardarlo, aspettandosi che, da un momento all’altro, la ruota avrebbe ripreso a muoversi, riportandoli lentamente verso terra. Avrebbe voluto che quei minuti si prolungassero, che i giri della chiave le avessero permesso di aggiungere qualche minuto, ma forse non avevano più bisogno di stare a diversi metri di distanza dal resto del mondo che capire che qualcosa stava iniziando a nascere tra di loro, anche se nessuno dei due avrebbe saputo dargli una forma ben definita.
     
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    Taylor Hoogan

    La serata era trascorsa con un flusso di scoperte, alcune divertenti come l’agenda sedotta e abbandonata in un negozio, altre più importanti e profonde come la morte dei genitori di Debbie. Avevano affrontato argomenti di ogni genere davanti a quell’enorme barca di sushi, ma non era stato il buon cibo a ispirare le loro confidenze. Da quando si erano incontrati la prima volta nel parco, avevano sin da subito trovato naturale parlarsi con sincerità. Probabilmente per quel motivo non si erano mai persi di vista nonostante gli orari molto diversi e le vite opposte che conducevano. Taylor quella sera sentiva che il tempo a loro disposizione era troppo poco, così propose a Debbie di proseguire la loro serata senza dirle dove l’avrebbe portata. Alla sua risposta positiva, si avviarono verso la sua macchina per raggiungere il luogo del mistero.
    ”Ma allora persino le detective hanno tempo per andare ai concerti! Visto che ti piacciono, la prossima volta che vado ti terrò a mente. Non credevo che fossi tipa da folle urlanti e sudate, mhm… che buon odore!” disse con un ghigno divertito sul viso, ricordando con quel commento l’ultima volta che era stato a vedere i Coldplay con Finn: il ragazzo davanti a loro li aveva stesi con la potenza della sua ascella pezzata, ma quello non era un dettaglio che aveva intenzione di condividere. ”Scherzi a parte, sono curioso di scoprire la discografia che hai a casa, anche quella fottutamente imbarazzante!” si appuntò mentalmente di nascondere tutti i suoi cd da adolescente, avrebbe perso troppi punti di credibilità con certi orrori rap anni 90 che ancora teneva in una scatola in fondo all’armadio. Arrivati a destinazione, Taylor fece attendere un attimo Debbie prima di condurla all’interno del luna park completamente deserto. Quel posto sembrava infinitamente grande senza la calca di famiglie e coppiette che vagavano da una parte all’altra, la cui felicità faceva da colonna sonora al Drømme, di solito assieme alla musica degli altoparlanti.
    La risata di Debbie riempì l’atmosfera, spazzando via il silenzio del parco addormentato. ”Neanche tanto impegno, bastano poche domande ben piazzate, come due destri ben assestati. Però non farmi troppo male, detective!” le fece l’occhiolino mentre camminavano l’uno accanto all’altro in direzione della ruota panoramica. ”Lo so che non dovrei parlare così di questo posto, prima o poi finirò col perdere tutti i clienti! Però non sono tagliato per sorridere alla gente, i bambini si spaventano quando mi vedono.” indicò i propri tatuaggi che non erano visti di buon occhio dai genitori che portavano lì i loro figli per divertirsi. Taylor era consapevole di apparire come una persona poco raccomandabile, il suo passato era ancora marchiato sulla sua pelle, chissà se la gente riusciva a leggere le sue storie d’inchiostro. Quella sera non aveva raccontato a Debbie dei suoi tatuaggi più belli, che al contempo erano quelli che parlavano dei suoi vissuti più dolorosi. Sarebbe mai arrivato il momento giusto per rivelarle chi era prima di arrivare a Besaid? Per adesso voleva godersi la sua compagnia che lo faceva sentire bene, riusciva a spogliarsi di tutti i suoi tatuaggi peggiori quando era con lei. Non sapeva come accadesse quella specie di magia, ma in sua presenza poteva essere la persona che aveva celato per anni quando viveva a San Antonio. Non c’era il pregiudizio delle voci sul suo conto a renderlo inavvicinabile lì in Norvegia, pezzo dopo pezzo era riuscito a circondarsi di persone per cui provava un affetto sincero, sentimento a lui sconosciuto per gran parte della sua vita.
    Arrivati davanti alla ruota panoramica Taylor lasciò il comando a Debbie, le spiegò come azionare i comandi e come fare per prolungare la sosta all’apice del giro, in cambio le chiese di poter utilizzare la sirena della sua volante. Si strinsero la mano a suggellare il patto, era curioso di vederla in azione durante il lavoro, che sicuramente era molto più eccitante del suo. Si domandava anche come stesse in divisa, forse gli avrebbe fatto un’impressione diversa, forse avrebbe realizzato davvero che lei era una poliziotta e che il suo passato avrebbe potuto essere un ostacolo insormontabile per loro. Allontanò di nuovo quei pensieri, ed entrarono nella cabina della ruota panoramica, godendosi l’immagine del mondo che rimpiccioliva ai loro piedi. I riflessi delle luci esterne proiettavano un’ombra multicolor sul pavimento dell’abitacolo, illuminando la notte mano a mano che si avvicinavano al cielo. Era la prima volta che portava qualcuno al luna park nell’orario di chiusura, aveva seguito il sussurro del suo istinto quando erano al ristorante, e stava per accadere un’altra volta. Posò la mano sulla guancia di Debbie, accostandosi al suo viso fino ad annullare le distanze tra di loro. Le sue labbra erano morbide e calde, infatti se ne discostò malvolentieri, ma si era accorto che non aveva ricambiato il suo bacio. Taylor si morse la lingua cercando di trovare il modo migliore per giustificare la sua avventatezza. Aveva appena fatto uno sbaglio che avrebbe potuto costargli la loro amicizia, chissà che cazzo gli aveva detto il cervello in quel momento. ”S…” non terminò la frase perché le labbra di Debbie arrivarono a spezzargli le parole in gola. Era il suo turno di essere confuso, forse l’aveva colta di sorpresa e non era riuscita a reagire? Avrebbe avuto tutto il tempo di chiederglielo dopo, inclinò leggermente il capo per accogliere la mano guantata di lei sulla sua nuca. Il suo corpo era attraversato da una sensazione simile a una scossa elettrica per quell’improvvisa vicinanza. Avvolse Debbie tra le sue braccia, facendo scorrere la sua mano destra lungo la schiena di lei. I loro respiri s’intrecciavano come le dita di due amanti, mentre la loro pelle emanava un odore di euforia mista a un aroma fiorato. D’un tratto la gravità pareva essere sparita anche all’altezza dello stomaco. Nessuna di quelle sensazioni era familiare per Taylor, di solito un bacio non era altro che il preludio del sesso, invece percepiva l’insensato desiderio di scoprire quella ragazza passo dopo passo, bacio dopo bacio. Quando lei si discostò per guardarlo negli occhi, si chiese se non ci fosse qualcosa di sbagliato in lui, non era parte integrante della sua natura temere di fare un passo falso con una ragazza. Taylor era abituato a prendersi un rifiuto senza battere ciglio, pronto a sentirsi dare dello stronzo o del coglione, per poi passare al prossimo tentativo. Invece quando Debbie non lo aveva ricambiato in un primo momento, aveva temuto per le conseguenze delle sue azioni. ’Strano…’
    Lentamente la ruota panoramica aveva iniziato la sua discesa verso il basso, le sue orbite metalliche erano di nuovo attratte verso il suolo. Per pochi istanti all’interno della cabina l’unico suono che si sentiva, era quello degli ingranaggi della ruota in movimento. Taylor rimasse a fissare Debbie in silenzio, passando con la mano aperta prima sul suo viso, poi più giù sul collo fino a fermarsi al limitare delle spalle, tornando di nuovo verso l’alto immergendosi nei suoi lunghi capelli. ”Vengo qui su abbastanza spesso, ma non avevo mai apprezzato così tanto un giro su questo ammasso di ferraglia.” le rubò un bacio lungo e lento, godendosi il sapore della sua lingua in collisione con la propria. Si allontanò da lei il minimo indispensabile per prendere aria, senza un confine tra i loro respiri. ”Un gettone per i tuoi pensieri…” finse di inserire una moneta invisibile nell’incavo del suo collo, rivolgendole un sorriso aperto, ma sfuggente come un volatile raro che si librava in volo sulla città. ”Per un attimo ho temuto che mi avresti arrestato per averti baciata, poi ho capito che forse ti avevo solo colta di sorpresa…” c’era una sottile linea di dolcezza che gli solcava le rughe d’espressione, ma non era ancora abbastanza per smorzare completamente la durezza dei suoi lineamenti. Con la coda dell’occhio notò che la ruota si trovava a metà della sua parabola, ”Quando arriveremo a terra, la ruota non si fermerà completamente, ma rallenterà molto. Ci conviene prepararci, non manca molto.” si alzò in piedi , poi allungò una mano verso Debbie per aiutarla ad alzarsi col leggero dondolio della cabina. Si avvicinarono alla porticina, mentre il luna park ai loro piedi si faceva sempre più vicino e definito. Taylor lasciò la mano guantata di Debbie solo per rimuovere il chiavistello quando arrivarono all’altezza della piattaforma di discesa, aprì lo sportello ed uscì per primo, poi si voltò ed aiutò Debbie a fare lo stesso. Rimasero fermi per qualche istante, non sapeva se anche a lei faceva lo stesso effetto l’oscillazione della cabina, ma aveva bisogno di ritrovare l’equilibrio col suolo prima di muoversi. ”Se senti un leggero giramento di testa è tutto normale, passa subito.” ci volle qualche secondo prima che tutto tornasse stabile. Taylor tirò fuori dalla tasca le chiavi del pannello di controllo della ruota, e le lanciò a Debbie. ”Premi il tasto grigio con la targhetta off, poi inserisci le chiavi e girale al verso contrario rispetto a quando hai acceso tutto, fagli fare tre scatti. Ormai sei una vera professionista!” attese che la ragazza seguisse tutte le sue istruzioni, osservando i suoi movimenti mentre l’attrazione rallentava fino a bloccarsi. Mise via le chiavi, passò un braccio attorno alle spalle di lei, e si avviarono lungo il sentiero verso la sala di controllo del luna park per spegnere anche il quadro elettrico. La mano di Debbie raggiunse la sua sulla spalla, mentre avanzavano nella quiete della notte tra i giganti di metallo dormienti. Taylor accarezzò delicatamente il suo palmo con le dita, sentendo il tessuto dei guanti di lei seguire il movimento dei suoi polpastrelli. ”Posso farti una domanda?” il loro cammino si arrestò davanti al cancelletto di ferro che recava una targa bianca con su scritto staff only. Aprì il lucchetto e fece strada a Debbie fino all’ingresso del piccolo edificio su un solo piano che era la sala di controllo. ”Puoi non rispondere, ma… me lo sono domandato più di una volta il perché di quelli.” indicò i guanti della ragazza col capo, mentre entravano nella stanza completamente buia. Ne conosceva ogni centimetro a memoria, infatti non accese la luce per arrivare alla console del quadro elettrico. Taylor raggiunse di nuovo Debbie, ne scorgeva a malapena i lineamenti, accarezzati da un’oscurità liquida. Racchiuse il suo viso tra gli opposti d’inchiostro lost e hope, pensando che in quel momento non si sentiva poi così perso.
     
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    Rise, quando Taylor disse che era curioso di sapere che tipo di discografia aveva in casa, soprattutto quella imbarazzante. Avendo una nipotina piccola, neppure adolescente, erano tanti i cd imbarazzanti che teneva in soggiorno. -Ho un intero reparto dello scaffale pieno di canzoni per bambini.- rivelò, senza alcuna vergogna o paura di fare una pessima figura davanti a Taylor. -La mia nipotina viene spesso a trovarmi e qualche volta mio fratello la lascia a dormire da me, quindi nel corso degli anni mi sono organizzata. - spiegò, in tutta tranquillità, con un dolce sorriso sulle labbra. Adorava la sua piccola Agnes. Era stata preoccupata all’inizio all’idea di diventare zia, poi invece, quando l’aveva presa tra le mani la prima volta, aveva capito che il loro sarebbe stato amore e che nessuno avrebbe potuto dividerle. Non pensava di poter apprezzare i bambini e invece sua nipote le aveva mostrato un altro lato di lei da esplorare e approfondire. Non ci misero molto ad arrivare a destinazione, il Drømme a quell’ora della notte, con tutte le luci spente, sembrava una grossa macchina spenta, dormiente, che nascondeva chissà quali misteri. Rise, quando Taylor disse di non essere tagliato per quel genere di lavoro, che i bambini si spaventavano in sua presenza. -Sono sicura che tu non sia poi così ,male. Ci vuole solo un po’ di impegno e di pazienza con i bambini e poi vedrai, penderanno dalle tue labbra. - gli disse, rivolgendogli un leggero occhiolino divertito. Sapeva di cosa stava parlando visto che anche lei aveva avuto qualche problema con quei piccoletti, ma era dell’idea che tutto fosse risolvibile, con la giusta forza di volontà. Immaginava che i suoi tatuaggi potessero farlo apparire un brutto ceffo, ma in fondo non era certo l’unico ad averli ed era certa che, prima o poi, la società si sarebbe abituata a quel genere di cose, imparando a ritenerle normali. Non stava a gli altri dopotutto decidere cosa ciascuno poteva e non poteva fare con il proprio corpo.
    Si diressero verso la ruota panoramica, la vera protagonista di quel luogo, che si stagliava alta sugli altri edifici. A vederla così vuota poteva fare quasi paura: un enorme mostro di metallo che sovrastava ogni cosa, ma lei non era mai stata una persona che si faceva spaventare facilmente. Ascoltò con attenzione le sue spiegazioni per far funzionare al meglio la ruota e attuò poi passo per passo, facendo attenzione a inserire quel tempo extra di cui lui le aveva parlato. Non aveva voglia di terminare quella serata tanto in fretta e pensò quindi di usare ogni mezzo per cercare di prolungarla, anche solo un minimo. Da lassù le sembrava quasi di galleggiare sul mondo, in una bolla di sapone creata soltanto per loro, dove nulla avrebbe potuto raggiungerli. Come sembravano piccoli i dubbi e i problemi da quella posizione, persino il mondo aveva una luce e una forma diversa. Non ci aveva mai fatto caso quando era salita lassù con Agnes, in mezzo alle luci, alla musica, alle grida di tutte le altre persone. E lontana finalmente dal resto del mondo rimase spiazzata per qualche istante quando le labbra di Taylor si mossero per congiungersi alle sue. Per un attimo tutto attorno a lei iniziò a vorticare, mentre il suo cuore batteva all’impazzata, poi, velocemente, tutto iniziò a farsi ben più nitido e chiaro. Fu quindi lei la seconda volta a spingersi verso di lui, impedendogli di dire qualcosa che avrebbe potuto rovinare il momento e spezzare la magia. Non era abituata a provare certi sentimenti, di solito si lasciava trascinare da relazioni passeggere, senza troppo importanza, doveva poteva continuare a rimanere nascosta dietro la sua corazza, senza che l’altro cercasse di scalfirla. Ma sentiva che con Taylor era diverso e, nonostante la cosa la spaventasse un po’, non voleva comunque precludersi di fare un tentativo. Cercò di smettere di pensare, per evitare di poter rovinare quel momento con qualche sciocco pensiero, con quella stessa paura che le faceva battere il suo, insieme alla voglia di stringerlo a sé e non farlo più allontanare. Era la prima volta che le capitava di desiderare qualcosa del genere per qualcuno che non fosse un membro della sua famiglia, oppure Mia. Fino a quel momento loro erano stati gli unici a cui aveva dato tutta se stessa, senza ergere barricate in sua difesa, sempre pronta ad accoglierli nel momento del bisogno e a far sapere loro che era lì, sempre e comunque. Taylor era arrivato come una tempesta nella sua vita e aveva impattato con forza contro la sua routine, scardinandola dalle fondamenta e ora non poteva dire di esserne delusa. Inspirò a pieni polmoni il suo profumo, mentre si stringeva appena più forte a lui, come se temesse che se avesse lasciato la presa tutto quanto sarebbe sparito, proprio sotto ai suoi occhi. Era una paura sciocca e irrazionale, ma non poteva fare a meno di provarla. Si allontanarono piano, restando in silenzio per alcuni secondi, mentre il cigolio della ruota accompagnava la sua discesa verso terra, che li avrebbe necessariamente riportati alla realtà.
    Lasciò che un sorriso felice e spontaneo comparisse sulle sue labbra quando lui disse che non aveva mai apprezzato tanto come in quel momento un giro sulla ruota. -Potrei dire lo stesso. - rispose, semplicemente, senza lasciarsi andare a troppi giri di parole. Non era mai stato da loro dopotutto nascondersi dietro a troppe parole. Rise, quando lo sentì spaventato dall’idea di venire arrestato solo per un semplice bacio. -Si. So che forse avrei dovuto aspettarmelo ma.. non sono mai stata brava con questo genere di cose, con i sentimenti. - spiegò, abbassando appena lo sguardo, un po’ a disagio nel parlare di quegli argomenti che le erano sempre andati stretti. Annuì, seguendo la sua spiegazione sul modo in cui la ruota avrebbe rallentato, senza tuttavia fermarsi del tutto e che quindi avrebbero fatto meglio a prepararsi, per cercare di scendere velocemente. Prese la sua mano, lasciandosi guidare fuori da quella piccola cabina che li aveva ospitati per diversi minuti. Erano strano ora rimettere i piedi per terra e per un attimo sentì le gambe molli, come le capitava ogni volta. -Lo so, non preoccuparti. Ci sono salita altre volte, ma ogni volta mi da sempre una strana sensazione. - gli disse, cercando di tranquillizzarlo, quando lui provò a spiegarle che sintomi avrebbe potuto causarle e che comunque sarebbero spariti in fretta. Dopo qualche secondo infatti tutto sembrò tornare alla normalità e allora Taylor le offrì le chiavi per spegnere di nuovo la ruota usando il pannello di controllo. Un po’ le dispiacque dove far riaddormentare quel gigante di metallo, ma forse per loro era ora di tornare a casa. Seguì le sue istruzioni e poi gli restituì a Taylor le sue chiavi, per poi dirigersi insieme a lui verso l’uscita del Luna Park, ora un po’ più triste con qualche luce in meno ad illuminarla. Sollevò una mano ad incontrare quella di lui, sulla sua spalla, lasciando che il silenzio aleggiasse su di loro come una coperta invisibile. Si voltò nella sua direzione quando parve intenzionato a farle una domanda, annuendo. Trattenne appena il respiro, buttando poi fuori l’aria con un lungo sospiro, quando le domandò il perché dei suoi guanti. Sapeva che prima o poi quella domanda sarebbe arrivata e anzi era sorpresa che non si fosse impicciato molto prima. -Non so come funzioni la tua particolarità, ma.. io non ho la possibilità di bloccarla e utilizzarla a mio piacimento. - spiegò, cercando di prendere il discorso un po’ più alla lunga e dargli la motivazione effettiva. -E’ sempre stato cos, sin da quando ero bambina ed è stata mia madre a trovare questa soluzione, per proteggermi, in qualche modo, non potendo fare di più. - continuò, lasciando che un leggero sorriso comparisse sulle sue labbra al ricordo di sua madre e della prima volta che erano andate insieme a comprare dei guanti. -Posso percepire i desideri e le intenzioni delle persone se tocco la pelle di qualcun altro con quella delle mie mani. Se ti toccassi il volto o anche soltanto la mano, potrei vedere che cosa desideri di più e non sempre le persone desiderano qualcosa di bello. - spiegò ancora. A volte aveva visto immagini molto belle nella sua mente, aveva percepito gioia e pace, altre invece aveva visto cose che non avrebbe mai potuto dimenticare ed era felice quindi di poter avere un filtro tra se stessi e i desideri più reconditi degli altri. sentì le mani di Taylor andare a posarsi sulle sue guance, mentre la guardava dritta negli occhi, gli sorrise, lasciando un veloce bacio sulle sue labbra, mentre scostava alcuni capelli dal suo volto. -Tu invece? Che cosa puoi fare? - domandò, curiosa di scoprire la particolarità di lui, ora che aveva rivelato la sua. Non si sapeva mai cosa aspettarsi in quei casi, ogni persona poteva avere abilità molto particolarità, tutte molto curiose da scoprire e Taylor non aveva mai fatto parola della sua.
     
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    Sakura Blossom

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    Taylor Hoogan

    ”Vista la sincerità potrei quasi mostrarti la mia collezione di cd rap anni ’90, una cosa davvero imbarazzante. Non so neanche se ricordo dove l’ho nascosta per non guardarla troppo spesso.” una smorfia divertita gli si stampò sulle labbra mentre guardava la strada. ”Anzi dovrei dire cassette, per dirla tutta. Cazzo, se sono vecchio!” paragonata alla musica per bambini, la sua era adatta ai veterani di guerra, nel 2020 nessun ragazzino sapeva cosa fossero le cassette. Per un attimo si soffermò a pensare che lui non aveva nipoti da presentarle nemmeno negli Stati Uniti, era figlio unico, oltre ai suoi genitori e ai suoi nonni norvegesi non c’erano altri familiari. Quelli che erano rimasti a San Antonio li odiavano e li ripudiavano, bella merda di famiglia che si ritrovava. Forse l’unico bambino di cui avrebbe potuto parlarle era il figlio di sua cugina, che non aveva visto nascere per via del fallimento della loro azienda. ”Se avessi degli unicorni tatuati credo che i bambini penderebbero dalle mie labbra come dici tu.” svoltò verso il parcheggio del luna park, finalmente erano arrivati a destinazione.
    La ruota panoramica pareva essere in loro attesa, un pianeta metallico inanimato fino al tocco di Debbie che gli ridiede vita. La loro posizione raso cielo portò una leggerezza d’animo nell’abitacolo quasi consequenziale, Taylor amava quella vista silenziosa e lontana, era convinto che lassù i suoi pensieri fossero privi di gravità. Forse proprio per quello seguì il suo istinto e si avvicinò per baciare Debbie, senza farsi frenare dall’incertezza di non essere ricambiato. Era tutto così diverso con lei, non solo il suo corpo reagiva in maniera differente, ma anche la sua mente elaborava pensieri che non credeva potessero essere suoi. Le sue convinzioni sulle relazioni traballavano pericolosamente, mentre le loro labbra si rincorrevano euforiche. Se lei gli avesse chiesto di esserci l’indomani non avrebbe inventato nessuna scusa, non sarebbe sparito come aveva sempre fatto in passato. Per la prima volta desiderava che ci fosse un noi e un domani. Gli faceva paura questa nuova sensazione, ma voleva viverla e non rimpiangere di averla fatta svanire tra le sue dita sporche d’inchiostro.
    ”Siamo in due, allora.” mosse le mani a scatti come se tenesse qualcosa di bollente che rischiava di far cadere. ”I sentimenti sono come una lingua straniera, come il norvegese quando mi trasferii. Eppure pare che adesso sia migliorato un po’… col norvegese, ovviamente.” una sorta di sorriso divertito si fece strada sulle sue labbra, alla fine non era stato arrestato per aver tentato di baciare un agente di polizia, poteva ritenersi fortunato. Anche se quello non era stato esattamente il suo primo pensiero, non avrebbe ammesso a voce alta che aveva temuto di rovinare tutto con lei. Gli serviva del tempo per imparare a spiegare certe cose a parole, quei discorsi gli sembravano roba da film da diabete, non discorsi che un uomo reale potesse davvero fare nella vita quotidiana.
    La discesa della ruota panoramica era quasi giunta al suo termine, da bravo padrone di casa diede un paio di indicazioni a Debbie, che seguirono insieme. Scesero sulla piattaforma, rimanendo fermi per qualche istante, in attesa che il mondo si stabilizzasse sotto i loro piedi. ”A me da l’impressione di non avere equilibrio appena tocco terra, come se avessi volato per davvero.” quando entrambi diedero segno di essersi ripresi, Taylor lanciò la chiave dei comandi a Debbie per permetterle di spegnere il quadro della ruota. Dopodiché si avviarono lungo il sentiero tra le giostre dormienti, arrivati nella zona riservata allo staff, Taylor sciolse la presa da Debbie per aprire il cancelletto che li avrebbe condotti alla sala di controllo. ”Non so come funzioni la tua particolarità, ma.. io non ho la possibilità di bloccarla e utilizzarla a mio piacimento.” a quelle parole si accese un interruttore nella sua mente, chiederle della sua particolarità comportava che con molta probabilità anche lei gli avrebbe rivolto la stessa domanda. Non era particolarmente allettato dall’idea di rivelarle quale fottutissimo inutile potere gli avesse “regalato” Besaid. Aggrottò la fronte quando Debbie gli disse che avrebbe potuto percepire i suoi desideri. In quel momento probabilmente avrebbe potuto rimirarsi da sola in qualche flash della sua mente, per tutta la serata non aveva desiderato mai di trovarsi altrove o di essere in compagnia di qualcun altro. Magari in un altro momento chissà cosa avrebbe potuto scoprire di lui, a volte non si capiva da solo, figurarsi se fosse stato in grado di anticipare una possibile visione di Debbie. ”Quindi non hai controllo su questa cosa? Dev’essere stato difficile accettare una condizione del genere, soprattutto da bambina.” si avvicinò piano, prendendole il viso tra le mani, guardandola dritto negli occhi nella penombra della di controllo. ”Hai capito troppo presto che il mondo non è tutto buono, non è così?” fece una pausa, non sapendo bene come proseguire. ”Tua madre ha trovato un’ottima soluzione, dev’essere stata una donna molto ingegnosa.” accostò il naso a quello di Debbie sfiorandolo piano col proprio. Rimase immobile per un breve istante quando lei gli chiese cosa sapesse fare. ”La mia particolarità fa ridere.” disse con serietà, senza fronzoli. ”In senso piuttosto letterale, posso far ridere le persone fino al punto di togliergli il respiro… o la vita.” suonava quasi inquietante, era soddisfatto del risultato delle sue parole, non sembrava un potere così ridicolo detto a quel modo. Non voleva intimorire Debbie con quel discorso, ma non aveva intenzione di passare per il clown della situazione, ci mancava solo che se ne tatuasse uno per completare l’opera. ”Odio la mia particolarità, per questo non te ne ho mai parlato prima. Se potessi cambiarla o eliminarla lo farei senza indugi.” mano a mano che parlava la sua voce si riduceva a un sussurro, mentre il suo naso iniziava a tracciare delle linee immaginarie su quello di Debbie, salendo e scendendo su ogni punto libero della sua pelle. ”Non ho molta voglia di andare via…” le disse dopo aver terminato il suo Picasso originale sul viso di lei. ”Potrei prendere la strada più lunga per riportarti alla macchina, magari perdendomi un paio di volte, se per te va bene.” un sorriso sghembo sulle sue labbra che disegnavano le parallele della felicità.
     
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