Break these laws and run through halls

Sofie & Eva - 2002

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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: abuso fisico (esperimenti sui bambini).
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico. Le azioni descritte non sono ad ogni modo condonate e sono diretta responsabilità creativa di chi ha realizzato tali contenuti.


    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: (descrizione di) stato mentale di sofferenza legato all'abuso.
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.

    Eva - 2002 - 7 y/o - Mordersønn Institute

    Eva era un bambino attento per la sua età. Non che potesse avere qualche termine di paragone ma, secondo la sua fantasia fanciulla, reputava di essere in possesso di alcune conoscenze che non condivideva con nessun altro bambino sulla faccia della terra. Sapeva quale peso ed importanza avessero i suoi passi, sapeva anche il modo di renderli silenziosi, impossibili da percepire anche per le persone più attente! Delle volte ci riusciva perfino con il suo respiro: non gli era mai sembrato difficile annullarsi. Sapeva che avrebbe sempre dovuto camminare nelle linee secondarie. Sapeva che osservare l'ampia e bianca schiena di qualcuno che lo guidava era più saggio di mettersi sul fronte, dimostrando la tipica prepotenza e il caratteristico egoismo dei bambini. Sapeva anche che, se avesse osato superare di corsa l'adulto di fronte a sé, si sarebbe gettato con le sue stesse mani in uno dei tanti tranelli del labirinto in cui era stato rinchiuso. Avrebbe potuto creare un paragone con un simpatico gioco da fare in spiaggia: rincorrere e farsi rincorrere dalla risacca, sperando che le piante dei piedi, scattanti sulla banchina, non si bagnassero mai. Ma questo, per la mente di Eva, non era possibile. Aveva imparato a scriverlo correttamente sui suoi quaderni, sapeva descriverlo: blu, immenso, libero. Tuttavia, non era mai stato al mare e quindi avrebbe dovuto inventarsi un altro gioco, un'altra similitudine per quel suo passeggiare dietro il ticchettio delle scarpe di quel regale mantello bianco che per poco non sfiorava il pavimento. Era un equilibrista su una corda sottilissima, un filo di seta di un piccolo ragno. Saltava le righe del pavimento facendo attenzione a non pestarle, perché scorrevano tanti rivoli di lava che ricordavano i capillari espansi e rossastri. Era un prigioniero di una guerra a cui non aveva mai voluto aderire. Si considerava un vero sapiente, non potendo immaginare con quanta facilità avrebbe barattato quelle poche informazioni con un pezzetto d'infanzia di qualche altro bambino. Si fermò per qualche secondo dal camminare, alzando lo sguardo verso il volto talmente alto dell'uomo da sembrare immerso nell'ombra, come la punta di un monte coperta dalle nuvole. Cercò in qualche modo di scrutarne l'espressione, senza ottenere dei veri e propri risultati, pur essendo visibile ed aperto allo sguardo dell'altro. Non andiamo di là? Sembrava chiedere, pur mancando d'espressione nel viso. Conosceva anche la strada per il Laboratorio principale. Il trillo dell'ascensore lo richiamò all'attenzione: una novità? dove sarebbero andati quel giorno? Non gli piacevano le novità e non gli piaceva l'ascensore, perché significava salire in alto. Creatura del sottosuolo, non si sarebbe mai abituato alla distanza di pressione fra l'interno profondo di quel ventre materno, meccanico ed algido, e gli accomodanti salotti che l'attendevano là sopra. Le porte si chiusero e insieme gli si strinse lo stomaco. Non i gemelli. Pregò più volte, stringendosi le mani nelle mani. Non i gemelli.
    «Aspetta qui, Eva». Lasciando ciondolare le gambette corte dalla poltrona, Eva interrogò silenziosamente l'uomo che l'aveva condotto fino a quell'ampia stanza in cui venne presto lasciato da solo. Sprofondato contro lo schienale, incredibilmente piccolo e magro rispetto l'opulenza elegante della sua seduta, non riusciva a scrollarsi di dosso il pensiero di essere osservato. In fondo, lo era sempre e continuamente. Guardò la porta chiudersi e spostò poi lo sguardo verso un quadro, uno specchio, una libreria alta e piena di libri ordinatamente riposti in ordine cromatico. Chi aveva passato tutto quel tempo a riordinare i volumi doveva essere stato pagato davvero tanto! Quel giorno non si sentiva inadatto all'ambiente che lo circondava. L'avevano vestito bene per l'occasione: la cintura tratteneva dei pantaloni marroni, in quello che non poteva sapere essere velluto a coste, che raggiungevano le caviglie e, pur reputandola un po' antipatica e restrittiva per i movimenti, una camicia bianca. Le scarpe erano lucide e un uomo, giovane ma con molta barba, si era occupato di allacciargliele, ripetendogli la tipica filastrocca del coniglio che veniva ricacciato nella sua tana. Il suo primo istinto, nato da un cipiglio ribelle e capriccioso, era stato quello di sfaldare la perfetta composizione: gettare le braccia all'aria, sfilarsi la camicia dai pantaloni, scompigliarsi i capelli biondi, slacciarsi perfino la cravattina che gli scendeva lungo il torace. Ma rimase fermo, perché sapeva di essere osservato. Raccolse una piccola quantità d'aria all'interno dei polmoni e, gonfiando il petto, cercò di mimetizzarsi con la pelle della poltrona; reputò di essere in grado di fare anche quello. Per qualche strana ragione, finì ad interrogarsi sul nome degli uomini che l'avevano portato fino a quel punto e si rese conto di non poter rispondere con chiarezza. Erano pochi i nomi che conosceva; quello di Nikolaj, quello del gemello Jakob, quello del nonno. Parve avvampare per un secondo, portandosi le mani sulle labbra come se avesse pronunciato quel termine ad alta voce. Non gli era mai stato permesso di chiamarlo così e, per qualche secondo, s'era illuso di godere della segretezza della propria mente per potersi permettere una distrazione del genere. Aleksej. Guardò lo specchio, guardò il quadro, guardò la libreria. Nessuno venne a punirlo e poté rilassarsi. Quanto tempo era passato? Forse pochi secondi, oppure minuti, oppure ancora delle ore. Nulla sembrò muoversi in quell'ambiente, non sembrava esistere nemmeno qualche pulviscolo di polvere. Si concesse un po' di noia e, inevitabilmente, un po' di curiosità per sopperire al primo sentimento. Alzandosi dalla seduta e guardandosi attorno, subito lo sguardo di Eva venne raccolto da un oggetto in particolare: una palla di neve in vetro. Non ne aveva mai viste di così piccole ma, forse, non ne aveva mai viste in generale. Era un oggetto bello e, quindi, inutile. Non era come un letto, una sedia, una scrivania, i microfoni o le telecamere. Sapeva che non serviva a nulla e, attratto da esso, vi si avvicinò giusto per scuoterlo, dando vita a quell'universo altrimenti morto, immobile. Si sentiva vicino a quel piccolo pupazzo di neve e captò il proprio sorriso nel riflesso sulla minuscola sfera in vetro. In quel momento, realizzò che quelle accortezze estetiche non erano state pensate per lui.
    Quando poté avvertire lo scatto della serratura, Eva rapidamente poggiò l'oggetto, pregando che non potessero essere intraviste le sue ditate, sperando di averlo riposto nel modo giusto; ma era una sfera! Come sistemarlo meglio? Preso dal panico, abbandonò velocemente quei pensieri per affrettarsi verso la poltrona, lì dove sarebbe dovuto rimanere dall'inizio. Non fece in tempo e, quando due figure fecero il loro ingresso all'interno di quel salotto, Eva era in piedi, le mani colpevoli nascoste dietro la schiena. «Mostrale». L'ordine perentorio gli fece rizzare le spalle e, senza nemmeno battere ciglio, Eva portò i palmi aperti di fronte a sé, passandoseli poi sulle gambe. Stava sudando e non era solo perché era stato ripreso da un'altra donna coperta da un lungo camice bianco, ma per via della presenza di un'altra... bambina? «Signorina Sofie, quello è Eva». Gli occhi cangianti di Eva non poterono fare a meno di fissarsi sulla figura di Sofie. Era la prima volta che poteva ammirare qualcuno del genere, una tenue luce sembrava circondarla. Eva non poté fare a meno, mancando di ulteriori vocaboli per poter rendere giustizia a quella presenza, di pensare che fosse bella. Forse bellissima, sì. Sofie. Non era turpe come i gemelli, al contrario, Eva si domandò se fosse evidente il modo in cui aveva preso a fissarla, affascinato proprio come poco prima. «Ciao». Pigolò, quasi tentennante. Perché il mancare della sua voce lo stupì a tal punto? In fondo, non che fosse un bambino loquace. Parlava piano, parlava poco e parlava, come gli avevano detto più volte, perfino male; a quanto pare aveva una dizione davvero pessima, sembrava sbagliasse di proposito! Per questo, non volendo disturbare nessuno, il più delle volte preferiva il silenzio. Uno sguardo confuso incontrò il suo e, per una seconda volta, venne rimesso al suo posto. «Io mi metterò seduta qui vicino, non la lascio da sola, non si preoccupi signorina Sofie. Lei non deve far nient'altro se non fare quello che fa di solito, va bene?» La donna dai capelli biondi e raccolti in una coda bassa prese posto in una scrivania ampia e scura, appoggiando sulla superficie lignea una serie di moduli su cui, probabilmente, avrebbe registrato le reazioni di una o dell'altro. «Come le dicevo, non si preoccupi di Eva. Lei pensi a rilassarsi e si lasci pure andare, non abbia paura di fargli del male. Lo prenda come un gioco, se può! Un gioco dove scopriamo cosa è capace di fare lei, signorina Sofie, sì? Eva ha una particolarità speciale, non avverte nulla...» Sorrise serenamente a Sofie, accavallando le gambe e rimanendo in attesa. Eva capì il perché del salotto, della palla di neve, dei suoi vestiti, della voce rassicurante della dottoressa: era la terza nipote, vero? Sei tu? La interrogò con lo sguardo, il volto appena chinato, pronto a subire chissà quale reazione da parte dell'altra. E tu che sai fare?

    Edited by Kagura` - 15/3/2020, 03:19
     
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    Non le piaceva. Quel grosso edificio dall'aspetto altisonante, pieno di vetrate e specchi, proprio non le piaceva. Lo guardava da lontano con un timore misto a disprezzo che non le si confaceva. Non capiva perché, di tanto in tanto, il nonno facesse andare sia lei che Niko e Jacob lì per farli esercitare con le loro particolarità. A cosa serviva quell'addestramento? Sofie non aveva alcun interesse nel maneggiare l'elettricità, utilizzava quello strano dono solo per prendere in giro i suoi fratelli o i suoi amici, dandogli piccolissime scosse. Come gioco, niente di più. Non pensava, forse ingenuamente, che potesse farci qualcos'altro, ma d'altra parte nemmeno le interessava.
    Quel giorno era a casa: se ne stava sul suo letto a leggere un romanzo che aveva rubato dalla libreria di sua madre, un grande classico, Orgoglio e pregiudizio. Era scritto un po' complesso, molte parole non le comprendeva e si ritrovava a cercarle sul vocabolario, ma le piaceva la storia, le piaceva quel mondo e, più in generale, le piaceva evadere dalla quotidianità di quella casa. Per quanto amasse la sua famiglia, e l'amava più d'ogni altra cosa al mondo, nonostante i suoi modi bruschi, non riusciva a vivere felice fra quelle quattro mura, quasi come se l'opprimessero. Si sentiva solo vista, mai guardata davvero. Sentita, non ascoltata. Il discorso non toccava Jakob e Nikolaj, sebbene anche con loro, talvolta, si sentisse messa in secondo piano, come se i problemi che l'affliggevano fossero di minore importanza rispetto al loro, rispetto a Frida, rispetto ad ogni cosa.
    Per cui preferiva affogare i propri pensieri nei problemi degli altri, nei disagi che Elizabeth Bennett provava nella sua vita composta da una madre petulante, un padre affettuoso - ma solo a modo proprio - e delle sorelle il cui maggior dilemma era come trovare un buon marito. Non sentì nemmeno il rumore deciso della porta, il toc toc della governante che, dapprima una volta, poi due, poi tre, aveva bussato per ridestarla: alla fine aveva aperto, non potendo far altro.
    «Signorina Sofie, l'auto è venuta a prenderla.» le disse, con la sua giacca in una mano e la sciarpa nell'altra. La bambina sospirò: non aveva voglia di uscire, tantomeno per accontentare suo nonno che, come al solito - e ne era certa - non si sarebbe scomodato per vedere lei. Sembrava più un capo che un familiare. Non riusciva nemmeno a volergli bene, distante com'era.
    Per l'occasione però, quasi come se in cuor suo sperasse in qualcosa che non ci sarebbe stato, Sofie aveva deciso di vestirsi meglio: aveva scelto un vestito azzurro - strano per una come lei, abituata a non indossarne mai -. Aveva le bretelle e lasciava scoperto il petto per mostrare la magliettina bianca che aveva messo sotto. Le scarpe, però, non potevano esser diverse dalle solite scarpe in tela che indossava sempre: erano bianche questa volta, fresche di lavaggio.
    Ripose il libro al di sotto del cuscino, per abitudine, e poi si alzò in piedi per indossare la giacca ed uscire: la governante, dopo averle sistemato la sciarpa attorno al collo, si occupò di rifarle la coda lasciando qualche ciuffetto di capelli laterale, sistemandola al meglio, affinché i padroni non si potessero lamentare di nulla, poi la lasciò andare, augurandole una buona giornata. Sofie camminò piano lungo le scale della dimora e, arrivata alla porta, spalancata, vide Helga all'interno dell'auto: il suo profilo algido era rivolto su verso il basso, verso dei documenti che da lì la ragazzina non riuscì a vedere. La governante richiuse la porta alle sue spalle e, con un tonfo, richiamò l'attenzione della dottoressa che, con un sorriso appena accennato nei confronti della piccola Mordersonn, disse all'autista di andarle ad aprire la portiera.
    «Non mi serve.» fece, imperativa, aprendola da sola e sedendosi accanto alla dottoressa che, dopo aver mormorato qualcosa, disse all'uomo di partire.
    Voleva già tornare a casa e non era nemmeno partita.
    Nella tasca della sua giacca aveva il lettore CD con all'interno un disco con pochissimi brani, perlopiù di musica rock, la sua preferita. Prese le cuffie e le mise sulle orecchie, guardando fuori dalla finestra, come se in quel modo il viaggio potesse diventare più sopportabile: non servì a molto. «Signorina Sofie, siamo arrivati.» le disse Helga, sfiorandole una spalla. Questa volta, Sofie non ebbe il tempo di aprirsi da sola la portiera: l'autista fu più rapido. Si rimise in tasca il suo lettore CD, frettolosamente, come se temesse che potessero portarglielo via. Avrebbe potuto ricomprarlo, ma ci era quasi affezionata, non voleva liberarsene.
    «No, la voglio tenere.» disse, con un tono acido, quasi sprezzante, nel momento in cui un uomo si offrì di metterle via la giacca. Sofie se la sfilò, infilò la sciarpa all'interno di una tasca, e la tenne fra le braccia, seguendo Helga che, al contrario, aveva lasciato la propria ed aveva indossato un camice bianco che recava sulla tasca anteriore una piccola targhetta col suo nome. «Andiamo.» le disse, con un gesto affinché la seguisse. Ad ogni passo, Sofie si guardava intorno, come alla ricerca di uno sguardo amico, forse di suo nonno stesso, e mentre quegli interrogativi si facevano largo nella sua mente, Helga aprì la porta di una stanza che aveva un aspetto diverso, più simile a casa sua. I suoi occhi si erano soffermati su una libreria: a cosa serviva una libreria in quel posto? Certo fu che vedere quella montagna di libri, suoi fedeli compagni da ormai qualche tempo, quasi la rasserenò.
    «Mostrale» Cosa? pensò, senza dar voce a quei pensieri, volgendosi solo verso la persona che aveva pronunciato quell'imperativo, soffermandosi poi su qualcos'altro, anzi, qualcun altro, di interesse ben superiore. C'era un bambino, più piccolo di lei, dai capelli biondi. Era vestito come Jak e Niko quando dovevano vedere Frida. Eva. fece eco nei suoi pensieri, con gli occhi dritti su di lui che stava facendo la stessa cosa. «Ciao» «Ciao.» ripeté, sbattendo appena le palpebre, un po' stupita. Non era quello che credeva sarebbe successo, era convinta che, come al solito, avrebbe dovuto adempiere ai suoi soliti compiti. Cosa poteva fare con un altro bambino? Si voltò verso Helga, in cerca di spiegazioni: non rispose a nessuna delle sue domande mentali. Sofie non aveva paura, non era preoccupata dal rimanere sola con un altro bambino. La sua intera compagnia di amici era composta solo da maschi, della sua stessa età: Eva era persino più piccolo, cosa poteva mai temere?! Lei voleva solo sapere perché ci fosse anche lui, non essere rassicurata. «Come le dicevo, non si preoccupi di Eva. Lei pensi a rilassarsi e si lasci pure andare, non abbia paura di fargli del male. Lo prenda come un gioco, se può! Un gioco dove scopriamo cosa è capace di fare lei, signorina Sofie, sì? Eva ha una particolarità speciale, non avverte nulla...» Aggrottò appena la fronte, confusa. Non aveva alcun senso per lei. Non era come punzecchiare i suoi fratelli, Kai o Roy. Si sentiva a disagio, più del solito. La dottoressa le aveva detto di prenderlo come un gioco, ma nessuno l'aveva mai guardata quando giocava, anzi, meno stava fra i piedi e meglio era per la sua famiglia, nella sua strana logica di bambina.
    Sofie, comunque, forse incapace di dire davvero di no, fece un passo verso Eva, avvicinandosi a lui abbastanza per poterlo toccare se avesse teso il braccio: era un po' più basso di lei, più bambino di una che, pian piano, si stava avviando verso il diventare davvero una signorina. «Io sono Sofi.» si presentò, con gli occhi fissi nei suoi. Ora che gli stava più vicino poteva vederlo: erano diversi, di due colori opposti l'uno all'altro. «Sono strani.» mormorò, inclinando appena il capo ed avvicinandosi. «I tuoi occhi.» chiarì. Uno azzurro, l'altro castano. Non aveva mai visto nulla di simile. «Belli.» aggiunse, sincera. Un colpo di tosse: Sofie si voltò verso Helga che se ne stava alla scrivania fingendo di osservare i fogli che le stavano davanti. Le stava mettendo fretta, quasi poteva sentirla. Odiava quel posto.
    Sollevò un dito, con l'intenzione di dare una piccola scarica elettrica, facendo scivolare l'elettricità lungo tutto il braccio fino a convergere sulla punta del polpastrello, ma prima di sfiorare la mano di Eva si fermò: «Davvero non senti niente?» chiese, ritraendola appena. Era possibile? Non voleva fargli male: Sofie non avrebbe mai voluto far male a nessuno.
     
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    "Io sono Sofi". La sua prima cotta indossava un abito azzurro con delle bretelle, una maglietta e delle scarpe bianche, pulite, talmente minute e graziose da sembrar quelle di una fatina. "Sono strani. I tuoi occhi. Belli". La sua prima cotta, inoltre, gli aveva perfino fatto dei complimenti, portandolo ad alzare di poco il mento da dove l'aveva infossato contro le clavicole, più per paura che per imbarazzo - o forse, anche per quello. "Belli". Non era usuale per lui ricevere in dono delle parole tanto tenere, quello che sarebbe suonato alle orecchie dei più come un semplice complimento. Se non fosse stato già eccessivamente agitato per via di ciò che lo circondava, probabilmente sarebbe arrossito a non finire, chiedendosi il perché di quelle attenzioni, ritirandosi immediatamente sulla difensiva. "Belli". Sofie non poteva saperlo, ma gli aveva appena regalato un po' di speranza, un tiepido raggio di sole in grado di scaldargli il viso. «Grazie», mormorò a fatica ma la sua risposta, pur dal tono più interrogativo che affermativo, venne coperto dal colpo di tosse della dottoressa. Lo sguardo oscillò fra gli occhi di Sofie e le dita della ragazzina che, avendo quasi raggiunto la sua mano, portarono l'intero corpo di Eva ad irrigidirsi, come pietrificato. Strinse gli occhi, quasi fosse stato appena minacciato di ricevere una sonora e pericolosa percossa, come se la mano di Sofie, piuttosto che star per sfiorargli appena il dorso della mano, fosse pronta ad infliggergli uno schiaffo contro il viso. «Davvero non senti niente?» Se lo domandò lui stesso, in quei pochi attimi che lo distanziavano dalla scoperta. Se lo chiedeva spesso. Alle volte non sentiva nulla, altre volte sentiva tutto, troppo, come se pensieri malvagi e disturbanti fossero in grado di penetrargli con i loro fili sottili fra gli anfratti della mente fanciulla. Si strinse nelle spalle, trattenendo il respiro. Cosa sentiva? Avrebbe mai sentito qualcosa? Era vero quello che provava? Io sento tutto. Sento quello che mi fate sentire voi. «Benissimo, signorina Sofie... ha caricato abbastanza la scossa? Mi faccia vedere una bella scintilla, mi raccomando!» Assecondò civettuola la voce della dottoressa, rivolgendo lo sguardo clinicamente concentrato fra i due più piccoli, sorridendo con le labbra ma non con lo sguardo, pur prendendo tutte le accortezze del caso per rivolgersi alla signorina Sofie. Eva si stava ancora mordendo il labbro, incapace di comprendere se avesse potuto - o dovuto - rispondere alla domanda di Sofie, da cui si sentiva stranamente protetto, o rimanere in silenzio, in modo da non ricevere nessuna ulteriore punizione da chi li stava osservando. Sapeva bene che non c'erano solo due occhi glaciali e in grado di forarlo posati sulla sua figura. Optò per il silenzio, chinando perfino lo sguardo, non volendo essere tradito dai suoi stessi pensieri. Aveva deciso di mentire a Sofie e già se ne stava preoccupando, turbato da quell'ipotesi, come se sapesse già di non volerle nascondere nulla, di essere per lei... trasparente. «Un passo avanti». La voce, per quanto meccanica e chiara, sembrò non raggiungere le orecchie del bambino ma, fattasi più alta e presente, lo fece trasalire, fino a fargli alzare gli occhi colpevoli in alto. «Eva, un passo avanti».
    E così fece, girando la mano verso l'alto, incontrando lo sguardo di Sofie mentre le raccoglieva l'indice nel palmo. Non si rese nemmeno conto della velocità con cui gli eventi si susseguirono, ma quando poté sentire un sonoro pop! allora anche i suoi occhi si sgranarono, spaventati e curiosi. Avvertì per nemmeno il tempo di un secondo l'essere attraversato da una leggerissima scarica elettrica, che gli formicolò l'arto fino alla spalla, disperdendosi poi nel resto del suo corpo. Quando si rese conto di ciò che stava succedendo gli parve di sognare: i capelli di Sofie si erano alzati, elettrizzati, espandendosi come se fosse appena entrata con la testa sott'acqua. E, all'improvviso, vennero sciolti dall'elastico che li tratteneva. Eva era meravigliato, come se si trovasse dall'altra parte della superficie, altrettanto colpito da quella scarica elettrica quanto lei, seppur in modo diverso. Aveva scorto nelle increspature dell'acqua il viso meraviglioso di Sofie, allargarsi e prendere incredibilmente spazio. Ne rimase colpito, come incantato da un semplice gioco di magia. «A-ah... scusa! I tuoi... i tuoi capelli. Scusami, non volevo... non volevo rovinarteli». Portandosi le dita a poca distanza dalle labbra, distaccandosi come se fosse stato bruciato da quel contatto, Eva fissò gli occhi sul viso di Sofie. Quasi divertito da ciò che avevano appena provocato insieme, come se fosse stato stretto un segreto contatto fra loro, le labbra di Eva non poterono che arricciarsi appena: pur rimanendo bella, doveva ammettere che quella capigliatura era decisamente buffa. Incorniciato da morbidi boccoli castani, scesi ai lati del suo viso fanciullesco come il calare di una delicatissima e raffinata tenda, il suo volto le parve ancor più bello. Batté furiosamente le palpebre, domandandosi nel giro di qualche attimo una miriade di quesiti sullo stato dell'altra: si sarebbe arrabbiata con lui? L'avrebbe picchiato come di solito faceva Nikolaj? In un tentativo che non portò mai a termine, Eva fece per allungare una seconda volta le dita, quasi pronto a raccoglierne una ciocca e ammirarla da più vicino. Si limitò a lasciarsi scivolare la mano contro i fianchi, colpito da un destabilizzante imbarazzo. «Sono più belli così. Sciolti». Sussurrò, pianissimo, reputando di non poter essere sentito. Non era riuscito a trattenersi, eppure diceva la verità: i suoi capelli erano davvero belli. Sfuggivano all'ordine e, inevitabilmente, lo affascinavano. Tornò a guardare per terra, individuando senza troppa difficoltà il punto d'arrivo dell'elastico che era saltato dai capelli di Sofie.
    «Signorina Sofie! Tutto bene? Come si sente?» La preoccupazione nel volto e nel tono di voce della donna sembrò essere tradita dalla velocità con cui, piuttosto che alzarsi per raggiungere la bambina, si dedicò di appuntare i risultati di quella sorta di esperimento. Le fu, comunque, subito vicina, chinandosi per cingerle le spalle fra le mani. Le dita erano lunghe, curate, inanellate, portava un delicato cerchio d'oro sull'anulare. La stava scrutando con attenzione, alla ricerca di qualche parametro che potesse essere sfuggito alla regolarità, qualcosa che esulasse dai capelli elettrizzati e che puntavano verso l'alto. Eva si domandò se sarebbe stato punito, tuttavia non aveva potuto avvertire nessun tipo di schermo alzarsi, non era entrato con la volontà nei suoi gesti: era successo e basta. Sapendo di non potersi giustificare in nessun modo, rimase semplicemente in silenzio, i suoi sussurri persi nell'agitazione della dottoressa. «Eva, non è permesso rispondere, lo sai. Potevi farle male!». Confuso e intimorito, cercò lo sguardo di Sofie, pur ritraendolo subito per piazzarlo sulle punte delle proprie scarpe, chiedendosi in che modo avrebbe potuto evitare di compromettere ulteriormente quella situazione così da regolarsi, di limitarsi fino a raggiungere lo zero assoluto. «Io non volevo... mi dispiace». Mortificato nell'umore e nel tono di voce, Eva iniziò a farsi sempre più piccolo, microscopico, tenendosi le mani nelle mani e torturandole, muovendo le dita in posizioni che sicuramente gli avrebbero potuto causare un po' di dolore. Trattenne i singhiozzi: era un bambino forte. Era abituato ad essere sgridato per tutto ciò che comprendeva e non poteva comprendere. Non l'ho scelto io, non ho fatto niente. Delle volte il suo corpo sembrava non appartenergli: era come quei vestiti che aveva addosso, quella sedia su cui si era appoggiato poco prima, quella sfera di neve che aveva osservato per qualche momento. Non poteva sapere dove aveva sbagliato, ma non era una condizione necessaria per sentirsi terribilmente in colpa.
    «Cerchiamo di provare una seconda volta. Le andrebbe bene, signorina Sofie?» Allontanandosi con un certo sospetto dalla bambina solo dopo che le rassettò in modo approssimativo i capelli, la dottoressa riprese posto alla scrivania, tornando a fissarli. Le mani dell'adulta non riuscirono a placarli del tutto però: la loro piccola ribellione non era stata del tutto annullata, cancellata dal passaggio dell'ordine. «Eva, sta fermo questa volta. E se riesce, signorina Sofie, ovviamente, se vuole, può anche aumentare un po'... il voltaggio, diciamo. Va bene?» Di nuovo comparve sulle labbra sottili quel sorriso glaciale, che era più una smorfia dei lineamenti del viso che una vera e propria rassicurazione. Gli occhi, vitrei e immobili, parvero divenire uno spillo, come se un paio di fredde telecamere non potessero far altro se non registrare ogni loro piccolo movimento, ogni respiro, ogni incertezza.

    scossa??? ......... vA BEEEENE (teoria gomblottista del gomblotto: CC8 creatura del Mordersønn?? CC8 Helga???)
    volevo metterlo nel dialogo ma avrei rotto la serietà... però sto un po' piangendo
     
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    Eva non rispose. Non le disse niente, si limitò a stringersi appena nelle spalle. Sofie inclinò il capo: perché doveva fargli del male? La voce di Helga le ripeté di caricare una scossa, una bella scossa. Perché? si chiese ancora, immobile, ritraendo appena la mano che aveva sollevato per fare quello che le aveva chiesto. Odiava eseguire gli ordini, ma aveva capito che l'unico modo per tornare a casa presto era quello, per allontanarsi da quell'istituto. Eva ce l'aveva una casa? L'avevano portato lì per farle incontrare lei? «Un passo avanti.» La voce autoritaria di Helga non era gentile come quando si rivolgeva a lei: non lo chiamava "signorino", nonostante fosse ben vestito, non era cortese. «Eva, un passo avanti.» E poi accadde: Sofie spinse appena l'indice contro il palmo della sua mano, senza emettere una scarica eccessiva. Aveva paura, non conosceva la risposta, non sapeva cosa gli sarebbe potuto accadere. Avrebbe mentito alla dottoressa, non aveva paura di lei. Sapeva perfettamente, per quanto piccola, che suo nonno non avrebbe permesso le accadesse qualcosa, al più, si sarebbe beccata l'ennesima tirata di orecchie, ma aveva davvero importanza? Oramai, quelle parole, le scivolavano addosso come acqua fresca. Era più importante non fare del male a un bambino più piccolo di lei. La leggera scossa, tuttavia, non ebbe l'effetto sperato: si sentì lei stessa pervasa da quell'energia, in una maniera bizzarra, strana, non le era mai capitato. Era come se l'elettricità fluisse dall'esterno verso l'interno e non più dall'interno verso l'esterno. I capelli le si arricciarono e si rizzarono completamente, mentre i suoi occhi rimasero per un attimo strabuzzati, perplessi. Sofie sbatté le palpebre, abbassando appena la mano. «Che è successo?» domandò, mentre Eva si scusava con lei accennando un sorriso. I capelli?! La mano, da lungo i fianchi, raggiunse la sua testa, sentendo una massa nodosa e arricciata che ben poco aveva in comune con la coda di cavallo fatta in precedenza. Volse il capo verso uno specchio, poco distante, posto vicino alla grande libreria che adornava quella stanza, e si vide: aveva un aspetto assolutamente ridicolo.
    Una risata cristallina riempì quel silenzio, mentre un sorriso a trentadue denti decorava il volto della bambina che, ancora con le mani sulla testa, cercava - inutilmente - di sistemarsi i capelli. «Sono più belli così. Sciolti» Sofie guardò Eva, che le aveva parlato sottovoce, scuotendo appena il capo, mentre in lontananza vide Helga correre verso di lei e cingerle le spalle: di rimando, Sofie le scrollò appena, volendosela togliere di dosso. Era una sconosciuta, odiava quando la toccavano così tanto, odiava quelle manifestazioni d'affetto, tanto più se false, e non poteva esser diversamente per una che la vedeva soltanto per quegli assurdi esperimenti. «Eva, non è permesso rispondere, lo sai. Potevi farle male!» «Non mi ha fatt---.» Non mi ha fatto niente. Cercò di parlare, ma la voce di Helga, più alta della sua, la sovrastò. «Io non volevo... mi dispiace.» Sembrava sull'orlo di un pianto: le ricordo Jakob, più avvezzo alle lacrime, ma una versione più forte. Non vide nemmeno una goccia salata scivolargli lungo le guance. «Cerchiamo di provare una seconda volta. Le andrebbe bene, signorina Sofie?» No, non andava bene. Helga si allontanò nuovamente, andando a prender posto alla scrivania da dove li stava osservando e da dove stava prendendo degli appunti forse sul loro conto.
    «Eva, sta fermo questa volta. E se riesce, signorina Sofie, ovviamente, se vuole, può anche aumentare un po'... il voltaggio, diciamo. Va bene?» Non rispose, fissa com'era su Eva che se ne stava con lo sguardo basso, un'espressione ben diversa da quella che gli aveva visto assumere prima che la dottoressa arrivasse.
    «Non mi hai fatto niente prima. Non devi dispiacerti.» mormorò, a voce bassa, quasi in un sussurro, inclinando un po' la testa verso il basso, alla ricerca degli occhi di Eva. Gli aveva detto che le piacevano ed era la verità: li trovava particolari, come se uno potesse trasmettere calore - quello castano - ed un'altro... Non sapeva cosa potesse trasmettere, le ricordava il mare. Sì, il mare ed il cioccolato, due tra le sue cose preferite.
    Alzò un braccio, timidamente, questa volta non per scaricargli addosso dell'elettricità, ma solo per fargli alzare il capo: lo poggiò sulla sua spalla, poi accennò un lieve sorriso. «E' stato divertente.»
    Ancora un colpo di tosse. «Allora? Va bene, signorina Sofie?» ripeté, per la terza volta. La bambina sospirò: odiava quella donna, persino più di quanto odiasse ricevere ordini. Era così fintamente gentile con lei quando stava lì, quando la veniva a prendere a casa, così falsa. Perché poi i suoi fratelli e lei dovevano andare in momenti diversi? Non potevano esercitarsi fra di loro? Gliel'aveva chiesto, una volta, ricevendo in risposta solo un "Avete dei doni diversi signorina, bisogna che ognuno faccia delle prove da solo." Ma loro non erano soli, Niko aveva Jakob e Jakob aveva Niko. Lei, dal canto suo, era invece sempre stata sola: Eva era il suo compagno in quelle prove? Lo sarebbe stato per sempre? «Va bene.» rispose, rabbuiandosi appena.
    «Se ti faccio male dimmelo.» Guardando però lo sguardo di Eva, come poco prima, quando gli aveva chiesto se davvero non sentisse niente, ebbe l'impressione che non le avrebbe mai detto niente. Era solo un bambino, persino ai suoi occhi appariva fragile, più fragile di lei.
    Un altro sospiro. Doveva farlo.
    Sfiorò il dito indice di Eva e diede una scarica, più forte della precedente, ma non al suo massimo: avrebbe potuto fare di più, ma aveva paura, qualcosa dentro di lei si era come spento. Non era mai stata in grado di modulare così bene il suo potere. Più volte era capitato che eccedesse, che "esagerasse", magari rompendo qualche elettrodomestico in casa, ma in quella circostanza avvertì l'energia rifiutarsi di fluire. Sentiva l'elettricità che saltava da una sinapsi all'altra, che confluiva lungo ogni nervo e che poi, quasi come per magia, si dissolveva arrivata alla sua mano, diffondendosi nel resto del corpo, risalendo le braccia, il busto, le gambe, i piedi. Dove stava andando tutta quell'elettricità? La stava riversando nel pavimento, senza neanche accorgersene. La lampadina del lume che stava sulla scrivania di Helga esplose in un nuvoletta di fumo, mentre i pezzi di vetro ricaddero sulla miriade di fogli che stavano su di essa. Sofi si staccò da Eva: «Sono stata io?» chiese. Poteva farlo? Eppure era distante, come c'era arrivata? Se solo avesse conosciuto la composizione di quella stanza e fosse stata più grande avrebbe capito che non aveva fatto altro che sfruttare la conduzione attraverso il materiale di cui era fatta quella struttura, ma era davvero troppo da chiedere ad una bambina di dodici anni.
     
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    Conosceva il rumore dell'accendersi di una pila, il sibilante rumore di una telecamera che ne inquadrava la figura, il roteare metallico contro i pavimenti lustri e bianchi, il trillo dell'ascensore, porte che si aprivano, le lacrime di panico e dolore dei gemelli, il suo nome su bocche che non riconosceva e di voci a cui non avrebbe mai potuto dare un nome. Poi, all'improvviso, una risata. Quella risata, la risata di Sofie. Privato com'era di quelle spontanee risposte dell'animo umano, quasi se ne spaventò: era positivo? Oppure si trattava di un segno negativo? Che significava quell'esercizio libero della voce, incontrollato e scalciante, che si alzò nel bel mezzo del silenzio piatto che aleggiava nella stanza? Eva la guardò incuriosito, rapito da quella reazione tanto inaspettata quanto bizzarra per le sue orecchie. E, infine, provò perfino ad imitarla, somigliando più ad un cane anziano che tossiva che ad un bambino che rideva. Ha, ha. Un goffo primo tentativo, ma immaginò che nessuno ci avrebbe fatto davvero caso e, per questo, non ne provò vergogna. Poi venne catapultato nuovamente nelle realtà che conosceva bene, quella delle punizioni e delle voci alterate che si rivolgevano a lui; si rese il più minuscolo che poteva, sperando di poter scomparire nell'ultimo soffio che gli uscì dai polmoni, nonostante si dovette accontentare del fatto che ciò che desiderava di più non sarebbe mai successo.
    Non mi hai fatto niente prima. Non devi dispiacerti. Tuttavia non riusciva a convincersene: si fidava di Sofie come non aveva mai fatto con un'altra persona che non fosse se stesso, però non la comprendeva. Di solito, quando il suo organismo "rispondeva" agli attacchi esterni, senza che lui potesse averne voce in capitolo, eventi più disastrosi si dispiegavano davanti ai suoi occhi. Le persone soffrivano a causa sua e non riusciva a spiegarsi il perché; se solo Sofie avesse potuto assistere ai modi in cui si cimentavano i suoi fratelli, allora si sarebbe ricreduta su di lui. Colpito da una dolorosa fitta di colpevolezza, sperò che l'altra non venisse mai a conoscenza di ciò che succedeva fra altre pareti di quell'assurdo edificio. Eppure, Eva non poteva sapere di non aver ancora tirato le redini del potere che esercitava, di star svolgendo esclusivamente un'eccellente tecnica di difesa e di attacco al contempo: perché, se non volevano finir per piangere dalla disperazione, i gemelli continuavano ad attaccarlo con cupi e tenebrosi stati d'animo? Era arrivato alla semplice conclusione che non avrebbe mai potuto percepire altro. Probabilmente un giorno Jakob e Nikolaj si sarebbero stancati di fargli sentire delle sensazioni pesanti ed asfissianti, ma lui non se ne sarebbe nemmeno accorto, intriso com'era di quell'inchiostro color pece che ne attanagliava le membra. Cercato da Sofie, non poté sottrarsi al suo sguardo, alzando gli occhi e domandandole silenziosamente il motivo di tanta premura. Se prima ne era stato colpito, ora iniziava a temerla, come se avesse potuto vedere il vero Eva al di là di quegli occhi che lei aveva apprezzato in modo tanto sincero. Non voleva ferirla e non voleva deluderla... ma come fare altrimenti, se era tutto ciò che era in grado di fare?
    All'improvviso un contatto annullò ogni altro movimento della psiche di Eva. Un braccio di lei gli si era posato contro la spalla e, confuso ma confortato, si crogiolò appena in quella delicatezza, sperando si trattasse di un comportamento positivo. Inclinò appena il viso, poggiando di poco la guancia gonfia contro quel contatto umano, quindi ne intercettò il sorriso e tutto parve calmarsi. È stato divertente. L'avrebbe cercato più tardi su uno dei suoi dizionari, o forse l'avrebbe chiesto al tutore che in quel periodo si stava occupando di lui, insegnandogli a tenere una penna in mano e a passare la punta di essa contro la carta. Divertimento: allontanamento, digressione, godimento e allontanamento dalle preoccupazioni quotidiane, una composizione dai toni leggeri. Era quella la risata? Era quello il divertimento? In quel momento, inconsapevole di averne già compreso il significato senza rivolgersi a nessun manuale, le labbra di Eva si incurvarono appena verso l'alto, mentre il capo annuiva, dimenticandosi di pensieri fin troppo complessi per una mente fanciulla come la sua. «Sì, divertente». Le fece eco, fidandosi del suo giudizio, ipotizzando che qualsiasi cosa dicesse Sofie fosse giusta e corroborata da anni di esperienza nel campo.
    Dunque attese la seconda scarica elettrica, sperando che Sofie non avesse deciso di dar retta alle parole della dottoressa. Non aveva intenzione di recarle alcun danno, non se lo sarebbe perdonato facilmente. Tuttavia non credeva di essere tanto pericoloso quanto poteva esserlo Sofie stessa che, nel momento in cui lo toccò, innescò una seconda volta quello strano immagazzinare di energia che l'organismo di Eva era in grado di fare. Parve caricarsi al massimo, come se tutte le asticelle degli indicatori avessero raggiunto in una frazione di secondo il loro limite, tuttavia non ne fu sfiancato. Al contrario, raccolta l'energia elettrica, ebbe la sensazione di covarla in sé per un tempo brevissimo, difficile da percepire, fino a quando non la rilasciò di nuovo a Sofie, consegnandole il triplo o forse di più di quello che era stato trasportato a lui. Poi un secondo scoppio, molto più netto e presente di quello dell'elastico di Sofie. Illeso da quello scambio, si girò a guardare la lampadina che si era rotta all'improvviso e strabuzzò gli occhi: si aspettava di tutto e di certo non quello. Ignorante in materia, rimase in silenzio, se non per portare poco dopo lo sguardo su Sofie, poco interessato alle reazioni che Helga dimostrò in quei frangenti che seguirono il risultato dell'esperimento.
    «Sofi... ma tu sei magica?» Le domandò fattosi più curioso e spinto da un bizzarro moto di coraggio, mentre inclinava di poco il viso come se quella nuova prospettiva potesse consentirgli di trovare le risposte che cercava. Sapeva che le lampadine si accendevano e si spegnevano, ma non che potessero spaccarsi all'improvviso! Stranamente colpito da quell'evento inaspettato, Eva porse nuovamente le mani alla ragazzina. In verità non attese che l'altra potesse rispondergli, volendo approfittare della momentanea confusione, soprattutto provata dalla dottoressa e scienziata, che seguì quella peculiare reazione. Le porte non erano state ancora attraversate da individui della sicurezza e, per questo, Eva immaginò di poter avere qualche chance di riuscire in una rocambolesca e vittoriosa fuga con l'altra ragazza. «Vogliamo farlo di nuovo? È stato divertente...» La invitò verso di sé, iniziando a fare qualche passo all'indietro verso l'uscita. Voleva farlo di nuovo, voleva far scoppiare qualche altra lampadina e, magari, qualcosa di più. Una mano si liberò da quelle di Sofie e spinse con forza il pannello della porta. Dietro di loro Helga sembrava essersi ripresa, pur troppo lenta per raggiungerli e acciuffarli prima che la seminassero. «To-tornate immediatamente qui!» La sua voce, interdetta da quella reazione ribelle, era talmente distante da non riuscire nemmeno ad essere in grado di registrarla. C'erano solo loro due e altrettante lampadine da far scoppiare in quel momento, per Eva. I minuti piedi di entrambi iniziarono ad attraversare lussuosi e curati corridoi, sicuramente non ideati affinché due bambini li rendessero un improvvisato parco divertimenti. L'impulso a cui aveva risposto era tanto brillante quanto viscerale, nascosto nell'interiorità fanciulla di Eva che, a quanto sembrava, non sarebbe stata assopita da anni di assoluta immobilità. Sorrideva e scalpitava, trascinandosi dietro Sofie e lasciando che lei prendesse il controllo della loro corsa che non aveva nessun preciso obiettivo se non quello di divertirsi, lasciar libere le voci di alzarsi in risate gioiose. Gli piaceva quella missione, l'avrebbe ripetuta quante più volte l'altra lo avesse desiderato. «Quella! Quella! Fai saltare quella ora!» Le disse mentre, una mano ancora in quella di Sofie, con l'indice puntava ad una lampada che cadeva dal soffitto. Ignorò la stanchezza che stava velocemente divorandogli il corpo, le prime gocce di sangue che stavano già affiorando dalle narici, macchiando i pavimenti e lasciando alle loro spalle e sui suoi vestiti i residui di quel colpo di testa: probabilmente sarebbe svenuto da lì a poco dato che il suo organismo lo stava ammonendo ma, in quei momenti, Eva non riuscì a pensare ad altro che non fosse il continuare a correre e ridere.
     
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    La risata di Eva era strana, assomigliava più ad una strana tosse. Non più strana di quella di Leif, la sua era come il verso di una foca, la più strana mai sentita. Mentre rideva, Sofie si era sfiorata i capelli: assomigliavano più ad una massa informe che ad una chioma ben acconciata di una bambina nata con tutti gli agi che poteva possedere. Sua madre si sarebbe arrabbiata vedendola in quello stato? Quel pensiero sfiorò la sua mente per un attimo infinitesimale. Preferì scacciarlo, non volendo capire da sé che la risposta sarebbe stata negativa: non la guardava nemmeno, l'unica che effettivamente si occupava di lei era la governante, che doveva renderla presentabile, farla apparire ben sistemata e sistemare tutti gli abitini che riportava a casa logori o sporchi di fango. Alle volte, quando la venivano a riprendere, Sofie aveva intravisto anche i genitori di alcuni suoi compagni di scuola: erano sempre arrabbiati quando i figli macchiavano i loro grembiuli con i colori, se ne lamentavano, dicendo che avrebbero perso tanto tempo a smacchiarli a causa loro. Allo stesso tempo, però, oltre alle ramanzine, vedeva anche delle risate, dei sorrisi divertiti nell'osservare in che maniere assurde quei bambini erano stati in grado di sporcare quel candido abitino. Sentiva un nodo al cuore ogni volta, entrando in macchina, guardando da lontano quello che avrebbe potuto avere e che non avrebbe mai posseduto: ci sperava però, Sofie era speranzosa, ogni volta che ritornava a casa con un bel voto lo portava ai suoi genitori fiera, nella speranza di ottenere un sorriso anche solo simile a quelli che aveva visto da lontano, dagli spessi vetri dell'automobile che la riportava presso la villa.
    E i genitori di Eva che ne pensavano? Si preoccupavano per lui? Mentre Helga lo sgridava, smorzando quel breve momento di gioia per i due, senza avere negli occhi alcuna gioia, alcuna pazienza o preoccupazione, la bambina non poté fare a meno di domandarsi lui invece da chi sarebbe tornato una volta finito quell'esperimento. Dov'era casa sua? Non l'aveva mai visto a scuola. Si sarebbe ricordata dei suoi occhi, ne era certa. Era fissa sulle sue iridi, in attesa di avere un attimo per far sentire la propria voce, per dirgli che andava tutto bene, che poteva tranquillizzarsi. Lo fece anche lei quando vide sul volto di Eva spuntare un sorriso e, sfiorandogli la guancia, ne approfittò per tirargliela appena: era morbida. «Come sei buffo così.» gli disse, sorridendo a sua volta, poco prima che la voce di Helga, tuonante, le intimasse di tornare a fare quel che le aveva chiesto.
    Fu strano, completamente diverso da quello che aveva sentito poco prima. Non si era mai sentita tanto potente, come se fra le sue mani l'elettricità non fosse che...acqua? Non riusciva a dare un nome a quello che sentiva, a quell'energia che l'inondava e che fluiva attraverso le sue mani, le sue dita. Rilasciandola, tuttavia, se ne sentì quasi svuotata, libera da un grosso macigno che non credeva di poter reggere. «Sofi... ma tu sei magica?» le domandò Eva. Gli occhi di lei, allo stesso tempo, erano sgranati. Che cosa avevano fatto? «No... Non lo so. Non l'avevo mai fatto prima.» rispose, battendo le palpebre, osservando i frammenti di vetro e tungsteno che si erano riversati qua e là. Teneva entrambe le mani in quelle di Eva che, in realtà, non sembrava la stesse ascoltando molto. «Vogliamo farlo di nuovo? È stato divertente...» «Sì!» La voce di Sofie era entusiasta, piena di quella curiosità fanciulla che ogni bambino possiede quando guarda qualcosa di nuovo, qualcosa di inspiegabile con le poche leggi che conosceva e che per questo, come le aveva detto Eva, sembrava magico.
    Senza lasciare una delle sue mani, il bambino fece pressione sul pannello della porta per aprirlo e lei lo seguì: insieme furono fuori da quella stanza in pochi secondi, cominciando a correre lungo quei corridoi che non le erano mai parsi così belli. Tutte quelle luci a cosa servivano? Sembrava quasi come se oltre ad Eva anche lo stesso architetto volesse prenderli in giro. Rise, divertita da quello stesso pensiero che esternò anche a voce alta, e insieme all'altro spaccò altre lampadine. La voce di Helga li rimproverava da lontano, ma era troppo distante perché potesse distinguere chiaramente le sue parole. Non le importava poi, Sofie non si era mai sentita tanto brava come in quel momento: era la prima volta che usava la sua particolarità insieme a qualcun altro, in quel modo. Si sentiva davvero magica, importante. Sui volti di entrambi trionfavano due sorrisi ed erano soltanto le loro risate che facevano eco in quell'edificio vuoto. Dopo l'ennesima lampadina scoppiata, sentendolo pesante, come se lo stesse trascinando: «Stai bene?» disse, voltandosi verso di lui. Un rivolo di sangue gli era colato dal naso a macchiargli le labbra ed il mento, scivolando sulla camicia e sui pantaloni in velluto che indossava. Non stava bene. Sofie si fermò di scatto, preoccupata, e con quel movimento si ritrovò Eva fra le braccia, svenuto. Lo agitò appena, cercando di risvegliarlo, ma non ci riuscì e sentì il cuore battere forte: era stata lei? Che aveva fatto? Mentre quei pensieri si rincorrevano l'uno all'altro ed il suo petto cominciava a muoversi in maniera più concitata, arrivò Helga insieme ad altri due uomini: «Signorina Sofie, sta bene?» le chiese, guardando soltanto lei. Perché lo chiedeva a lei? Non lo vedeva che c'era qualcun altro a stare male? «Eva... Lui è...» Era troppo agitata. Helga fece un cenno agli addetti alla sicurezza che, senza indugi, presero il bambino e lo tolsero di dosso a Sofie, tenendolo in braccio: «Non si preoccupi signorina, è normale. Lei sta bene?» chiese ancora, toccandole la spalla e parlandole con quel tono fintamente cortese che proprio non riusciva a tollerare. Ancora una volta, scrollò le spalle: «Non mi toccare.» disse, più scortese di quanto non volesse risultare. Era ovvio che stesse bene. Si alzò in piedi e si avvicinò all'uomo che teneva Eva in braccio, ancora dormiente: nel trascinarlo su, gli aveva cosparso il volto del suo stesso sangue e si era macchiato la camicia bianca che indossava. Sofie prese dalla tasca del vestitino azzurro un pacchettino di fazzoletti: la governante glieli dava sempre, sostenendo che dovesse perdere quel pessimo vizio di asciugarsi il moccio sulle maniche. Si alzò sulle punte e, a fatica, arrivò al volto del bambino con le mani, per cercare di pulirglielo alla meglio. Sembrava tranquillo, come se stesse davvero dormendo. «Sta davvero bene?» domandò ancora una volta, più remissiva, più preoccupata, con un tono che non aveva nulla a che vedere col precedente. «Sì.» disse soltanto Helga, questa volta, forse intenerita da quell'atto di disinteressato amore o forse, più probabilmente, per non dover più udire la voce petulante di quella bambina che ai suoi occhi non sapeva mai quando fosse il caso di stare zitta e di eseguire gli ordini.

    Edited by Nana . - 29/4/2020, 10:14
     
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