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Quel giorno Aksell poteva dirsi un po' triste. Non sapeva spiegarsi il perché, tuttavia aveva la sensazione, illogica e legata a nessuna apparente ragione, di non trovarsi in una buona situazione, di star per andare incontro a qualche evento che avrebbe sconvolto la sua solita, monotona, piatta vita. Certo, definire in quei termini la quotidianità di una persona divisa come lui, che si barcamenava fra un'organizzazione illegale che investiva sulle particolarità per ottenere come ultimo risultato delle armi da guerra, due nomi, molteplici maschere e identità, fra cui anche quella di commesso in un negozio di abbigliamento e oggettistica vintage, era un po' stridente. Eppure molto spesso alla tristezza si univa la noia, di quelle più grigie e pesanti, talmente poco digeribili da portarlo ad una sorta di nausea generale per la vita. Esistenzialismi a parte - di cui amava soprattutto i dolcevita aderenti e a collo alto, di quelli che ne slanciavano la figura e si inserivano benissimo al di sotto delle cinture di varie firme -, perché se era la noia il suo problema, reputava negativo l'entrare nella sua routine un elemento nuovo, un dettaglio prima assente che non sembrava vedere l'ora di manifestarsi? La risposta alla domanda si poteva riassumere in un solo termine: controllo. Le innovazioni portavano squilibrio, a cui goffamente ci si doveva abituare per ritrovare il bilanciamento giusto, per calibrarsi una seconda volta (e, se si era sfortunati, pure un numero maggiore di volte), e se c'era un pilastro fondante del comportamento di Aksell era proprio l'attaccamento morboso al concetto di controllo e, in modo particolare, alla detenzione del controllo. Non che gli interessasse il potere - per il momento, ma il pensiero del dominio sul mondo era sempre presente, una vocina latente che non l'abbandonava mai del tutto -, però lo rassicurava sapere di doversi svegliare ogni giorno alla stessa ora, aver già programmati da tempo i suoi impegni, svolgerli, dedicarsi al VintAge tutti i fine settimana e tornare all'Aamot ogni sera, cercando di acchiappare il sonno fissando il soffitto. Per tornare al punto di partenza, perché si sentiva triste e afflitto, se non era cambiato nulla in modo tanto radicale? Forse avvertiva la mancanza di qualcosa. Una forma di fastidio che lo punzecchiava da giorni... che stesse per succedere qualcosa di epocale in quella città? Lo intristiva sempre perdersi gli eventi maggiori, in cui sapeva intrufolarsi con maestria, tuttavia aveva la sensazione di esserne stato irrimediabilmente tagliato fuori. O forse si trattava di un'occasione molto più ridotta nelle dimensioni? Sarà successo qualcosa a lavoro? Si domandò, fermandosi mentre si aggiustava con attenzione il beret a stampa leopardata sulla testa. Probabilmente è solo una sensazione. Cercò di pacificarsi, ravvivandosi i capelli biondi di fronte allo specchio della sua stanza, così da poter sistemare accuratamente ogni ciocca ribelle, spostandola dalla visuale degli occhi che quel giorno si sarebbero presentati, come sempre, di color marrone, celando quello azzurro sotto una lente colorata. Si batté delicatamente le dita contro le guance e, osservandosi più volte, cogliendo lo scintillare dei lunghi orecchini che sembravano delle delicate cascate in argento, si dichiarò pronto a partire per il turno di lavoro. Era un sabato qualsiasi e, come tutti i sabati qualsiasi, Aksell aveva aperto il negozio in perfetto orario, precedendo di almeno un'ora buona l'arrivo del proprietario (il signor Björklund). Di solito si faceva perdonare portando con sé il caffè e qualche dolcetto per la colazione. Il caffè era una bevanda che Aksell odiava particolarmente, ma beveva comunque, perché l'alternativa era scolarsi qualche shot di Bourbon che, al pari di musiche passate che con il tempo aveva iniziato ad apprezzare, sembrava non mancare mai in quel negozio. Aksell aveva degli orari lavorativi un po' assurdi. Ma non che uno nato e vissuto in un laboratorio per topi potesse in fondo conoscere modalità per lamentarsi, per far valere i suoi diritti di lavoratore e di essere umano. Il più delle volte non veniva nemmeno pagato, barattando un più comune stipendio con qualche cintura di Gucci. Non che volesse ribellarsi, alzando in alto il pugno rosso e dimostrando le abilità canore nel dispiegare la voce in un qualsiasi inno socialista di area della Grande Madre - ci sarebbe sicuramente riuscito bene, da bravo e soprattutto modesto conoscitore della lingua -, ma sembrava, quella del signor Björklund, un'attività che non conosceva vere e proprie "pause". Soprattutto nei fine settimana, si dilungava nel trattare coi clienti fino a chiusura inoltrata, come se fosse sul punto di organizzare su due piedi un appuntamento galante piuttosto che stampare un semplice scontrino. Fatto sta che Aksell iniziava alle nove precise e terminava... chissà quando, con la possibilità di qualche piccola pausa per rifocillarsi. Fortuna voleva che non era un ragazzo dal grande appetito, preferendo nutrirsi di poco e arrivando a scartare ciò di cui non si fidava o che non aveva mai provato prima d'ora. Björklund l'aveva chiamato schizzinoso una volta e, sorridente, Aksell aveva concordato. Schizzinoso? Sì. Schizzinoso proprio per non voler essere sorpreso da droghe stordenti nel suo cibo. Maniacale e prono alle teorie del complotto? Forse un po', ma rientrava nella faccenda del controllo e, insomma, non voleva ripetersi. Entrato nel suo reame, solo per almeno un altro po', il bel principe non poté fare a meno di gettare il solito sguardo al cartello affisso in vetrina. Chi si sarebbe proposto, eventualmente, non aveva idea del disordine e della disorganizzazione a cui avrebbe dovuto far fronte. Sospirando pesantemente nello spogliarsi della giacca in pelle che aveva deciso di indossare quel giorno, si guardò attorno: sapeva bene perché il signor Björklund tardava di un'ora il sabato mattina. No, non era per la fila al MoonBucks, ma era perché Aksell si sarebbe dovuto occupare di una settimana - o meglio, cinque giorni - di sua assenza. Sia chiaro, era un signore adorabile e ben disposto alla chiacchiera (forse fin troppo), affascinante come pochi, che aveva attraversato il mondo da parte a parte, borioso e pieno di sé come pochi, ma abile ascoltatore... insomma, un ottimo venditore, di se stesso e della roba che aveva lasciato sparsa ovunque in giro. Cosa fa, non si prova questa? Ho il pezzo adatto a lei. Vuole del Bourbon? Ah, mi vuole proporre questa ingombrante sella di pelle di yak di trent'anni fa? Ah, ha dei caschi che vuole lasciarci della sua Harley Davidson? Sì, quelli sono firmati. E sì, quelli sono autografati... vuole vederli? Non deve comprarli, glieli faccio solo vedere. Vuole per caso del Bourbon? ...Ed è così che sono atterrato sano e salvo! Ha detto di no per il Bourbon? È sicuro? Ogni oggetto che raccoglieva sembrava sprigionare la voce del proprietario, le sue trattative, il suo parlottare allegro e instancabile. Aksell delle volte si chiedeva come avrebbe fatto a sopravvivere un paio di minuti in sua presenza ma, tutto sommato, era arrivato ad abituarsi: come dir di no a tutta quella bellezza che lo circondava? Sospirò, già stanco, battendosi le mani una volta concluso il suo primo incarico della giornata. Aveva mai vissuto uno stato d'animo che non fosse prosciugato di tutte le energie? Probabilmente no, ma ne attendeva con ansia il giorno. Poi, all'improvviso, il tintinnare dall'ingresso. «Allora cadetto, come andiamo? The sun is shining, the birds are chirping... ed ecco il tuo caffè!» Posò la tazza riutilizzabile sul bancone e abbagliò Aksell con un sorriso direttamente dagli States. Bomber di pelle con tanto di morbido inserto in montone, la figura del signor Björklund era... gagliarda. Aveva un'irruenza che non sfociava mai nella maleducazione, vigorosa, estremamente estroversa e gioviale. Sembrava uscito da un fumetto, ma fintantoché era contento e soddisfatto dell'operato del suo "cadetto", Aksell non si sarebbe di certo lamentato del carattere del suo (secondo) capo. «Che fai ancora così? Ti ho portato un regalo». Appoggiò sul tavolo un paio di mocassini a sabot neri, lucidi, in pelle e una sacca in plastica, con gruccia annessa: il cambio del giorno per il suo manichino. Mentre sorseggiava il caffè - zuccherato era un po' meglio -, Aksell ne studiò le forme (x), aprendo con cura la zip e rassegnandosi all'idea che sarebbe tornato a casa con il petto e le caviglie fredde. Non che gli dispiacesse il freddo, ma già immaginava quanti ne avrebbero accarezzato il girocollo, toccato la stoffa della giacca - perché le buone maniere e "tenere le mani al proprio posto" non erano delle direttive ben apprezzate dalla clientela del posto. Non gli sembrava un granché vintage... ma lui era il cadetto e forse quello era un semplice capriccio del proprietario. Chi era lui per non accontentarlo? E soprattutto, chi era lui per non svignarsela nei camerini mentre già quello recuperava la bottiglia di Bourbon? Passarono alcune ore, passò anche il signor Björklund in un andirivieni di chiacchiere, bicchieri, dischi cambiati e Aksell dovette vedersela fra sorrisi, commenti dolci e impreziositi, provi questo e quest'altro e smorfie spaventate ogni volta che decretava il prezzo finale, mentre il proprietario se la rideva sotto i baffi nel sentire il dolce suono della cassa trillare. Finalmente arrivò un po' di pace: dai clienti, da Björklund, da tutto. Rimasero solo lui e Connie Francis, che ora si stava dilettando fra le percussioni di My Happiness provenienti da un giradischi posizionato su un tavolino poco distante, oltre a un catalogo di moda che stava sfogliando distrattamente, flesso nella figura contro il bancone dove veniva ospitata anche la cassa. Ed eccolo, infine, l'evento inaspettato: non si trattava solo di una sensazione, lo sapeva! «Raggio di sole, oggi è il tuo giorno fortunato!» Con lentezza alzò lo sguardo dalle figure patinate e, insieme, si ricompose nella postura, non intenzionato a farsi cogliere in una posizione a tal punto rilassata da quella ragazza. Conosceva Rikke, era una cliente abituale che, quando non riusciva a portar via qualche capo, veniva a spulciare giusto per rifarsi gli occhi. Conosceva Rikke perché era difficile non conoscerla. Aveva lavorato un po' ovunque, conosciuto un po' ovunque... e poi lui era pur sempre un informatore e leggeva le schede dei personaggi. Rimase in silenzio, incuriosito da quell'esordio e soprattutto dall'atipico nomignolo, permettendo all'altra di sventolargli il cartello che solo in un secondo momento riconobbe. Oh... questo è molto interessante. Pensò mentre lo sguardo dalle folte ciglia si assottigliava e il ragazzo non smetteva di osservarla, ascoltandola di conseguenza. «So che non vedi l'ora di lavorare con me», avrebbe dissentito, ma sorrise pacatamente, inclinando appena il viso accogliendo quella supposizione tenera ed entusiasta, per quanto errata. Chinò quindi lo sguardo, raccogliendo il cartello fra le mani: non c'erano scritte specifiche, non venivano fatte richieste particolari, ma era anche vero che lui era solo un cadetto e il signor Björklund non era presente in quel momento. In effetti un'aiutante non gli avrebbe fatto poi così male, ma l'assunzione non dipendeva dalla sua volontà. «Ti giuro che ho esperienza nel settore». Lo sguardo scuro di Aksell tornò sulla ragazza e, finalmente, aprì le labbra per parlare. «Questo lo so bene», le rispose, poggiando quindi il cartello sulla rivista ormai chiusa, ricambiando l'occhiolino in modo scherzoso e un po' criptico. "Come modello saresti perfetto". Alzando appena le spalle, riconoscendo l'ovvietà di quell'affermazione, fece il giro del bancone così da poterla osservare da testa a piedi, senza farsene troppi problemi. Sembrava aver memoria di alcuni pezzi del suo abbigliamento e, se doveva essere sincero, la trovava abbastanza carina. Abbastanza. Perché in generale le persone non gli piacevano un granché. Quando fissò il suo viso, a seguito dell'ultima affermazione, Aksell non poté che rimanerne un po' colpito e, preso contropiede, gli sfuggì perfino una piccola risata. «Oh, davvero? E da dove vengo io?» La punzecchiò, portandosi una mano ai capelli. Le dita affusolate e inanellate da sottili anelli in argento si occuparono di prendere per una seconda volta il cartello, «qui non chiede nemmeno il curriculum. Ma, in effetti, non è stato chiesto nemmeno a me». Osservò, mentre si mordicchiava un angolo della bocca, disfandosi quindi di quella barriera plastificata che aveva messo fra sé e la faccia di Rikke, gettandosela alle spalle. «Per ora il signor Björklund non c'è. Non so quando tornerà... o se tornerà. Sicuramente farà ritorno, ma non so in che condizioni», si abbracciò egli stesso, incrociando le braccia e facendo qualche passo indietro, aspettando quindi che la ragazza sparisse da davanti i suoi occhi, non trovando opportuno scacciarla con un movimento seccato della mano. Ovviamente, non si sarebbe mai permesso. Passò qualche secondo così, quindi poté scorgere alle spalle della ragazza la porta d'ingresso aprirsi. Avrebbe cacciato un grugnito infastidito se solo avesse potuto, ma si limitò a mostrare il miglior e brillante sorriso, trovando l'opportunità ben calzante. «Ma io sono il suo fidato cadetto, sai? Quindi... che ne dici di farmi vedere quanto sei brava?» Si chinò giusto un po' per parlarle piano all'orecchio, facendosi quindi da parte, prendendo comodamente posto dietro il bancone, non certo intenzionato a darle altre indicazioni. Lui era stato gettato in quel modo in quelle acque profonde e anche lei avrebbe dovuto imparare a nuotare in quel modo. «Aksell, tesoro! Dove sei? Dov'è David? Non c'è? Sei solo tu?» Esordì, cagnolino maltese (pelo rigorosamente lungo, stirato) nella borsetta Louis Vuitton, la voce trillante e alta di chi sapeva di essere appena entrata non in un qualsiasi negozio, ma nel suo negozio, nel suo personalissimo guardaroba, dove avrebbe potuto trattare il commesso come meglio voleva fino a fargli perdere tutti i capelli se avesse voluto. Uno ad uno, tirati con la pinzetta. Aksell sorrise, quindi indicò Rikke con la mano dal palmo rivolto verso l'alto. «Signora Grenonat, oggi la seguirà Rikke... non le dispiacerà, vero?» La biondissima cliente sembrava già infastidita, ma tirò un sorriso alla giovane, già pronta a farsi accontentare in tutti i capricci e volatili cambi di idee. «Sì, è uguale. Rikke... che nome! Insomma, basta che mi si faccia provare qualcosa. Sono un po' depressa, devo comprare! È arrivato qualcosa di bello? Di bellissimo? L'ultima volta non mi avete trattato troppo bene... mi raccomando, eh!» Si sentiva più Caronte che San Pietro, in quel momento. Di certo, come ben sapeva, non avrebbe mai dato a Rikke le chiavi del negozio. «Senti non è che mi tieni FrùFrù? Trattalo bene, il mio frugoletto». E affidò il cagnolino bianco alle cure di Aksell. I due si fissarono per un po' uno in una Vuitton e l'altro in Gucci. Chi stava meglio?
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