Somewhere only we know.

Elizabeth&Eden | sera | Casa

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    Elizabeth Elektra Leighton | teacher |manipolatrice dello spazio-tempo | sheet
    “Capì che, non solo ella gli era vicina, ma che ora non sapeva più dove finiva lei e dove cominciava lui.”

    Era stata una lunga giornata, di una lunga settimana, di un mese terribile. Ecco, se Elizabeth fosse stata capace di descrivere il suo umore nell’ultimo mese sarebbe stato di certo terribile. Una volta all’anno si concedeva un weekend fuori porta con Timmy per far visita alla sua famiglia, non superavano mai le 72h soprattutto per la sanità mentale di Elizabeth. Era una rogna dover tornare e sistemare tutto, avere a che fare con il jet lag e con Timmy che piangeva in continuazione perché gli mancavano i suoi nonni. Non aveva tutti i torti, erano passati circa sette anni e Timmy non aveva mai conosciuto Boyd. Boyd. Solo il nome e il ricordo di quegli occhi le causò un lieve tremore al polso sinistro. Elizabeth in tutti quegli anni non aveva mai raccontato a Timmy la verità, o meglio gli aveva solo raccontato piccoli spezzoni e qualche racconto ma aveva convenuto assieme a suo padre di non raccontare mai la versione originale. Elizabeth per sette lunghissimi anni non aveva mai saputo se lui fosse effettivamente vivo o meno. Aveva portato con sé tutte le carte che Boyd le aveva lasciato con la sola promessa che ovunque lui si trovasse in questo maledetto pianeta le avrebbe firmate solo e soltanto in sua presenza. Erano passati sette lunghi anni. Sette anni dove aveva inventato storie fantomatiche su Boyd per darle a bere a Timmy, era stato un famoso astronauta, un soldato fedele alla nazione, un famoso scienziato. Ma la verità è che Elizabeth forse non avrebbe mai conosciuto realmente la vera identità di Boyd e neanche Timmy. Era cresciuto a vista d’occhio e di certo aveva i suoi occhi, azzurri e profondi come l’oceano, aveva la sua tempra piena di vitalità e testardaggine ma era sempre un bambino buono, tranquillo, con un cuore enorme. Gli anni passavano e Timmy si adattava a tutto quello che Elizabeth gli proponeva, insegnava, amava viaggiare con lei ma quello che amava di più è che un pulviscolo di verità Elizabeth gliel’aveva raccontata: Boyd gli aveva voluto davvero bene ed era stato, anche se per un breve tempo, un bravo padre. Non gli aveva mai fatto leggere quella lettera, era rimasta chiusa assieme a tutti gli altri documenti e così gli anni erano passati, i documenti si erano ingialliti ma Elizabeth non aveva mai perso la speranza di ritrovarlo vivo e magari rifilargli due sberle per quel dolore che gli aveva inflitto, per quegli incubi che abitavano la sua mente da sette lunghi anni, per tutte le nuche scoperte che aveva scambiato per la sua in tutti i paesi che aveva visitato. Non si era mai completamente rifatta una vita, si era adattata agi eventi che si erano susseguiti in tutto quel tempo. Tempo, che buffa parola. Da quando Elizabeth era arrivata in questa cittadina qualcosa era cambiato radicalmente, aveva apportato strane peculiarità alla sua personalità, l’aveva trovata adeguata poiché la più grande debolezza e forza di Elizabeth era la nostalgia verso il tempo dimenticato. Le piaceva immergersi nelle vecchie foto, nei vecchi ricordi, in quella sensazione di effimera felicità che si prova quando la testa è libera da pensieri negativi. Poi un giorno era successo. Tra quelle nuche con le chiome bionde, rossicce, l’aveva riconosciuto, ne era certa. Era successo mentre tra una cartella pesante e Timmy a scuola era corsa tra una strada e l’altra perché era in ritardo. Era stato da lontano, un momento fugace. Aveva manipolato il tempo fermandolo di pochi secondi e l’aveva riconosciuto. Avrebbe riconosciuto quella nuca tra mille. Distese le articolazioni della mano destra, la mano che l’aveva carezzato, consolato, odiato, amato come solo un folle può fare. Probabilmente se avesse potuto interferire con quel tempo infame l’avrebbe schiaffeggiato per urlargli che quel dolore non era mai cessato fin quando non aveva scoperto che era vivo. Che era vivo e nella sua stessa città. Si era presa il suo tempo, aveva riordinato i pensieri e per un po’ si era tenuta tutto dentro. L’aveva affossato come si fa con i vestiti vecchi, si era detta che non era possibile ma il suo istinto non mentiva quasi mai. Così si era data all’investigazione privata e con un piccolo aiuto da parte di suo padre l’aveva trovato. Il suo istinto non sbagliava mai e lei lo sapeva. Adesso però avrebbe dovuto raccogliere tutte le sue forze per non piombargli in casa e non fargli una scenata. Aveva così tante domande ma la più importante era quella che si poneva da lungo tempo: aveva davvero voglia di combattere? Aveva voglia di riprovare quel dolore, di ricordare quella vita che non le apparteneva più? Era pronta a spiegare a suo figlio chi fosse quell’uomo che adesso era un completo estraneo? Era pronta a firmare quelle carte del divorzio e mettersi l’anima in pace? Non aveva una risposta a tutte quelle domande che le affollavano la mente mentre preparava la cena e se ne stava lì con il pelapatate che le tremava tra le mani al solo pensiero di ritrovarsi davanti a quegli occhi, a quella voce che sembrava non ricordare più. Con un gesto rapido posò il pelapatate e afferrò la maniglia della credenza per reggersi. Sentì di nuovo quel dolore pervaderle il petto e le gambe, risalire fino alla testa e farla esplodere. Avrebbe dovuto prendere atto di quella rabbia, avrebbe dovuto farci qualcosa, qualsiasi cosa e invece Elizabeth se ne prendeva cura come una pianta da appartamento. Ogni giorno che passava Elizabeth si privava di vivere un giorno felice perché era ancora tremendamente attaccata al passato. Timmy era sulla grande poltrona di vimini che concludeva i suoi compiti e le sorrideva ed Elizabeth si ricordò perché faceva tutto, perché Timothy era l’unica eccezione in quel mondo tanto cattivo. Si erano aggrappati l’uno all’altro come una forza della natura, Elizabeth gli aveva insegnato tutto, come camminare, come scrivere, come leggere, gli stava insegnando come suonare il violino, come andare in bicicletta. Lui invece gli aveva insegnato come amare di nuovo, come essere paziente, come essere semplicemente Elizabeth e lei gli era grata per questo. Cenarono guardando la TV come ogni sera, ma questa sera sarebbe stata diversa dalle solite. Non era un semplice venerdì sera dedicato all’ozio perché il giorno seguente era un giorno di riposo, no. Oggi era un venerdì speciale, oggi era il giorno dove suo figlio avrebbe conosciuto Boyd o meglio suo padre. Elizabeth si era decisa, dopo mille peripezie ad aprire la busta con tutte le informazioni riguardanti Boyd. Ed eccolo di nuovo quel tremolio. Dopo cena aveva riposto velocemente tutto nella lavastoviglie e aveva abbindolato Timmy raccontandogli che sarebbero andati a trovare un vecchio amico. Timmy nonostante la sua età amava passeggiare di sera soprattutto dopo una lunga settimana, amava prendere il gelato alla nocciola mentre la sua piccola manina si ricongiungeva con quella di Elizabeth e così il mondo smetteva di essere un brutto posto almeno per qualche ora. Elizabeth ovviamente mantenne la sua promessa del gelato e dopodiché nella sua Jeep nera si decise ad inserire l’indirizzo sul navigatore. Mai come quella sera guidò con calma, non con la solita fretta e una volta arrivata nel quartiere di Boyd tergiversò girando più a lungo del solito. Parcheggiò la sua macchina poco lontano dalla sua abitazione, poteva scorgere da lontano le luci e le tende che coprivano la grande vetrata della casa. Era una casa diversa da quella a Santa Fè, quella di una vita fa. Guardò Timmy sul sediolino posteriore muovere le gambe per tenere il ritmo e gli sorrise dallo specchietto, si sganciò la cintura e si infilò il cappotto. Con un gesto macchinoso scese dalla macchina, tolse la cintura a suo figlio e se lo caricò in braccio accarezzandogli i capelli ricci. Era un rituale che facevano sempre, ogni volta che lo accompagna a scuola o dalla sua babysitter e a lui piaceva crogiolarsi negli abbracci della sua mamma come quando era piccolo. A piccoli passi e con la mano che tremava si diresse verso la sua abitazione. Era arrivato il momento, davvero. Nel suo zainetto nero c’erano i documenti del divorzio ormai ingialliti e una vita passata che ormai pesava troppo. Si soffermò sullo zerbino alzando piano la mano e premendo il campanello un po’ più a lungo. Aspettò il necessario fin quando non sentì dei passi avvicinarsi alla porta che si aprì quasi spalancandosi. Era come lo ricordava, con qualche segno del tempo che era stato comunque magnanimo con i suoi lineamenti. Ma non mosse mai lo sguardo dal suo, ghiaccio contro il verde immenso di Elizabeth. -Boyd…- Le morirono le parole in gola, tutto quello che avrebbe voluto urlargli si bloccò sul fondo del suo cuore e alla bocca dello stomaco. Era lì. Era lì come lo ricordava, con lo stesso odore e gli stessi occhi color oceano.

    Edited by Elizabeth; - 10/10/2020, 22:32
     
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    Quei calzini di spugna coloravano il pavimento e sembravano attirare la luce come fossero il centro della stanza intera, punto di arrivo per fotoni invisibili. E parte di quel microcosmo si sentiva Eden, granello di pulviscolo che, in controluce intorno a Mia, le cuciva intorno una silhouette sospesa e tremolante. Niente dei loro corpi si toccava, seduti l'uno di fianco all'altra sul piccolo divano avevano trovato comunque il modo di lasciare un minuscolo corridoio tra le loro ginocchia, una bolla d'aria sul punto di scoppiare. In qualche modo infatti sembrava che quei due si sfiorassero comunque e in modo maldestro, un impacciato conoscersi di anime che tutto erano tranne che perfette. Alcuni ancora sanguinanti, altri frammentati, quei due pezzi immateriali si ostinavano a lottare per respingere la sinergia che li voleva vicini, quando invece sarebbe bastato arrendersi per essere felici. Ma era troppo e troppo presto per rischiare di nuovo, quindi corpi e anime si agitavano immobili ai lati della diga, lo spazio sul divano, due oceani a rischio alta marea.
    Mia e i suoi calzini a righe riempivano dunque gli spazi vuoti di quel salone spoglio, in una casa mezza vuota di un quartiere alla periferia della città, uno di quelli uguale a mille altri, abitato da outsiders e randagi. Non c'era molto, in quel soggiorno con cucina a vista, che facesse pensare a casa . A parte bè, Mia e le calze di spugna. Quello che restava era il divano, la piccola televisione accesa su un classico del cinema e un tavolino da due con una sola sedia di legno. Nonostante avesse avuto mesi per disfarli, alcuni scatoloni erano impilati sulla parete di fondo a prendere polvere senza che Eden si decidesse a farsene qualcosa. La verità è che non c'era niente lì dentro che fosse per lui importante, aveva nascosto le pochissime cose che di lui erano davvero rimaste nella cassaforte dietro la replica del bacio di Klimt. In mezzo a qualche pistola c'era un disegno con un uomo, una donna e un bambino davanti a una casa dal tetto rosso fuoco; i documenti originali, passaporto e patente, la fede nuziale, il badge da poliziotto e una singola fotografia, stropicciata dalle tante volte in cui l'aveva stretta. Un rischio, lo sapeva bene, si era spogliato di tutto quanto e non era riuscito a separarsi da quegli ultimi oggetti, pezzi di una persona che non esisteva più, onde perse nelle pieghe di un passato che non sarebbe tornato. O almeno così era credeva.
    Aveva dimenticato come ci si sentisse a fare la pace dopo una discussione, a sentire la presa della perdita allentarsi invece che stringersi nel momento in cui Mia aveva varcato la soglia. Aveva sempre lasciato, Eden. Lasciato scivolare via i paesi, gli oggetti e le persone, anche quelle che contavano tutto. Farlo l'aveva quasi ucciso, ma ci era riuscito. Allora perché sembrava non esserne capace con Mia? In quel momento girò leggermente il collo per guardare quel profilo sconosciuto che, seduto di fianco a lei, si ostinava a puntare verso la televisione con le pupille però immobili e sempre sullo stesso punto, incuranti delle azioni che si susseguivano sullo schermo in cerca di un'attenzione solo apparente, in realtà concentrata altrove. Dove?Sarebbe rimasto un segreto intrappolato fra l'ombra delle ciglia sulle sue guance. A meno che... "Mia?"
    Come una profezia anticipatoria, Merlin decise di salire sul divano e infilarsi in quel momento fra loro, col muso sulle ginocchia del padrone e la coda sulle gambe della ragazza. "Ehi...What's up buddy?" Le labbra si stesero in un piccolo sorriso mentre accarezzava il pastore tedesco dietro le orecchie, nel punto che più di tutti lo faceva impazzire. Tornò con lo sguardo azzurro su Mia, cercando l'ombra di quel segreto fra le ciglia senza più trovarlo. Il momento era passato, infranto da un colosso nero e invadente che senza rendersene conto aveva inspessito la distanza fra loro fino e forse, per sempre.

    Non aveva bisogno di guardare l'orologio per sapere che fosse ormai tardi per una visita, chiunque si presentasse dopo le undici di sera senza invito non lo faceva per bersi due birre, non nel suo mondo almeno. In quella cerchia, una cosa del genere era sinonimo di guai. Si alzò piano ma con decisione dal divano, non voleva spaventare la ragazza ma l'avrebbe protetta a qualsiasi costo. " Shh." Intimò a Merlin che smise subito di abbaiare. Non aveva bisogno neanche di tastare i jeans per ricordarsi di aver messo l'arma nella cassaforte dopo aver scritto a Mia invitandola a venire per un film. Strinse i denti, maledicendo quella romantica idiozia non da lui, per poi rivolgersi con serietà alla moretta. "Vado ad aprire, torno subito. Tu resta qui kiddo." Mentre voltandosi le dava le spalle per dirigersi verso la finestra, Eden sperò di non essere stato troppo brusco con lei. L'idea che potesse succederle qualcosa per colpa sua era intollerabile, ed era esattamente il motivo per cui avrebbe dovuto tenerla lontana da lui e dal pericoloso disordine della sua vita. E invece le si avvicinava ogni giorno di più, che cosa gli diceva il cervello? L'indice e il medio della destra sfiorarono la tenda scostandola di qualche centimetro appena, il necessario perché un'iride di ghiaccio potesse sbirciare la strada. Un profilo sfocato fu tutto quello che riuscì a vedere, la curva di una spalla, una gamba tesa e lunghi capelli mossi dal vento. Scuri, a giudicare dal modo in cui la luna non sembrava riuscire a penetrarli, proprio come con la notte. Aggrottò le sopracciglia, Eden, costringendosi a distogliere lo sguardo da quella figura che pure nel buio risultava famigliare, come qualcosa che dalle tenebre del passato tornava lentamente in superficie. A Besaid e nella sua testa.
    Lasciò perdere la tenda e si voltò verso Mia. È difficile da spiegare, ma un'occhiata così non glie l'aveva mai data prima. Piena e vuota al tempo stesso, come quando sei sul punto di trovare e perdere ogni cosa nello stesso medesimo secondo. Senza aggiungere altro Eden avanzò verso il piccolo ingresso, un buco, una tana semi oscura sprovvista di qualsiasi arredo, un luogo di passaggio sul quale non aveva mai sostato tanto a lungo in vita sua. Si sentiva respirare male, l'uomo, mentre la mano sulla maniglia sembrava appartenere a qualcun altro che non era lui e la mente cercava di trovare una spiegazione per quei sintomi incongruenti. Sapeva e non sapeva, Eden, chi si trovava dietro quella porta, e quando l'aprì lo fece in uno spiraglio, come a temere di poter essere investito da un uragano. In effetti gli sembrò di essere colpito da qualcosa di immensamente potente. Pur senza un vero e proprio scontro, tutto in lui sembrò tremare, un terremoto nelle ossa, nelle vene e negli occhi che non riuscivano a mettere a fuoco. Una fine del mondo a trecentosessanta gradi. Poi quel nome, Boyd, pronunciato da quella voce, una sequenza di alti e bassi brevissima che non pensava di sentire mai più. Il punto focale si fece nitido solo allora, mentre i loro sguardi si toccavano, cielo che sfiora prato.

    Immersioni, coralli e baci d'ossigeno a quindici metri sotto il pelo dell'acqua; passeggiate, escursioni, notti passate a fare l'amore e intere giornate a dormire; lenzuola di cotone, pelle bruciata e capelli che cambiano colore, un paio di labbra su una spalla portano via ciò che resta del mare. Lei sorride, lui è concentrato a imprimersi quella curva sulla retina e non ha il tempo di ricambiare.
    "Faccio una chiamata a casa."
    Lui fa una smorfia.
    "Devi proprio?"
    Un sospiro, gambe che si slegano, corpi pronti a separarsi.
    "Siamo qui da quasi una settimana e non mi sono fatta viva. Penseranno che siamo fuggiti."
    Gomiti che affondano nel materasso, un lenzuolo avvolto al corpo che l'uomo non riesce a smettere di guardare.
    "È a questo che servono le lune di miele. A scappare dal resto."
    La fa sorridere di nuovo, si china a spostare un paio di ciuffi bagnati dalla fronte di lui. Sono biondi di mare.
    "E sentiamo allora, cosa vorresti fare?"
    Ci pensa, anche se non troppo a lungo. L'idea gli gira in testa da qualche settimana, è da un po' che sta davvero bene.
    "Facciamo un figlio."
    Lei lo guarda interdetta, le sopracciglia due vele spiegate.
    È da tanto che non c'è più oscurità, non più voci, non più cose che esistono solo dentro la sua testa.
    "Beth, facciamo un figlio?"
    Dopo un po' sorride ancora, capisce che fa sul serio.
    "E facciamolo, Boyd."
    Stavolta trova il tempo di sorride anche lui.


    Senza essersi mosso di un millimetro Eden tornò bruscamente al presente, un salto immobile in avanti che lo costrinse a stringere la mano allo stipite per non cadere. "Beth?" Finalmente riuscì a trovare la voce, roca e bassa come l'eco di una grotta senza fondo. Era confuso, spaesato, non aveva una razione così evidente da anni, lui che cercava sempre di mantenere la calma. Ma, in quel momento, il cervello faticava ancora a inserire, giustificare e accettare Beth e Timmy sulla soglia di casa sua, lontani miglia e anni luce dal posto in cui appartenevano nel mondo e nella sua testa. Erano passati solo pochi secondi pesanti come anni, ognuno dei sette da quando l'aveva lasciata. Da quando li aveva lasciati. Solo in quel momento recuperò abbastanza coraggio per spostare pianissimo gli occhi alla destra di Beth, dove un altro viso era spuntato dal buio dell'altra vita per imporsi con violenza nel presente. Impallidì ancora di più. "È...?" Cosa, suo figlio? Timothy? Non riuscì neanche a dirne il nome, credeva di aver perso quel diritto da molto tempo ormai. Non gli serviva neanche una risposta, in realtà. Avrebbe riconosciuto suo figlio anche dopo quarant'anni.
    Il bambino, che stringeva le braccia intorno al collo della madre, squadrava Eden stanco e intimidito da quello sconosciuto che doveva avere una faccia stravolta. Perché quello era per lui Eden, uno straniero inquietante in preda ad un'apparente paralisi generale. Fu come provare l'emozione di sentirsi padre per la prima volta e vedersela strappare subito via, uno spazio vuoto pieno solo del ricordo di cosa si provi davvero ad essere un genitore.
    Dovette spostare gli occhi, ridirigerli altrove, persino lo sguardo di Beth era meno difficile da affrontare di quello del bambino. Ad un certo punto credeva di averlo proprio sentito, il suo cuore che si spezzava. Lasciò uno sguardo all'interno della casa, poi uscì sul pianerottolo socchiudendosi la porta alle spalle. "Come hai fatto..." Per la prima volta da un sacco di tempo, Eden non riusciva a pesare lucidamente. Dentro, a pochi passi da loro e ignaro di tutto c'era l'ora, l'adesso che si reggeva su una fune precaria, pericolosa e sottilissima; fuori, lì davanti al lui, il tutto che aveva lasciato indietro e impedito di essere futuro. Le due cose sembravano respingersi come cariche opposte, la vita che aveva era pericolosa per entrambe. " Non è sicuro per te, per voi, essere qui. Non potete stare qui Elizabeth." Qualcosa sembrò scattare dentro di lui, una molla azionata dal pericolo in cui potevano cacciarsi se qualcuno li avesse visti insieme. O forse era da lui che voleva difenderle? D'altronde era stato proprio Eden a ferirli tanti anni addietro. Si morse forte l'interno della guancia con i molari, costringendosi a non pensare così. Stava bene. Doveva stare bene di testa.
    E allora per un attimo tornò l'Eden di sempre, quello guardingo e sulla difensiva, ma con ancora i segni dello smarrimento, della vergogna e della tristezza incastrati fra le piccole rughe intorno agli occhi. Lo sguardo perlustrò il contorno degli oggetti e delle case limitrofe alla ricerca di occhi indiscreti, di un segnale che gli facesse capire d'essere stato smascherato. C'era un motivo se in quei sette anni Eden si era fatto terra bruciata intorno, una ragione più che valida per evitare qualsiasi coinvolgimento emotivo. Con le sopracciglia aggrottate, Eden prese la decisione che avrebbe cambiato tutto quanto. Aprì infatti la porta per lasciarli entrare, posizionandosi di lato come una sentinella davanti alla prigione. "Entra." Le disse senza guardare nessuno dei due, le pupille fisse altrove come spilli nerissimi. Gli succedeva così anche quando lo conosceva lei, durante gli anni di polizia a Santa Fè. Era capitato che, per cercare vendetta, il fratello di un tizio che Eden aveva sbattuto in carcere avesse cercato di rifarsi su di lui e sulla sua famiglia. Eden non era stato pronto e Beth ci aveva quasi rimesso la pelle. Da quel giorno per Eden era iniziata la spirale asfissiante della paranoia, un tunnel senza fondo che l'aveva seguito in tutti quegli anni e che gli si leggeva ora negli occhi. "È pericoloso. Per favore." L'avrebbe presa per un braccio se non fosse stato così maledettamente spaventato, messo k.o. dalla vergogna di ciò che le aveva fatto. Una volta dentro l'uomo chiuse la porta e girò la chiave, sentendosi comunque sulle spine persino in casa sua. Per un attimo ascoltò i loro respiri mescolarsi nel buio dell'ingresso e pensò di trovarsi sotto il cielo senza stelle di Santa Fè, una notte di tanti anni prima quando ancora il male non aveva sporcato le loro vite. Si riscosse subito, non aveva senso rintanarsi nei ricordi e dimenticarsi di vivere. Fece strada nel soggiorno senza emettere alcun suono se non quello dei propri passi, pronto a trovarsi nel mezzo di una situazione che non aveva idea di come gestire. Alla luce del salone tutto sembrò più reale, sguardi prima volarono e poi lo trafissero, convincendo finalmente Eden di non star sognando. Cosa avrebbe dovuto fare, le presentazioni? Entrare era stato come infrangere qualcosa di estremamente delicato, e solo nel prendere la parola Eden riuscì a guardare Mia negli occhi. "Possiamo rimandare? Mi dispiace." Accennò alla televisione ancora accesa, alle birre e ai popcorn mezzi mangiati. Sentiva lo sguardo di Elizabeth contro la scatola cranica spingere come a volerla perforare. L'avrebbe affrontata, sapeva di doverlo fare, ma in quel momento sperava di riuscire a catturare un lembo di cielo azzurro dall'altra parte del divano che, tuttavia, si rintanava sotto la frangetta nera evitandolo accuratamente. Quelli furono istanti tesissimi e imbarazzanti, e quando Eden fece per accompagnare Mia alla porta lei lo bloccò con il gesto svelto di chi vuole trovarsi altrove. Dal canto suo, Eden sentiva di star per sentirsi male, tuttavia continuava a non lasciar trasparire molto dal viso. Solo chi lo conosceva bene avrebbe notato la mascella contratta e lo sguardo spento di chi si sente in colpa per tutto quanto. Beth, Timmy, Mia...Continuava a ferire le persone a cui diceva di voler bene. Allargò le braccia compiendo due passi per accompagnare Mia, quando a ripagarlo ci fu solo il tonfo della porta che veniva sbattuta in tutta fretta.
    Allora il silenzio calò di nuovo, denso e pieno di ogni cosa non detta. Sembrava assurdo ritrovarsi in casa da solo con loro, e a tratti gli sembrava ancora di camminare attraverso un sogno ad occhi aperti. Sospirò mentre si avvicinava al frigorifero per tirare fuori due birre che mise sul tavolo. "Mi sono trasferito da poco, devo ancora comprare quasi tutto. Potete sedervi sul divano." Si scusò quasi per la mancanza di un numero adeguato di sedie mentre indicava loro il minuscolo divano. "Hai fame? Vuole qualcosa?" Non riusciva proprio a rivolgersi direttamente al bambino, come se a non passare per la madre facesse un torto ad entrambi, come se non avesse il diritto di riferirsi a lui in prima persona. In quel momento la doppia vita di Eden si era scontrata, scombussolando ogni equilibrio costruito nel tempo. Incrociò le braccia al petto, ma subito una mano passò rapida fra i capelli biondi per soddisfare un tic che aveva da sempre, e poi sul viso stanco e tirato. Non poteva affrontare quella cosa ora, non era abbastanza in sé da poterne uscire senza creare ulteriori danni. "Perché sei qui?" Non c'era cattiveria nella sua voce né ostilità, ma le parole trasudavano del peso di molte più vite di quelle che aveva vissuto. Finalmente riallacciò lo sguardo a quello dell'ex moglie, scrutando il viso ovale con gli occhi grandi e il naso stretto, gli zigomi definiti e le labbra piene, rivivendo in ognuna di quelle fattezze un pezzo di vita. E anche se erano stati brevemente felici, tutto poi era stato sporcato, calpestato e travolto. Si vergognava ad ammetterlo, ma era solo colpa sua.

    non ho riletto PERDONO!


    Edited by paracosm - 11/10/2020, 12:09
     
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    Mia Bryne non aveva mai desiderato niente da nessuno, mai così ardentemente da perderci la testa o chiedersi fino a dove spingersi affinché la presa delle proprie dita non si allentasse e lasciasse andare tutto anche solo per sbaglio. Stava sulle punte dei piedi, in bilico, cercando di compiere un passo dopo l’altro nella stessa direzione ma ritrovandosi spesso a ritirarsi, tornare indietro e cercare un sentiero appena più calpestabile, qualcosa che potesse fare al caso suo. Che poi, che diavolo avrebbe mai potuto fare al caso suo? Se lo chiedeva in continuazione, da tutta una vita, e solo ultimamente quella domanda aveva trovato risposta in un paio d’occhi chiari come i suoi, riservati come i suoi, insicuri come i suoi. Tentennavano sempre quando si posavano in quelli di Mia, mandando le sue emozioni in subbuglio ed aspirando via tutta la sua compostezza, quella stessa che nascondeva una fragilità familiare a pochi.
    Seduti sul divano a debita vicinanza, pochissimi centimetri a separare gli strati pelle chiara che, come magneti, sembravano volersi mischiare e farsi solo. In quella stanza però tutto sembrava sprigionare parti di Eden, sfumature di quella personalità a lei ancora quasi del tutto sconosciuta e, mentre con le iridi ferme sullo schermo della tv Mia osservava le immagini senza guardarle davvero, con tutti gli altri sensi catturava quanto più le fosse possibile. Le pareti alte e spoglie le ricordavano la sagoma di lui, le spalle appena ricurve e appiattite dalla stanchezza; gli scatoloni immobili e chiusi ancora sul pavimento, Mia li aveva guardati furtivamente chiedendosi cosa potesse esserci al loro interno e non trovando risposte, ma solo altre innumerevoli domande, esattamente come accadeva quando i suoi occhi azzurri si posavano sul volto di Eden e provavano a leggerne le espressioni decifrando ogni più piccola increspatura sulla fronte o di fianco agli angoli delle labbra; le grandi finestre nascoste dietro tende spesse, lasciavano il mondo fuori e tenevano al sicuro tutto quello che vi era dentro, nella parte vuota, nella parte incontaminata, laddove Eden sembrava poter essere finalmente solo Eden, ora Mia riusciva persino ad immaginarselo seduto sulla piccola sedia accostata all’unico tavolino del soggiorno sommerso da pensieri di una solitudine che, forse, avrebbe potuto essere più reale di quanto lei stessa immaginasse; e poi, al centro di tutto quell’intorno, lui. Quando si mosse appena, voltando brevemente il viso nella sua direzione, Mia strinse piano le labbra, posando lo sguardo in quello di Eden per poi abbassarlo piano, tracciando una linea immaginaria lungo la sottile catena di pelle che scendeva insieme al naso, raggiungendo le labbra sottili e appena schiuse, il respiro sembrava spingersi fuori attraverso di esse per avvolgerla e spargere persino nell’aria intorno a loro il sapore di Eden. E in quell’essenza, in quel caos calmo, Mia si ritrovava a desiderare, per la prima volta in tutta la sua vita, di appartenere a qualcuno per davvero. Fu breve e, quando il distacco avvenne, tornò a puntare le iridi sullo schermo senza neanche accorgersi di cosa stesse accadendo: sebbene le pupille si concentrassero nel restare immobili e concentrate sui pixel del piccolo televisore, fu sopraffatta dalla stranissima sensazione di aver perso piccoli frammenti di se stessa, come se le sue iridi fossero rimaste aggrappate allo sguardo di Eden nel momento in cui esse avevano incrociato quelle di lui. Schiuse le labbra passandoci su la lingua per inumidirle mentre, difficile non prestarvi attenzione, Eden -o forse solo i suoi pensieri ad un tratto tremendamente chiassosi- si muoveva silenziosamente al suo fianco. ”Mia?” la chiamò e fu un sussurro quasi istintivo, nuovo, talmente inatteso che, quando Merlin apparve all’improvviso saltando sul divano per sistemarsi dolcemente sulle loro gambe, Mia fu costretta a credere per qualche secondo che il pastore tedesco avesse lo stesso suo appellativo, un eco vorticante in quell’aria ancora pregna di un momento forse importante, rimasto però in bilico nella frazione di un tempo incastrato fra passato e presente. Sollevò una mano portandola sul pelo marroncino di Merlin e lasciando che il palmo si adagiasse cautamente sul corpo del cane mentre la muoveva su e giù e, divertito, lui agitava la coda da una parte all’altra fra le sue braccia. Sorrise divertita, Mia, un’ultima volta ancora quella sera, appena prima che qualcuno s’intromettesse nella quiete che, a forma di un poco stabile castello di carte, sarebbe crollato per terra da un momento all’altro. Quel sorriso, in maniera quasi del tutto casuale e inaspettata, svanì dal viso di Mia nel giro di pochi secondi, giusto il tempo di sollevare lo sguardo sul viso di Eden e ritrovarci preoccupazione. Aveva paura di pochissime cose, Mia, avendo imparato da tutta la vita a farsi forza da sola, a non chiedere mai niente a nessuno. C’era sempre stata solo lei, aveva sempre e solo contato sulla propria forza, anche quando questa qualche volta non era stata abbastanza. Seguì i movimenti di Eden che, come se fosse stato seduto sulle spine fino a quel momento, venne su dal divano in un movimento veloce e altrettanto silenzioso, voltandosi verso di lei e Merlin e facendo segno di non fare alcun rumore. Mia sollevò la mano dal pelo del cane, lasciandolo libero di scendere sul pavimento. Restò immobile con lo sguardo che, dopo aver seguito Eden, si spostò sulle finestre nascoste da quelle stesse tende che prima avevano catturato la sua attenzione, ma in maniera diversa. "Vado ad aprire, torno subito. Tu resta qui kiddo.” si raccomandò Eden appena prima di dirigersi nella stessa direzione in cui si erano posati gli occhi di Mia solo qualche istante prima. Non disse nulla, non avrebbe avuto alcun senso porre domande in quel contesto. Il fatto che Eden fosse così cauto, così guardingo, non era neanche una novità, aveva imparato a riconoscere quel tratto di lui e, sebbene morisse dalla curiosità di sapere perché, di conoscere quella parte di vita che lo aveva spinto ad essere così attento agli spazi e alle persone che lo circondavano, Mia cercava di darsi e dargli ancora altro tempo, mettendo da parte ogni sospetto e cercando di afferrare e stringere anche solo quel poco che lui a lei mostrava. E mentre nella mente della ragazza prendevano vita scenari di una vita che lei forse neanche aveva mai conosciuto, Eden si voltò. La guardò come si guarda qualcosa che sta per distruggersi e no, non c’è alcun modo di salvarla. La guardò come si guarda qualcuno a cui si deve confessare un grande errore, uno sbaglio madornale.
    La guardò esattamente come Mia aveva avuto paura, sin dall’inizio, che lui un giorno avrebbe potuto guardarla.
    Eden? si ritrovò a chiamare quel nome in un sussurro, mentre si drizzava con la schiena e stringeva i pugni chiusi nel tessuto del divano ormai libero di fianco alle sue gambe. Non le rispose, preferendo avanzare in direzione del piccolo corridoio per aprire quella porta. Per un istante Mia si perse nel vuoto e nel silenzio, non accorgendosi neanche del lieve cigolio che si spanse cauto all’interno delle pareti nel momento in cui lui aprì la porta. Con gli occhi puntati sul pavimento, le iridi percorrevano i confini che dividevano tutte quelle assi di legno, girando intorno in attesa, mentre i sussurri che udiva provenire dal piccolo ingresso raggiungevano le sue orecchie e s’infiltravano piano nella sua testa. La voce di Eden, la voce di una donna. Non erano in pericolo di vita, non sarebbe rimasto così calmo, non avrebbe aperto la porta, non avrebbe rischiato di metterla nei guai. E allora c’era altro, allora si trattava di qualcosa che forse non avrebbe ferito nessuno dei due in maniera fisica, qualcosa che forse non avrebbe ferito neanche lui.
    Quando quei piedi si mossero, premendosi con le suole sul pavimento freddo, l’eco che ne scaturì sembrava essersi raddoppiato, generando altri milioni di passi, tutti pronti a riempire quella piccola stanza che ormai sembrava essersi fermata -di nuovo- in qualche spacco rimasto aperto nel tempo. Passato o presente, presente o futuro, questo Mia non fu ormai più capace di distinguerlo. Quando apparvero nel salotto, lo sguardo di Mia restò puntato verso il basso per qualche altro secondo ancora: riconobbe i piedi di Eden e, dietro i suoi, delle scarpe più femminili. Le fu quasi impossibile sollevare immediatamente lo sguardo su di lei, dovendosi costringere a seguire la linea di quelle caviglie fino ai polpacci avvolti in un paio di pantaloni aderenti, le cosce ben definite, fin su alla vita, laddove un altro paio di gambe più sottili si stringevano attorno al corpo femminile che, forse con troppa intensità, Mia stava letteralmente studiando. Bella, per Mia addirittura bellissima, la donna sembrava venire da un pianeta diverso da quello in cui Mia era stata cresciuta. Come la notte e il giorno, le due sembrarono guardarsi non riconoscendo niente l'una dell'altra, ma solo l'ombra di una sagoma scura e alta che se ne stava in piedi al centro delle iridi chiare di entrambe. Quando raggiunse le spalle, superando le mani strette fra di loro di un piccolo bambino dai ciuffi dorati, Mia si accorse del fatto che Eden le aveva appena parlato. Che lui avesse detto qualcosa di importante non poteva più saperlo, quelle parole erano entrate ed uscite dalle sue orecchie come un treno in galleria che si muove veloce nel buio.
    Si sollevò piano, i polmoni affaticati dal turbinio di sensazione che volevano stravolgere tutto il suo corpo, il battito cardiaco che sembrava l’assolo di una batterista heavy Metal. Alzò lo sguardo sul viso di lei, schiudendo le labbra ed annuendo piano nella sua direzione, quasi a volersi scusare e al tempo stesso accusare. Non aveva idea di chi fosse, non aveva idea del perché si trovasse proprio lì, proprio quella sera, e del perché la fronte di Eden fosse così corrucciata mentre la invitata a lasciare l’abitazione. Si sentì tremendamente di troppo, come se fosse stata tirata dentro un gigantesco casino di cui non aveva mai chiesto di far parte. E forse esagerava, forse la sua mente viaggiava sempre troppo, eppure quando finalmente si girò a guardare Eden, non riuscì a trovare più quello che in lui aveva visto fino a solo qualche istante prima. E fu rabbia, frutto di un’idea e un pensiero, di una sensazione incredibilmente reale che la spinse a sentirsi un gioco, un’interruzione pubblicitaria fra un grande film d’amore e uno di guerra. Lo stacco divertente tra un siparietto e l’altro nel mezzo di uno spettacolo teatrale. Fu istantaneo e venne tutto su, a galla, allargando i pori della sua pelle che, Mia avrebbe potuto giurarlo, le sembrò iniziare a sputare fumo e cenere. Scosse il capo, inclinandolo appena di lato e, appena prima di muoversi in direzione della piccola sedia su cui aveva posato lo zainetto nero, guardò finalmente Eden un’ultima volta. Avrebbe potuto fulminarlo, incenerirlo con lo sguardo, incendiare ogni suoi capello. E tutto quello che fino a quell’istante aveva desiderato si trasformò, nella frazione di un secondo, in ciò che mai più avrebbe voluto. A passo svelto lo superò senza altri convenevoli, spalla che sfiora un’altra spalla e muove tempesta, mentre con una mano afferrava velocemente lo zainetto e le scarpe e si avviava verso l’uscita.
    Una volta fuori, zainetto alla mano sinistra e scarpe alla destra, Mia promise a se stessa di non girarsi a guardare attraverso la finestra e di non desiderare mai più qualcosa, qualcuno. Eppure, nel momento stesso in cui, lentamente, si voltò in direzione del vetro, la promessa fatta a se stessa andò in frantumi: tre sagome qualunque che si muovevano alla luce dietro quella tenda e fuori, oltre il vetro, un desiderio inarrivabile che si faceva fiume sulle sue guance.
     
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    Elizabeth Elektra Leighton | teacher |manipolatrice dello spazio-tempo | sheet
    “Capì che, non solo ella gli era vicina, ma che ora non sapeva più dove finiva lei e dove cominciava lui.”

    Elizabeth rimase sull’uscio della porta per un tempo indefinito, le sembrò che la vita avesse smesso di scorrere per almeno dieci minuti buoni. Le dava una sensazione di angoscia quell’attesa interminabile dove tutti i ricordi che le attraversavano la memoria avevano la consistenza degli spilli conficcati sotto pelle. Tedio e rancore, due vecchi amici che avevano fatto capolino da quando era arrivata a Besaid e aveva trovato Boyd, aveva atteso paziente e in silenzio. Aveva meditato se e quando agire, ma ogni volta il coraggio le era mancato sempre un po’ di più, fino a spegnersi completamente. I ricordi di quella vita passata erano pugnali conficcati nel cuore, qualcuno avrebbe potuto estrarli e salvarli ma se fossero stati rimossi velocemente sarebbe morta per emoraggia. Si sentiva così in quel momento, dopo aver aspettato tanto tempo il pugnale era stato rimosso troppo velocemente e adesso stava sanguinando. Sanguinava invisibilmente, come se quella ferita fosse stata aperta dopo sette anni tutto ad un tratto le mancò l’aria. Ma nulla sul suo viso lasciò intendere che Elizabeth stesse perdendo contatto con la realtà, le mani di suo figlio la rassicuravano, le facevano sentire il calore di quella vita presente ma gli occhi di Boyd erano i pugnali che le ricordavano le sofferenze passate.
    Il colpo di grazia arrivò lento, quando la sua voce roca pronunciò il suo nome. Una leggenda narrava che il tuo nome suona diverso per ogni persona che lo pronuncia, cambia a secondo della voce e della situazione. In quel momento il suo nome le sembrò estraneo, appartenente ad una vita passata ad un dolore che sembrò avanzare come un fiume in piena. La saliva le mancò del tutto, la sua gola le sembrò il deserto del Sahara nonostante il clima rigido di Besaid fosse incalzato in quella notte ancora avvolta da un’aria tiepida. Anche Boyd sembrava un nome diverso, un’entità che sembrava non appartenere più a quella vita presente ma solo ad un ricordo passato, una vita parallela. Se solo Elizabeth avesse potuto modificare i ricordi, si sarebbe sforzata ad eliminarlo dalla sua memoria per non soffrire. Forse la cosa che la fece più soffrire fu vedere un’altra donna in quello scenario domestico che le sembrava appartenere. Una punta di gelosia in quell’intimità che lei stessa non aveva voluto più provare perché i documenti nello zaino provavano ancora che lei era sposata ad un uomo che adesso le sembrava un estraneo. Boyd non spiccivava parole di senso compiuto, solo qualche sillaba a destra e manca. Le sembrò di rivivere il passato, di rivivere quella sera. "È...? Come hai fatto…” Elizabeth annuì, ma non c’era traccia di stupore tra i suoi lineamenti. Conosceva suo figlio, ogni angolatura del suo viso, ogni suo capriccio ma Boyd non l’aveva visto crescere, non aveva mai visto i suoi occhi riversati su quelli di Timmy, uguali in ogni sfumatura. Tanti pugnali che Elizabeth aveva imparato a pregare, ad amare, a non scostare per non sanguinare. I riccioli scomposti di suo figlio gli cadevano leggermente sulla nuca e la mano di Elizabeth li accarezzava piano piano, per rendersi conto che era tutto reale. Che loro erano reali.
    <i> " Non è sicuro per te, per voi, essere qui. Non potete stare qui Elizabeth."
    La lama del coltello sembrò scavare ancora di più, adesso il sangue non zampillava più ma scorreva a fiumi. La mascella di Elizabeth era serrata così tanto che il lato sinistro del volto le doleva. In quel momento la ragazza che era stata seduta di spalle sul divano si era alzata ed era andata via senza proferire una parola. Elizabeth si sentì sollevata dal non dover far caso ai convenevoli, se non ci fosse stato suo figlio probabilmente avrebbe tirato uno schiaffo in faccia al suo -ormai ex- marito. Marito. Quella parola le rimbombava nel cervello come un tarlo, la fede di Elizabeth era ancora lì, sul suo dito sottile e affusolato. Era ancora lì e sembrava ricordarle quanto lei fosse rimasta indietro nel passato e Boyd invece aveva costruito una nuova vita. "Entra. È pericoloso. Per favore." Elizabeth si guardò attorno e nonostante l’essere testarda era la sua qualità primaria non se lo fece ripetere un’altra volta. Forse varcare quella soglia era stato più difficile che arrivare qui. Forse, varcando quella soglia Elizabeth avrebbe messo la parole fine a quella storia assurda. La storia del loro matrimonio, delle fughe a Santa Fe, dei cocktail in spiaggia, delle ore passate a fare l’amore al chiaro di luna. Di quella piccola vita gracile e fragile che Elizabeth stringeva tra le braccia. Aveva raccontato tante storie a suo figlio, anche quando era cresciuto non gli aveva mai raccontato che Boyd li avesse abbandonati, non gli aveva mai raccontato dell’incidente. Si era inventata un’altra vita con meno dolore. Quando entrò in casa Boyd chiuse immediatamente la porta a chiave, adesso le sembrò davvero il Sahara senza quella brezza notturna. Ma doveva tenere duro e non lasciarsi andare in stupidi sentimentalismi. "Mi sono trasferito da poco, devo ancora comprare quasi tutto. Potete sedervi sul divano." Elizabeth fino a quel momento non aveva proferito parola, aveva annuito, aveva pronunciato solo il suo nome. Con dolcezza posò a terra Timmy, che le reggeva la mano. Adesso padre e figlio erano uno di fronte all’altro. -Sto…stiamo bene. Timmy ha dormito tutto il tempo sul retro della macchina. - La naturalezza con cui gli parlava sembrava aver annullato i danni del passato. -Non so se ti ricordi…ma ama dormire in macchina.- Timmy sorrise imbarazzato e si nascose dietro le gambe di Elizabeth. Era una sua abitudine quella di nascondersi lì, come se il resto del mondo non esistesse. Anche Elizabeth avrebbe voluto farlo di tanto in tanto. Amare Boyd era stato così, nascondersi dal mondo reale, ma era anche stato come giocare alla Roulette Russa e non sapere cosa e quando il futuro sarebbe crollato come il domino. "Hai fame? Vuole qualcosa?" Boyd non riusciva a pronunciare il suo nome o quello di Timmy ed era evidente. Elizabeth si limitò a scuotere la testa e sorridere leggermente. -No, abbiamo cenato con un mega cheesburger. Timmy vuoi qualcosa?- Il bambino uscì dal suo rifugio e scrollò il capo lasciando che i riccioli ondeggiassero e rimase attaccato alla gamba di Elizabeth. -No graffie.- Il bimbo sorrise a Boyd e per un momento soltanto Elizabeth sperò di poter modificare e bloccare il tempo e lasciare che quell’instante durasse per sempre.
    Poi la domanda arrivò puntuale, precisa, come una bomba pronta ad esplodere. "Perché sei qui?" Elizabeth rise, di gusto, per la prima volta dopo tanti anni. Sulla faccia non c’era traccia di cattiveria, ma solo un grande stupore. Si avvicinò al tavolino accanto al divano, lasciando che Timmy si distraesse guardando la televisione e tornò vicina a Boyd. Forse troppo vicina. -Perché sono qui? Che cazzo di domanda è Boyd? Ti ho cercato per anni, maledizione!- Adesso gli occhi verdi assunsero una sfumatura più scura, la rabbia piano piano risaliva come un fiume dopo aver straripato. Prese dallo zaino una vecchia cartella ingiallita, sbattendola sul tavolo con una forza che fece tremare impercettibilmente una sedia. -Sono qui perché sette anni fa sei scappato come un vigliaccio lasciandomi con il cuore in mille pezzi.- Con la mano sinistra aprì la cartella, i fogli del divorzio erano ancora lì. Immacolati. -Fino a prova contraria, sono ancora tua moglie. Non li ho mai firmati.- La voce era roca, quasi incrinata dal pianto come sette anni prima. -Ti ho cercato per anni, poi sono stata assunta qui e un giorno ti ho visto. Mi ero detta che era impossibile, che forse eri morto. Ma invece eri qui.. Eri vivo e non mi hai mai cercata.- Adesso Elizabeth gli stava ad un palmo dal viso, la mano chiusa a pugno sul suo petto e quel dolore che aveva conservato per anni era proprio lì, fresco d’apertura. -Tu non mi hai mai cercata…mi hai lasciato lì! Come un pezzo di spazzatura Boyd!- Avrebbe voluto spaccare ogni centimetro di quell’insulsa casa, avrebbe voluto fargli male così come lui ne aveva fatto a lei. Così tornò verso suo figlio, gli prese una mano con dolcezza e lo condusse vicino al tavolino. Il bimbo sorrideva a Boyd, noncurante di tutti quegli eventi passati. Elizabeth scostò una sedia e prese Timmy in grembo, sendosi anche per prendere fiato. -Timmy, amore, te le ricordi le storie che ti raccontavo sul tuo papà?- Il bimbo annuì entusiasta. -Sì mamma, è un supereroe!- Elizabeth non gli aveva mai raccontato cattiverie, mai una parola sbagliata. -Ecco, amore, il papà è qui. Ha finito il suo lavoro di supereroe, come ti avevo promesso abbiamo trovato il suo nascondiglio segreto!- La voce di Elizabeth adesso aveva un tono dolce, la voce incrinata dal pianto era andata via. Il voltò di Timmy si illuminò, scese impacciato dalla sedia per correre contro Boyd e abbracciargli le gambe come era solito fare con Elizabeth. -Papà!- Timmy era euforico, Elizabeth riconobbe quell’euforia dai movimenti impacciati, dalle gote rosse. Si alzò passando accanto a Boyd e fermandosi all’altezza del suo orecchio e sussurrandogli -Adesso è il tuo turno, adesso tocca a te dimi dove sei stato e perché sei andato via così finalmente potrò firmare le carte e sarai il mio ex marito.- Lo sorpassò di poco, aveva l’odore di sempre. Si diresse verso il lavandino con la mano tremante e si versò un bicchiere d’acqua. Sarebbe stata una lunga notte.
     
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    Avrebbe fermato il tempo se solo avesse potuto, Eden, avere un momento per pensare. Sette anni dopo era troppo chiedere qualche minuto in più, lo capiva, ma una manciata forse sarebbe bastata a non far precipitare ogni cosa. Cinque minuti, quello chiedeva. Ed era tanto, sfrontato lui anche solo a pensare di meritarlo. Pazzo nel credere che forse, in fondo in fondo, fosse ingiusto che le poche fonti di sollievo rimaste crollassero intorno a lui come torri di fumo. Che Beth e Timmy stessero bene, al sicuro lontano da lui; che Mia bucasse il buio dei suoi giorni come cono di luce in una camera oscura. Non aveva più l'una nell'altra, spazzate entrambe via nell'arco di quanto? Cinque minuti appena, questo il tempo impiegato a rovesciare tutta la sua vita. Di nuovo.
    Capì di aver perso Mia quando gli passò accanto e le loro spalle si sfiorarono, la sua scatenò uno spostamento d'aria che a Eden parve maestrale tanto era rabbiosa. Con gli occhi lo fulminò ma non fu quello a preoccuparlo, sapeva come addolcire quest'ultimi e spiegare che non era come credeva lei. Smontare gli scenari nella sua testa era a tutti gli effetti un lavoro di pazienza, ma a Eden non spaventava. Quello che lo paralizzò fu il tocco, un semplice strofinarsi di materia sottile che però aveva il sapore delle ultime cose.
    Si immaginò stringere il polso di Mia fra le dita e fermarla, impedirle di uscire dall'appartamento e dalla sua vita. Si immaginò voltarsi per spiegarle ogni cosa, dirle come si sentiva nei suoi riguardi. Ma non lo fece.
    Eden la lasciò passare e andarsene credendo qualsiasi cosa stesse immaginando sotto quella frangetta fittissima. Come succedeva troppo spesso, i problemi si presentavano numerosi e tutti insieme costringendo Eden ad affrontarli uno alla volta e dare, purtroppo, la precedenza a uno o all'altro. Con il tonfo della porta si delineò anche la priorità di quel momento che ora lo fissava sotto forma di due paia di occhi, uno curioso e un po' intimidito, l'altro triste e arrabbiato.
    Non gli fu concesso nessun momento in più per realizzare che fosse davvero lì, quella parte del suo passato creduta sepolta aveva fatto irruenza nel soggiorno imponendosi e rivendicando la propria importanza. In tutto quel tempo si era sforzato di sotterrare ogni irrazionalità che potesse spingerlo ad agire di impulso, era proprio a causa di quest'ultimo infatti se aveva perso tutto dal principio.
    Aveva allenato l'autocontrollo fino a imporsi di non respirare per diversi minuti, fino a quando non fosse sicuro d'essere l'unico a capo di corpo e mente, fino a sforzarsi di seppellire tutto quello che poteva diventare un rischio. Solo sul lavoro ancora capitava che mollasse la presa, diciamo che il compito da lui svolto non era tra quelli più rilassanti del mondo. Pensava sempre, Eden, pensava molto prima di muoversi o di parlare, per questo avrebbe volentieri accettato dieci minuti in più per riflettere.
    Ma non gli fu concesso, giustamente. Non se lo meritava.
    Sul punto di cedere al panico, l'uomo faceva di tutto pur di non guardare il bambino. Per paura dei suoi occhi, per paura di cosa vi avrebbe letto dentro, per paura di scoprirli uguali ai suoi, di leggervi amore e di trovarsi a essere sollevato per questo, speranzoso. Di cosa, poi? Di essere di nuovo padre? Che Timmy in qualche modo gli volesse ancora bene? Non lo meritava, non erano al sicuro. Deglutì forte, con fatica. No, doveva bloccare ogni accesso a quel sentimento rischiosissimo. Si sforzava ma le iridi gli remavano contro. Volevano guardare quel bambino biondiccio e memorizzarne ogni dettaglio che il tempo aveva impresso sulla sua piccola persona, così diversa da quella che il cervello ricordava di aver visto l'ultima volta, sette anni prima.
    Fu allora che le che le chiese il motivo della sua visita facendo la figura dello stronzo. Li avrebbe tenuti al sicuro, li avrebbe mandati via a costo di fare la parte dell'insensibile. Tanto c'era abituato, ormai. La guardò avvicinarsi di petto a lui, occhi e parole furibondi. Lasciò che sfogasse tutto su di lui perché era giusto così. «Abbassa la voce.» Gli occhi si alzarono, lo sguardo che superava Beth per posarsi sul capo di Timmy, intento però a guardare la televisione. Cercò di rimanere impassibile, ma ai veri stronzi cade la faccia a pezzi dal dolore? Guardarla tirare fuori non solo i fogli del divorzio ma tutti quei sentimenti lo colpì duramente e un po' ovunque, sul viso, sul petto, nello stomaco. Scosse la testa, un nodo in gola che non ne voleva sapere di scendere giù mentre si avvicinava al tavolo per sfogliare le pagine ingiallite dal tempo. Nessuna firma. La ascoltò ancora ma solo a metà, gli occhi fissi sui fogli, incredulo. Perché non era stato avvisato dal suo avvocato? Poi, all'improvviso, Eden scattò. «Avresti dovuto firmare, non saresti mai dovuta venire qui, avresti dovuto dimenticare tutto! Dannazione Beth...» Col il pugno di lei sul petto, le dita dell'uomo si strinsero sui bicipiti sottili di Beth dove fecero una pressione leggera, ma ferma. Abbassò la voce, ora un sibilo arrabbiato. «...lo capisci che non siete al sicuro?» Gli angoli della stanza si erano tinti di nero, Ruen era vicino, la mente stava prendendo il sopravvento e non poteva permetterselo. La lasciò andare di getto, furono necessari uno o due passi indietro per allontanarsi da lei. Poteva usare il lavoro quanto voleva, ma era lui la prima ragione per cui non erano al sicuro insieme. Si passò una mano fra i capelli sentendoli sudati, poi si diresse verso uno sportello della cucina per tirare fuori una bottiglia impolverata e due bicchieri. Non beveva quasi mai per via dei farmaci, Eden, ma in quel momento ne aveva davvero bisogno. Verso due dita a ognuno, lasciò il bicchiere sul tavolo per Beth e bevve dal suo tutto d'un fiato, schioccando le labbra subito dopo mentre l'esofago si trasformava nella gola di un vulcano.


    Si sedette su una sedia malferma, allora, la testa fra le mani che si scuoteva leggermente. È un casino è un casino è un casino. E uno di quei casini che possono costare la vita. Si ripeteva mentre la testa cercava una soluzione senza trovarla. Si prese da solo quei secondi per pensare, non sentì la donna muoversi o le sue prime parole ma si riscosse solamente quando sentì dirle: Ecco, amore, il papà è qui. Alzò la testa di scatto per poi sollevarsi sulle ginocchia e di nuovo in piedi, gli occhi sgranati fissi su... «Beth, cosa stai--» Perché l'aveva fatto? Era serio e spaventatissimo, Eden, che mentre la guardava sembrava essere tornato lui il bambino nella stanza. Si rifiutava ancora di guardare Timmy, di cedere, ma quando sentì le sue braccia circondagli le gambe non riuscì più a resistere. Abbassò il mento, gli occhi ormai due piatti lucidi sbalorditi. Mi racconti di quanti cattivi hai ucciso? La mano che si sollevò per posarsi fra i capelli di Timmy tremava leggermente, e quando il bambino lasciò la presa Eden ne approfittò per piegare le ginocchia arrivando alla sua altezza, specchiandosi finalmente in quello sguardo così simile al suo. «La verità è che...» Si interruppe, era impacciato come se fosse davvero lui il settenne e avesse appena appreso di aver ritrovato suo padre. Con il cuore in gola, Eden non riuscì a continuare, non riuscì a dire più nulla. Non avrebbe mai pensato di sentirsi apostrofare così, di sentirsi chiamare papà. Gli occhi pizzicavano quando Eden poggiò una mano sul collo del figlio lasciando che le loro fronti si sfiorassero. Chiusi gli occhi e inspirò un profumo nuovo e famigliare allo stesso tempo. Gl sembrava di esplodere. «Parliamo domani, ok Timmy boy? Promesso.» Si alzò di nuovo, allora, appena in tempo per sentire le parole di Elizabeth nel suo orecchio. Le disse che poteva mettere Timmy a dormire di là, sul suo letto, era ormai davvero tardi per loro per tornare a casa. O dovunque alloggiassero. Approfittò dell'assenza di Beth per spegnere la tv, versarsi un altro bicchiere e berlo. Sistemò la coperta che pareva aver conservato ancora il calore di Mia, ormai lievissimo però, quasi scomparso. Sospirò sedendosi sul bordo del divano, una mano aperta a massaggiassi le tempie con i polpastrelli del pollice dell'indice. Quando la donna tornò nel salone, Eden raddrizzò la schiena per guardarla con gli occhi di un uomo sul punto di sgretolarsi. Ma non l'avrebbe fatto. «Lo sai perché me ne sono andato, te l'ho lasciato scritto. La tua punizione è farmi rivivere quei terribili momenti? Me lo meriterei in effetti. » Piegò il collo di lato, un gomito sul bracciolo. Erano anni che non ripensava a quel giorno, quando tutto era finito. Quando aveva quasi ucciso Timmy. Come può un genitore dimenticarsi del proprio figlio in macchina? Lasciarlo sotto il sole cocente di Santa Fè perché non era riuscito a resistere alla voglia di prendere a pugni un indiziato.
    «Non posso rispondere a tutte le tue domande, non dipende da me. Non posso e basta.» Prese un grande respiro, il petto si riempì per poi sgonfiarsi come una palloncino. « Non posso dirti tutto ma ti prego di credermi Elizabeth, è pericoloso per voi restare qui. Lo so che non significa niente per te, ma devi fidarti. Ti scongiuro.» Tornò a guardarla con occhi tristissimi. « Avresti dovuto rifarti una vita, trovare un uomo che fosse giusto per te e che facesse da padre a Timmy. Per me eravate tutto, Beth. Non avrei mai voluto lasciarvi ma dovevo farlo, per voi. La mia mente non era nel posto giusto, lo sai, ho rischiato di fare male a Timmy. Un uomo così non merita di essere padre. La nostra vita mi ha fatto credere di essere in grado di gestirmi, di tenere a bada il buio che ho in testa: paradossalmente, eravamo troppo felici e non ho retto. » Mostrò un sorriso tiratissimo, alzando di nuovo gli occhi su di lei, lei che un tempo era stata tutta la sua vita. Nei cerchi scuri di quegli occhi rivide frammenti di un passato raggiante, di picnic sulle sponde del laghetto a catturare girini come fossero due bambini, di notti passate a ballare e a baciarsi schiacciati su pareti ruvide fino a quando le labbra si gonfiavano arrossate, come due adolescenti negli anni più belli. «Mi dispiace, Beth. Mi dispiace davvero di tutto.» Aveva una mano aperta sulla gamba, l'altra sorreggeva la testa come se da sola non potesse farcela a sostenersi.
     
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