When a wave comes, you can surf over it, or drown in its monstrosity.

eva & henry

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    Henry James Moriarty - Mordersønn Institute Doctor
    Una leggera pioggerellina si rifletteva sulla finestra dello studio di Henry. La pioggia lo rilassava: non riusciva a concepire come qualcuno potesse odiarla. Certo, non era mai stato una persona meteoropatica e perciò non sapeva che cosa volesse dire essere influenzati dal tempo – o probabilmente essere influenzati da qualsiasi cosa – ma quel leggero suono sul vetro gli dava un profondo senso di connessione con il mondo, cosa che il sole non era mai riuscito a dargli. Stessa cosa per quanto riguardava i temporali: non era strano infatti vederlo osservare sul balcone un grande temporale senza lamentarsi: ne risultava davvero estasiato. Queste situazioni lo facevano quasi sentire vivo, in completa sintonia con il mondo. Quante volte gli era capitato di svegliarsi e fare le cose meccanicamente, solo perché doveva farle, come uno zombie che seguiva un rituale: doccia, denti, caffè, macchina, lavoro. Poco altro. La testa altrove, solitamente su mille pensieri lavorativi. La pioggia o il temporale spazzavano via ogni tipo di pensiero più elaborato, lasciando spazio alla consapevolezza di essere esattamente una piccola goccia di pioggia sul vetro del mondo.
    Questo legame profondo lo aveva non solo di fronte alla pioggia e ai temporali, ma anche solamente di fronte all’acqua: il mare, l’oceano soprattutto, lo facevano come tornare ad un passato primitivo mai vissuto: le mani sull’acqua, la barca a vela… Tutte faccende per cui senza, si sarebbe perso nei ritmi della vita, specialmente la sua vita, piena di impegni praticamente insormontabili, quelli del suo lavoro. Il suo ruolo di medico lo assorbiva completamente: non era dovuto tanto alla professione che esercitava anche se sicuramente essa giocava la sua parte: necessitava di concentrazione e profondo senso del dovere, ma probabilmente Henry sarebbe rimasto assorbito così anche se avesse fatto maglioni all’uncinetto. Il suo essere così preciso fino all’ossessione era pregio ma anche condanna, soprattutto condanna. L’istituto per cui lavorava, il cui ruolo era stato ereditato dal nonno per direttissima, lo pretendeva esattamente così com’era: preciso, puntuale e senza alcun tipo di giudizio o morale. Fare il medico lo prevede già, ma lavorare nella parte illegale lo rendeva sicuramente più “senza morale” di tanti altri medici. Henry lavorava per la scienza, così la pensava: non per un capo, non per Niko, non per stesso: il dovere morale che presentava nei confronti delle scoperte scientifiche andava oltre qualsiasi giudizio e morale, soprattutto perché quest’ultimo era pressoché inesistente nella testa e nel cuore di Henry. Non gli era mai stato insegnato, perciò riconoscerlo non era possibile.
    Il medico disegnava piccole X sul foglio di un paziente che avrebbe dovuto visitare da li a poco: si trattava di un nuovo arrivato, una personalità che ancora non aveva conosciuto e che soprattutto non si trovava nella parte legale: questo significava, per Henry e probabilmente per pochi altri, semplicemente che avrebbe dovuto firmare qualche scartoffia in più: per il resto, il suo ruolo di medico illegale prevedeva cose che non poteva portare fuori dall’Istituto. In realtà, non l’avrebbe nemmeno mai fatto perché metà delle persone non sarebbero state in grado di capire.
    Finito di compilare il foglio, Henry indossò un paio di occhiali dalla montatura grigia e si diresse a passo spedito verso la sala dove si trovava il paziente, mentre il rumore della pioggia si allontanava sempre di più alle sue spalle.
    Entrò in una stanza asettica e perfettamente sterilizzata: la sua figura alta e fredda si sposava perfettamente con essa, tanto che sembrava far parte dell’arredamento. Si posizionò di fronte ad una grande vetrata dove un giovane ragazzo sedeva su una sedia a rotelle nera. Lo sguardo perso nel vuoto, come la maggior parte delle persone che aveva già visto attraverso il vetro. Henry prese da un tavolo bianco un fascicolo dello stesso colore.
    Anni – 18
    Orfano, non si hanno tracce di legami famigliari né di amicizie
    Valutazione psicologica ed esami DNA e sangue effettuati (seguono risultati)
    Si rimanda a Valutazione di Stasi e Sotto Stress

    Se fosse stata una persona empatica, Henry si sarebbe riconosciuto volentieri in quella persona: fatta eccezione di suo nonno, Henry era cresciuto praticamente senza genitori. Ma in quel momento non era Henry Moriarty ma semplicemente il Dr. Moriarty e quelle domande non gli passavano nemmeno per l'anticamera del cervello.
    Medici incaricati
    Henry James Mortiarty
    Chante Eva Nguyen

    Non gli era quasi mai capitato di lavorare con un altro medico: conosceva i collaboratori, infermieri e altro personale ma di solito conduceva le sue indagini da solo: trovò la questione alquanto spinosa e ne rimase quasi infastidito: forse pensavano che non sarebbe stato in grado di fare i test da solo? Perché un secondo medico? Richiuse il fascicolo velocemente e lo poggiò con poca grazia sul tavolo, proprio in quel momento, uno dei collaboratori che si sporcano le mani entrò, richiudendosi la porta alle spalle.
    Lo salutò con un cenno del capo e sentenziò con voce grave: ”Questa è una bella gatta da pelare. Aspettiamo Eva e sono pronto a raccontarvi quanto successo. Roba da non crederci.”.
    Henry alzò un sopracciglio, girando lentamente lo sguardo verso la figura inanimata dai capelli corvini che sedeva sulla sedia a rotelle con il capo rivolto verso il basso. Guardandolo così, non riusciva a distinguerne i lineamenti del volto anche se ne riconosceva la giovane età. Il collaboratore si sfilò uno zaino dalle spalle da cui fece uscire una muta, un boccaglio e delle pinne. Henry lo guardò scettico.
    Mai pensato che il corso di sub potesse servirmi per davvero. Mia moglie me lo aveva regalato per distrarmi: di certo non avrei pensato di poterlo usare così.
    Henry lo guardò. “Controllo dell’acqua?”
    Chiese, incoraggiato dagli indizi che il suo zaino gli aveva dato.
    ”Magari fosse solo quello” iniziò, mentre il rumore della porta li avvertiva che qualcuno era entrato nella stanza.
    ”Riesce a controllarla e prelevarla da ogni fonte di vita: una pianta, un rubinetto, un essere umano. Ne basta la quantità di una bottiglietta da mezzo litro e il ragazzino cambia aspetto: sviluppa le branchie e i suoi occhi diventano dello stesso colore degli squali quando vanno a caccia. Come il sangue per i vampiri, l’acqua lo rende un assassino: e se non ne consuma abbastanza, la pelle raggrinzisce come a noi quando stiamo a mollo per più di un’ora. In praticamente beve per non morire: il problema è che sopravvive solo se consuma tutta l'acqua dal posto in cui la preleva: le piante muoiono e le persone pure, disidratate.”. Disse, finendo di indossare la muta. ”Il materiale di questa vestizione è stato modificato per renderlo impenetrabile e a rilascio di scariche elettriche, a quanto pare l’unica cosa che gli fa da scudo. Non ha amici, non ha parenti. Lo abbiamo trovato accanto all’oceano senza vestiti né documenti. Dice di chiamarsi Ray, ma non ha spiccicato una parola con nessuno”. Henry affinò lo sguardo verso il ragazzo sulla sedia e rotelle e incrociò le braccia al petto, ritrovandosi a pensare che se nel suo caso l'acqua era sempre stata una salvezza, per quel ragazzo si trattava di una vera e propria condanna. L'acqua lo rendeva assetato, ma per non morire aveva bisogno di prelevarne il più possibile, a costo di far disidratare un altro essere umano.
    Il collaboratore si ritrovò a spiegare alcuni dettagli tecnici: la mutazione in assassino avviene quando il ragazzo decide di prelevare, attraverso la mente, dell'acqua da qualsiasi fonte. Non avviene quando beve acqua (ad esempio durante i pasti) o se fa la doccia. La volontà di assorbire acqua deve essere intenzionale, altrimenti non funziona; anche se il ragazzo viene spesso "richiamato" dall'acqua, come un drogato in cerca di una dose. Quando si trova con altri esseri umani, se questi si trovano immersi nell'acqua con lui, Ray si trasforma direttamente in assassino. Gli esperimenti servono a cercare di capire il motivo per cui la sua pelle raggrinzisca così facilmente se non assorbe abbastanza acqua e l'obiettivo è quello non di evitare che diventi un assassino, ma che non perisca se non riesce ad uccidere. Trasformarlo in un vero e proprio assassino, senza punti deboli.
    "Da dove vogliamo iniziare?" chiese infine il collaboratore, poggiando anche lui lo sguardo sul ragazzo, che fino ad ora non aveva osservato minimamente. "Onestamente dovreste davvero vedere il suo sguardo" quando finì questa frase, la testa del ragazzo si mosse leggermente, alzandosi verso la vetrata nera: non poteva vedere chi c'era dentro, ma dallo sguardo che aveva, s'intuiva che si sentiva osservato.
    Henry ne scrutò attentamente gli occhi: erano dello stesso colore dell'oceano.
     
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    Chante Eva Nguyen

    Ricordava il panorama dalle vetrate del ventesimo piano del Mordessønn, l’ala ospedaliera del reparto legale era sempre inondata di luce naturale. Era uno degli aspetti che apprezzava di più, persino quando imperversava una tempesta fuori dall’edificio. Si soffermava sempre a guardare fuori, come se il suo spirito potesse spiccare il volo per qualche istante, era una benefica distrazione per una persona introversa come Eva. Invece da quando aveva deciso di spostarsi nel reparto illegale, sentiva il proprio umore farsi più cupo ogni volta che metteva piede nei corridoi del sottosuolo. Lì sotto non esistevano finestre, non c’era altro da guardare se non gli ambienti sterili che percorrevano ogni giorno, i neon appesi al soffitto erano il sole e la tempesta di quei piani che scendevano verso il centro della Terra. Ogni volta che voleva prendere una boccata d’aria, era costretta a prendere l’ascensore per raggiungere la reception al livello 0, il crocevia tra cielo e sottosuolo. Era lì che si trovava in quel momento, osservava la gente muoversi velocemente accanto a lei, come se le fosse stato imposto un blocco neurologico di svariati secondi. Le piaceva guardare la vita scorrerle accanto, nonostante la sua profonda asocialità, trovava che ogni persona fosse fonte di ispirazione in un modo tutto suo. Osservarne i gusti, le manie e le abitudini, rendeva ogni singolo passante un conoscente, avvicinandola in silenzio a coloro che di solito rifuggiva con elegante maestria. Eva era una di quelle persone che doveva avere il tempo di studiare chi aveva davanti prima di permettergli di avvicinarsi, chi aveva avuto a che fare con lei, sapeva che doveva concederle la prima mossa in una conoscenza. Era lei a dettare i tempi di avvicinamento, un po’ come per gli esperimenti che conduceva, bastava una sua parola per stringere la morsa su un paziente o per allentarla. Non era una questione di sentirsi potenti o di avere il controllo, bensì di non sentirsi vulnerabili. Non le piaceva mostrare le proprie emozioni, infatti il viso di Eva era indecifrabile ai più, mai un movimento muscolare di troppo a rivelare cosa le passasse per davvero nella mente o nel cuore. Sapeva che quell’atteggiamento di chiusura veniva spesso scambiato per un senso di superiorità o peggio, ma era anche un modo per scremare le relazioni col prossimo, solo chi riusciva a vedere la sua corazza le rimaneva accanto, tutto il resto era spazzatura.
    ”Buongiorno, dottoressa Nguyen.” la voce squillante della receptionist la riportò alla realtà. Eva aggrottò leggermente le sopracciglia, guardando la ragazza coi suoi occhi scuri e penetranti che parevano volerla scannerizzare. ”Buongiorno, Dorothy.” le rivolse un impercettibile cenno del capo, poi estrasse il proprio badge da sotto la giacca, avviandosi verso la porta che l’avrebbe condotta verso gli anfratti più reconditi dell’istituto. Utilizzò l’apertura elettronica e si richiuse la porta alle spalle. Vide un paio di colleghi in attesa dell’ascensore, rimase poco dietro di loro per non dover fare conversazione, non ne aveva proprio voglia. Quella mattina si era svegliata con la luna di traverso al pensiero di dover collaborare a un esperimento con un medico che non conosceva, molti ormai conoscevano i suoi modi bruschi e le sue tecniche di sperimentazione, con loro doveva discutere di meno e poteva concentrarsi sui dati importanti. Invece così avrebbe dovuto presentarsi e cercare un accordo su ogni singolo dettaglio, lei non era come la maggior parte dei suoi colleghi, aveva rispetto per i pazienti che trattavano, li considerava esseri umani. Troppe volte si era sentita dire che quello che avevano davanti non era altro che un invisibile della società, nessuno lo avrebbe reclamato o lo avrebbe pianto, a cosa serviva la sua vita se non per servire il bene superiore della scienza? Si portò una mano alla fronte a quel pensiero, come se qualcuno avesse appena pronunciato quelle parole a voce alta, invece erano ben strette nei confini della sua scatola cranica.
    Finalmente arrivò l’ascensore, si infilò dentro la cabina assieme ad altri due uomini, puntò il suo sguardo sui propri stivali neri di pelle, non voleva dare adito a chiacchiere inutili. Non aveva controllato l’orologio da quando era scesa dalla macchina, scostò leggermente la manica della sua giacca bordeaux di camoscio, era in ritardo di cinque minuti. Probabilmente aveva perso la cognizione del tempo quando si era fermata alla reception, credeva di essersi persa a guardare la frenesia della vita solo per pochi secondi, invece le era sfuggita dalle mani un’intera manciata di minuti. Quando giunsero al piano – 5 si affrettò ad uscire dall’ascensore, non passò nemmeno nel suo ufficio per lasciare il soprabito e le cose che non le servivano. Odiava arrivare in ritardo.
    Entrò nel laboratorio a cui lei e il dottor Moriarty erano stati assegnati per effettuare dei test in fase di stasi e di stress su Ray Senza Cognome, così c’era scritto nella casella del nome della scheda che le era stata consegnata il giorno prima. Appoggiò tutte le sue cose sulla prima sedia libera che vide, prese il suo camice dalla ventiquattrore color mogano, e lo indossò senza proferire una sola parola, così da ascoltare attentamente il discorso dell’inserviente. Stava parlando della particolarità del ragazzo, si nutriva dell’acqua contenuta in altri esseri viventi, una catena di sopravvivenza. Una vita per una vita. Eva si avvicinò lentamente ai due uomini, posizionandosi accanto al dottor Moriarty, ne studiò velocemente i lineamenti disegnati su una pelle molto chiara e gli occhi chiarissimi. Stringeva al petto la cartellina rigida su cui avrebbe appuntato tutti i risultati dei test, prese la sua stilografica dal taschino del camice e la tamburellò piano sui fogli, allo stesso ritmo della sua attività cerebrale. ”Ho una domanda da porre.” interruppe il discorso sui dettagli tecnici dell’inserviente, non aveva degnato nessuno di un saluto, non si era nemmeno presentata. ”Quindi vive dell’acqua che si trova solo nei corpi di altri essere viventi? Perché non sfrutta quella del mare o degli oceani? Potremmo insegnargli a distinguere le due cose…” l’ultima parte era solo un sussurro, una considerazione riservata solo a se stessa. Sollevò lo sguardo prima sul dottor Moriarty, poi sul collaboratore che aveva con se’ l’attrezzatura da immersione, solo in quel momento si rese conto di aver saltato ogni formalità. ”Vi chiedo scusa, buongiorno a entrambi, sono la dottoressa Eva Nguyen.” strinse le labbra tra di loro, come faceva ogni volta che il suo cervello era in piena attività di elucubrazione.
    ”Da dove vogliamo iniziare? Onestamente dovreste davvero vedere il suo sguardo.” alle parole di Einar, l’inserviente, si rese conto di non aver ancora osservato con attenzione il ragazzo. Per lei arrivare in ritardo e non aver il tempo di controllare in anticipo ogni cosa era una novità, non le capitava quasi mai. Eva rimase in silenzio, analizzando il giovane seduto sulla sedia a rotelle, li fissava da dietro il vetro, come se sentisse la loro presenza. Capì perché Einar aveva fatto quell’affermazione sullo sguardo di Ray, i suoi occhi erano due perle d’oceano rinchiuse in due iridi simmetriche. Eva si avvicinò ulteriormente al vetro di sicurezza per scandagliare più dettagli possibili, la pelle del giovane era vagamente traslucida, qualità tipica di alcuni pesci oceanici, come lo Scorfano Foglia (Taenianotus triacanthus). Chissà se anche nel ragazzo quella sottigliezza della pelle era una dote per la mimetizzazione, oppure se aveva delle altre utilità.
    ”Dottor Moriarty, per lei va bene se iniziamo gradualmente? Potremmo fare delle brevi immersioni per vedere come reagisce il suo corpo se immerso nell’acqua. Da lì trarremo i dati necessari per il prossimo step.” fece una breve pausa, così da lasciare il tempo all’uomo di risponderle. Voleva capire con che tipo di persona stava lavorando prima di azzardarsi a fare ulteriori proposte, sperava di non dover litigare anche con lui per dare a Ray il rispetto che meritava. ”Vorrei accertarmi di persona di alcune cose, ha notato la sua pelle anomala? Potrebbe avere altre qualità oltre a quella di nutrirsi dei liquidi altrui. Pensa anche lei che sia più simile a un pesce di quanto sembri?” non si voltò a guardare Henry, gli diede le spalle per l’intero tempo del suo discorso, non voleva perdere alcun dettaglio visivo di quel ragazzo. Era inquietante e affascinante al tempo stesso, quella cascata di capelli corvini contrastava nettamente con l’elemento dell’acqua che pervadeva il corpo del giovane in ogni sfumatura e lineamento. Eva trattenne un sospiro quando gli occhi di Ray parvero incontrare i suoi, non era possibile attraverso il vetro oscurato, ma guardava esattamente il punto in cui si trovava lei. Avrebbe voluto entrare nella stanza con lui e parlargli, rassicurarlo che sarebbe andato tutto bene, ma dentro di se’ sapeva che era una bugia. L’unica cosa che avrebbe potuto fare per lui, era rendere tutto il meno doloroso possibile, evitandogli le scosse elettriche che erano il suo punto debole. Una scarica avrebbe ucciso chiunque all’interno di un enorme recipiente pieno d’acqua, non voleva scoprire sulla pelle di Ray cosa gli sarebbe accaduto. Dovevano cominciare piano, magari con un voltaggio basso su una singola parte di corpo immersa. Henry sarebbe stato d’accordo? Quella era la domanda che le volteggiava nella testa da quando aveva messo piede nel Mordessønn, non doveva far altro che scoprirlo.
     
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    Henry James Moriarty - Mordersønn Institute Doctor
    C’erano state diverse volte in cui Henry si era sentito solo, ma sicuramente sotto la media generale delle persone normali. Era sempre stato una persona solitaria e autosufficiente, perciò l’idea di aver bisogno di qualcuno non gli passava proprio per il cervello. Quando lui e la sua ex fidanzata si erano lasciati, Henry aveva sentito per qualche giorno la sensazione di vuoto, che aveva riempito con il lavoro. Subito dopo era stato affidato ad un programma piuttosto impegnativo e complesso, non solo un programma: una ragazza. Una ragazza di cui oramai non ricordava più il nome, i lineamenti del volto e il calore fisico che gli aveva procurato. La rinascita che lei aveva avuto nel suo cuore, completamente spazzata via dal potere di una persona che gli aveva spazzato via ogni cosa, come fa il tempo con la nostra infanzia. Era stata una breccia veloce a cancellare tutti i suoi ricordi, ricordi che aveva messo in piedi per un anno ma lo avevano cambiato radicalmente. Era un peccato non poter ricordare tutto e soprattutto vedersi in un altro modo.
    Mentre osservava il ragazzo che aveva di fronte, Henry incrociò le braccia al petto. Chissà quale vita aveva vissuto e come mai era finito proprio li. Ai fini della scienza però, cioè che a lui importava era capire come rendere il suo potere controllabile: questo avrebbe fatto felice l’istituto ma infondo anche il ragazzo, condannato ad una vita priva di autocontrollo. Infondo era vero, poteva anche non avere empatia, ma non si poteva dire che fosse una cattiva persona. O almeno ci sperava. La ragazza che lo aveva salvato glielo aveva fatto capire e lo aveva reso empatico, umano: un’umanità che adesso il vento aveva spazzato via e che non ricordava più. Infondo cosa lo rendeva diverso dalla persona che aveva davanti? Nemmeno lui aveva chissà quale legame da segnalare e suo nonno stesso aveva qualche volta fatto un esperimento su di lui. Non aveva mai conosciuto suo padre, sua madre era scomparsa prematuramente e aveva scoperto infondo di aver odiato suo nonno per tutta la sua infanzia. Non è capace di intraprendere relazioni durature: infondo i ruoli si sarebbero potuti invertire molto facilmente. Probabilmente nessuno avrebbe sentito davvero la sua mancanza. Ma questo Henry non lo sapeva e fortunatamente era troppo attento e pensieroso sulla tipologia di esperimenti da fare per potersi concentrare su quei pensieri inconsci e intrusivi che fortunatamente non gli prendevano quasi mai il controllo del cervello.
    ”Quindi vive dell’acqua che si trova solo nei corpi di altri essere viventi? Perché non sfrutta quella del mare o degli oceani? Potremmo insegnargli a distinguere le due cose…”
    Il commento della collega lo lasciò positivamente sorpreso: effettivamente era una buona tecnica, anche se Henry pensava di dover approfondire di più il lato “killer” per poterlo controllare.
    “E’ un ottimo suggerimento” disse, voltandosi verso di lei e facendo cadere gli occhi sul suo tesserino leggendole il nome. Accennò un debole e cordiale sorriso, prima di tornare con gli occhi sul ragazzo. ”Dottor Moriarty, per lei va bene se iniziamo gradualmente? Potremmo fare delle brevi immersioni per vedere come reagisce il suo corpo se immerso nell’acqua. Da lì trarremo i dati necessari per il prossimo step.” Di nuovo fu distratto dai suoi pensieri e si trovò ad annuire rapidamente. Sicuramente si trattava di un soggetto particolare da trattare con cura: non si poteva rischiare di affrettare le cose o di rovinare gli esperimenti. "Vorrei accertarmi di persona di alcune cose, ha notato la sua pelle anomala? Potrebbe avere altre qualità oltre a quella di nutrirsi dei liquidi altrui. Pensa anche lei che sia più simile a un pesce di quanto sembri?” Henry prese una penna a sfera dal taschino del camice e iniziò a farla roteare fra le mani: era un gesto che faceva spesso quando si ritrovava a pensare.
    "Onestamente credo che la cosa principale su cui soffermarsi è quella di capire in primis il suo lato… assassino: il fatto che sia più simile ad un pesce è corretto, il suo aspetto fisico lo sembra suggerire, tuttavia questo non nuoce alla sua vita o a quella degli altri, quindi lo lascerei come ultimo aspetto su cui indagare, o non farlo proprio”. Sentenziò, voltandosi verso la dottoressa. "Il punto è questo: se è un soggetto così pericoloso come viene descritto, bisognerebbe fare attenzione a chi mettiamo dentro la vasca. Non vorrei far perdere la testa a qualcuno” disse, voltandosi verso l’operatore che si era messo la muta, il quale si sentì ovviamente preso in causa, stringendosi nelle spalle. La fortuna di essere un medico era probabilmente quella di stare dietro il vetro, anche se Henry si era spinto più volte oltre in alcuni esperimenti. In questo caso però, doveva ammetterlo, non se la sentiva. La salvaguardia della pelle veniva prima. "Per il resto, concordo sulla gradualità del processo, ma credo che scopo della nostra indagine sia quella di scoprire il perché di questa sete di uccidere. Cosa abbiamo sugli esami neurologici? Potrebbe trattarsi di una semplice disfunzione cerebrale. Traumi passati…” ipotizzò. Non voleva dare contro alla collega: le sembrava anche abbastanza sveglia e preparata, ma il suo cervello analitico andava oltre. Ciò che non era importante, Henry lo trascurava. "Lei cosa ne pensa, dottoressa?” le chiese, avvicinandosi a lei e allungandole il fascicolo con gli esami. Quel gesto era un invito a partecipare, ovviamente, ma ancora non capiva la posizione della dottoressa.
    Il collaboratore tossì, cercando di farsi notare dai due medici che stavano entrambi fissando il ragazzo. "Ora temo per la mia incolumità. Grazie. Non potremmo che ne so, legarlo...? Metterlo in gabbia? Vorrei tornare da mia moglie, stasera" disse, grattandosi il capo con la mano, con uno sguardo piuttosto imbarazzato e impaurito.
     
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