Keep your friends close and your enemies closer

Charlotte & Eva

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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [Descrizione o discussione estesa di morte di un personaggio].
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.



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    Era da diverse ore ormai che se ne stava seduta a quella scrivania, terminando di trascrivere i dettagli di alcuni nuovi contratti e di valutare nuovi pazienti da sottoporre al reparto che stava nella parte più bassa di quell’edificio. Era da anni ormai che lavorava all’interno del Mordersønn Institute e con il passare del tempo la posizione del suo ufficio si era mossa sempre più verso l’alto, avvicinandosi così al piano in cui si trovava l’ufficio di Aleksej Mordersønn prima e di Nikolaj ora. Aveva sempre nutrito un profondo apprezzamento per il lavoro che la famiglia Mordersønn faceva per la città di Besaid e quando era stata introdotta nelle faccende più delicate, quelle che non venivano rivelate a tutti i dipendenti, aveva iniziato a sentirsi ancora più sicura di sé e della strada che aveva intrapreso. Le ricerche sarebbero andate a buon fine, ne era certa, dovevano soltanto avere pazienza e cercare di tenere la polvere sotto al tappeto, affinchè nessuno la trovasse. Le autorità non avrebbero compreso, avrebbero certamente male interpretato i loro ideali scientifici, accusandoli di essere soltanto dei folli. Certo, a volte le ricerche rischiavano di spingersi un po’ troppo in profondità, di fare del male a qualcuno, ma era di scarti della società che si parlava, non certo di menti eccelse. Morire per la scienza era ciò che di meglio potesse capitare all’interno delle loro grigie e inutili vite e probabilmente questo lo sapevano anche loro quando firmavano i contratti che li avrebbero legati all’istituto. Poi c’erano anche i pazienti che si presentavano alle porte dell’istituto in cerca di aiuto, quelli con cui bisognava fare un po’ più di attenzione, perché spesso portavano con loro parenti o altre persone. Ad ogni modo il Mordersønn Institute aveva perfezionato nel tempo il suo approccio con i pazienti e tutto continuava a filare a gonfie vele.
    Si mosse di lato, facendo oscillare la sedia con le rotelle su cui era seduta verso l’ampia vetrata che la separava dall’esterno. Le piaceva molto quella sua ultima dislocazione, oltre il quarantesimo piano, da cui la città appariva piccola, un agglomerato di case e minuscole personcine che si muovevano senza sapere di essere osservate. Da quella posizione sopraelevata le sembrava di poter tenere sotto controllo tutta la città, di coglierne ogni movimento, ogni dettaglio. Aveva sempre preferito pianificare ogni sua mossa nel dettaglio prima di farla, senza mai lasciarsi guidare da gesti istintivi. Le emozioni potevano essere un grosso problema se non si sapeva come tenerle a bada e lei questo lo aveva capito ancora più a fondo quando la sua piccola Hannah non era riuscita a farcela. Aveva combattuto per giorni, come una fortissima guerriera, aggrappandosi ad ogni respiro, ad ogni istante di quella vita troppo breve che non avrebbe mai conosciuto davvero. Lei l’aveva tenuta tra le sue braccia come se stringendola potesse donarle la sua determinazione, la sua forza, ma nulla era servito e lei non si era mai sentita impotente come in quel momento. Sapere di non poter fare nulla, di non poter offrire il minimo aiuto alla sua piccola, l’aveva gettata nella disperazione. Era stato grazie all’aiuto di sua sorella che, con il tempo, si era fatta forza e aveva imparato ad accettare quella perdita, anche se sapeva che il dolore sarebbe sempre stato lì, nascosto sotto la superficie. Ed era stato proprio grazie a quel dolore che era andata avanti, promettendo a se stessa che mai più nella sua vita si sarebbe sentita come in quel momento, che nulla avrebbe più potuto abbatterla perché lei non lo avrebbe permesso. Raramente ammetteva di commettere degli errori, ma quando li faceva poi cercava di cogliere da essi il meglio che poteva, perché non accadesse una seconda volta.
    Persino con il buio che filtrava dalle ampie vetrate, che le restituivano solo un barlume delle luci della città, il suo ufficio appariva comunque perfettamente illuminato. I mobili scuri facevano da contrasto alla tinteggiatura bianchissima delle pareti e del soffitto. Anche quelli erano mutati nel corso degli anni, anche se avevano sempre seguito una linea contemporanea ed elegante, dalle linee essenziali. Da quando aveva ottenuto una posizione di maggiore rilievo, poi, si era preoccupata di organizzare ogni più piccolo dettaglio del suo studio, perché piano piano divenisse così come lei lo aveva sempre voluto. Un’estensione di se stessa quasi, un luogo dove si trovava perfettamente a suo agio, qualcosa di cui poteva avere costantemente il controllo. Era sempre stato un suo tratto caratteristico quello di voler tenere tutto sotto controllo, che si trattasse di minuscoli e inutili dettagli, oppure di cose decisamente più importanti. Non si sentiva tranquilla se non analizzava tutto con estrema attenzione, se le cose attorno a lei non seguivano un ordine preciso, che lei stessa aveva studiato. Che si trattasse della sua casa, del suo ufficio o di qualunque luogo frequentasse con una certa assiduità, tutto doveva rispondere alle sue personali regole. In quella stanza quindi nessun documento era mai fuori posto, neppure le penne o l’unico porta ritratto che teneva sulla sua scrivania in vetro che conteneva una foto che la ritraeva insieme a sua sorella, qualche anno prima, a Parigi. Grace era l’unico vero barlume di gioia che esisteva all’interno della sua vita e avrebbe fatto qualunque cosa pur di difenderla e di vederla felice.
    Rivolse un’altra fugace occhiata fuori dalla finestra, sporgendosi appena per seguire il percorso di una vettura che, uscendo dal parcheggio della struttura, si avviava verso la città. Anche a lei mancava poco tempo ormai prima di concludere il suo turno, anche se non aveva mai guardato davvero all’orario. Se capitava di dover restare più a lungo per discutere di questioni importanti o per ricevere qualche nuovo ospite si tratteneva tranquillamente ben fuori dal suo orario stabilito. Il suo lavoro era molto prezioso per lei e ci teneva a portarlo a termine nel migliore dei modi. Quella sera era in attesa di incontrare la Dottoressa Nguyen, un medico che aveva creato alcuni problemi nell’ultimo anno e che era stata quindi spostata in un settore differente. La teneva sotto controllo da quando era stata fatta qualche piccola modifica alla sua memoria, prima di assegnarla a un settore di ricerca più idoneo alle sue capacità. Era rimasta piuttosto colpita dal modo in cui aveva affrontato Niko e forse anche lui lo era stato, visto che aveva deciso di farle mantenere il lavoro, pur con qualche cambiamento. Lei, dal canto suo, aveva cercato di accertarsi che le memorie che le erano state rimosse non venissero recuperate e per questo periodicamente fissava qualche incontro con lei, con una o l’altra scusa. La studiava in quei momenti, cercava di cogliere mutazioni, cambiamenti, qualcosa che potesse farle capire se la dottoressa stava mentendo, oppure no. La prima volta l’aveva incontrata per ridiscutere il suo contratto, quel giorno invece le avrebbe portato l’elenco di ciò che il reparto necessitava e dei nuovi acquisti da fare. La incuriosiva quella donna ed era quindi piuttosto impaziente di incontrarla di nuovo.

    Edited by 'misia - 3/12/2020, 21:17
     
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    Chante Eva Nguyen

    Le luci al neon del laboratorio degli esperimenti erano troppo forti, lo aveva detto molte volte a coloro che si occupavano della manutenzione dei locali del Mordessønn, ma non le era mai stata prestata attenzione. Erano necessarie per dare un senso di accoglienza e luminosità a coloro che trovavano una seconda casa lì sotto, un luogo non noto alle mappe, a metà tra l’inferno e il purgatorio. Eva roteava puntualmente gli occhi in aria al sentire quelle parole, avrebbe apprezzato di più che le venisse risposto che erano necessarie dal momento che non filtrava luce naturale lì. Invece le veniva propinata la stessa bugia che lei stessa era costretta a dire ai suoi pazienti. Il Mordessønn era una colossale bugia, dall’esterno lo si vedeva arrampicarsi verso il cielo, con la promessa di una speranza per chi non l’aveva. Invece si diramava nel sottosuolo, affondando le sue radici in un punto poco chiaro, molto più vicino al nucleo della Terra che al cielo come voleva far credere. In quei piani nascosti agli occhi avvenivano cose che avrebbe preferito non vedere, in quello stesso laboratorio era stata costretta a scegliere della vita o della morte di diversi pazienti negli ultimi mesi. Si era battuta fino allo stremo delle forze per dare dei diritti a quelle povere anime senza legami, a quelle persone che nella vita avevano perso tutto, compresa la dignità. Non erano visti di buon occhio i suoi comportamenti e il suo lato troppo umano nei confronti dei pazienti, veniva spesso rimproverata dai suoi superiori perché non permetteva ai suoi colleghi di portare le particolarità all’estremo, fino al punto di rottura. Ogni volta diceva – o meglio gridava – che la rottura gli avrebbe fatto perdere il doppio delle persone, che quelli che rinchiudevano nella stanza al di là dei vetri di protezione, erano esseri umani e non esperimenti come li chiamavano tutti. Aveva visto gli inservienti che si occupavano del lavoro sporco fare cose orribili che non riusciva a dire a voce alta tanto era disgustata. Era il destino della sua vita essere additata come “rivoluzionaria”, già quando lavorava nell’ospedale pubblico di Besaid aveva avuto problemi coi suoi superiori per via della sua conoscenza della medicina naturale. Non si poteva curare un paziente con delle erbette si era sentita ripetere. Anche nel reparto legale del Mordessønn, quando lavorava al ventesimo piano, aveva avuto delle discussioni al riguardo. A volte aveva fatto di testa sua e senza scrivere nulla nelle cartelle comuni, aveva somministrato ai pazienti rimedi naturali che lei stessa aveva fatto. I miglioramenti delle condizioni cliniche non le venivano accreditati, ma lei sapeva di aver svolto al meglio il suo lavoro e di aver alleviato le sofferenze di qualcuno... le bastava.
    Sospirò sollevando gli occhi dai moduli che stava compilando per Charlotte Lien, a breve sarebbe salita nel suo ufficio a un passo dal cielo, per consegnarle i rapporti dei materiali e delle attrezzature mancanti o da sostituire. Per quale motivo toccassero a lei certe scartoffie non se lo spiegava. Molti colleghi erano già andati via, li aveva osservati attraverso le vetrate mentre si scambiavano doni in occasione delle feste imminenti, alcuni sarebbero andati in ferie e non si sarebbero più visti. Certi di loro con gli abiti civili sembravano brave persone, con quei cardigan chiari da perfetti padri o madri di famiglia. Le si torceva lo stomaco al pensiero che quelli fossero considerati come modelli della società, quando lì sotto trattavano la loro stessa specie come bestie inferiori. Eva scosse la testa per allontanare tutta quella negatività dalla testa e si chinò per finire il suo lavoro, non doveva distrarsi, così sarebbe potuta tornare a casa presto e aprire la bottiglia di vino bianco che custodiva gelosamente nella sua credenza.
    Note Aggiuntive recitava l’ultima casella vuota del foglio, Eva appose una sbarra ad indicare che non c’era nulla da aggiungere. Lì sotto non poteva di certo inserire il suo parere personale, già il suo comportamento non la metteva in buona luce, ci mancava solo che si sommassero altre note di demerito al suo curriculum già troppo infangato. Finalmente si alzò dalla sedia ergonomica su cui aveva passato l’ultima ora, si guardò attorno cercando di ricordare se le era rimasto da fare qualcosa prima di salire al quarantaduesimo piano, ma era certa di aver spento tutti i macchinari della sala e di aver staccato anche il quadro elettrico circoscritto, come da procedura. Prese i fogli dal tavolino e si avviò verso l’ascensore che si trovava nel corridoio adiacente. Si fermò davanti alle porte metalliche chiuse, in attesa che arrivasse al piano. Certe volte si domandava per quale motivo era passata dal ventesimo livello al meno cinque, cosa le aveva detto la testa quando aveva chiesto un cambio di mansione non lo ricordava. Le immagini sfocate della sua memoria la riportavano direttamente all’ufficio con vista di Charlotte e a un dialogo sin troppo composto col suo capo, Nikolaj Mordessønn. In maniera troppo vaga sentiva la sensazione che era stata la sua sete di conoscenza nei confronti della particolarità a portarla lì sotto e i suoi quaderni segreti che teneva rinchiusi sotto chiave a casa sua. Avrebbe potuto continuare a raccogliere informazioni nel reparto legale dell’istituto, invece il suo desiderio di saperne di più l’aveva spinta in basso, fino a toccare il fondo.
    Clink
    Il rumore dell’ascensore che era arrivato al piano la risvegliò dal suo flusso di coscienza, entrò nella cabina e si appoggiò con la schiena alla parete. Evitò accuratamente di guardarsi nello specchio alla sua destra, premette velocemente il tasto quarantadue e socchiuse gli occhi, sarebbe stato breve il riposo del guerriero, lo sapeva. In pochi istanti le porte si aprirono rivelando il corridoio che conduceva agli uffici amministrativi. Eva sospirò e si passò una mano tra i capelli, mentre con l’altra stringeva stancamente la cartellina coi dati sulla strumentazione. Quell’ultima settimana l’aveva messa alla prova, le erano capitati molti casi particolari tra cui una ragazza di nome Cecile. Era così giovane e bella, eppure era finita lì dentro per qualche scherzo del destino. In realtà era stata quella città a darle una maledizione, un potere che non era in grado di gestire, che l’aveva portata a essere rinchiusa per essere tenuta sotto controllo e sedata. Eva considerava Besaid una benedizione e una maledizione allo stesso tempo, da quando era arrivata lì aveva perso un frammento di spensieratezza, non che ne possedesse molta di suo. Lentamente si avviò verso l’ufficio di Charlotte Lien che ricordava piuttosto bene, ci andava periodicamente sempre per differenti ragioni. Era stata lei a farle firmare la modifica del contratto lavorativo diversi mesi addietro, si ricordava piuttosto bene quel giorno, a differenza di alcuni avvenimenti precedenti che riguardavano il suo desiderio di cambiamento. Eva raggiunse la porta scura e bussò un paio di volte. Attese una risposta prima di entrare. ”Buonasera, miss Lien. E’ un piacere rivederla.” si avvicinò alla sua scrivania tendendole la mano, poi si accomodò, poggiando i fascicoli sul tavolo perfettamente ordinato. Per un attimo sentì la strana sensazione di aver già vissuto quella scena, ma la sua mente non la riportava al viso della donna che aveva davanti, cercava inutilmente di aggrapparsi a un’immagine che non c’era più, come un file cancellato dal computer. Eva aggrottò leggermente la fronte, i suoi neurotrasmettitori cercavano di attivare i neuroni per ricercare quel ricordo, ma error not found era l’unica cosa che le tornava indietro da quella ricerca frenetica. ”Questi sono i documenti che mi aveva richiesto.” c’era stata una brevissima pausa tra le sue parole, ma a lei era sembrata molto più lunga. ”Nella sala numero tre il vetro protettivo è stato incrinato da un ragazzo con la particolarità di creare uragani, mentre nella sala numero cinque è stato bruciato il macchinario per il controllo delle funzioni vitali da una donna piuttosto combattiva. Invece lì nei fogli ci sono tutti i prodotti che abbiamo esaurito, sarebbe il caso di ordinare una nuova fornitura di guanti, sono agli sgoccioli, ma dovrebbero bastare ancora per una settimana.” sospinse verso la donna la cartellina, poi si appoggiò con la schiena perfettamente eretta allo schienale, incrociando le braccia al petto. L’espressione sul suo viso nuovamente indecifrabile, era proprio quella ad averle avvalso una serie di soprannomi che i suoi colleghi usavano quando lei non era presente. Le era giunto all’orecchio qualche appellativo come Stein - pietra in norvegese - e Donna di ghiaccio, nulla che non le fosse già capitato in passato per via della sua serietà. ”Spero che sia sufficiente il rapporto, altrimenti provvederò ad ampliare, ma ho chiesto a tutti i reparti di darmi un conteggio esatto dei materiali che ancora hanno a disposizione e quali sono esauriti.” si guardò un po’ intorno senza aggiungere altro, aspettando di essere congedata, sperava il più in fretta possibile. La bottiglia di vino bianco nella sua credenza era la cosa più allettante di quella serata che stava per volgere al fine, perlomeno lo sperava, non avrebbe sopportato di dover tornare al laboratorio per fare delle aggiunte. ”Anche lei è tra le ultime a lasciare l’istituto questa sera, mi sbaglio?” non si girò a guardare la donna, stava osservando l’ambiente perfettamente curato che rispecchiava appieno Charlotte, almeno per quel poco che sapeva di lei. Solo dopo qualche istante si decise a voltarsi per guardare la donna negli occhi, l’unico desiderio che le lampeggiava nello sguardo era concludere in fretta la loro discussione.

    Edited by Aruna Divya - 13/12/2020, 14:19
     
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    Besaid era una strana cittadina, nessuno ad una prima occhiata avrebbe potuto dire che un posto così semplice potesse nascondere al suo interno così tanti segreti. Lei ci era capitata per caso, senza sapere che lo aspettasse una volta varcati i suoi confini. L’aveva scelta per la sua posizione strategica rispetto ai suoi desideri: non troppo lontana dal suo luogo di origine, così da poter raggiungere la sua famiglia se necessario, non troppo vicino ad esso, per evitare che i suoi genitori potessero venire a trovarla troppo spesso. Tante volte aveva desiderato di fuggire da quel piccolo paesino, sognando capitali europee, un vasto mondo che era convinta di vedere e invece era capitata in un altro paesino. Besaid era come una prigione dorata, fatta di ricerche e di tanto potenziale. Poteva darti molto, persino permetterti di trovare te stesso, ma come ogni cosa preziosa, anche quello aveva un prezzo non da poco. La libertà era qualcosa per cui molti avrebbero ucciso e quella città era in grado di togliertela senza neppure un avviso. Perché andare via da quel luogo, essere liberi di muoversi ovunque si desiderasse, per tutto il tempo che si desiderava, non era ammesso, se si voleva mantenere il ricordo di ogni dettaglio di ciò che accadeva all’interno di quei confini e delle persone di cui si faceva la conoscenza. Se si voleva avere il sapere, non si poteva più andare via, non a lungo quanto meno. Questo non le aveva impedito di viaggiare in tutti quegli anni, ma aveva sempre dovuto prestare attenzione a ogni minimo dettaglio della sua memoria. Ogni volta che partiva portava con sé una serie di domande e di commenti che ricontrollava giorno per giorno, per verificare che i ricordi più importanti legati a quel luogo non andassero mai via. Aveva sempre cercato di evitare che i suoi genitori venissero a trovarla e in quelle poche occasioni si era persino permessa di essere un po’ più morbida con loro, meno ribelle, visto che loro al loro ritorno a casa avrebbero iniziato a dimenticare. Non era semplice vivere in quel momento, avere la paura continua di dimenticare, di perdere ogni cosa, ma lei era sempre stata disposta a fare dei sacrifici per poter ottenere qualcosa di più. Aveva sempre desiderato lasciare un segno, di fare qualcosa di veramente importante per il mondo, e sentiva che quella era la strada giusta per lei e che continuando lungo quel percorso avrebbe raggiunto i suoi obiettivi. Quello che aveva dovuto sacrificare per arrivarci non aveva importanza, non se lei non lasciava che questo la ferisse. Raramente infatti lasciava che i suoi pensieri tornassero verso orizzonti meno felici, riportandola a pensare a quelle pochissime cose che avevano lasciato un segno su di lei, che non sembrava voler andar via.
    Diede un’occhiata veloce all’orologio, facendo un veloce calcolo di quanto tempo potesse mancare prima dell’arrivo della dottoressa. Eva era sempre stata molto puntuale, oltre che incredibilmente dettagliata e attenta. Aveva osservato con attenzione il suo modo di lavorare e di compilare ogni fascicolo che le era stato presentato davanti. Charlotte era convinta che si potesse comprendere molto dalle persone osservando indirettamente ciò che esse facevano, senza chiedere loro di dare spiegazioni esplicite. Molti si sentivano sotto attacco quando venivano poste loro determinate domande e tendevano a mettersi sulla difensiva, chiudendosi a riccio per non dire più nulla. Quello non le sembrava certo il caso della dottoressa Nguyen, con la sua aria fiera e testarda, ma aveva comunque preferito osservarla da lontano prima di tentare un approccio più diretto. Perché a volte era proprio chi tentava di mostrarli più forte, impossibile da scalfire, che nascondeva invece al suo interno le più grandi debolezze. A nessuno piaceva sentirsi vulnerabili, tanto meno a chi indossava una corazza tutti i giorni e lei non aveva compreso se quella della dottoressa fosse una corazza molto spessa, oppure soltanto il suo modo di vedere il mondo. Era una persona interessante, ma anche pericolosa, lo aveva dimostrato in passato con la furia con cui aveva risposto a Nikolaj e alcuni dei suoi colleghi avevano poi riferito che spesso di trovava in disaccordo con loro sui metodi da utilizzare, su alcune decisioni che avevano dovuto prendere in gruppo. Ancora non aveva compreso Charlotte se il suo fosse un genio che non aveva ancora espresso tutto il suo potenziale o se invece fosse solo una donna che ci teneva a remare contro il resto del gruppo, forse nel tentativo di brillare di una luce tutta sua. Ad ogni modo era molto curiosa di scoprirlo e di indagare più a fondo su di lei. L’aveva presa come una sfida personale, un obiettivo da raggiungere prima che una delle due potesse decidere di cambiare lavoro e trasferirsi in un luogo completamente diverso.
    Percepì il familiare suono dell’ascensore che raggiungeva il suo piano e si sistemò meglio contro lo schienale della sedia, portandola in direzione perfettamente parallela alla scrivania che aveva di fronte, in attesa della sua ospite. Il suo studio era sempre stato per lei un porto di sicuro, dove si sentiva perfettamente a suo agio e dove quindi nulla avrebbe potuto scomporla. Conosceva a memoria la posizione di ogni singolo oggetto, anche il più sciocco e il più piccolo. Notava sempre quando qualcuno entrava anche solo per portarle un documento, in sua assenza. Vedeva i minuscoli cambiamenti nell’armonia che era venuta a delinearsi nel corso degli anni e riconosceva subito il problema all’interno della composizione. Ancora pochi secondi, poi sentì la donna bussare dall’altro capo della porta. -Avanti! - rispose, semplicemente, alzando appena il tono della voce perché l’altra potesse sentirla, senza che ci fosse il bisogno di alzarsi per raggiungerla. -Dottoressa Nguyen, la trovo un po’ stanca. - la salutò a sua volta, con un cenno del capo, lasciando che un leggero sorriso le illuminasse appena il volto, mentre l’altra si avvicinava alla sua scrivania, accomodandosi sulla sedia di fronte alla sua, per poi appoggiare i fascicoli davanti a sé. La notò aggrottare leggermente la fronte, come se ci fosse qualcosa che non andava e immediatamente lei si fece più attenta, scrutandola con attenzione, come se si aspettasse di vedere esplodere una bomba davanti a sé da un momento all’altro. Lasciò che fosse l’altra a riprendere parola, dopo qualche istante e ascoltò il suo resoconto sulle problematiche che si erano verificare nelle varie sale durante i test sui pazienti, la prima cosa che le illustrò di quel fascicolo che aveva compilato. Il fatto che quello fosse il primo argomento di cui aveva voluto parlare le faceva intuire che tenesse a quello che accadeva in quelle sale, che prestava molta attenzione ai pazienti e alle varie complicazioni. Annuì in maniera leggermente più distratta Charlotte, invece, quando Eva le disse dei guanti che stavano per terminare. Avevano delle scorte di quei materiali di consumo quotidiano e facevano gli ordini in maniera piuttosto serrata, non la preoccupava quindi avere una notizia di quel genere. Sorrise, mentre prendeva tra le mani quella sottile cartella. Non aveva dubbi che la dottoressa avesse svolto al meglio quel compito all’apparenza terribilmente semplice e che si fosse assicurata di non trascurare alcun dettaglio. La sfogliò velocemente, per verificare che le sue parole fossero oneste, dando un’occhiata alle varie richieste, prima di annuire. -Sono sicura che sarà sufficiente, non si preoccupi, ma lo controllerò con cura domani mattina, a mente fresca. - le disse, mentre, dopo aver osservando velocemente anche le ultime pagine, richiudeva la cartella per poi appoggiarla di lato, accanto alla sua agenda.
    -La attendevo, in realtà. - ammise, senza troppi giri di parole. Certe volte era necessario introdurre gli argomenti servendosi di altri, ma in quel caso preferì essere molto diretta con lei. -So che siete sempre molto puntuale con le scadenze e non dubitavo quindi che sareste venuta oggi. - continuò, mentre teneva lo sguardo fermo sulla donna, come se volesse scrutare ogni suo più piccolo movimento. Le capitava di mettere le persone a disagio, alcune volte, con i suoi comportanti, anche quando non era nelle sue intenzioni. -Tuttavia non si sbaglia, raramente sono la prima ad andarmene dall’istituto, ma dagli orari che ogni tanto arrivano sulla scrivania mi è parso di constatare che anche lei si trattiene spesso più a lungo del suo orario. - aggiunse, con un sorriso tranquillo, mentre inclinava appena il capo per osservarla con un po’ più di attenzione. Probabilmente entrambe non vedevano l’ora di abbandonare l’ufficio e immergersi nella brezza fresca della sera, ma intendeva sfruttare quell’occasione per porle qualche altra domanda. -Come si trova nel suo nuovo settore? - domandò quindi, con un sorriso tranquillo sul volto che voleva esprimere un sincero interesse per la sua opinione. -C’è qualche problema con i colleghi di cui dovremmo essere a conoscenza? O con i pazienti magari? - le domandò, trattenendo un po’ più a lungo lo sguardo su di lei, nel porre quelle ulteriori domande, per cui probabilmente avrebbe avuto qualche remora in più. Nessuno voleva mai parlare apertamente dei propri colleghi o del proprio lavoro. -Si avvicina al fine dell’anno e come membro del Consiglio è mio compito portare nuove proposte per il nuovo anno, per migliorare ulteriormente il servizio che possiamo offrire, mi sarebbe molto utile avere un’opinione sincera da parte di chi lavora nel cuore del nostro istituto. - aggiunse, ammorbidendo appena il tono nel pronunciare quelle parole. Era vero che aveva molto a cuore le sorti dell’istituto e la sua immagine, ma era anche vero che probabilmente non ci sarebbe stato modo migliore per riuscire a cogliere eventuali sbavature nella memoria della donna che aveva di fronte.
     
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    La vetrata alle spalle di Charlotte era dipinta con l’inchiostro nero del cielo, l’unico punto di luce era quello di un aereo in lontananza che si agitava nell’oscurità, solo sollevandosi in piedi si poteva godere di una delle viste più belle della città. La prospettiva delinea il mondo non il contrario, era una sua convinzione su cui non scendeva a compromessi, secondo Eva il punto di vista rendeva un oggetto tale, vietato dirle che era in torto. Non indugiò troppo in quei pensieri, si trovava nell’ufficio della donna per un motivo specifico e desiderava andarsene a casa il prima possibile. Quell’ultima settimana l’aveva messa a dura prova, a quanto pareva era un’informazione che aveva scritto sul viso perché Charlotte le disse che le sembrava particolarmente stanca. Non apprezzò quello scacco di confidenza, parlare del suo umore significava perdere tempo prezioso che poteva dedicare a sorseggiare un bicchiere di vino a casa propria, ma rispose per educazione. ”E’ stata una settimana impegnativa, ci sono stati un paio di casi che hanno testato la mia pazienza e il mio stomaco.” le braccia incrociate al petto a ricordare che non aveva nessuna intenzione di sbottonarsi o di rilassarsi perché era lì solo di passaggio. Consegnò il rapporto a Charlotte spiegandole le cose più importanti a voce, così da portarle subito alla sua attenzione ancor prima che i suoi occhi potessero scorrere tra le copiose decine di parole che aveva scritto quella sera per lei. Quando le disse che avrebbe controllato il suo lavoro la mattina dopo pensava che non avrebbero avuto altro da dirsi, slacciò il primo bottone del camice bianco pronta a sfilarlo una volta uscita da quell’ufficio che pareva galleggiare nella notte, invece la donna la sorprese con le sue parole. ”La attendevo, in realtà.” sollevò leggermente un sopracciglio in tutta risposta, cosa poteva volere da lei? I loro ruoli all’interno dell’istituto erano molto diversi e si ritrovavano ad interfacciarsi solo per semplici burocrazie o scartoffie da firmare. Rimase in silenzio, lasciando che quest’ultimo pesasse ad ogni pausa che la donna faceva nel suo discorso, era come un terzo incomodo in una conversazione intima. ”Sì, ultimamente gli straordinari sono direttamente proporzionali all’eccezionalità dei pazienti che trattiamo. Particolarità importanti richiedono maggiore tempo, non trova?” mantenne la schiena ben dritta e le braccia serrate al petto senza alcun accenno di movimento. Era difficile non notare il messaggio di chiusura che lanciava il suo corpo, ogni singolo atomo di Eva era sulla difensiva esattamente come lei. Non che dovesse proteggersi da quella donna o dal proprio lavoro, ma non le piaceva la sensazione degli occhi di Charlotte che indagavano sulla sua pelle, accompagnati da un sorriso apparentemente di sincero interesse nei suoi confronti. Comprese solo ascoltandola dove voleva andare a parare, chissà che non le stesse facendo tutte quelle domande per una valutazione interna di cui non le era concesso sapere, oppure se semplicemente erano formalità da Human Resources che era obbligata a fare ad un certo punto del percorso di ogni dipendente. In ogni caso non era di suo gradimento quel questionario non programmato, ”Mi sono ambientata piuttosto in fretta, non sono considerata la più simpatica del reparto, ma è un dato di fatto piuttosto scontato.” sciolse il nodo che legava le sue braccia per indicare con la mano un pensiero piuttosto che un oggetto, come a voler dare una consistenza fisica al “dato” a cui si riferiva. ”Dovrebbe chiedere agli altri cosa pensano di me, solitamente alla gente piace molto parlare delle altre persone, il pettegolezzo è il carburante di molte menti, anche delle più brillanti purtroppo.” si sporse leggermente verso la scrivania, un sorriso appena accennato si tratteggiò sulle sue labbra dipinte di scuro, quel giorno aveva optato per una tonalità color mattone. ”Lei sa meglio di me, miss Lien, che utilizzare la parola problemi con un dipendente lo mette automaticamente in condizione di fuga dalla discussione. Cercherò lo stesso di essere breve così da poterci congedare e dirigerci verso attività più rilassanti per entrambe.” fece un breve pausa calcolata, lasciando che il suo sguardo si muovesse lungo i contorni dell’ufficio senza guardarlo davvero, fino a riportare i suoi occhi su quelli di Charlotte. ”Partendo dal presupposto che non sono esattamente un’anima socievole, a volte ho qualche divergenza con i colleghi per quanto riguarda il modo di approcciarsi al lavoro, ma credo sia normale dal momento che provengo dal ventesimo piano come base di preparazione. Il modo di trattare i pazienti e i dati sensibili è diverso, questo a volte crea qualche scintilla con i medici dalla mentalità più inflessibile. Nulla di preoccupante, a quanto può vedere.” fece una pausa per dare modo a Charlotte di assorbire le informazioni che le aveva appena dato, strinse leggermente le labbra come a voler spandere meglio i residui che le erano rimasti del rossetto color mattone che ormai aveva messo diverse ore prima. La verità era l’unico make-up che Eva era in grado di indossare con naturalezza nonostante la sua tendenza a rimanere ben nascosta sotto la propria pelle. Mentire doveva avere un’utilità, uno scopo ben preciso altrimenti rimaneva solo un insetto senza meta nell’aria di una stanza grande come quella. ”Non ho particolari osservazioni da fare per quanto riguarda la safety o la security sul posto di lavoro, ho sempre trovato tutto piuttosto curato sin da quando lavoravo nell’ala ospedaliera. Penso che l’unica grande differenza tra il ventesimo piano e il meno cinque sia il modo in cui vengono trattati i pazienti, ci vorrebbe un po’ di compassione in più anche per coloro che non hanno più nulla. In fondo nel sottosuolo arrivano coloro che si potrebbero definire gli invisibili della città.” le sfuggì un sospiro di stanchezza, per quanto cercasse di mantenere sempre il suo posto e di non lasciarsi prendere dai turbamenti delle emozioni certi argomenti le pesavano profondamente nel petto. Si chiedeva se il logoramento interiore potesse vedersi alla stregua di un abito consunto dal tempo, se così fosse stato il suo abbigliamento in quel periodo sarebbe stato molto più simile a quello di uno degli invisibili che detenevano nei sotterranei che a quello di una dottoressa. In molte occasioni si era chiesta se non fosse stato il caso di ammettere di aver fatto un passo falso scegliendo di abbracciare la causa del sottosuolo, si rendeva conto che vacillava sotto la pressione dello stress molto più frequentemente del solito e questo non era da lei. Le emozioni non erano mai state un problema, invece ultimamente si frapponevano tra lei e il suo lavoro con una prepotenza inedita. Aveva bisogno di una vacanza e il periodo delle feste l’avrebbe aiutata a ritrovare un po’ di quella calma che ultimamente l’aveva abbandonata. ”Altre domande miss Lien?” una domanda che aveva il peso di un’equazione matematica.

    Edited by Aruna Divya - 15/1/2021, 15:32
     
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    Lasciò che l’ombra di un leggero sorriso sollevasse appena gli angoli delle sue labbra mentre l’altra ammetteva, non molto felice, di essere reduce da una settimana piuttosto impegnativa. Il suo sguardo rimase fisso su quello di Eva mentre l’altra raccontava brevemente ciò che le aveva tolto le forze. Era sempre molto curiosa di sapere che cosa accadesse nel reparto medico, come si comportassero i pazienti, ma raramente riusciva ad avere delle risposte soddisfacenti. Doveva sempre accontentarsi di chiacchiere fugaci, di discorsi che nascevano troppo velocemente e si interrompeva quasi prima di nascere davvero. Non poteva dire di immaginare che cosa dovessero provare loro, il personale medico che doveva occuparsi direttamente dei pazienti e dei loro problemi, quindi non cercò di mostrare un’empatia che, invece, non potuto dimostrare di provare davvero. Dirle “So cosa prova, mi dispiace” sarebbe suonato falso e avrebbe sicuramente peggiorato l’umore del medico che aveva di fronte. Inoltre, non era certo a lei che la Dottoressa Nguyen doveva rendere conto delle sue ricerche. -Altri suoi colleghi mi hanno fatto presente la stessa cosa, spero che prima o poi capiterà anche qualche paziente un po’ più tranquillo. - rispose quindi, piuttosto sincera nel pronunciare quelle parole. Non apprezzava le perdite di tempo e il fatto che i loro medici fossero messi alla prova dai pazienti era senza dubbio un ostacolo per la buona riuscita dello studio. Fremeva all’idea di riuscire finalmente ad ottenere delle risposte sulle particolarità, eppure il tempo passava e nessuno sembrava riuscire a portare dei veri risultati. Chissà quanti anni ancora sarebbero passati prima di poterne venire a capo! La pazienza non le era mai mancata, eppure con il tempo iniziava a sentire un po’ di impazienza. Lasciò da parte quei pensieri in quel momento però, per prestare attenzione alle parole della donna sul suo ultimo rapporto, con tutte le richieste di forniture necessarie per le settimane successive.
    Eva iniziò a slacciarsi il camice, visibilmente impaziente di concludere velocemente quella conversazione, così da potersi dedicare ad attività più interessanti, per poi fermarsi e osservarla di nuovo quando invece Charlotte le rivolse una nuova domanda. Anche lei si sentiva stanca, eppure voleva comunque cercare di avere qualche notizia in più sulla bruna, ora che avevano modo di incontrarsi faccia a faccia, da sole. Non potevano dire di avere chissà quale rapporto, non avevano legato molto da quando la dottoressa era stata assunta all’istituto e svolgeva ancora la sua professione nell’ala legale. Con il suo passaggio ad un altro settore, tuttavia, Charlie aveva sentito la necessità di studiarla e accertarsi che tutto procedesse per il meglio. -Senza dubbio. - disse soltanto, in risposta al suo interrogativo piuttosto retorico. Era sicura che la dottoressa non necessitasse davvero di sentire il suo parere a riguardo e che cercasse soltanto di essere cortese, sebbene centellinasse le sue parole, nella speranza di chiudere il discorso. Dalla sua postura era piuttosto evidente che non si sentisse a suo agio o che, più semplicemente, non avesse alcuna voglia di parlare con lei. -La sto mettendo a disagio per caso? - domandò, ad un certo punto, con un sorriso sereno ad illuminarle il volto mentre la osservava. Mostrare all’apparenza qualcosa di molto diverso da ciò che pesava era sempre stato la sua specialità. Era brava nel lasciar trasparire sempre e soltanto l’essenziale e mantenere tutto il resto ben nascosto dentro di sè. Per quel poco che sapeva di Eva immaginava che essere punta nel segno non le sarebbe piaciuto affatto e che avrebbe presto sfoderato le unghie per mostrare di essere perfettamente a suo agio, in ogni situazione. Forse quello sarebbe bastato a farle mutare la postura, o forse no.
    Andò a incrociare le mani di fronte a sè mentre l’altra parlava, spiegando di essersi ambientata piuttosto bene anche se non poteva certo ritenersi la più socievole tra i loro dipendenti. -Mi perdoni per la franchezza Dottoressa Nguyen, ma non sono i pettegolezzi che mi interessano, quanto piuttosto una verità ben più oggettiva e misurata. - disse, in tutta franchezza. Aveva letto le parole della donna come una leggera accusa a cui tuttavia sapeva bene come rispondere. -Continua a ritenere che i suoi colleghi sarebbero più idonei per darmi delle risposte? - chiese quindi, domandandole velatamente se non si ritenesse abbastanza obiettiva per poter rispondere a delle semplici domande. Sorrise poi, piuttosto soddisfatta dal modo in cui l’altra aveva evidenziato la sua scelta non proprio perfetta della parola “problema” che forse l’aveva messa sulla difensiva. La sua risposta tuttavia le stava permettendo di leggere oltre ciò che Eva voleva raccontare. Mettere in evidenza come quella parola potesse spingerla a fuggire era Charlie un segnale che qualcosa da cui fuggire effettivamente ci fosse, che cosa fosse tuttavia non le era ancora dato saperlo. Si fece più attenta nel sentirle dire che i suoi “problemi” se così volevano chiamarli, con alcuni colleghi, derivavano da differenti approcci nei confronti dei pazienti, che lei attribuiva alla sua provenienza da un diverso settore. Era possibile che fosse quello, o magari si trattava di qualche ricordo della sua vecchia se stessa che cercava di farsi avanti. Annuì, mostrandosi molto interessate mentre l’altra continuava a discutere. -Io sono dell’idea che esperienze diverse possano solo portare dei benefici per la crescita della struttura. Se nel tempo vorrà fare qualche proposta per nuovi protocolli sarò ben lieta di ascoltarla e portarle poi al Consiglio. - le propose, sciogliendo l’intreccio delle mani, per poi riappoggiarle sulle sue gambe. -Mi rendo conto che possa essere complesso nel primo periodo dover cambiare completamente la propria routine, ma spero che queste divergenze possano appianarsi. Ho sempre sentito parlare di lei Dottoressa e sarebbe davvero un peccato perdere un elemento così valido. - concluse, notando la stanchezza sul volto dell’altra. Non aveva intenzione di spingerla al limite con una prima chiacchierata. Era davvero interessata a conoscerla, a cogliere qualche nuovo aspetto di quella donna così decisa e determinata che era sempre rimasta fuori dalla sua personale sfera di influenza.
    -Non era un interrogatorio il mio, ma solo interesse nel verificare la soddisfazione dei nostri dipendenti. - disse, mentre l’altra chiedeva se ci fossero altre domande per lei. -E’ stata una lunga giornata per entrambe e non intendo trattenerla qui ancora a lungo. - aggiunse, con un sorriso tranquillo, mentre chiudeva l’agenda di fronte a lei, pronta a spegnere il computer. -Mi chiedevo però se le andasse di farmi compagnia per un drink o un bicchiere di vino. Credo di non essere in grado di avere a che fare con un’intera sala da sola, per questa sera. - le propose, con una certa tranquillità, lasciandole tuttavia la possibilità di declinare quell’offerta senza troppi problemi. Era abbastanza convinta che l’altra non si sarebbe sentita obbligata a dire di si. -La attenderò al piano terra se vuole, tra qualche minuto. Il tempo di sistemare l’ufficio e prepararmi. - disse, per poi osservarla prendere la via della porta. Attese qualche istante prima di lasciare che un leggero sospiro fuoriuscisse dalle sue labbra. Era stato un incontro piuttosto complesso, ma poteva ritenersi abbastanza soddisfatta dei suoi risultati. Chiuse alcuni file sul computer, per poi spegnerlo e recuperare il suo cappotto dal guardaroba. Era curiosa di vedere una Eva al di fuori di un ambiente formale come quello dell’istituto, sebbene il preavviso non fosse stato molto. Raggiunse l’ascensore, schiacciò sul bottone corrispondente al piano terra e prese il suo telefono per verificare che non ci fossero messaggi, chiamate o email di particolare rilevanza, per poi dirigersi con aria sicura verso le porte. I suoi tacchi rimbombavano nell’atrio ormai vuoto e silenzioso. Attese giusto qualche minuto prima di vedere l’altra arrivare, senza più il camice bianco a coprirla. Le sorrise, facendo poi un veloce gesto alla guardia affinchè aprisse loro la porta e attendendo che fosse lei la prima ad uscire. -Siete venuta in auto? Io non guido di solito. - disse, per capire se l’altra intendesse utilizzare la sua vettura, o se poteva chiamare quella che di solito la accompagnava a lavoro e poi la portava ovunque lei desiderasse. -C’è qualche locale in particolare di questa città che apprezzate? - chiese quindi, curiosa, lasciandole la possibilità di decidere dove andare o di farsi guidare da lei.
     
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