No matter how many deaths that I die I will never forget

Eldjàrn&Dean | Obitorio | Tarda serata

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    La morte l'aveva vista parecchie volte e sotto le più diversissime forme: l'aveva raggiunto tramite il battito rallentato di un paio d'ali d'ape in procinto di arrendersi e cadere; si era presentata a lui tramite il manifesto funebre di un parente; era stata avvolta dalle fiamme e si era fatta letteralmente guardare nel bel mezzo della notte mentre ardeva prepotente attorno a lui; si rifletteva nei suoi occhi ogni volta che Torven tirava giù la coperta bianca che sovrastava l'ennesimo cadavere, visitatore inconsapevole dell'obitorio, cui spettava l'ultima visita in qualità di entità ancora presente al mondo e non solo sotto forma di pensiero o ricordo. Pensò a quanto fosse -quella- l’unica cosa certa nella vita. Il colmo solo a pensare che, dopotutto, qualsiasi cosa accadesse nella veglia e nonostante il minimo sforzo, ogni pelle si sarebbe seccata allo stesso modo. L’idea che sarebbe accaduto per certo anche a lui non lo disturbava, anzi lo incuriosiva e lo portava a domandarsi quando e soprattutto come sarebbe giunto il momento. Si sarebbe trasformato in qualcosa di certamente sconosciuto, eppure così familiare: la morte giungeva sempre superando qualsiasi ostacolo, e Eldjárn non sarebbe di certo stato risparmiato.
    Con la mente persa nel flusso di quei pensieri ormai sempre così vicini e intorpidenti, Eldjárn gettò un ultimo sguardo al cadavere dell’uomo, forse sulla sessantina, mentre andava a tirare su il telo bianco coprendogli così la faccia stanca e pallida, poco prima di stringere le dita attorno ai manici di metallo del cassetto sul quale il corpo era steso e spingere verso l’interno della cella, che andò a serrare con un tonfo sordo. Un sospiro un po’ incerto venne fuori dalle sue labbra nel momento in cui, voltandosi, vide Torven sobbalzare dallo spavento per il rumore appena echeggiato tra le pareti dell’obitorio, giungendo alle sue orecchie da mercante e svegliandolo da un sonno che improvvisamente lo aveva colto circa venticinque minuti prima. Ragazzo, che ore sono?! domandò intontito il medico drizzandosi frettolosamente con la schiena e sistemandosi sulla sedia mentre tirava il camice da un lato per aggiustarselo addosso. La luce al neon della stanza illuminava pigramente il suo viso, sul quale Eldjárn potè comunque notare una piccola scia di saliva che aveva abbandonato autonomamente le labbra qualche istante prima per scivolare fino al mento quando, con la testa ricurva verso il basso, il vecchio Torven era quasi rotolato inconsciamente per terra a causa del peso sbilanciato che aveva scosso la sua figura pesante e ormai invecchiata. Le dieci passate. rispose allora lui sollevando il braccio destro in direzione dell’orologio nero e argento appeso sulla porta d’ingresso che portava all’ascensore che collegava l’obitorio al resto dell’ospedale. Si è addormentato circa mezz’ora fa, signore. aggiunse poi Eldjárn, inarcando le sopracciglia per resistere all’impulso di lasciarsi andare ad una risata divertita, soprattutto perché consapevole del fatto che il meglio ancora non era saltato fuori dalle labbra del Dottor Nyberg, che in qualche modo aveva sempre una risposta e una giustificazione a tutto. Aaah, mi prendi per il culo? Stavo solo riposando gli occhi, ti pare che posso dormire su questa sedia di merda?! I tagli, gli stramaledetti tagli alla sanità! Queste non sono le giuste condizioni in cui un vecchio stronzo come me può lavorare, che razza di rispetto è?! Aah, ma te lo dico, ragazzo! Te lo dico! Lo giuro sulla buon’anima di mia madre, povera ingenua, prima o poi ci lascio le penne in questo buco di culo! prese a lamentarsi come al solito mentre, sebbene fosse ora di alzare il sedere dalla sedia e darsi una mossa con le pulizie e la chiusura prima di andare, continuava a gesticolare freneticamente da seduto, le gambe in movimento in un ticchettio che arrivava fino ai talloni, gli stessi che sbatteva per terra quando si agitava come un bambino affamato. Allora mi sarò sbagliato io, ero persino convinto di averla sentita russare, a un certo punto... continuò Eldjárn avanzando poi di qualche passo verso di lui e fermandosi al suo fianco andò a posare il palmo della mano sulla spalla di Torven, regalando al vecchio un sorriso decisamente compiaciuto e divertito. Baggianate! Controllavo che le carte fossero a posto, qui. Vedi? E se non le faccio io queste cose, chi le deve fare secondo te, ah? Tu?! Pfff! prese a blaterare altre scuse, alibi che con Eldjárn a ben poco servivano, ma che il ragazzo si era abituato ad ascoltare per vedere sempre fino a che punto fosse capace di arrivare. Quando le mani del vecchio raggiunsero i moduli accatastati sulla scrivania che aveva davanti per sollevarli e lasciarli ricadere sulla superficie grigia di plastica, Eldjárn scosse il capo, quasi impietosito dalla scena esilarante che spesso gli si presentava sotto agli occhi. Ha ragione, signore. Che ne dice se va a finire di riposarsi gli occhi a casa e qui finisco io di chiudere? propose allora Eldjárn ritirando la mano e lasciando libero Torven di sollevarsi finalmente dalla sedia e non senza qualche altra semi silenziosa lamentela di dolore. Lavorava lì dentro da ormai più di quarant’anni, il vecchio aveva davvero bisogno di riposare un po’, su questo non vi era alcun dubbio. Chiudi tu? Sì, chiudi tu, mi merito un bel bicchiere di scotch, un sigaro e una dormita rigenerante. Non dimenticare di controllare la temperatura sul rilevatore prima di andare. E chiudi tutte le finestre, stamattina mi si è congelato il deretano! sentenziò il vecchio Torven mentre s’incamminava verso la porta, afferrando poi sciarpa, cappello e giacca ed infilandoseli mentre apriva la porta per lasciarsi l’obitorio alle spalle ancora una volta. Nossignore. rispose Eldjárn mentre lo accompagnava alla porta che dava ai corridoi asettici e bui che conducevano alle cantine dell’ospedale. Sorrise di gusto anche quando la sagoma stanca del Dottor Nyberg scomparve lentamente oltre le porte automatiche dell’ascensore, le stesse dalle quali apparve la figura possente di suo fratello Dean. Lo guardò, un angolo della bocca che si sollevava in un mezzo ghigno, lo stesso che Dean era abituato a vedergli sulla faccia ogni volta che si incontravano. Sebbene più della metà della famiglia Lundberg non andasse a genio ad Eldjàrn, Dean era sempre stato un mondo completamente a parte: sin da bambini, sin da quando avevano condiviso quella piccola stanzetta e un letto a castello, i due fratelli avevano trovato il modo per venirsi incontro in qualsiasi caso e in qualsiasi circostanza. Era raro che una litigata durasse più di un paio di giorni, quello stesso sorriso che Eldjàrn gli riservava in quel momento era costantemente tornato a troneggiare sul viso del più piccolo quando i suoi occhi tristi si erano agganciati a quelli più vispi di Dean. Era così che funzionava, un vizio che mai avrebbe potuto togliersi di dosso. Fratello, sei l’unico visitatore esterno che qui dentro continua a metterci piede da vivo. lo salutò quindi il minore, sollevando il mento nella sua direzione per poi chinare il capo da un lato e invitare il maggiore a seguirlo all'interno della sala. Una volta oltre le porte a vetri, Eldjàrn raggiunse il tavolo operatorio ancora in disordine per racimolare tutti gli attrezzi da lavoro e farli scivolare in una coppetta di plastica. Ho quasi finito, se vuoi aspettarmi. Ma che ci fai qui? chiese allora, voltandosi brevemente verso il fratello mentre portava la ciotola verso il macchinario che li avrebbe lavati e disinfettati nuovamente. Fece scivolare gli attrezzi di metalli all’interno dell’apparecchio meccanico, accendendolo per poi allontanarsi di nuovo e liberare i contenitori della spazzatura delle grandi buste blu che se ne stavano piene al loro interno. Le chiuse tutte e le sistemò di fianco alla porta che dava sul retro dell’ospedale dove i contenitori dei rifiuti biologici e non erano sistemati. Ti sei già fatto cacciare dal nuovo ristorante? Sai, prima o poi finiranno i luoghi in cui potrai mandare i curriculum senza che ti conoscano già. sentenziò Eldjàrn, voltandosi a guardare il fratello e sorridendo divertito al ragazzo mentre con un piede lasciava strisciare l’ultimo sacco blu per terra così da avvicinarlo agli altri. Dopodiché si voltò verso Dean e portò le mani ai propri fianchi, le dita che si aggrappavano stanche alla vita sottile. Poi non ti resterà altra possibilità se non quella di venire a lavorare qui con tuo fratello. affermò quindi Eldjàrn con un tono di voce divertito. SI spostò di fretta verso la parete ricolma di celle dai portelli d’acciaio e ne aprì uno, tirando fuori la tavola fredda sul quale era steso l’ennesimo corpo senza vita. Sollevò appena il telo bianco prima di alzare lo sguardo su Dean e ridacchiare divertito: il viso immobile di una donna sulla quarantina se ne stava con gli occhi serrati sotto alla luce fioca dei neon per metà accesi all’interno del laboratorio. Guarda qua, questo è quello che ti aspetta. Un po’ in tutti i sensi. scherzò il più piccolo riferendosi non solo al lavoro, ma all’unica certezza che ogni essere vivente potesse avere per tutta la vita.
     
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    Quella sera tutto era così tranquillo da far quasi dimenticare che normalmente il Rainbow fosse ricolmo di persone. Dopotutto però era normale, serate piatte capitavano un po' a tutti, erano l'ideale per depennare alcuni impegni dalla lista delle cose da fare: Dean, che dal canto suo non riusciva mai a starsene con le mani in mano, si era dilettato nel cambiare le guarnizioni a diversi lavandini che sembravano avere un getto non troppo convinto. Ci aveva visto giusto, il problema stava semplicemente lì, non nell'idraulica, e per fortuna! In quel caso sarebbe servita una bella sommetta per scoprire il problema e soprattutto per risolverlo.
    Ritornato nella sala principale per dare un'occhiata, si rese subito conto che quello che vedeva in cucina non era che il riflesso di quanto accadeva altrove. Alzò il braccio sinistro, dando un occhiata al suo vecchio orologio da polso, uno dei pochi ricordi di suo padre che gli piaceva ancora portare: gliel'aveva regalato quand'era piccolo, molto piccolo, Eldjàrn non aveva che uno o due anni. Gli aveva detto che era un dono prezioso, che l'avrebbe reso un ometto: Dean, timidamente, l'aveva messo al polso, troppo piccolo persino per ospitare il quadrante del bel cronografo. "Quando sarai più grande." gli aveva risposto suo padre, invitandolo a riporlo in un cassetto, accanto alle sue cose: nella sua stanza, il piccolo lettino a forma di automobile di lì a poco sarebbe stato sostituito da uno decisamente più grande e spazioso, a castello, col quale convivere insieme al fratellino in quei pochi metri quadri. All'epoca, non gli andava a genio quel bambinetto con l'espressione perennemente annoiata e triste: suo padre gli aveva fatto quel dono per tenerlo buono, per fargli capire che in fondo gli voleva ancora bene, anche se non era più l'unico baby Lundberg della casa. Non avrebbe mai creduto di potersi affezionare tanto a quegli occhioni tristi che, nonostante la maturità, avevano sempre lo stesso aspetto: aveva imparato a coglierne le diverse sfumature, a capire l'umore di Eld e a sapere come prenderlo. Erano come il sole e la notte, diversi sotto ogni punto di vista, ma allo stesso tempo ben bilanciati, a creare un perfetto equilibrio fra luce e buio. «Ti offendi se stavolta lascio a te l'onere di chiudere?» si rivolse a James, accompagnando le sue parole ad una pacca sulla spalla, con il suo solito sorriso bonario. «Vorrei portare un cheeseburger a mio fratello, che di sicuro si sta ancora deprimendo all'obitorio.» E magari cenare anche, visto che aveva un certo languorino: gli erano sempre piaciuti i panini da pub, con tutte quelle salse e contorni, ma soprattutto con l'hamburger perfettamente al sangue, che si scioglie in bocca ad un singolo morso, inondando di grasso e succhi l'intero panino. Per lui era come un culto e si sentiva particolarmente fortunato ad avere l'Egon vicino: ormai, anche lì, lo conoscevano e conoscevano perfettamente i suoi gusti. Doppio cheeseburger con bacon, insalata, pomodori e patatine fritte, rigorosamente a parte, insieme a del ketchup e un paio di birre: erano necessarie, altrimenti il panino gli sarebbe rimasto in gola, incapace di scendere giù per affrontare la digestione. Aveva uno stomaco di ferro, poteva digerire qualunque cosa, anche i peperoni di sera, per quanto non gli piacessero particolarmente.
    Col benestare di James, dato un saluto anche alle co-proprietarie del ristorante, Dean si infilò la giacca e si diresse verso il pub, facendo una rapida chiamata in maniera tale che, al suo arrivo, i panini fossero già pronti: da cliente abituale quale era, non fu nemmeno un problema per loro. In groppa alla sua fidata Impala, guidò fino alla sua meta, approfittandone per scambiare qualche chiacchiera con i camerieri che, così come loro al Rainbow, quella sera non avevano molto da fare: «Io mi sono dileguato, un pessimo dipendente.» disse al barista, un ragazzo dai tratti orientali che non faceva che sorridere tutto il tempo, come fosse entusiasta della vita. Scroccò qualche nocciolina dal bancone nell'attesa e, una volta che il suo ordine fu pronto, salutò tutti con un cenno della mano, tornando in auto: era quasi Natale e stava andando a "festeggiare" nel luogo più allegro di Besaid. Era così abituato a frequentare quel posto da non avere nemmeno repulsione alla vista dei cadaveri: non aveva mai capito il perché Eld avesse scelto proprio quel luogo come impiego lecito, ma non l'aveva mai giudicato. Contro ogni aspettativa anzi, la scelta di tale professione gli aveva garantito una serie di battute sul povero fratello che, ormai rassegnato, le ascoltava senza dargli troppa attenzione: i geni come lui spesso erano incompresi, soleva rispondergli.
    Arrivato a destinazione, parcheggiò in uno degli spiazzi liberi, infilò le chiavi nella serratura per chiudere l'automobile - non era di quelle moderne, col controllo a distanza, ma a lui piaceva il vintage - ed entrò all'interno dello stabile, assicurandosi di dare il nome del fratello all'ingresso, affinché non gli creassero problemi: ormai lo conoscevano anche lì, per cui entrò senza tanti giri di parole. «Toc toc.» fece, bussando ad una porta immaginaria mentre le porte dell'ascensore si aprivano, mostrando ai suoi occhi la figura di Eld che stava per rientrare. Fratello, sei l’unico visitatore esterno che qui dentro continua a metterci piede da vivo. «Che posso farci, questo tanfo di morte e questo arredamento asettico sono troppo invitanti per non continuare a presentarmi qui.» ironizzò a sua volta, muovendo qualche passo a seguire l'altro all'interno della sala nella quale trionfavano attrezzi da lavoro ed un po' di disordine, teli bianchi qua e là compresi. L'odore di alcol era pregnante e, nonostante a Dean piacesse bere, quello gli ricordava più quando da bambini si sbucciavano le ginocchia e finivano col farsi medicare dai genitori: quel maledetto liquido rosa. Usare l'acqua ossigenata era troppo complesso e sano per loro, meglio far bruciare delle ferite come se fossero ustioni di quinto grado. «Come che ci faccio qui? Non sei contento di vedermi?» rispose alla domanda del fratello, portandosi una mano al cuore con finta offesa negli occhi, nella voce e nell'espressione. «Ti ho portato la cena, finisci prima però.» aggiunse poi, alzando il sacchetto nel quale teneva tutto ciò che aveva acquistato e che, ad esser onesti, non vedeva l'ora di consumare: le arachidi mangiate fra una chiacchiera e l'altra col barista gli avevano aperto lo stomaco. «Stranamente comunque non mi hanno ancora cacciato dal ristorante, nonostante una delle due boss - ci pensi, sottomesso da non una ma ben due donne, rosse per giunta - non sia delle migliori. E' la figlia degli Ellenstad, anche se sembra aver dimenticato sia noi che la sua famiglia.» spiegò, lasciando poi cadere il discorso, per evitare di incupirsi: la loro famiglia e quello che era accaduto era un po' un tabù per entrambi, Dean sapeva che Eldjàrn non approvava quanto stava facendo ed Eldjàrn sapeva che Dean si sentiva quasi in obbligo nel farlo. C'era disaccordo, ma non per questo inciviltà: là dove non arrivava la ragione arrivava il cuore dopotutto. Sai, prima o poi finiranno i luoghi in cui potrai mandare i curriculum senza che ti conoscano già. Poi non ti resterà altra possibilità se non quella di venire a lavorare qui con tuo fratello. «Non vedo l'ora.» rispose, sedendosi su di uno sgabello, osservando il minore che si affaccendava qua e là. Spostò lo sguardo da lui alla parete con le diverse celle nelle quali venivano conservati i corpi dei malcapitati prima che finissero al cimitero per la sepoltura o la cremazione, incontrando il volto di una donna che non poteva avere che una decina d'anni più di lui: in effetti, come gli era stato fatto notare, era proprio quello che lo aspettava. La vita era così caduca che vivere affannandosi non gli sembrava che una sottile ironia, come se ogni essere umano fosse un pesce chiuso all'interno della sua boccia: certo, la Terra era un bellissimo acquario, ma era pur sempre una prigione, nella quale tutto sembrava essere importante, pur non essendolo davvero. «Mm-hm. Ottima cera, signora.» inclinò lievemente la testa, cercando di leggere il nome sul cartellino che era poggiato poco distante, senza riuscirci, spostando poi lo sguardo verso Eldjàrn: «Devi ammettere che però io sarei decisamente più affascinante su quello stesso lettino. Tutto serio, con la mia mandibola pronunciata, un figo come sempre.» alzò il mento, come a mostrare il profilo, accarezzandosi l'accenno di barba che aveva. Lasciò ricadere la mano sulla sue cosce, sulle quali stava poggiata anche la loro cena: «Che dici, vogliamo mangiare qui oppure ci spostiamo?» domandò, prendendo un lembo del sacchetto e facendolo di poco ondeggiare, come per riportare l'attenzione sul vero protagonista della giornata. «Non mi sento a disagio nell'avere compagnia, parlerò io per i tuoi ospiti di poche parole.» aggiunse, sarcasticamente, con un sorriso soddisfatto. «Mentre finisci magari inizio ad aprire una birra però, che sto morendo di sete.» Ed era stato così gentile da non inaugurare nemmeno da bere prima del suo arrivo all'obitorio. Non scherzava comunque, realmente non aveva problemi nel mangiare lì, nonostante l'ambiente non fosse propriamente quello di un ristorante stellato: il comitato d'accoglienza non era invadente quantomeno, il che giocava a suo favore. Stappata una bottiglia, aiutato dal mazzo di chiavi di casa, Dean ne bevve un sorso, lasciando che dalle sue labbra ne venisse fuori un suono soddisfatto, come se l'avesse rigenerato. «Sempre buona la birra fresca, anche con -20°C all'esterno.» si disse, guardando la bottiglia della solita birra doppio malto che prendeva. «Tu che mi racconti, è sempre il solito mortorio qui?» chiese, utilizzando volutamente quella parola per riferirsi all'obitorio. Aveva sollevato lo sguardo verso Eldjàrn, decidendo di rubare una delle patatine dal sacchetto mentre attendeva che finisse, giustificandosi con un "Ho fame" detto masticando. «Ormai se non vengo a cercarti io sei come una cometa: si sa quando appari e non quando ricompari.» fece, scuotendo un po' il capo. I loro appuntamenti fissi erano per la gestione della loro attività, il Labirinth, fruttuosa ma decisamente dispendiosa sia per i clienti che per loro, in termini di organizzazione: c'era bisogno che le loro particolarità fossero ben coordinate, che tutto fosse ben congeniato affinché le illusioni fossero convincenti e la loro attenzione non calasse, nemmeno per un attimo. «Io giorni fa ho rivisto Kai, quel tizio con gli occhi chiari pieno di soldi che anni fa era cliente abituale.» spiegò, dandogli qualche dritta su chi fosse: «Il mio cliente preferito.» aggiunse poi, dandogli l'informazione più preziosa. «Mi ha lasciato guidare una Cadillac del '63. La sua è di un bel rosso fiammante. Quando ho l'ho vista mi si sono bagnati gli occhi dalla commozione.» Esagerò nel descrivere la scena, alterando lievemente la voce e allungando l'indice all'occhio destro, come a volersi asciugare una lacrima per davvero. A dirla tutta però, vi era un briciolo di verità in quelle parole: Dean aveva una vera e propria ossessione per le macchine d'epoca, l'aveva sempre avuta, sin da bambino, e di fatto poteva contare nella sua collezione diversi pezzi interessanti, praticamente tutti quelli dei Göransson, ma in miniatura. Avevano anche loro un bel valore, benché fosse solo affettivo. «Bellissima, Eld. Se avessi un millesimo delle sue possibilità probabilmente la mia seconda scelta ricadrebbe proprio su quella, dopo l'Impala ovviamente: alla mia piccola sono terribilmente affezionato, lo sai.» Alzò di poco le spalle, accennando un sorriso: «Il nostro è un rapporto speciale.» Unico ed insostituibile, come quello fra i due fratelli Lundberg dopotutto.
     
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    Non è raro che un bambino sviluppi un lieve sentimento di gelosia assistendo al puro abbraccio fra uno dei genitori e un fratello. Era successo anche ad Eldjàrn, tantissime volte. L’unica differenza stava nel fatto che, inaspettatamente, non fosse contrariato dalla scelta di sua madre di abbracciare Dean invece che lui ma, anzi, dal fatto che quest’ultimo si lasciasse abbracciare dalla donna. Sin dai primi anni, quando Eldjàrn aveva iniziato ad assimilare informazioni e particolari su come funzionassero Hannah e Karl, sebbene non riuscisse pienamente a comprenderne ogni angolatura, il piccolo aveva intenzionalmente spostato tutte le proprie attenzioni sul fratello maggiore, l’unico dal quale effettivamente le riceveva e di cui inconsciamente il piccolo Eldjàrn aveva bisogno. Ed erano cresciuti così, restando saldamente uniti anche quando tutto il resto intorno alle loro vite iniziava a cadere in pezzi. Così, quando la sagoma possente di Dean apparve oltre le porte dell’ascensore, Eldjàrn ripensò a quanto quell’immagine fosse solo l’ennesima che si accostava a tante altre, tutte uguali: il maggiore che si presentava alla sua porta, qualunque essa fosse, con un sacchetto ricolmo di cibo, la cena che spesso ad Eldjàrn non andava neanche di preparare. E quando questo accadeva, quando Dean arrivava senza preavviso e beccava sempre e comunque il momento giusto, Eldjàrn aveva la conferma di aver scelto in maniera corretta per tutta la vita. Era lui la sua famiglia. Era lui che l’aveva protetto, lui che l’avrebbe continuato a tenere al sicuro da tutto. «Che posso farci, questo tanfo di morte e questo arredamento asettico sono troppo invitanti per non continuare a presentarmi qui.» botta e risposta, come al solito. Dopo avergli fatto strada da bravo uomo di casa, Eldjàrn non potè comunque evitare di domandare al fratello come mai avesse deciso di passare anche quella sera. Ancora un po’ incredibile, il modo in cui funzionavano: Eld e Dean c’erano anche senza essere presenti, e quando lo erano tutto diventava realtà travestita da gioco. Erano capaci di scherzare e fare battute anche sulla morte, e quello ad Eld piaceva da morire. «Come che ci faccio qui? Non sei contento di vedermi? Ti ho portato la cena, finisci prima però.» rispose quindi l’altro e, non appena ebbe terminato di pronunciare quelle parole, il viso di Eldjàrn si era sollevato immediatamente nella sua direzione, alla ricerca della solita busta di cartone contenente la cena acquistata all’Egon. Annuì quindi nella sua direzione appena prima di voltarsi e svuotare i contenitori dai sacchi blu e disporli per terra di fianco alla porta. Scherzò riguardo al lavoro e al fatto che ormai sembrava divertirlo saltare da un datore all’altro, era quasi sicuro si fosse fatto metà dei locali di Besaid nel giro di qualche anno, più di tutte le ragazze che erano finite con le mani all’altezza dell’elastico delle sue mutande. Sebbene lo stesse ascoltando, in un primo momento non fece esattamente caso a ciò che Dean gli disse poco dopo. «Stranamente comunque non mi hanno ancora cacciato dal ristorante, nonostante una delle due boss - ci pensi, sottomesso da non una ma ben due donne, rosse per giunta - non sia delle migliori. E' la figlia degli Ellenstad, anche se sembra aver dimenticato sia noi che la sua famiglia.» - con la testa al gioco e lo sguardo che seguiva per qualche secondo i lineamenti del viso di quella donna distesa dormiente sulla staffa di metallo, Eldjàrn tornò ad elaborare lentamente le parole udite, cercandovi all’interno un disequilibrio, qualcosa che avrebbe fatto inclinare l’intera conversazione. Lasciò correre, ancora del tutto inconsapevole del seme appena piantato nella mente dal fratello, e proseguì con lo scherzo riguardo il cadavere e la fine che Dean avrebbe fatto se solo avesse continuato a fare il dipendente nomade. Sentì lo sgabello distante pochi metri da lui inclinarsi leggermente sotto al peso della sagoma del maggiore, il quale si accomodò su di esso con il busto rivolto verso di lui e lo sguardo che ne seguivano ogni spostamento fra quelle mura. «Devi ammettere che però io sarei decisamente più affascinante su quello stesso lettino. Tutto serio, con la mia mandibola pronunciata, un figo come sempre.» aggiunse Dean, riferendosi all’ipotetica immagine di lui, morto e disteso su quel lettino al posto della donna. Scrollò appena le spalle, il minore, risollevando lo sguardo sull’altro e lasciando che uno degli angoli della bocca si sollevasse verso l’altro in un mezzo sorriso divertito. «Chiederei al vecchio di lasciarti a me, ti preparerei per la bara con amore e aggiungerei un tuo molare alla mia collezione.» annunciò, ridacchiando appena mentre, lontano universi paralleli forse, Eldjàrn si immaginava ad aprire letteralmente il fratello in due. Con uno scatto veloce e quasi noncurante, Eld lasciò che il telo bianco tornasse a coprire il volto del cadavere, spingendo poi la staffa di metallo all’intento della cella, che andò a sigillare nuovamente subito dopo. «Che dici, vogliamo mangiare qui oppure ci spostiamo? Non mi sento a disagio nell'avere compagnia, parlerò io per i tuoi ospiti di poche parole.» chiese ancora, Dean, palesemente affamato ma forse troppo gentile per dirlo in maniera chiara e delineata. Scosse allora il capo, Eld, tornando a sorridergli divertito mentre andava ad afferrare i due sacchi blu, sollevandoli dal pavimento mentre, con un piede posato sulla superficie di metallo della porta, l’apriva di scatto. «Tu parli sempre troppo, a prescindere dal fatto che intorno possano esserci cadaveri o professori di filosofia. E certo, serviti pure, il solito ingordo.» disse nella sua direzione con tono ironico appena prima di oltrepassare l’uscio e ritrovarsi fuori per liberarsi dei rifiuti. Dopo qualche istante rientrò a mani vuote e si chiuse la porta alle spalle, per poi raggiungere la scrivania di fianco al quale si era sistemato Dean e togliere via un po’ di cianfrusaglie lasciate da Torven, ovviamente, spostandole verso l’altra estremità. «Tu che mi racconti, è sempre il solito mortorio qui?» chiese, e la freddura venne via dalle sue labbra come una grandinata che sfonda il tettuccio di una macchina decappottabile. Sospirò, il minore, voltandosi a guardare Dean mentre gli girava intorno per raggiungere la sedia e affondare in essa. Allungò un braccio in direzione del sacchetto ancor prima che Dean potesse fare qualcosa per fermarlo, e lo tirò a sé per metterlo al centro fra di loro. Aprì, sbirciandoci dentro per qualche secondo e, infilando poi una mano al suo interno, tirò fuori i due panini e i cartonati delle patatine. Poi, d’un tratto, si fermò. «Sshh - Hai sentito?» chiese, serio, in direzione del fratello. Con gli occhi spalancati e una mano ora aperta dietro l’orecchio destro, Eldjàrn lo incitò a star zitto e udire. Restarono così circa quattro secondi, poi Eldjàrn tornò a guardarlo negli occhi, scuotendo il capo. «La battuta è così vecchia che persino i morti si sono rivoltati nelle celle.» sentenziò, infilandosi una patatina in bocca e masticando piano mentre teneva ancora lo sguardo divertito su di lui. Con una spinta leggera della mano fece poi scivolare il panino lungo la superficie del tavolo nella sua direzione, lasciandoglielo afferrare. «Piccolo Dean, si vede quando sei a stomaco vuoto, i due neuroni che ti rimangono fanno la lotta alla sopravvivenza per superare la fame.» commentò, con tono decisamente serio. «Ormai se non vengo a cercarti io sei come una cometa: si sa quando appari e non quando ricompari.» esclamò allora il maggiore, afferrando il panino mentre riprendeva a scuotere la testa nella sua direzione con fare fintamente indignato. Inarcò le sopracciglia, Eld, nell’udire la metafora del fratello e, sebbene non avrebbe voluto avere una reazione fin troppo esagerata, non potè affatto impedirsi di scoppiare in una risata. Dovette posare il panino sulla carta ferma fra i suoi gomiti mentre con una mano andava ad afferrare una delle bottiglie di birra che Dean aveva portato per aprirla con uno degli accendini sparsi in mezzo alle carte di Torven. «Lo sai, fratello. Mi piace un sacco farmi desiderare.» commentò allora, dopo aver dato un primo sorso alla birra fresca. Si asciugò le labbra con il dorso della mano e ascoltò ciò che il maggiore aveva da dirgli riguardo le auto e il tipo che gli aveva permesso di guidarle. Il tizio con gli occhi chiari e pieno di soldi di nome Kai, Eldjàrn se lo ricordava si, ma si era sempre chiesto cosa effettivamente avesse a che fare con suo fratello. Per quanto non spettasse ad Eldjàrn giudicare, lo sapeva perfettamente, non poteva mai fare a meno di essere sospettoso. L’esperienza di tutti quegli anni e il caos combinato da loro padre gli avevano insegnato a prestare attenzione, a circoscrivere le amicizie ad una cerchia ristretta, cosa che Dean sicuramente non faceva. Quella era una delle tante cose sul quale erano differenti. E fu proprio per via di quell’argomento che, come un treno ad alta velocità, le parole del fratello di poco prima tornarono a sostare nella mente di Eldjàrn, prendendo una vera forma forse solo in quel momento. «Ah-ah.» mugugnò mentre, lentamente, mandava giù il boccone del panino e, incerto e confuso, sollevava lo sguardo sul fratello. «Kai.» si trovò a ripetere quel nome nonostante la mente fosse rimasta ad Ellenstad. «Gentile Kai.» sussurrò ancora, lo sguardo che ora vitreo stava separando la mente dal presente, riportandolo ad un momento preciso vissuto anni prima: Dean, stremato, cercava una soluzione ai problemi che qualcun altro aveva causato loro. Quasi come uno schiaffo, quel ricordo riportò a galla questioni mai risolte, ma solo messe da parte per un bene più grande, quello fraterno, l'unico che Eldjàrn avesse davvero conosciuto. «Perché non gli chiedi se ti offre un bel lavoretto, così eviti di sottostare alla rossa venne fuori di fretta, quella frase. Le parole gli rotolarono via dalle labbra una dopo l’altra assieme ad una stretta allo stomaco, la stessa che aveva provato quando, anche tirandosene fuori per puro egoismo, Eldjàrn aveva capito le intenzioni di Dean nell’appiattire i conflitti che loro padre aveva generato, rovinandoli. Col panino ora lontano dalla bocca e stretto a mezz’aria fra dito indice e pollice, Eldjàrn tornò a guardare suo fratello. «Oltre il danno, ora anche la beffa. Non posso credere che tu lo stia facendo… davvero.» sussurrò piano, Eld, riferendosi all’idea di lavorare per conto degli Ellenstad. «Sai, ho sempre pensato che fossi troppo buono. Quando tornavamo da scuola e non c’era nessuno ad aspettarci, tu ti rimboccavi le maniche e provvedevi a non farci morire di fame neanche per una sera. E poi -lo ricordo come fosse ieri- sentivamo la porta d’ingresso spalancarsi e loro due rientravano come se fosse normale, come se fosse logico stare via tutto il giorno per vendere collane o bere birra in un cazzo di cantiere, come se metter su famiglia fosse un rito di passaggio per una coppia sposata, niente di più, niente responsabilità.» si perse un secondo, lo sguardo di nuovo lontano, per poi spostarlo di nuovo in quello di Dean. «Eri buono, con me. Sei buono con me, Dean.» sospirò, allentando la presa delle dita sull’ultimo pezzo di panino e lasciandolo cadere sulla carta. «Ma certe volte sei anche molto stupido.» disse, il tono della voce che si faceva appena più duro mentre, strofinando le dita delle mani le une contro le altre, lasciava cadere le briciole rimaste attaccate ai polpastrelli caldi. Che Eld fosse stato da sempre contrario al modo in cui Dean si era fatto carico dei problemi del padre, questo era sempre stato abbastanza evidente e chiaro ad entrambi. A volte, addirittura, Eld aveva pensato però di aiutarlo, ma l’orgoglio e il sentimento di repulsione che aveva sviluppato nei confronti dell’irresponsabilità dei loro genitori erano stati sempre più grandi del resto, accecandolo e impedendogli di vedere le cose forse da una prospettiva diversa, quella da cui guardava Dean. «Non farti abbindolare. Dimenticare non significa automaticamente anche cambiare, diventare qualcun altro.» aggiunse poi, afferrando il collo della bottiglia di birra per farla ondulare qualche istante, avvicinandola poi alle labbra per berne l'ennesimo sorso amaro, lo stesso sapore di quei pensieri tradotti in fili di voce poco prima.
     
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    «Ma lo sai che è proprio un'ottima scelta?» fece Dean con un'espressione soddisfatta. «Conservi un bel ricordo del suo amato fratellone senza usurpargli la dentatura perfetta. Un genio, Eld, un genio.» Non era chiaro se Dean avesse l'autostima alle stelle o se scherzasse, probabilmente vi era l'unione di entrambe le cose: non si reputava un brutto ragazzo, anzi, spesso capitava che guardando la sua immagine allo specchio osservasse le sue spalle con aria fiera, di chi è felice di ciò che vede. Ad acuire quel pensiero vi era anche una sincerità straripante che raramente non veniva fuori, soprattutto in presenza di chi considerava la sua famiglia e di chi lo era davvero come Eld: solo lui e pochi altri malcapitati dovevano sopportare la lingua lunga di Dean e tutto ciò che riguardava i suoi pensieri narcisistici, le sue battute pessime ed, in generale, la sua personalità senza alcun filtro. Alle volte, si chiedeva come potessero davvero sopportarlo: erano rassegnati? Elise era forse andata a letto con lui nel vano tentativo di farlo stare zitto? Effettivamente quel ragionamento non faceva una piega, soprattutto considerando che quello con cui vi erano più contrasti fosse proprio Eyr col quale non era legato né da parentela né da un'amicizia con benefici: il ragionamento non faceva una grinza, lo rendeva solo una persona decisamente più paziente di quanto Dean stesso non si considerasse. Con un sorriso divertito, si sedette su di uno sgabello, iniziando - sempre perché la pazienza non aveva nemmeno idea di dove abitasse - a metter pressione sul povero fratello che stava pur sempre lavorando, con la sua ingombrante presenza nell'obitorio: quando lo stomaco chiamava, Dean doveva rispondere, era una legge non scritta alla quale non era possibile transigere. «Lo sai che non ho mai avuto a che fare con professori di filosofia?» rispose, riflettendoci un momento: gli sarebbe piaciuto frequentare l'università, non perché avesse una particolare predilezione per lo studio o perché amasse stare ore ed ore sui libri, quanto per l'ambiente variegato che questa costituiva, l'avrebbe presa come un'esperienza, come prendeva poi tutto nella vita. «Dovrei effettivamente attivarmi per conoscerne, sarebbe illuminante lasciare la mia boccaccia a ruota libera e trarne qualcosa di interessante.» Dubitava lui stesso che da una conversazione come quella con un professore di filosofia potesse derivarne uno spunto di riflessione serio, ma la speranza era l'ultima a morire, no? E poi Jorgen ha più pazienza del Dalai Lama. Di sicuro però i morti non erano interessati alle sue battute, come lo stesso fratello fece notare: era una fortuna che non fosse permaloso visto quanto Eld risultava pungente. «Signori, buonasera, lieto di portare un po' di movimento in questa vita di stenti!» fece, sulla falsa riga dell'umorismo da quattro soldi utilizzato in precedenza, rivolgendosi proprio ai fantomatici cadaveri nelle celle, come se potessero sentirlo per davvero. «Piccolo Dean, si vede quando sei a stomaco vuoto, i due neuroni che ti rimangono fanno la lotta alla sopravvivenza per superare la fame.» «Ah, che dura verità.» rispose, con un sospiro, poco prima di addentare con gusto il panino dell'Egon che aveva preso con tanto, tantissimo amore. Se c'era una cosa che Dean amava più d'ogni altra, fra i piaceri terreni almeno, era proprio il cibo: paradossalmente, lo anteponeva persino al sesso. Era fermamente convinto che una cena come si deve - che per il suo palato per nulla raffinato era molto simile a quello che stava gustando in quel frangente - potesse essere un degno ultimo desiderio per un condannato a morte: materialista? Forse un po', ma non sempre. La sua famiglia - e con essa rientravano anche tutti i suoi più cari amici - veniva prima d'ogni altra cosa, Eld, soprattutto, veniva prima di ogni altra cosa: era il suo fratellino musone, quello che un po' a fatica aveva aiutato a venir su. Si era impegnato con tutto se stesso affinché, quando era toccato a lui gestire la famiglia, non gli mancasse nulla, alle volte rinunciando egli stesso a qualcosa pur di accontentare lui: si era sentito catapultato in una realtà che non gli apparteneva, più grande di lui, ma si era adattato, aveva imparato a farlo solo perché il prezzo da pagare per una sua negligenza sarebbe stato troppo alto da sopportare. «Lo sai, fratello. Mi piace un sacco farmi desiderare.» «Coglione.» replicò, allungando una mano verso il minore, dandogli uno scappellotto sulla testa che per poco non gli fece andar di traverso la birra che stava bevendo: Dean è sempre stato uno piuttosto fisico, che non si fa problemi prima di "alzare le mani" su qualcuno. Era il suo modo di esprimersi, un po' violento - alle volte - ma molto suo: erano profondamente diversi i due fratelli Lundberg nel carattere, nelle espressioni del volto, persino nella camminata. A guardarli bene, se non fosse stato per i colori e per dei tratti simili, quasi non si sarebbe detto fossero fratelli, eppure era sufficiente ascoltarli parlare, cogliere le piccole preoccupazioni nella voce di entrambi per poter capire quanto profondo fosse l'affetto che li legava: Dean lo esplicitava senza vergogna, in maniera un po' burbera alle volte, ma palese, per Eld invece serviva un passo in più. Gli piaceva dire che andasse decriptato, come un antico codice: non era facile capire a chi fosse legato, che una frase un po' acida in realtà costituiva un consiglio dato dal cuore per esempio o, ancora, che uno sguardo truce fosse solo di sana apprensione. Per queste ragioni, Dean non si stupì nel sentirlo esternare in maniera tanto affilata i suoi pensieri: poteva capirlo, poteva davvero, ma non era una persona rancorosa e questo faceva di lui, almeno agli occhi del fratello, un totale idiota. Non aveva mai pensato di chiedere a Kai un lavoro, sarebbe stato quasi come chiedere l'elemosina a qualcuno che non aveva neanche idea di che significasse vivere in miseria: d'altro canto poi, a cosa gli sarebbe mai potuto servire? Dava per scontato che nella sua azienda vi fossero persone con la laurea, gente competente, ben più di uno che per tutta la vita aveva fatto lavori piuttosto umili e manuali. Se esteticamente si reputava piuttosto bello, a livello intellettivo era convinto di non valere poi granché: se lo diceva da solo, quando i rimpianti su ciò che aveva fatto della sua vita sopraggiungevano, come una consolazione. "Tutto sommato avresti mollato al primo esame." un pensiero che, con ogni probabilità, non poteva esser più distante dalla realtà. «Oltre il danno, ora anche la beffa. Non posso credere che tu lo stia facendo… davvero.» Forse perché lavorare per Kaja Ellenstad mancava di dignità? Non poteva negare di averci pensato, di aver seriamente riflettuto su quanto stava facendo: aveva dissimulato nel parlargli, buttandola quasi sullo scherzo, non mostrando che invece d'esser stato parecchio tempo a pensare al da farsi, chiedendosi se forse valesse la pena mollare ogni cosa per mantenere lo stesso orgoglio di cui, ad essere onesto, si sentiva derubato già da anni, da quando la sua famiglia era stata quasi bollata d'esser composta da spacciatori. «Sai, ho sempre pensato che fossi troppo buono. Quando tornavamo da scuola e non c’era nessuno ad aspettarci, tu ti rimboccavi le maniche e provvedevi a non farci morire di fame neanche per una sera.» «Non che avessi scelta.» rispose a voce più bassa, serio, colpito nel profondo da quelle parole: non aveva mai avuto la scelta di non sacrificare se stesso per lui perché, come si era ripetuto per anni, sul piatto della bilancia Eld era più importante ed era importante che crescesse bene, che avesse la possibilità di fare quello che volesse, in un modo o nell'altro, che nel frattempo a lui toccasse stare 12 ore fuori casa per poter mettere a tavola qualcosa da mangiare non aveva rilevanza. Non era una persona buona, era solo stato costretto a crescere troppo in fretta, iniziando a capire quali fossero le cose che davvero contavano poco prima di uscire dal liceo, quando, normalmente, il problema più grande è dove andare a mangiare con gli amici. «E poi -lo ricordo come fosse ieri- sentivamo la porta d’ingresso spalancarsi e loro due rientravano come se fosse normale, come se fosse logico stare via tutto il giorno per vendere collane o bere birra in un cazzo di cantiere, come se metter su famiglia fosse un rito di passaggio per una coppia sposata, niente di più, niente responsabilità.» A quel tempo, anche lui stesso si era risentito: aveva parlato con sua madre, chiedendole di cercare un vero lavoro, di aiutarlo, per quanto possibile. Non pretendeva facesse molto, gli bastava ci mettesse un po' di impegno in più, anche un centinaio di corone al mese avrebbero potuto fare la differenza, ma lei non aveva mai capito: sosteneva con fermezza le proprie ragioni, insisteva nel dire che il suo era un vero lavoro e, alla fine, si affidava a Dean come suo padre stesso aveva fatto. In fondo, aveva sempre capito le motivazione di Eldjàrn, ma non aveva mai voluto esternarle apertamente: non voleva che il loro rapporto si incrinasse più di quanto già non lo fosse. Ai suoi occhi, sin da bambini, c'era sempre stata una freddezza che mai era riuscito a spiegarsi: ci aveva provato, a lungo, a creare un punto di contatto, che fosse con dei giochi da tavolo o con delle serate film. Si ricordava perfettamente come queste ultime andavano a finire ogni volta: Hannah e Karl addormentati, l'uno sulla spalla dell'altro, mentre i due piccoli Lundberg se ne stavano dinanzi alla televisione, con il film o il cartone animato riflesso negli occhi che, a poco a poco, si facevano sempre più pesanti, soprattutto per il minore dei due. «Andiamo a dormire?» diceva Dean, alzandosi in piedi e offrendogli la mano destra, ancora piccola per via dell'età: a quel tempo, avrà avuto forse 8 anni. Gli rimboccava le coperte e poi, facendo attenzione a non svegliarlo, saliva le scale del loro letto a castello per fare la stessa cosa con se stesso. In fondo, per certi versi, era stato più un padre lui per Eld di quanto non lo fosse mai stato lo stesso Karl. «Eri buono, con me. Sei buono con me, Dean.» Ma lo era davvero? Gli fece eco sospirando, mandando giù l'ultimo pezzo del panino che oramai era giunto al termine, spazzolato in un tempo irrisorio visto che, come gli era stato detto, dopotutto era un ingordo. «Ma certe volte sei anche molto stupido.» «Me l'hai sempre fatta capire questa cosa, ma credo che sia la prima volta che me la dici così apertamente.» mormorò, chinando lo sguardo verso il basso alla ricerca di un fazzoletto per potersi pulire le mani dall'unto del cheeseburger. Aveva un sorriso a labbra strette che gli macchiava il volto, un'espressione quasi rassegnata, la stessa che alle volte erano gli altri, i suoi amici o i suoi cari, ad avere in sua presenza: forse, lui stesso si stava ormai abituando a quei difetti, iniziando a reputarli parte di sé piuttosto che difetti veri e propri. «Non farti abbindolare. Dimenticare non significa automaticamente anche cambiare, diventare qualcun altro.» Sollevò lo sguardo verso il fratello, inclinando un po' il capo su di un lato, come se lo stesse studiando: «Ho sempre pensato che avessi troppa poca fiducia nel genere umano e che questo ti accecasse.» confessò, poggiando il viso sulla mano destra, fermo nello sguardo triste di Eld. «Però ai tuoi occhi invece è esattamente il contrario per quanto mi riguarda, o forse sbaglio?» domandò, non aspettandosi una vera risposta da parte sua: dopotutto, non serviva. Sciolse la posizione in cui era, stiracchiandosi appena e vagando con gli occhi in quell'obitorio, la sede davvero meno indicata per conversazioni come quella: «Come hai detto tu stesso ormai mi conoscono ovunque in città e non ho molta scelta su dove lavorare. Sai, quel posto non è davvero male come ambiente lavorativo, persino i colleghi non sono male, oltre poi ad avere decisamente più tempo libero di quanto non ne avessi prima.» Tempo che poteva dedicare ad altri lavori, a lui, al Labirinth: c'erano tante variabili nella scelta dei mestieri per Dean, le vagliava una ad una prima di prendere una decisione, sebbene forse agli occhi dei più potessero sembrare sempre prese d'istinto, senza tanti giri di parole. Fece un sorso di birra, sciacquandosi la bocca da tutto quello che aveva mandato giù, ripoggiandola semi-vuota sul tavolo di fortuna in cui stavano mangiando: c'era un silenzio agghiacciante attorno a loro, quasi spettrale, che ben si sposava al luogo in cui stavano consumando quel pasto. «L'altro lato positivo, è che non devo render conto agli Ellenstad su quanto guadagno, non possono che credermi in questo caso.» Fece scrocchiare l'articolazione a livello delle nocche della mano sinistra, fermandosi ad osservare le zone più ruvide della sua pelle, ormai martoriata da calli e da micro-tagli che non facevano nemmeno più male. «Non manca ormai molto a ripagare il debito quindi potrò fare altro, presto.» Fu come un pensiero, quasi una speranza, pronunciata a voce alta: non conosceva altro modo di vivere se non quello, era diventata una routine, un automatismo. «Ogni mattina Dean si alza e sa che dovrà metter da parte più soldi del giorno precedente, facendo attenzione a tener da parte quello che serve per le bollette e per i pasti.» Se lo diceva come monito scherzoso, come se l'umorismo lo aiutasse a gestir meglio quell'impegno. «Piano piano.» Piano piano era certo che ce l'avrebbe fatta e ancora, nonostante fossero passati forse più di dieci anni, viveva con quel pensiero nella mente che gli permetteva di andare avanti, in un modo o nell'altro. «Non so se Kaja Ellenstad sia cambiata davvero o se sia solo un'ottima attrice, ma è diversa in tutto, persino nel camminare o nel parlare.» Era così altezzosa, guardava tutti dall'alto in basso, come se fosse davvero una sorta di reginetta lì in mezzo: l'immagine della Kaja conosciuta al Rainbow, quella che cadeva ogni mezzo metro, che sgobbava da mattina a sera e che sorrideva quando un cliente apprezzava un piatto cucinato da lei, cozzava totalmente con i suoi ricordi, tanto da sconvolgerlo ogni volta. «E poi, Eld, penso che ciò che viviamo influenzi molto chi diventiamo: se papà non fosse finito in galera e mamma non fosse stata una così appassionata di bigiotteria e saponi artigianali, probabilmente io stesso oggi sarei più magro e decisamente meno simpatico. Magari sarei finito all'Università, a studiare fisica o matematica. Mi ci vedi? Forse non molto, in effetti.» Sorrise, accompagnando quel sorriso ad un sospiro: dopotutto, andava bene così, le cose in un modo o nell'altro erano andate come dovevano e, forse, anche per Kaja il discorso non era poi tanto diverso. «Abbi più fiducia in questo tuo fratello stupido, penso di sapermela cavare contro un'ereditiera dai capelli rossi, sincera o no che sia.» fece, alzandosi in piedi per cominciare a fare un po' di pulizia, gettando negli appositi cestini le bottiglie finite e le cartacce che avevano fatto. «Sono dispiaciuto che i tuoi ospiti non abbiano deciso di favorire, vorrà dire che saremo gli unici a gustare il dolce.» disse, chinandosi per recuperare una seconda busta, nella quale c'era una fetta di torta di mele da dividere. «Mi spiace, era l'ultima fetta.» specificò, poggiandola dinanzi a lui ed invitandolo a fare il primo boccone. «Te lo meriti, in fondo sei proprio un bravo fratellino.» lo canzonò, sporgendosi per passargli una mano fra i capelli, scompigliandoglieli tutti mentre la sua espressione cambiava, accigliandosi un po': fu spontaneo per Dean scoppiare a ridere, una risata che risuonò come un tuono in quell'ambiente vuoto. Era uno dei pochi che poteva permettersi di fare certe cose con Eldjàrn senza essere fulminato con lo sguardo o, anzi, per esser precisi senza avere minimamente paura di quei fulmini provenienti dagli occhi tristi di lui: per Dean, tutto sommato, il suo solo un modo un po' goffo di reagire a dei sentimenti che conosceva, ma non bene. Associava quel tratto di lui anche ad Elise e forse era per quella ragione si era affezionato così tanto a lei: per certi versi, quei due erano identici, due bimbi sperduti che del mondo sapevano ben poco, chiusi nelle loro bolle e nella loro parziale conoscenza del prossimo, filtrata accuratamente affinché nessuno potesse ferirli. Da quando c'era stato l'incendio, Dean si era sentito in dovere di proteggerli, di essere lui stesso l'ancora che li teneva a galla, anche se, ormai, si erano decisamente fatti grandi: forse toccava a lui farsi da parte e, qualche volta, permettere almeno al maggiore fra i due di dargli una mano. «Grazie comunque, ti prometto che terrò gli occhi aperti e verrò da te per la mia dose di cinismo quotidiana.» E forse, anche per imparare un po' a portare un briciolo di rancore in più al prossimo, come forma di difesa più che come vendetta. «Allora, 'sta torta? Com'è?» chiese, avvicinandosi al piatto per darle un morso: buona, come sempre, l'Egon non tradiva mai le sue aspettative. Fu quel morso così dolce a ricordargli che, in tutto quel parlare - fin troppo serio - non gli aveva dato la notizia più importante: «A proposito.» esordì, con la bocca piena, mandando giù il boccone con un suono gutturale. «In 'sti giorni mi stanno arrivando una marea di chiamate da numeri sconosciuti: ho cercato online, ma so' tutti indiani, tipo di Mumbai.» spiegò, tirando fuori il cellulare dalla tasca e porgendoglielo con il registro delle chiamate ricevute aperto. «L'altra volta ho pure risposto, come un coglione, e mi hanno scalato un fottio di soldi dal credito.» Giustamente, erano chiamate internazionali. «Riesci mica a capire chi è e che cazzo vogliono da me? Non so più che fare, sto bloccando tutti i numeri ma ogni giorno mi chiamano da un posto diverso. Mi è arrivata persino su Whatsapp una chiamata!» Si passò una mano sulla fronte, abbastanza disperato: era passato da un'estremo all'altro, dando più importanza a qualcosa che apparentemente sembrava futile. «Ma poi di notte... Erano tipo le 9 del mattino lì - ho cercato il loro fuso su Google - e da noi boh, manco me lo ricordo.» Indiani, che cosa potevano mai volere da lui? Solo il tempo o forse quel maledetto di Eldjàrn avrebbe potuto dare una risposta a quel quesito.
     
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    Alla morte di Dean non ci aveva mai pensato così spesso quanto alla propria, Eld, che da sempre era stato affascinato un po' da quel sottomondo, che poi tanto sottocategoria non era ma, piuttosto, un involucro di ciò che erano e vivevano finché avrebbero potuto respirare. «Ho detto che conserverei solo un molare, non equivale mica a dire che sarebbe solo uno il dente di cui ti priverei. E allora che faresti, da morto, senza la tua bella dentatura perfetta? Pensa, senza quella potresti fare certi lavoretti di bocca che ti frutterebbero più di quanto ti paga la tua amichetta rossa scherzò quindi Eld, serissimo, mentre si allacciava al commento del fratello riguardo al momento in cui finalmente sarebbe stato bello, zitto e tranquillo su una bella tavolata di metallo, prima dentro a un frigo, poi dentro una cassa di legno. Gli sorrise quindi divertito, Eld, mentre tornava ad avvicinarsi all'altro che, impaziente, aveva iniziato a sgraffignare dalla busta ricolma di cibo. «Lo sai che non ho mai avuto a che fare con professori di filosofia? Dovrei effettivamente attivarmi per conoscerne, sarebbe illuminante lasciare la mia boccaccia a ruota libera e trarne qualcosa di interessante.» commentò Dean allora e, per un momento, Eld si ritrovò a pensare a quanto effettivamente suo fratello avesse rinunciato, messo da parte per tutta la vita solo perché nessuno aveva saputo prendersi cura di loro due, i piccoli fratelli Lundberg che per un po' erano stati dispersi, un po' si erano ritrovati da soli senza l'aiuto di nessuno. Pensò, Eld, a quanto potesse aver fatto male a Dean sacrificare tutto, persino forse i propri interessi e le proprie occasioni, quando da piccoli avevano dovuto tirare un gran sospiro di stanchezza e, in qualche modo, rimettere tutti i tasselli del puzzle di quella vita di nuovo al posto giusto. Forse, in una realtà parallela e più giusta, Dean avrebbe studiato, avrebbe reso tantissimo a scuola, avrebbe trovato una strada meravigliosa per sé stesso e, in quel momento, sarebbe soddisfatto della propria vita. Sapeva quanto glielo tenesse nascosto, quanto provasse a farsi andare bene tutto quello che avevano, anche quando era poco, pochissimo, e ci volevano delle lenti enormi per vedere tutto con chiarezza, e quando poi gli faceva una colpa per ciò che faceva o il modo in cui aggiustava i casini degli altri invece che pensare ai propri, Eld un po' ci restava male, glielo faceva notare per ricucirsi la bocca e tacere, di nuovo, a lungo, fino alla prossima fitta invisibile ed inavvertibile di dolore che gli lacerava un po' il petto quando lo vedeva sfinito o, secondo Eld, sottomesso a qualcuno come quella Ellestad che, secondo il minore dei Lundberg, di Dean non merita neanche la più semplice occhiata. «Non lo fai già così?» si riprese dalla scia di pensieri ancora una volta, riferendosi a Dean e alla voglia di parlare con un professore di filosofia. «E poi, forse, invece che di una conversazione con un insegnante, dovresti prendere in considerazione la terapia. Mi pare si sposi meglio con la tua idea di conversazione.» commentò il minore quindi, scrollando appena le spalle mentre si avvicinava alla sedia per affondarci su ed afferrare il sacchetto con la cena. «Signori, buonasera, lieto di portare un po' di movimento in questa vita di stenti!» continuò sulla via delle freddure, Dean, che proprio mai si stancava di dare il proprio intelligente e perspicace contributo al mondo. Ridacchiò Eld, scuotendo il capo in direzione del fratello mentre gli passava il panino e, sotto sotto, conscio di quanto proprio il fatto che Dean fosse esattamente così, gli permetteva di non pensare mai, neanche per sbaglio, di voltargli le spalle. Dean non aveva alcuna maschera, alcun travestimento: era lì, tutto lì, e poteva vederlo chiaramente nel momento esatto in cui Eld posava gli occhi su di lui, scorgendo i lineamenti di quel volto maturo da sempre animato da due occhi ancora così infantili e a lui familiari. Suo fratello aveva il potere di alleggerire anche il pensiero più pesante che al mondo potesse esistere. Il problema era, però, che si ritrovava a farlo con i pesi degli altri, assorbendo tutto lui, facendosi carico di quello che in teoria lui non avrebbe neanche dovuto sfiorare. Quando Eld tornò sull'argomento del nuovo lavoro e del fatto che ora Dean si ritrovasse a dover sottostare di nuovo alla figlia di coloro i quali li avevano praticamente fatti finire sul lastrico, il minore dei due fu percorso da una sensazione di tumultuosa rabbia che, sebbene riuscisse praticamente sempre a contenere e mitigare, lasciò venisse fuori sotto forma di parole e concetti che non avrebbe potuto evitare di esporre proprio lì, in presenza di Dean. Ricordava perfettamente quella parte della loro vita, Eld, che negli occhi di Dean ancora vi ritrovava scorci mai dimenticati, mai messi da parte. A guardarlo, quel fratello che per lui era stato più come madre e padre, Eldjàrn non aveva mai arbitrariamente voluto metter da parte i ricordi di ciò che il maggiore aveva sempre fatto per lui. Aveva atteso, spessissimo, Eld. Aveva sperato altrettanto spesso che quei due genitori ricordassero ci fosse altro, oltre ad un paio di orecchini di pietre finte o di un'idea fantastica, meravigliosa, che avrebbe cambiato la loro vita in maniera repentina, che quel lavoro dei sogni li avrebbe portati lontani, che un giorno sarebbero stati in grado di permettersi una vera casa, una con un giardino, una con delle mura più solide e nessuno spiffero di vento che s'infilava attraverso gli infissi, una in cui i fratelli avrebbe avuto una stanza per ognuno, finalmente, così da poter stare più sereni. Ma da quella promessa di spazio Eld non era poi mai stato affascinato, quell'idea di venir separato da Dean non era esattamente ciò che sognava divenisse realtà e, allora, il sogno di mamma e papà diveniva l'incubo di Eld, che ad avere anche tantissimo spazio intorno a separarlo da Dean quasi tremava di paura. Come avrebbe mai potuto sognare di esser lasciato solo dall'unica persona che mai, in quella vita stranissima in cui era capitato, aveva fatto in modo che capitasse? «Me l'hai sempre fatta capire questa cosa, ma credo che sia la prima volta che me la dici così apertamente.» sussurrò Dean, abbassando lo sguardo alla ricerca di un fazzoletto con cui andò a pulirsi le mani. Il sorriso che aveva stampato sul viso parlava anche standosene muto, questo Eld lo sapeva, così come era conscio di quanto forse avesse di nuovo spinto troppo o tirato troppo la corda. Eppure, nonostante il dispiacere, nonostante la consapevolezza di aver affilato troppo la lingua, Eld restava di quell'opinione e Dean avrebbe dovuto udire ciò che lui aveva da dire, era sempre stato così. Uno sbagliava, l'altro puntava il dito contro. E non era mai un accusarsi per farsi male, lo facevano perché dirsi "ti voglio bene, non voglio che finisci con l'ammazzarti per chi non lo merita" era decisamente più complicato. «Ho sempre pensato che avessi troppa poca fiducia nel genere umano e che questo ti accecasse. Però ai tuoi occhi invece è esattamente il contrario per quanto mi riguarda, o forse sbaglio?» chiese quindi Dean, tornando a sollevare il proprio sguardo per posarlo su quello del fratello. Serrò le labbra, Eld, abbassando a sua volta gli occhi sul resto del panino che aveva lasciato cadere sul cartone e riflettendo per qualche secondo sulle parole dell'altro. Bevve un altro sorso di birra avvicinando la bottiglia alle labbra sottili e, quando tornò a posarla sul tavolo, puntò le iridi scure sul viso di Dean. «Ci vedo una meraviglia, te lo posso assicurare.» sentenziò solamente e poi scrollò appena le spalle, sospirando piano. Sapeva di essere particolarmente cinico poco impressionabile, eppure quel suo modo d'essere non l'aveva mai visto come un difetto, anzi. Per Eld era tutto il contrario, proprio come Dean gli aveva detto poco prima. A differenza del maggiore, infatti, sarebbe stato chiaro anche un idiota che i due sembravano quasi vivere in mondi completamente diversi, con regole altrettanto differenti e regimi agli antipodi. Se Dean era più aperto, estroverso e disponibile anche con quelli che non aveva mai incontrato prima, Eldjàrn se ne stava palesemente alla larga, a meno che non ci fosse la fonte di un guadagno ai suoi occhi, un motivo opportunistico per il quale tenersi vicino a qualcuno senza che effettivamente suscitassero il suo interesse. Se ne fregava di conoscere qualcuno per il solo gusto di farlo, di ricambiare quell'interesse o condividere esperienze di vita: a lui proprio interessava zero. «Come hai detto tu stesso ormai mi conoscono ovunque in città e non ho molta scelta su dove lavorare. Sai, quel posto non è davvero male come ambiente lavorativo, persino i colleghi non sono male, oltre poi ad avere decisamente più tempo libero di quanto non ne avessi prima.» spiegò allora Dean, cercando di presentare ad Eld il quadro generale, rivelandogli quanto effettivamente potesse fargli comodo continuare a lavorare al locale. Inarcò le sopracciglia, Eld, un po' scettico ma pronto ad ascoltare ciò che il fratello stava cercando di dirgli. «L'altro lato positivo, è che non devo render conto agli Ellenstad su quanto guadagno, non possono che credermi in questo caso.» continuò il maggiore, senza però guardare il minore in volto. Si ritrovò ad annuire silenziosamente, Eld, un movimento lento della nuca che venne più che altro quasi autonomamente, quasi a volersi aiutare nell'elaborare le parole appena pronunciate dal fratello. «Sembra quasi celestiale.» lo prese in giro Eld, soffermandosi meticolosamente sull'ultima parola e ritrovandosi a sospirare subito dopo, mentre drizzava la schiena dopo aver bevuto l'ultimo sorso di birra dalla bottiglia che ancora stringeva fra le dita. Non avrebbe aggiunto altro, ciò che aveva voluto Dean sapesse lo aveva detto, stava poi al fratello decidere cosa fare di quelle parole, del consiglio dell'altro che, a differenza suo, tutto più nero e scuro vedeva. Lui, piuttosto, se mai avesse incrociato la rossa le avrebbe forse sputato sui piedi. «Non manca ormai molto a ripagare il debito quindi potrò fare altro, presto.» aggiunse poi Dean riferendosi ai debiti dei loro genitori di cui si era fatto carico. Un tasto, quello, che restava sempre un po' dolente per Eldjàrn, il quale sin da subito si era fatto indietro e aveva chiaramente dimostrato di non aver alcun interesse a saldare i conti dei genitori. Inizialmente ne avevano parlato e, di nuovo, Eldjàrn aveva cercato di dissuadere Dean dalle sue intenzioni crocerossine, cercando di fargli capire che non ce l'avrebbe mai fatta e che, più di tutto, quelli non erano problemi che avrebbe dovuto risolvere lui. A niente era servito, dato che comunque si era accollato tutto fino alla fine e lo aveva fatto senza l'aiuto di Eld. «E poi? Ti daranno una statua? Oppure ti rifilano una sorta di carta fedeltà, come quelle dei supermercati? Al prossimo prestito c'è il 20 percento in meno sulla quota degli interessi.» bofonchiò Eld, che mai riusciva, anche dopo tutti quegli anni, a farsi andare giù ciò che Dean continuava a fare ormai da troppo tempo perdendoci anche la salute. «Non so se Kaja Ellenstad sia cambiata davvero o se sia solo un'ottima attrice, ma è diversa in tutto, persino nel camminare o nel parlare.» spiegò ancora Dean riferendosi alla figlia degli Ellenstad per cui si era ritrovato a lavorare. Per un momento, Eld s'immobilizzò con lo sguardo fisso sul fratello, le sopracciglia corrucciate come di chi pensa a qualcosa di impossibile ma ormai è troppo tardi e nella testa sta prendendo forme nuove, strane. «Dean. Giurami che non te la porterai a letto.» parlò, ora con un tono della voce piattissimo, un po' intimorito dalle parole e quel pensiero che dentro di lui avevano preso vita. Non sapeva esattamente perché, ma quella brevissima descrizione che Dean aveva fatto riguardo a Kaja era stata improvvisa e, forse, un po' inaspettata. Diversa in tutto, e se prima non gli era mai piaciuta, allora adesso che succedeva? «E poi, Eld, penso che ciò che viviamo influenzi molto chi diventiamo: se papà non fosse finito in galera e mamma non fosse stata una così appassionata di bigiotteria e saponi artigianali, probabilmente io stesso oggi sarei più magro e decisamente meno simpatico. Magari sarei finito all'Università, a studiare fisica o matematica. Mi ci vedi? Forse non molto, in effetti.» continuò l'altro, tornando a sorridere nella sua direzione per smezzare quella patina di gelo che sembrava essersi intensificata nella già silenziosissima e apatica stanza d'obitorio. «Abbi più fiducia in questo tuo fratello stupido, penso di sapermela cavare contro un'ereditiera dai capelli rossi, sincera o no che sia.» disse allora Dean, sollevandosi dallo sgabello sul quale era crollato solo poco prima e iniziando a raccogliere i cartoni di cibo ora vuoti. Non aggiunse altro, Eld, ma sollevò di scatto una mano per afferrare saldamente l'avambraccio del fratello, ora in piedi di fianco a lui. Puntò le iridi nocciola in quelle più chiare di lui e, a labbra strette per qualche secondo ancora, restò in silenzio mentre si guardavano. L'avrebbe capito, Dean, che Eld proprio non stava scherzando? «Giuralo, Dean.» ripetè Eldjàrn, le dita ancora strette attorno al braccio di suo fratello, le nocche ora pallide sul dorso della mano. «Sono dispiaciuto che i tuoi ospiti non abbiano deciso di favorire, vorrà dire che saremo gli unici a gustare il dolce.» Con un sospiro Eld allentò la presa e lo lasciò andare, permettendogli di tirare fuori la fetta di torta di cui parlava per lasciargliela davanti e posare il palmo sulla sua nuca, così da scompigliargli i capelli già spettinati. Soffocando un sorriso che, lo avvertiva, stava per allargargli le labbra forzatamente strette, Eld si tirò via con la schiena per fuggire alla presa di Dean e, quando tornò a chinarsi in avanti, in direzione della torta, l'afferrò con le dita così da affondarci i denti nel morbido impasto alle mele. Masticò il primo boccone mentre, con lo sguardo ancorato alla sua figura, Dean riprendeva a parlare. «Grazie comunque, ti prometto che terrò gli occhi aperti e verrò da te per la mia dose di cinismo quotidiana. Allora, 'sta torta? Com'è?» chiese, avvicinandosi di nuovo al piatto così da fare lo stesso anche lui e assaggiarne una porzione. «Quella alle mele dell'Egon è sempre buona.» commentò Eld a bocca semi piena mentre annuiva energicamente con la nuca. Solitamente riuscivano ad accaparrarsene due fette a testa, ma quella sera Dean ed Eld si erano evidentemente dati appuntamento più tardi del solito e, ahimè, i pezzi migliori eran stati già dati. Un po' ingordi lo erano entrambi, dopotutto: il sangue non mente di certo. «A proposito. In 'sti giorni mi stanno arrivando una marea di chiamate da numeri sconosciuti: ho cercato online, ma so' tutti indiani, tipo di Mumbai.» quando lo disse, Eld aveva gli occhi che seguivano il movimento delle proprie mani in avvicinamento alle labbra, così da poter addentare l'ennesimo pezzo di torta alle mele. Qualcosa però andò storto e, nel momento stesso in cui la punta dei denti di Eld toccò l'impasto del dolce, Eld si ritrovò a dover soffocare una risata ma, al contrario, finendo per affogarsi lui con una briciola di troppo della torta che, dalla lingua, era stata aspirava violentemente nella gola del ragazzo. «L'altra volta ho pure risposto, come un coglione, e mi hanno scalato un fottio di soldi dal credito. Riesci mica a capire chi è e che cazzo vogliono da me? Non so più che fare, sto bloccando tutti i numeri ma ogni giorno mi chiamano da un posto diverso. Mi è arrivata persino su Whatsapp una chiamata!» e mentre Eld moriva soffocato dalle briciole e da un pezzo di mela rimasto intero, Dean continuava a parlare e parlare e parlare di quelle disavventure capitategli nell'ultima settimana, tirando fuori il cellulare dalla tasca e posizionandolo praticamente sotto il naso di Eld il cui volto, ora, aveva preso un colore paonazzo. Si portò una mano al petto, battendo due o tre volte per tranquillizzarsi mentre, risata mista a morte in procinto di portarselo nell'aldilà o all'inferno, Eld tornava finalmente a respirare normalmente. «Sc--- Scusa. Mi è andata di traverso.» mentì, il minore, sbattendo compulsivamente le palpebre per scacciare la patina di lacrime che le aveva sommerse per qualche istante ancora. «Ma poi di notte... Erano tipo le 9 del mattino lì - ho cercato il loro fuso su Google - e da noi boh, manco me lo ricordo.» continuò a spiegare Dean, incredulo. Afferrò un tovagliolo, Eld, per poi portarlo alle labbra e scacciare via i rimasugli di briciole dolciastri della torta. «Fa' vedere.» disse poi, appallottolando la carta fra le mani e gettandola con un lancio nel cestino a pochi passi da loro. Afferrò il telefono del fratello e fece per scorrere tutte le chiamate ricevute, restando timidamente serio ed impedendosi di ridere con tutte le proprie forze. Concentrato su quei numeri, Eld neanche poteva credere a ciò che vedeva. Solo qualche settimana prima aveva sborsato un paio di cent per far mettere su tre cartelloni pubblicitari in India e, a quanto pare, si iniziavano a vedere i risultati. «Hai cliccato su "Sì" a qualche notifica push mentre guardavi un porno indiano?» domandò allora e, finalmente, si concesse di tornare a sollevare lo sguardo su di lui e sorridergli con aria divertita e compiaciuta. Scosse il capo, ridacchiando mentre tornava ad abbassare gli occhi sul display dello smartphone per continuare ad osservare il numero delle chiamate perse o ricevute degli ultimi giorni. «Che cavolo hai combinato stavolta, Dean? Spera di non esserti beccato qualche virus. Vedrò cosa posso fare, chiedo a Nora di ficcare un po' il naso in giro se vuoi.» disse infine, facendo scivolare il telefono del fratello fra le dita per permettergli di afferrarlo di nuovo mentre lo allungava nella sua direzione. Quindi si alzò anche lui dalla sedia, finalmente, stiracchiandosi piano mentre allungava le braccia sopra la nuca per distendere meglio la spina dorsale, altrimenti sempre ricurva sotto il peso schiacciante delle spalle pigre di Eld. «Se ti richiamano, almeno, rispondi. Sii gentile, potresti aver vinto qualche soldo.» scherzò ancora, prendendolo in giro mentre era impossibile trattenere l'ennesima risata divertita al solo pensiero che venisse svegliato nel mezzo della notte perché qualche indiano col problema della calvizie cercava un rimedio naturale come lo charme indiscusso di suo fratello.

    :luv: Povero Dean, quanta pazienza con questo scemo di Eld.
     
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4 replies since 20/12/2020, 13:44   260 views
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