La resilienza del bucaneve

On the Net- LukaszXNora

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    Lukasz Leon Lewandowski|31 y.o.|If you survive the apocalypse, wanna see what's next?


    Nell’immaginario antico divenire pietra era sinonimo di perdita. Di sentimenti, di voglia di vivere, di essenza. Era una metamorfosi irreversibile, in cui si diveniva altro. Esistevano varie figure legate a questo freddo materiale, e tutte erano legate agli sciocchi e frivoli giochi degli dei, alle loro gelosie e alle loro punizioni verso quei fantocci che avevano plasmato a loro immagine e somiglianza. C’era Medusa, la cui colpa era stata solo quella di essere bella. A lei gli dei avevano tolto la bellezza, tramutandola in un mostro che mai più avrebbe potuto essere guardato. A lei avevano attribuito quegli occhi di fuoco che avrebbero trasformato in statue chiunque si fosse azzardato a fermarsi a guardarla. E attraverso quella maledizione medusa non solo privava gli altri della vita, ma perdeva sé stessa istante dopo istante, sguardo dopo sguardo. Diveniva pian piano il mostro che tutti credevano fosse, fin quando l’eroe non giungeva finalmente a darle il colpo di grazia, prendendosi il merito di un’impresa che in realtà non era stato che l’ennesimo infierire su una creatura innocente già provata dalle angherie altrui. E poi c’era Eco, l’arzilla e chiacchierona ninfa, verso cui gli dei erano già stati spietati. Già Era l’aveva privata della facoltà di esprimere le proprie opinioni, costringendola a ripetere solo ciò che veniva detto da altri. La privazione gratuita della libertà però, non era una pena sufficiente in quel mondo ingiusto. Non aveva potuto far nulla se non ripetere le parole dell’uomo che amava, Eco, ed egli aveva frainteso. Si era illusa, lei, di essere amata da colui che invece dichiarava amore verso se stesso. Un uomo egoista che quando la vide la ripudiò in modo tanto umiliante da portare la dolce ninfa a perdere anche il poco che le restava. Così ella si era abbandonata al dolore, tanto forte da averla tramutata in pietra. Era divenuta dell’essenza delle rocce tra cui l’eco si diffonde, il suo corpo era avvizzito ed aveva perso colore, ed infine di lei non era rimasta che una voce lontana senza più coscienza, un mero ripetere parole vuote che poi sarebbero state disperse dal vento. E poi c’era Niobe, la cui unica colpa era stata l’aver sfoggiato con superbia l’orgoglio di essere madre, quello che non si riesce a controllare guardando i propri figli crescere sani, forti e talentuosi. E quando gli dei, per sfida, li avevano sterminati tutti, il dolore di quella madre era divenuto talmente forte da impedirle di andare avanti, di muoversi, di parlare. Narra il mito che la donna versò talmente tante lacrime che il sale si calcificò sulla sua pelle. Come la sventurata Eco, anche ella avvizzì, lasciò che il suo animo si inaridisse e si consumasse, come arenaria esposta alle intemperie. Rappresentava il dolore, quella pietra che si sostituiva alla carne.
    Lukasz aveva abbracciato entrambi i fenomeni: pietrificare, pietrificarsi. Dopo la battaglia nell’arena, la sua particolarità amplificata era sfuggita al suo controllo. Come la sventurata Medusa, aveva temuto di trasformarsi in un mostro. E per evitare ciò, aveva lasciato che la paura lo logorasse. Era divenuto come Eco, infine, fredda ed arida pietra. Si era costretto a mettere a tacere i sentimenti che provava, a lasciare che questi fossero solo strascichi. Aveva lasciato che le scene dell’arena si facessero lontane, che la furia di Nora divenisse solo qualcosa di relegato alla sua silente coscienza. Si era chiuso nel silenzio, cercando di dimenticare il peso del corpo di lei che si abbandonava tra le sue braccia, le sue labbra che divenivano fredde. Non era bastato.
    Non appena aveva riaperto gli occhi era corso da lei, a vedere come stesse. Aveva vegliato su di lei finché non aveva saputo che si era svegliata. E poi erano divenuti pietra, entrambi. Conosceva abbastanza Nora da sapere quanto lei temesse i propri sentimenti e quanto tendesse ad evitarli. Ma se in normali condizioni Lukasz avrebbe tentato di tenerla con sé, di trovare insieme una cura a quei mali, quella volta non ce l’aveva fatta. Aveva avuto paura di ciò che sarebbe accaduto avendola vicina, mentre le immagini di quella battaglia erano ancora fresche nella sua mente. Era terrorizzato dall’idea di cosa sarebbe accaduto se non fosse riuscito a compiere il procedimento inverso e ad eliminare la pietrificazione. Era terrorizzato dalla bestia che aveva preso possesso del suo corpo e l’aveva spinto a combattere contro di lei e contro tutti gli altri. Tremava al solo ricordo del rumore che quel tridente produceva quando squarciava la carne altrui. Spesso si svegliava sentendo ancora il rumore di quei tamburi, l’eco delle grida di quegli spettri che incitavano i loro paladini alla morte. Ogni rumore nel silenzio sembrava l’inizio di un nuovo canto di guerra. Ogni colpo l’inizio della fine. Aveva lasciato andare Nora perché ogni volta che erano insieme il mondo sembrava mirare a distruggerli. L’aveva lasciata andare perché ogni parte del suo corpo temeva di ferirla. Sapeva che sarebbe stata al sicuro. Si era detto che sarebbe bastato.

    . . . . . .


    Eppure non riusciva a smettere di pensarla.
    Erano passati mesi, le ferite erano guarite. Con tutto l’impegno e la fatica del mondo, il chirurgo aveva cercato di riprendere il controllo della propria particolarità impazzita, sacrificando mesi del proprio lavoro per un bene più grande. Aveva smesso di pietrificare le persone, quasi la sua testa fosse stata mozzata da un Perseo dei giorni nostri, ed aveva iniziato a lasciare che i sentimenti lo logorassero e si dilavassero altrove, che lo rendessero di pietra, come Eco, come Niobe. Non era qualcosa che si poteva vedere a livello fisico, ma una macchia che risiedeva nel profondo del suo animo, una patina che impediva ai suoi sentimenti di tornare a splendere. Era divenuto l’ombra del fu Lukasz Lewandowski, quel guscio vuoto, che sembrava aver perso ogni scintilla di quella forte morale che lo spingeva ad alzarsi ogni giorno e a fare la cosa giusta. Ci era voluto tempo perché almeno in parte gli spigoli di quella roccia si smussassero. Aveva iniziato a contare ogni giorno le sofferenze e le buone azioni delle persone che incontrava. Poteva toccare tanto di quel dolore, nel suo mestiere, da far sembrare il proprio dannatamente piccolo, per qualche istante. E questo bastava, faceva guarire qualche lembo di quell’immensa ferita aperta nel suo animo, di tanto in tanto. Guarire gli altri serviva un po’ a guarire anche se stesso.
    Eppure non riusciva a smettere di pensare a lei.
    Non aveva più cercato Nora. Aveva mantenuto la promessa che aveva fatto a se stesso e a lei. Aveva lasciato che vivesse la sua vita, che le loro strade si dividessero prima di intrecciarsi a tal punto da non riuscire più a distinguerle. Si era detto che sarebbe stata bene, che suo cugino si sarebbe preso cura di lei, che se era vero che aveva perso qualcosa in quella battaglia, aveva anche trovato molto altro. Ma ogni volta il pensiero volava a lei, a quella corsa nel bosco prima che le fiamme li inghiottissero, al lieve contatto delle loro mani, a quel tentativo disperato di ancorarsi l’uno all’altra prima che il destino li schierasse su fronti opposti. Era decisamente una persona che rimuginava parecchio sui propri fantasmi, Lukasz Lewandowski, ma quello in particolare affollava la sua mente in maniera fin troppo costante. E alla fine aveva ceduto a quell’umana pulsione che sembrava voler logorare il poco che era rimasto della sua anima. Era come se avesse avuto un conto in sospeso che se non avesse saldato lo avrebbe distrutto. Aveva mandato a farsi fottere la ragione.
    Avrebbe cercato Nora.

    . . . . . .


    Radi fiocchi di neve scendevano dal cielo imperscrutabile, mentre la notte era già calata sulle vie affollate. Si poteva godere di ben poca luce in Norvegia, in quel periodo. Avvolto in un cappotto blu e in parte mascherato da una sciarpa grigia, il chirurgo passeggiava per le vie del centro di Besaid. Ogni tanto salutava qualche volto noto, qualche ex paziente che calorosamente si attardava con gli auguri per il nuovo anno, oppure si fermava ad attendere che il semaforo diventasse verde per i pedoni. Sembrava spenta, quella città che ormai aveva perso gli addobbi natalizi e che a rilento si avviava verso un nuovo lungo anno il cui inverno sarebbe durato ancora per molto. Le sue gambe però, sembravano già sapere dove condurlo, quale strada percorrere, quanti passi compiere. Non contava la ragione ora, quando la volontà e il subconscio sapevano già cosa fare.
    Voleva solo rivederla, solo una volta.
    Voleva accertarsi che stesse bene, che le ferite fossero guarite. Voleva sapere se avesse ripreso a sorridere o se avesse di nuovo dimenticato come si faceva, se avesse tagliato i capelli o se li avesse lasciati lunghi. Si era dato mille validi motivi e giustificazioni sul perché gli fosse necessario rivederla.
    Nessuno di questi avrebbe avuto senso davanti al tribunale della ragione ragione. Non importava.
    La porta a vetro dell’On the Net era di fronte a lui, e per un attimo si trovò ad esitare. Che diamine stava facendo? Aveva sacrificato tanto per riprendersi, per non cercarla, e adesso gettava tutto all’aria?
    Sì.
    Nessun campanello tintinnò al suo ingresso, nessun fastidioso suono accompagnò il primo passo del chirurgo verso la fine della propria terapia autoindotta. Solo il tonfo della porta che si richiudeva alle sue spalle avrebbe annunciato la sua presenza. Le iridi blu scandagliarono l’ambiente, fatto di esposizioni curate ed angoli disordinati appena celati all’attenzione. E poi incontrarono lei, nell’esatto momento in cui le sue labbra non poterono evitare di stirarsi leggermente in un sorriso malinconico.
    "Ciao."
    Disse semplicemente, quasi imbarazzato. Era come se fosse la prima volta, quella in un certo senso. Era bello immaginare che i loro trascorsi più bui non fossero mai esistiti. Che non ci fosse stato l’ospedale, la cupola, l’arena. Sarebbe stato bello basarsi solo su qualche passeggiata al parco e una corsa nel bosco. Ricominciare come se nulla fosse mai accaduto.
    Ma quell’ombra restava, nei loro sguardi, nei loro animi. Era essa il collante che non gli aveva ancora impedito di lasciarla andare, quello che lo spingeva a camminare sul ciglio del baratro e a guardare giù. Nora non era stata solo qualcosa di bello, ed era questo che lo spingeva masochisticamente a cercarla, di continuo.
     
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    Quanti giorni fossero trascorsi esattamente da quando era uscita dall’ospedale Nora ormai non lo sapeva più. Aveva preso l’abitudine di contarli all’inizio, come se necessitasse di tenerli a mente, per farsi forza, per dirsi che, sì, era ancora viva e tale sarebbe rimasta. Era stato un pensiero strano per lei quello di essere felice di essere ancora viva. Quante volte aveva cercato di mettere fine a tutto, di spegnere quella luce che, fastidiosamente, irrompeva dalle tende della sua camera, giorno dopo giorno. Aveva sognato tante volte di addormentarsi per non risvegliarsi più, ma era da molto tempo che non faceva più quel sogno, come se persino lei, alla fine, si fosse arresa all’evidenza. La vita era difficile, ma non per questo non era degna di essere vissuta. Bisognava avere pazienza, essere disponibili ad adattarsi ai cambiamenti, a reagire quando qualcosa di nuovo incrociava il nostro cammino. A lei i cambiamenti non erano mai piaciuti. Aveva sempre cercato di opporsi, urlando e graffiando affichè la sua monotonia non le venisse portata via, eppure qualcosa era mutato, lo aveva notato, anche se accettarlo era comunque un altro paio di maniche. Sebbene avesse scelto coscientemente di imporre un certo silenzio nei confronti di Lukasz, come se si sentisse responsabile di tutte le cose brutte che gli erano capitate in quegli ultimi anni, non poteva fare a meno di sentire la sua mancanza. Molte volte i suoi pensieri si erano concentrati su di lui. Non aveva importanza che lei cercasse di reprimerli, di focalizzarsi su qualcosa di diverso, lui tornava sempre e lei continuava a chiedersi che cosa gli fosse capitato, se stesse bene, se la sua vita avesse ripreso il suo corso naturale senza ostacoli, così come doveva essere. Aveva sempre creduto di non essere che un fatto sfortunato all’intero della vita di altre persone, un punto nero da eliminare prima che potesse inglobare ogni cosa al suo interno, distruggendola. Tutti coloro a cui voleva bene, dopotutto, tendevano a fare una brutta fine e lei non voleva condannare il chirurgo a quello sventurato destino. Lui meritava di meglio, meritava di essere felice, ritrovare il sorriso. Era bello quando sorrideva, non le sarebbe certo costato ammetterlo e quell’espressione serena sul suo volto era una delle cose che le mancava di più.
    Continuava a rivivere nella sua mente i pochi ricordi che le erano rimasti della battaglia nell’arena, di quei minuti interminabili in cui qualcun altro sembrava aver preso possesso del suo corpo, facendole compiere azioni che mai da lucida avrebbe fatto. Aveva combattuto contro altre persone nel disperato tentativo di vincere e ottenere una vana gloria che non le avrebbe portato alcunché. Si chiedeva come fosse stato possibile, come avessero fatto quegli spiriti a plagiare le loro menti e renderli vittime e carnefici, quale strano caso del destino li avesse portati a subire quello strano incantesimo proprio in quel giorno in cui tutto sembrava iniziare a prendere il verso giusto. Si era sentita felice, leggera, nell’attimo in cui i suoi piedi avevano raggiunto la vetta di quella piccola altura nel bosco. Lo aveva guardato e aveva sorriso, come se ogni cosa fosse finalmente andata al suo posto. Si era illusa per un istante che qualcosa fosse cambiato nella sua vita, salvo poi venire riafferrata per le caviglie e trascinata in basso, al centro di uno scontro che non si era mai spento e che forse un giorno sarebbe tornato ancora, a distruggere altre vite, come aveva fatto con le loro. Aveva recuperato pochi momenti di quello scontro, ma ciò che era rimasto impresso nella sua mente era stato il desiderio di uccidere proprio quello stesso uomo che a volte le capitava di desiderare al suo fianco. Con quale coraggio avrebbe potuto guardarlo ancora dopo ciò che aveva fatto, provato, pensato? No, era molto meglio lasciarlo andare, allontanarsi prima che fosse troppo tardi, prima che potesse davvero fargli del male. Erano stati due cariche elettriche che si erano avvicinate tanto da rischiare di toccarsi, salvo poi scoprire di essere entrambe negative e finire con il respingersi, senza più possibilità di attrarsi.
    Lo aveva cercato però, non aveva mai smesso davvero di farlo. Aveva vagliato tutta la rete in cerca di informazioni sul suo conto, magari nuovi articoli, notizie. Non trovandolo in giro aveva persino hackerato il sistema di telecamere dell’ospedale per cui lavorava, giusto per verificare che fosse a lavoro, che non gli fosse accaduto nulla, che non fosse tornato nel suo paese. Voleva essere sicura che, prima o poi, avrebbe potuto rivederlo ancora, magari da lontano, magari di sfuggita. Non era pronta a lasciarlo andare del tutto, a dimenticare, ed era assurdo pensare una cosa simile per lei che si era sempre lasciata indietro tutti senza guardarsi indietro, senza mai dire mi dispiace. Con lui era diverso, ogni cosa lo era stata, sin dal principio. Non aveva però mai provato a contattarlo, certa delle sue convinzioni, di quella necessità di stare separati per poter rimanere vivi. Ma era davvero vita quella in cui si stava arroccando, giorno dopo giorno, cercando di allontanare tutti quanti da sé? Persino Roy era andato via, lui aveva trovato il modo di riallacciare il suo legame con Coco, di dare un senso a ciò che aveva vissuto, lei invece avrebbe solo voluto strappare via quel ricordo e gettarlo lontano, dove non avrebbe più potuto raggiungerla, neppure lui. La solitudine non la rendeva felice, ma la faceva sentire a suo agio. Perché nel silenzio si era sempre sentita a casa, come se le permettesse di galleggiare in un mondo che non era del tutto reale, ma neppure del tutto frutto della sua fantasia. Sin da piccola aveva sentito rumori che gli altri non erano in grado di percepire, aveva parlato linguaggi che l’avevano fatta apparire strana agli occhi degli altri bambini. Si era convinta di essere diversa, di non riuscire a mescolarsi con il resto del mondo e lo accettava, i problemi saltavano fuori quando gli altri invece cercavano di mostrarle dei percorsi alternativi. Lukasz ci aveva provato, aveva colto quel luccichio diverso nel suo sguardo e avrebbe tanto voluto potersi abbandonare ad esso, dimenticare ciò che era stata e ricominciare, ma a quale prezzo?
    Il negozio era stato molto silenzioso fino a quel momento. C’erano giorni in cui la porta si apriva e chiudeva continuamente, lasciando entrare i clienti più disparati che si rivolgevano a lei anche solo per delle sciocchezze mentre il telefono continuava a squillare. Altri invece, come quello, in cui avrebbe potuto tranquillamente trascorrere tutto il suo tempo nel retrobottega, o a occuparsi di qualunque altro progetto, visto che nessuno sembrava voler disturbare la sua quiete. Nessuna delle due opzioni le piaceva davvero, né la folla, né il completo silenzio, ma aveva capito che certe cose non si potevano controllare, andavano così e basta. Si era quindi portata avanti con qualche lavoro che avrebbe dovuto consegnare la settimana successiva senza tuttavia preoccuparsi di chiamare il cliente per informarlo di aver già concluso il suo lavoro. Le capitava spesso di usare il suo tempo libero per sistemare quelle faccende, ma non cambiava mai la data di consegna che dava alle persone e quando invece finiva con il venire assorbita da altre faccende e rischiare di ritardare, trascorreva notti insonni pur di terminare comunque entro il tempo concordato. Almeno nel suo piccolo mondo, in ciò che poteva toccare e controllare, voleva che tutto andasse esattamente come doveva andare, senza cambi di percorso. Si spostò dal bancone per andare a prepararsi un caffè, era trascorsa già un’ora dall’ultimo e sentiva l’impellente necessità di assumere della caffeina. Diede un’occhiata veloce all’orologio sul suo posto, notando che ormai era ora di chiudere. Non era arrivato nessuno quindi non si preoccupò di andare a bloccare la porta, era certa che nessuno sarebbe arrivato. Invece, mentre terminava di versare il suo bicchiere di caffè, sentì la porta aprirsi alle sue spalle. -Siamo chiu…- iniziò a dire, voltandosi la persona che aveva varcato la soglia, per poi interrompere la parola a metà sbattè le palpebre una, due, tre volte, come a volersi assicurare che lui fosse davvero lì, che fosse reale e non uno sciocco scherzo della sua immaginazione. Vide le sue labbra muoversi per tramutare la sua espressione in un sorriso malinconico, prima di aprirsi per mormorare un saluto quasi imbarazzato. Rimase ferma a fissarlo, con la tazza bollente tra le mani che per poco non le era scivolata. -Ciao. - rispose, come se non potesse farne a meno, mentre avanzava di qualche passo, posando la tazza sul balcone prima di bruciarsi. Si guardò attorno, senza sapere bene che cosa dire, osservando la poca neve che aveva sparso sul pavimento quando aveva varcato la porta. Chiunque altro avrebbe subito un rimprovero per quello, ma non lui. era combattuta tra la voglia di guardarlo e quella di chiedergli di andare via, di lasciare che quella distanza rimanesse tale. Sapeva che se fosse rimasto lì le sarebbe stato impossibile ignorarlo, fingere che non ci fosse, che non esistesse.
    -Puoi chiudere la porta? Si blocca girando quella piccola maniglia, non vorrei che entrasse qualcun altro. - disse, prima di riuscire a formulare altri pensieri che avessero senso compiuto. Lui poteva entrare, ma a nessun altro sarebbe stato permesso dopo di lui, non quella sera. Abbassò il capo per un momento, chiedendosi poi se non avesse detto qualcosa di sbagliato. -Non intendo trattenerti contro la tua volontà però, puoi andare via quando vuoi. Anche ora. - si affrettò quindi ad aggiungere riportando lo sguardo su di lui. Vorrei però che non lo facessi, avrebbe voluto dire, ancora, ma quelle parole rimasero incastrate nelle sue corde vocali, senza mai prendere aria. Lo guardò per un lungo istante, senza dire nulla, era bello in quel suo cappotto, gli stava bene il blu, trovava che gli donasse. Lei invece indossava la sua solita felpa nera con il cappuccio e dei jean troppo stretti, troppo sbiaditi, che avevano senza dubbio visto dei giorni migliori. Si morse il labbro per un momento, chiedendosi che cosa stesse facendo. -Come stai? - domandò quindi, cercando un modo di rompere quel silenzio che sembrava essersi fatto assordante e che quasi esplodeva attorno a loro. -Vuoi del caffè? - chiese ancora, recuperando tra le mani la sua tazza e mandandone giù un lungo sorso, come se ne avesse bisogno per restare in piedi, per affrontarlo, per parlare con lui. Non parlava mai molto, eppure quel giorno non faceva che fare domande. Era convinta che quel giorno non sarebbe mai arrivato, e invece eccolo lì, di fronte a lei, chissà per quale motivo.
     
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