Lost (in translation)

Eira & Magdalena

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    Il meteo l'ho considerato prendendo i dati da internet per il giorno in corso, 22 Gennaio 2021, basandomi sul meteo di Bergen.
    Magdalena guardò il marciapiede, su cui stava camminando fino ad un attimo prima, come se, nascosto tra i granelli di asfalto sbiadito dall'uso e reso lucido dall'acqua, ci fosse il segreto dell'universo. In realtà lo osservò senza davvero vederlo, la sua mente persa in diversi pensieri che si stavano accavallando come le sue emozioni. Non era nuova a tale situazione, ma in quel particolare momento, in quella particolare situazione, si era sentita, per la prima volta in anni, spaesata. Sospirò, ricapitolando la giornata mentre le sue orecchie quasi non registravano il leggero ticchettio della pioggia sull'ombrello.
    Si era trasferita da poco tempo a Besaid, un angolo di Norvegia praticamente alla stessa latitudine di Oslo, relativamente vicino alla città, ben più famosa, di Bergen. Conosceva di nome la città da alcuni anni, da quando aveva scoperto che suo padre, il padre che mai aveva conosciuto e che francamente non aveva mai desiderato conoscere se non per esternargli tutto il suo odio e il suo dolore per aver abbandonato lei e sua madre a un destino che alcuni avrebbero considerato peggiore della morte, abitava là ed era anche una persona economicamente importante per il paese. Lui le aveva lasciato, alla sua morte, la casa di famiglia. A lei, unica erede mai vista, a lei, figlia di una notte brava di oltre quarant'anni prima. Curiosa, con il desiderio di vendetta e di rivalsa ormai sopito dalla consapevolezza che lei era ciò che era, una donna affermata e relativamente ricca, anche grazie alla sua infanzia povera, ai patimenti, alle notti insonni della madre cacciata di casa e ostracizzata dalla famiglia e dalla comunità mussulmana dell'epoca, si era decisa ad andare a vedere la casa anziché venderla e recuperare dei soldi che, francamente, non voleva e di cui non aveva bisogno.
    Una macchina passò vicino a lei, sulla strada chiazzata di piccole pozzanghere, quasi senza far rumore. Doveva ancora abituarsi alla presenza quasi massiccia di auto elettriche o ibride, la cui diffusione era un misto di desiderio ambientalista e incentivi statali molto importanti, tra cui esenzione di pedaggi per parcheggi e transiti su ponti e altre grandi strade. Alcune gocce schizzarono dalla pozzanghera ai suoi stivali. non se ne curò. Da brava inglese era abituata alla pioggia e non avrebbe mai permesso a se stessa di uscire senza il suo mackintosh, sia l'impermeabile che i relativi accessori: cappello, guanti e stivali, tutti in pura gomma doppiata in cotone di primissima qualità. Certo forse era eccessivo per la pioggerellina, lieve ma continua, eppure per lei era una tradizione, una di quelle cose che aveva continuato negli anni quasi a ricordare, a mantenere il ricordo dell'impermeabile giallo acceso che sua madre le aveva comprato faticosamente per l'asilo e che i suoi nonni avevano prontamente fatto sparire, ritenendolo troppo acceso e inadatto ad una femmina. quando ebbe la possibilità, da adulta, di comprarne uno, per un attimo ebbe la tentazione di riprenderlo in quel giallo sole, acceso, a mantellina, ma, parafrasando una celebre frase di un film, "I vestiti definiscono un uomo", quindi optò per un ben più classico ed elegante nero, doppia fila di bottoni, collo alto e avvolgente. Gli stivali erano con alcuni centimetri di tacco, femminili, aggraziati e terminavano appena sotto il ginocchio, come i guanti correvano lungo le sue braccia fino a sfiorare quasi i gomiti, impedendo alla pioggia di entrare anche se fosse stata sprovvista di ombrello, anch'esso nero e di stampo inglese, e sotto uno scroscio estivo, grazie al cappello con tesa morbida.
    Il clima era freddo; solo la presenza della pioggia, iniziata nel pomeriggio del giorno prima, aveva impedito alle temperature di scendere sotto lo zero come era invece stato nei giorni precedenti, attestando la temperatura tra i tre e i cinque gradi sopra lo zero. Sotto l'impermeabile indossava un tailleur rosso scuro con gonna appena sopra il ginocchio con un piccolo spacco posteriore, una camicetta in seta bianca e dei collant color carne pesanti. Si era vestita con metodo, come faceva ogni volta, sempre pronta ad un colloquio di lavoro anche se doveva andare a prendersi un caffè o a fare una passeggiata come in quel momento. Doveva prendere aria. Doveva cambiare prospettiva. La casa nuova non le dava ancora quel senso di rifugio che aveva la sua altra casa, nonostante quasi tutti i suoi mobili erano stati accuratamente posizionati come lei desiderava, dopo la ristrutturazione della casa stessa. Era alle prese con una traduzione difficile. Una ditta erboristica giapponese aveva deciso di lanciarsi sul mercato russo e le avevano proposto un contratto per la traduzione dei loro cataloghi e brochures. Un lavoro pulito, comprensivo di impaginazione. eppure certi termini, certe frasi erano estremamente difficili da rendere, in quanto si basavano sulla cultura e la tradizione giapponese, avulsa alle menti russe. Era come tentare di spiegare il concetto di spiaggia assolata a uno sherpa tibetano. Ma doveva uscirne. Al momento era uscita di casa, diretta senza meta, seguendo il filo dei suoi pensieri che giravano e costeggiavano negozi, vie, strade come i suoi piedi. Lentamente, dopo oltre un'ora, si era ritrovata nel centro della città. Ci era già stata, anche se non riconosceva tutti i luoghi, alcuni le erano familiari: quella sensazione di averli già visti, se non visitati. Quel bar all'angolo, quel negozio di saponi e profumi, il supermarket della Spar con il simbolone dell'abete verde che svettava. Probabilmente doveva rientrare, rimettersi all'opera. Allungò la mano destra, quella che non teneva il manico dell'ombrello, nella tasca dell'impermeabile, cercando il suo cellulare. Cercò anche nell'altra tasca. Inutilmente. Sospirò, mentalmente maledicendosi per la sua avventatezza. Aveva documenti e portafoglio, ma non il cellulare, quindi questo le avrebbe provocato un altro notevole problema. Non sapeva come ritornare a casa. Non avendo prestato attenzione a come era arrivata lì e non avendo le conoscenze sufficienti, poiché si era sempre appoggiata al GPS del cellulare, non era in grado senza quest'ultimo di arrivare alla sua abitazione. Certo poteva prendere un taxi, ma non ne vedeva in giro, erano perlopiù taxi privati. che dovevi chiamare. Con un cellulare. Che non aveva. Si mosse dal marciapiede, attraversando la strada, pensando come avrebbe potuto fare, quando inconsciamente il suo occhio cadde su una zona stranamente illuminata e colorata in una serie di case addossate una all'altra quasi in stile inglese, tutte scure e anonime. Degli scalini portavano dal marciapiede all'entrata di quello che sembrava essere un negozio di fumetti.
    "Bifröst Comic Book Shop" lesse sull'insegna scura. I caratteri erano bianchi, grandi, semplici, l'intera scritta contornata da un motivo a scacchiera che le riportò in mente lo stile di oltre venti anni prima se non di più. L'edificio mostrava parecchi anni, probabilmente era dei primi anni '60. Immaginò che quel negozietto fosse stato ricavato da un precedente negozio, prose una macelleria o simili, come si usava fare a quei tempi in Inghilterra, America e simili. si incuriosì, attirata, con und ebole sorriso, dalla grande "S" del simbolo di Superman incollata come vetrofania sulla vetrina, che mostrava fumetti, modellini di robot e piccole miniature fantasy di elfi dai lunghi cappelli e nani dalle folte barbe e con in mano archibugi e pistole dalle canne a trombone. "Warhammer..." mormorò ancora, dopo essere scesa dai pochi gradini ed essersi posizionata davanti alla vetrina, osservando i fumetti e gli altri oggetti.
    Gettò un'occhiata veloce dentro e, vedendo una commessa, una ragazza da quello che poteva intuire considerando gli scaffali di fumetti e il vetro parzialmente appannato, le venne in mente un'idea. Chiuse l'ombrello, non più necessario sotto l'insegna molto in rilievo del negozio a fare da tettoia. Lo scrollò velocemente, per poi richiuderlo e sistemarlo nel vuoto portaombrelli posto appena davanti all'ingresso. Si sistemò inconsciamente l'impermabile, come a eliminarne delle pieghe che non esistevano, e afferrò la maniglia della porta, spingendo delicatamente per aprire. Un cicalio metallico ed elettronico annunciò il suo ingresso, ripetuto quando chiude la porta. Dentro il negozio era piccolo come sembrava da fuori, stipato in ogni dove di generi legati ai fumetti, ai supereroi, ai manuali di giochi di ruolo di vario genere e al merchandising di saghe ormai universali. Non differiva da quelli che aveva frequentato da giovane. Erano solo cambiati i fumetti esposti. Lo stesso profumo dolciastro, un misto di carta, inchiostro di qualità mediocre e pranzi al bancone da parte del proprietario o della commessa. inspirò a fondo, persa per un attimo nei ricordi, per poi dirigersi verso il bancone poco lontano, dove una ragazza che mostrava probabilmente vent'anni o poco meno sembrava non essersi accorta di lei. Capelli neri, a caschetto, un vestito scuro dal dubbio gusto, probabilmente di qualche moda simile al punk per quello che ne poteva capire. Per un secondo si vide negli occhi della mente. Lei donna, matura, vestita con abiti e impermeabile costoso, lucido e simile a Emma Peel, di fronte a una ragazza che le ricordò quella mezza demone di una recente serie di Netfix dove compariva anche Dick Grayson.
    Incrociò le lucide mani guantate di nero all'altezza dei fianchi, come le giapponesi in segno di cortesia, e abbozzò un inchino, solo pochi gradi, una abitudine presa e rimastale dagli studi di giapponese.
    "Buongiorno. Mi scuso per il disturbo, ma avrei bisogno del suo aiuto, se me lo concede." disse in norvegese. La pronuncia era perfetta, anche se quasi accademica, mostrando a chi la ascoltava che non era madrelingua. "Mi sono persa."
     
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    Non appena la porta del Bifröst si aprì con il suo sordido e caratteristico scricchiolio, date le piccole dimensioni del negozio, Eira se ne accorse immediatamente. Molto spesso a quell'ora non molti avventori varcavano la soglia della fumetteria, tuttavia fu pronta ad assistere il o la cliente con la sua solita cura. Il proprietario del negozio era quasi sempre assente, impegnato nei suoi lunghi viaggi di ritrovo dell'anima in India, in workshop di yoga che conduceva in luoghi esclusivi o in ritiri spirituali da ricco hippie che Eira non aveva mai capito fino in fondo; il signor Pedersen poi ritornava solo per qualche giorno in città, il tempo necessario a riallacciare i sottili fili che lo legavano a Besaid, ed una volta assicuratosi di non perdere i suoi ricordi, ripartiva per qualche altra avventura, lasciando ad Eira la gestione dell'intero negozio e scrivendole un paio di SMS solo per ricordarle quali fornitori sarebbero passati dal Bifröst, augurandole così un nuovo periodo di ~luce ed amore~. Ad ogni modo, per quanto particolare, il signor Pedersen era sempre stato molto gentile e generoso con la sua assistente, pagandola forse anche di più di quanto una ragazzina al suo primo lavoro potesse sperare, e dandole - per quanto possibile - le indicazioni fondamentali per proseguire il lavoro senza di lui. Il Bifröst era in poco tempo diventato una seconda casa per Eira, che passando lì la maggior parte dei suoi pomeriggi dopo la scuola, poteva dedicarsi ai clienti ed anche alla lettura di numerosi fumetti e graphic novel. Oramai conosceva il piccolo negozio come le sue tasche, e non mancò di notare la nuova presenza al suo interno, che ne arricchiva l'ambiente sino a quel momento statico in un'alterazione gradita. Sollevando lo sguardo da uno dei fumetti, Eira potè delineare facilmente le fattezze della donna nei pressi dell'ingresso, ricoperte da un impermeabile spesso che un po' ricordava quelli che aveva più e più volte visto nella trilogia di Matrix, tuttavia decise di non disturbarla. Molto spesso, nei negozi o quando più generalmente andava a far compere, Eira non amava essere interpellata da commessi insistenti o che non le lasciavano il suo spazio per esplorare adeguatamente la merce, quindi si limitava a non avvicinarsi ai clienti con nulla se non un saluto, a meno che non le venisse chiesto esplicitamente una mano negli acquisti.
    Continuò quindi discretamente ad adocchiare la donna intenta ad osservare la merce della fumetteria con fare disinvolto ma curioso, indice del fatto che fosse entrata nel negozio per la prima volta. Eira attendeva quindi di essere interrogata, pronta a rispondere ad ogni eventuale domanda con cortesia. Il saluto arrivò poco dopo e sotto forma di inchino, un segno di gentilezza che Eira non potè immediatamente identificare ma che apprezzò ugualmente, alzandosi in piedi anche lei per accogliere la nuova arrivata. Indossava un ampio vestito il lana rossa, ricoperto quasi interamente da un caldo e soffice maglione nero, sul quale spiccavano una serie di collane con cristalli e pentacoli che riflettevano i toni alternativi del resto dell'outfit. Le gambe, invece, erano coperte interamente da delle opache calze nere, a loro volta nascoste quasi del tutto da un paio di anfibi Demonia che le arrivavano sin sotto le ginocchia, pieni di fibbie argentate ed ottimi per giornate piovose come quella. Sulle linee fini del naso di Eira, invece, scivolavano dei rotondi occhiali da vista, che spesso la ragazza preferiva alle lenti a contatto per affrontare un lungo turno di lavoro. Fissati gli occhi chiari sul volto dell'altra, Eira le rivolse un accennato ma gentile sorriso. "Buongiorno. Mi scuso per il disturbo, ma avrei bisogno del suo aiuto, se me lo concede." Di primo acchitto, la formalità di quel contatto fornì ad Eira più di una informazione: la donna di fronte a lei non sembrava essere Norvegese, ma pareva altresì avere una grande padronanza della lingua. Era cortese, controllata, matura nel comunicare anche non-verbalmente. Oh, Salve. Non si preoccupi, come posso aiutarla? Può darmi del tu comunque, sono Eira. Rispose la ragazza, riflettendo lo stesso garbo mostratole dall'altra. Circondò il bancone e, sempre mantenendo una certa distanza, lo superò appoggiandovisi con la schiena, le braccia conserte mentre pazientemente e quietamente attendeva una risposta. "Mi sono persa." Sulle prime, non sembravano quelle le parole che Eira si aspettava di sentire, rimanendo solo un po' delusa del fatto che la nuova avventrice fosse entrata senza l'intenzione di comprare della merce. Ah. Vocalizzò lei mortalmente seria, lasciando in qualche misura trasparire il cambio avvenuto nelle sue aspettative. Non c'è problema. Se mi dice dov'è diretta le posso darle delle indicazioni. Aggiunse poco dopo, accantonando quella iniziale fitta di delusione per aiutare una persona che aveva bisogno del suo aiuto. Nonostante il tono lievemente apatico della ragazza, per natura non troppo socievole, era davvero disposta a dare una mano alla signora che si era smarrita, probabilmente anche nuova di quelle parti. Che non conoscesse le particolarità della cittadina in cui sembrava essere approdata?
    Nonostante non fossero passati molti minuti da quanto Magdalena si era addentrata nei piccoli spazi del Bifröst, Eira poteva già sentire la pioggia farsi più battente sui vetri, ticchettando come invisibili lancette che scandivano il tempo di quella densa mattinata. Oh! Attenta! D'un tratto, Eira si ritrovò ad aprire un palmo, avvolgendolo attorno ad una delle maniche umide dell'impermeabile di Magdalena per trascinarla via dalla piccola finestrella proprio dietro di lei che, colpita dal ramo di un albero, si era incrinata nel suo sottile vetro sino a rompersi in mille pezzi all'impatto. Immediatamente, Eira spostò con rapidità lo sguardo lungo il corpo dell'altra donna per assicurarsi che non si fosse ferita, e poi verso la finestrella ormai rotta. E chi poteva pensarlo... Tutto bene? Si è fatta male? Borbottò inizialmente Eira, per poi mutare il proprio tono di voce in uno tinto di preoccupazione sul finire della frase. Era stato un incidente inaspettato, e sperò che l'altra donna, ancora sconosciuta, non ne avesse subito alcun danno. Oh, si è graffiata? Aggiunse dopo poco, osservando una scheggia di vetro finita sul pavimento, a pochi passi da entrambe. Lo dicevo io che il signor Pedersen avrebbe dovuto far fare qualche lavoro alla fumetteria per l'inverno. Si lamentò la giovane in una specie di miagolio, ora che anche per via della sua giovane età, non aveva idea di chi chiamare per sistemare la finestra rotta. Forse, una telefonata ai suoi papà avrebbe risolto le cose. Nel mentre, la priorità era solo assicurarsi che Magdalena stesse bene, e dopo, mettere in salvo i fumetti dalla pioggia.
     
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    Magdalena seguì con lo sguardo la ragazza mentre si alzava, notando inconsciamente come era vestita e rendendosi conto che non si sarebbe mai vestita in quel modo su un luogo di lavoro. Un istante dopo, si rese anche conto della differenza di età tra loro due e si diede della stupida: ovviamente non si sarebbe mai vestita in quel modo su un luogo di lavoro; probabilmente aveva il doppio della sua età e, quando era stata giovane lei, si era vestita anche peggio, solo per fare un torto ai nonni. Inspirò ancora una volta, a lungo: il profumo della carta dei fumetti e dei libri la avvolse, mentre l'unico rumore, per un istante, sembrò essere quello delle gocce di pioggia fuori in strada e delle poche che cadevano dal bordo dell'impermeabile sul pavimento.
    La ragazza si presentò come Eira. La sua mente tornò per un istante ai suoi studi, a quanto aveva imparato e anche dimenticato, ma che a volte riaffiorava. Le venne in mente il nome neve. Forse era il significato del nome della ragazza. Poteva essere, considerando dove si trovavano. Dopo averle detto che si era persa e avendo immediatamente notato la sua reazione, la donna si affrettò a sollevare le mani guantate in segno di scusa, quasi contemporaneamente a quando la ragazza le disse che non c'erano problemi e che l'avrebbe aiutata.
    "Sarà la proprietaria?" si domandò mentre la osservava ancora un istante, mentre fuori il tempo sembrò peggiorare velocemente, il ticchettio della pioggia ad aumentare il suo ritmo fino ad un punto in cui non vi era soluzione di continuità tra una goccia e l'altra. "No, troppo giovane. Fortunatamente sono ben coperta, senti come piove." continuò mentre cercò le parole giuste. Ancora il norvegese non le era automatico come altre lingue. "Io dovrei fare una chiamata. Una telefonata se fosse possibile. Io ho non con me il cellulare e non posso tornare alla mia abitazione. Posso usare il vostro telefono per favore?" disse sempre in tono molto formale. "Pagherò il disturbo, non voglio approfittare del suo prezioso tempo senza che io possa in qualche modo sdebitarmi." continuò seria, iniziando a trafficare con i guanti per levarseli e poter così afferrare meglio il portafogli e prepararsi a comprare qualcosa.
    Forse per la disattenzione dovuta al levarsi i guanti e allo stesso tempo cercare poi il portafogli, forse solo il destino, Magdalena non si accorse del suono proveniente alle sue spalle, un sottile sibilo che durò solo un secondo prima che il vetro della finestrella si spaccasse in mille pezzi. A causa dell'età dell'edificio, la finestrella, probabilmente ancora originale, era fatta di semplice vetro, senza alcun rivestimento esterno o trama metallica interna che le impedisse di spaccarsi come invece aveva fatto. Varie schegge di diverse dimensioni si sparsero sul pavimento del negozio, seguite dall'acqua che, mossa da potenti ventate, le stesse che avevano mosso il ramo, entrava rischiando di bagnare non solo il pavimento ma anche il libri e i fumetti. Solo la pronta reazione della ragazza, la mano ancora avvolta al suo braccio, l'avevano probabilmente salvata da una scheggia o due nella schiena.
    "Спасибо, ты спас мне... Scu... Scusi, grazie, mi hai salvato la vita probabilmente." le disse, inizialmente in russo, poi tornando a parlare norvegese. "Fortunatamente c'era lei qui vicino a me per aiutarmi. No non credo di essermi fatta male o graffiata." le sorrise, sicura di non aver sentito niente sulla schiena. Si portò una delle mani, ancora guantate, al volto, sentendo però un piccolo bruciore sulla guancia sinistra, mentre anche Eira poteva vedere chiaramente un piccolo filo di sangue uscire da un taglietto superficiale, probabilmente provocato da una delle schegge in volo. "Tu ti sei fatta male, Eira?" chiese lei mentre cercava un fazzoletto per tamponarsi il sangue, un danno estetico, sicuramente non pericoloso. Il suo cuore fece un tuffo, pensando per un istante a cosa le sarebbe potuto capitare. Il graffio bruciò ancora un istante, per poi lasciare spazio a una sensazione strana, come se qualcosa stesse toccandola proprio dove si era graffiata, ma senza dolore. Si mise di nuovo la mano sulla guancia e si voltò, osservando l'acqua entrare. "I fumetti. Io ti aiuto. Trova delle pezze per chiudere la finestra." le disse a voce alta, iniziando a muoversi per spostare quello che più poteva rovinarsi per via dell'acqua. Fortunatamente non sembrava essere molto il materiale in pericolo, me senza pensarci la donna spostò quanto possibile, per meno di un minuto, dopodiché si bloccò, come se non si sentisse bene. Si appoggiò un istante a uno degli scaffali, fissando, senza davvero vederla, una action figure di una ragazza giapponese vestita solo da una sorta di vestitino bianco e con lunghi codini gialli. Sentiva come se il cuore stesse scoppiando. Sentiva caldo al volto. Sentiva freddo dentro di sé, come avesse ingurgitato un intero gelato di colpo. si piegò leggermente in avanti, come pronta a vomitare, ma non successe nulla. Le mani le tremavano, come tutto il corpo, eppure allo stesso tempo si sentiva tremare non per mancanza di energie ma all'opposto. Sentiva tutto il suo corpo carico di una sorta di elettricità statica che si irradiava dal petto verso le mani, i piedi, verso i suoi stessi capelli. Chiuse gli occhi per alcuni secondi, tentando di inspirare profondamente. I suoi polmoni non funzionavano, non si si stavano muovendo, non volevano ricevere aria, come se fossero solo inutili sacche. Provò di nuovo, spaventata, ma non avvenne nulla. Eppure, non sentiva la necessità di respirare, era solo un riflesso condizionato causato dalla strana sensazione che le aveva e le stava provocando ansia. Riaprì gli occhi, voltandosi verso Eira. Tutto le era più chiaro, più definito. Vedeva ogni dettaglio, ogni piccola rugosità negli scaffali di legno laccato, poteva vedere le singole pagine, le sottili linee che striavano i tre lati dei libri e dei fumetti non occupati dalla costa, poteva perdersi nei dettagli della lucida superficie delle action figures racchiuse nelle loro confezioni di plastica e carta. Sentì distintamente, come se fossero al rallentatore, le singole gocce di pioggia che stavano scendendo ed entrando, sentì il rumore del respiro di Eira, lo strano oleoso rumore del suo impermeabile mentre lei stessa si muoveva. Fuori un cane abbaiò, il suo verso coperto dai rumori della strada, dalle macchine, dalla pioggia, dal vociare dei passanti sulla strada.
    "Cosa..." mormorò cadendo a terra.
    Le sue gambe erano rigide, come artificiali, mentre anche le sue mani sembravano aver perso tutto il tatto, solo appendici rigide e inutili che sapeva di poter muovere, se si fosse sforzata. Quando aveva toccato il pavimento, il suo corpo emise un rumore strano, come quello di un manichino che cadeva, come della plastica rigida che cozzava contro il pavimento della stanza. I suoi occhi fissavano la ragazza nel suo campo di visione, osservandone tutti i dettagli, perdendosi quasi, spaventata, nelle volute del maglione, nei riflessi dei capelli, nel luccichio della sua bigiotteria. Non sentiva il desiderio di sbattere gli occhi, spostando invece lo sguardo sulla finestra rotta. I suoi occhi emisero, perfettamente udibile da lei, dalla sua mente, un lieve ronzio mettendo a fuoco meglio i dettagli dell'intelaiatura dove ancora alcuni pezzi di vetro erano rimasti attaccati. Con difficoltà provò a rialzarsi, le sue giunture quasi restie a muoversi. "Per favore... aiutami..." chiese alla ragazza. Magdalena si voltò, intravide il suo volto riflesso in una delle vetrine degli stand. Era il suo viso, ma era rigido, lucido, a suo modo perfetto, come quello di una bambola o di un manichino estremamente realistico.
    Dopo vari sforzi sentì finalmente le giunture muoversi, apparentemente tornando sotto il suo controllo, permettendole di rialzarsi e di farsi vedere meglio dalla ragazza. "Devo aver battuto la testa... io credo... ho visto il mio viso... Ambulanza..." disse straniata, come drogata, appoggiandosi ad uno scaffale di legno per tenersi in equilibrio. Le dita schiacciarono le fibre di legno come se fossero plastilina, non rompendo la parete ma lasciando un segno sicuramente visibile. Immediatamente ritrasse la mano, osservandosela. "Bozhe moy!"

    Edited by Metilanato - 9/4/2021, 18:06
     
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    "Io dovrei fare una chiamata. Una telefonata se fosse possibile. Io ho non con me il cellulare, e non posso tornare alla mia abitazione. Posso usare il vostro telefono per favore?" Colta alla sprovvista forse dal tono formale che raramente persone più adulte utilizzavano con lei, Eira lasciò andare un lieve cenno d'assenso, per nulla dispiaciuta da quella dimostrazione di cortesia che l'altra donna le aveva voluto rivolgere con tale riguardo. Tuttavia, cercò anche di sostituire il prima possibile il dispiacere di non aver ricevuto una cliente con un'espressione progressivamente più morbida, e poi lanciò uno sguardo al proprio cellulare, abbandonato ad un lato dell'ampia scrivania dietro cui sedeva la maggior parte del tempo al Bifröst. "Pagherò il disturbo, non voglio approfittare del suo prezioso tempo senza che io possa in qualche modo sdebitarmi." A quel punto, Eira fu la prima a sollevare entrambe le mani dalle unghie smaltate di nero per scuoterle appena in un gesto immediato ma non brusco, mirato a dissuadere la donna sconosciuta dal suo proposito di sdebitarsi con del denaro. Oh no-no davvero non deve- Iniziò lei, prima di interrompersi sul nascere e stroncare ogni suono per allertare l'altra dell'imminente esplosione della finestrella vicino all'ingresso. La pioggia battente non accennava a diradarsi, e proprio la sua pressione ruppe del tutto le incrinature della piccolo - e considerevolmente usurato - pannello, ferendo superficialmente Magdalena, separata dalle schegge di vetro da Eira il più velocemente possibile. Fortunatamente, il danno al negozio non sembrava troppo grave, ma soprattutto, nessuna delle due donne aveva riportato alcuna ferita fastidiosa o tanto pericolosa da richiedere l'arrivo tempestivo dell'ambulanza, e di questo Eira si sentì immediatamente sollevata. Ad occhi spalancati scandagliò velocemente la figura di Magdalena in cerca di eventuali lesioni, identificando immediatamente solo un minuto e superficiale taglio sulla pelle dell'altra.
    "Спасибо, ты спас мне... Scu... Scusi, grazie, mi hai salvato la vita probabilmente." Ancora scossa per quel piccolo rush di adrenalina, Eira si ritrovò a scuotere velocemente il capo, notando che il suo stato d'animo fosse in quei momenti condiviso con Magdalena, anche lei abbastanza agitata per via dell'accaduto. Le prime parole per la ragazza dai capelli corvini furono incomprensibili, probabilmente pronunciate nella lingua madre della donna, e per qualche secondo Eira si domandò che cosa l'avesse spinta ad arrivare a Besaid: ragioni professionali, personali, buone o spiacevoli? Si accese in lei una scintilla di curiosità proprio attraverso quelle parole appartenenti ad un idioma tanto differente dal proprio. Oh-- No no, non si preoccupi, non potevo certo permettere che si facesse male. Commentò gentilmente lei, lanciando un'occhiata veloce e preoccupata alla finestrella ormai rotta. "Fortunatamente c'era lei qui vicino a me per aiutarmi. No non credo di essermi fatta male o graffiata." Per fortuna, la risposta di Magdalena alle seguenti indagini verbali di Eira parvero tranquillizzare un po' di più entrambe, sollevate dal fatto che nessuna delle due si fosse ferita. Il groviglio di onde nere di Eira infatti si mosse in un altro cenno d'assenso, ora più deciso nell’esprimere il suo sollievo, nonostante un velo d'apprensione si fosse depositato sulle sue iridi, osservando quel piccolissimo rivolo di sangue fuoriuscire dal taglio sulla guancia sinistra di Magdalena. "Tu ti sei fatta male, Eira?" In risposta alla domanda premurosa dell'altra, Eira negò con un cenno del capo, notando i piccoli movimenti della sua interlocutrice in cerca di un fazzoletto ed anticipandoli, raggiungendo in tutta fretta la borsa in belle dietro al bancone per recuperarne uno per lei e lasciare il pacchetto sulla superficie di lavoro - sicuramente si sarebbe rivelato utile più avanti per rimuovere detriti potenzialmente taglienti. Ecco, a lei. Dichiarò piano, e poi Eira si occupò in tutta fretta di recuperare i fumetti purtroppo destinati ad una fine ineludibile ed umida se non fosse stata in grado di salvarli entro pochi secondi. "I fumetti. Io ti aiuto. Trova delle pezze per chiudere la finestra." Agitando appena le mani, Eira cercò di dissuadere Magdalena dal prendersi alcuna preoccupazione o fastidio nell'aiutarla, specialmente ora che avrebbe dovuto solo riprendersi dalla sorpresa, anche se i suoi gesti parevano esprimere tutt’altro stato d’animo. Oh.. Magdalena, sicura di star bene? Intervenne subito la più piccola, accorgendosi solo dopo pochi secondi del fatto che l'altra donna sembrasse sovrappensiero o, sfortunatamente, quasi sconvolta.
    Magdalena? Provò allora Eira esitante, prendendosi delicatamente le mani nelle mani dopo aver con rapidità posato i fumetti bagnati sul bancone. Sembrava che l'altra non riuscisse ad udirla, e man mano qualcosa di simile al panico parve farsi strada nella donna più grande, in una sensazione che Eira non riusciva a collocare o identificare. Cosa poteva aver scatenato quella reazione in lei? Del resto poco prima non le era sembrata così turbata dal sangue come magari altre persone avrebbero potuto essere. "Cosa..." Prima che Eira potesse correre in aiuto di Magdalena, quest'ultima capitolò sul pavimento, e chinatasi al suo fianco, la ragazza dai capelli corvini la osservò anche lei agitata come non lo era stata fino ad allora nonostante l'esplosione della finestra. Magdalena?! Tieni duro, ora chiamo l'ambulanza! Trillò allarmata lei, abbandonando ogni formalità ed alzandosi velocemente per recuperare il cellulare, quando realizzò quel che aveva appena osservato ed udito: i rumori appena emessi da Magdalena e l'apparenza della sua pelle non sembravano più essere umani. Prima di parlare alla diretta interessata di queste impressioni nell'attesa dei dottori, Eira pensò comunque che sarebbe stato utile chiamare l'ospedale, e così fece, afferrando lo smartphone e digitando il 113. Un paio di squilli e l'operatore fu pronto a parlare con Eira. Pronto? Sì una mia cliente si sente male, non so cos'abbia ma sospetto che si tratti della sua particolarità. Siamo al Bifröst Comic Book Shop, al 76 di Olav Kyrres gate. Sì, okay va bene grazie. Scandendo ogni parola chiaramente per fornire all'operatore tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno per fornire loro aiuto, Eira cercò di mantenere il sangue freddo per proseguire la chiamata e concordare l'arrivo dell'ambulanza a 6 minuti da allora. Dopodichè tornò al fianco di Magdalena, aiutandola ad alzarsi e percependo ciò che era certa l'altra stesse avvertendo proprio dentro di sè: ogni movimento risultava rigido, non del tutto facile e naturale. Sono qui, sono qui non ti preoccupare. Ora sembrò essere tutto chiaro ad un'occhiata più attenta: Magdalena sembrava quasi fatta di plastica, come se avesse temporaneamente abbandonato il suo stato di donna in carne ed ossa per entrare in un altro, di tipo diverso ed a lei alieno. Un braccio di Eira era avvolto attorno alle sue spalle, mentre l'altro raggiunse la sedia dietro al bancone per posizionarla vicina a lei in modo che Magdalena potesse accomodarsi. "Devo aver battuto la testa... io credo... ho visto il mio viso... Ambulanza..." Penso che- "Bozhe moy!" Una volta preso un respiro e messi in prospettiva gli ultimi eventi, Eira riuscì a collegare finalmente i pezzi del puzzle in un'unico disegno, interrompendosi non appena Magdalena si fermò sorpresa dalla sua stessa forza che invece, ad Eira parve semplicemente una conseguenza naturale della particolarità dell'altra di cui ancora non conosceva le implicazioni, ma che certamente aveva influenzato il suo stato fisico. Magdalena, ti prometto che va tutto bene, sta arrivando l'ambulanza e tra pochi minuti ti visiteranno. Riesci ad accomodarti sulla sedia ora? Le domandò rapidamente ma con premura Eira, rivolgendole uno sguardo comprensivo e caldo, in modo da infonderle sicurezza. Poteva certamente comprendere la sua confusione. Ecco così, va tutto bene. La incoraggiò ulteriormente una volta che Magdalena si fu seduta, per poi accovacciarsi lentamente di fronte a lei. Ci sono io qui. Ti aiuterò, e ti prometto che avrai le risposte che ti servono, ma prima devi darne una tu a me, okay? Ora pronta a rivolgere tutta la propria attenzione ad ogni risposta che Magdalena le avrebbe rivelato, Eira si assicurò che non fosse troppo agitata prima di proseguire. Hai mai sentito parlare delle particolarità di Besaid? Se la risposta è no, devo spiegarti delle cose.
     
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    La donna vide la ragazza, fortunatamente illesa, scuotere l'enorme massa di capelli neri e ricci, che si mossero con ondate successive e sempre più deboli dopo che smise di scuotere la testa in segno di diniego. Magdalena sorrise, annuendo appena al cenno di Eira. Era contenta. Quella ragazza le aveva evitato dei danni ben più gravi, non considerando che lei stessa poteva farsi estremamente male. Ancora di più nella sua mente si formò l'idea di comprare qualcosa per il disturbo. All'inizio, appena era entrata e lo aveva detto quasi più per cortesia che per reale motivo, aveva sperato che la ragazza, mossa a pietà, le avrebbe prestato il telefono, o il cellulare, e aveva sorriso quando le aveva risposto quasi in modo timido, alzando le mani agili e ben curate. Aveva registrato inconsciamente lo smalto nero delle unghie perfettamente curate, un tocco magari troppo dark per i suoi gusti, ma ancora una volta si ricordò che Eira non era lei. Avevano una generazione abbondante di differenza tra di loro, e lei non poteva dire nulla sul look di qualcuno. Non solo per il cosiddetto e abusato politically correct, ma perchè lei per prima non amava giudicare un libro dalla copertina. E poi, sotto sotto, se uno ci pensava, in un negozio di fumetti, ci si aspettava più una figura giovane e particolare che la classica segretaria o commessa vestita come in una vecchia commedia anni ottanta.
    Magdalena si mosse appena mentre la ragazza prese il pacchetto di fazzoletti, appoggiandolo sul bancone, accanto a una pila di fumetti su cui troneggiava quella che doveva essere probabilmente la riproduzione in miniatura e sicuramente in plastica del teschio di cristallo dell'ultimo film con quell'attore che lei aveva visto in Blade Runner, molto più giovane. Aveva preso uno dei fazzoletti con le mani guantate, usandolo per tamponare il taglio superficiale che già quasi non sanguinava più. Profumavano gradevolmente di una fragranza delicata, a suo modo dolce e giovanile, ma con un bel carattere, dato dalla nota di sandalo sul fondo.
    "I latini dicevano nomina sunt consequentia rerum. Chissà se vale anche per il rapporto tra profumo e donna?" pensò aiutando quanto poteva la ragazza a mettere in salvo i fumetti, la pioggia a entrare non costante, ma in ondate portate dal vento, bagnando una piccola sezione del pavimento. Il vento ululava, poteva quasi sentirne il freddo dal rumore, e si dimenticò del taglietto al volto finchè non sentì la strana sensazione di freddo e caldo assieme coglierla, renderla rigida, immobile come una statua, come un robot senza più batterie.
    Come in uno strano sogno al rallentatore con sprazzi di avanti veloce, vide Eira avvicinarsi, chiederle qualcosa, ma non sentì nulla in quel momento, come se tutti i suoi sensi fossero presenti tranne la vista, anche se non chiara. Se non fosse stato perchè le aveva sotto gli occhi, non si sarebbe accorta che la ragazza le aveva preso le mani tra le sue, il nero dello smalto a perdersi quasi nello stesso nero dei guanti che ancora indossava. Non sentiva nulla, non sentiva il tocco della ragazza, poteva solo capire che le stava parlando, forse la stava chiamando. Riuscì con uno sforzo a dire solo una parola prima di cadere a terra. Vide con precisione millimetrica Eira muoversi, ogni singolo capello come un'esplosione di movimento e di bellezza attorno al suo volto. Se avesse potuto e non fosse stata così spaventata, avrebbe sorriso come davanti ad un'opera d'arte, ogni piccolo dettaglio perfetto, incredibilmente acceso, quasi posterizzato. Una parte di lei sentì i singoli istanti come precisi fotogrammi della sua caduta, incluso lo strano rumore del suo corpo cadere. Eira chiamò l'ambulanza, sentì distintamente l'indirizzo, sentì il tono giustamente preoccupato della ragazza, ma non riuscì a comprendere, probabilmente a causa dello spavento, cosa intendesse con particolarità. Forse era la sua non perfetta conoscenza della lingua, magari aveva parlato di allergia o qualcosa di simile. Sapeva che esistevano differenti dialetti, e lei sapeva nemmeno in modo perfetto esclusivamente il Bokmål, che fortunatamente era lo stesso usato a Besaid. Certo era solo una differenza nella scrittura, eppure era anche un modo di interpretare la lingua, la cadenza. Potè solo seguire con gli occhi la ragazza mentre finiva la telefonata, quindi si muoveva verso di lei nuovamente, gentile, dicendole che non doveva preoccuparsi.
    Anche lei avrebbe detto lo stesso, se ne rendeva conto con un angolo della mente, ma non le era servito a tranquillizzarsi. Sentiva solo il freddo, vedeva e sentiva come se tutto fosse ad alto volume e alta risoluzione, quasi poteva arrivare a vedere i pixel con cui i suoi occhi formavano le immagini e le mandavano al cervello se si sforzava a mettere a fuoco i singoli particolari. Vide le iridi di Eira muoversi, contraendosi ed allargandosi in modo impercettibile agli altri, ma per lei erano come movimenti lenti e costanti, cosa che invece avveniva decine di volte in un secondo. La sentì muoverla, non sentì le tipiche sensazioni sulla sua pelle, ma al contrario potè solo registrare che l'aveva in qualche modo sollevata a fatica e lentamente, con gentilezza, come se fosse solo una bambola di plastica come quelle con cui giocava da piccola, ma a grandezza naturale e decisamente più pesante, l'aveva fatta sedere sulla sedia che aveva non aveva capito come spostato. Voleva sorriderle, voleva dirle grazie, ma non potè aprire bocca, il suo volto immobile in una neutrale espressione che probabilmente assomigliava a quella della Monna Lisa, quando ogni muscolo del volto è rilassato. Le sue braccia e gambe erano rigide, difficilmente movibili. Si poteva vedere, non tutta, ma in parte, e capiva che aveva la stessa posa della bambola che sembrava essere, non solo il volto che aveva intravisto, lucido e artificiale.
    "No, no! Cosa mi sta succedendo, cosa..." pensò, pensando a qualche reazione allergica davvero, forse a qualche composto usato per il vecchio vetro, o a chissà quale sporcizia sul vetro stesso, ma niente poteva agire così velocemente, non erano in un film di fantascienza. Forse la caduta... certo! La caduta. "Io non, non voglio essere così. Eira ti prego..." la guardò, gli occhi avrebbero dovuto essere tristi, ma solo si mossero per seguire il volto della ragazza, sicura che quello era il sintomo di un problema al cervello. Certo, le allucinazioni che stava avendo, i suoni troppo precisi, quello che aveva visto di sé, l'assenza di movimento. Vide nella sua mente se stessa in un letto di ospedale, un vegetale attaccato alle macchine, e sentì come una enorme scarica di paura, di energia attraversarle il corpo, facendola fremere per un secondo prima di riuscire davvero a parlare, a formulare un accenno di frase. Quello sembrò essere il la che le permise di muoversi e di scoprire la sua enorme forza, facendola imprecare nella sua lingua madre. si guardò la mano ancora guantata, piegandola e chiudendola a pugno lentamente, con fatica. Ogni movimento era una sorta di sforzo, ogni singolo atto un ragionato e deciso impegno di tutti i muscoli che parevano non essere più in grado di coordinarsi. Annuì quasi senza aver davvero capito la frase della ragazza, sedendosi meglio, muovendo le dita e il resto del corpo adagio tanto per paura di ripetere quanto aveva fatto con lo scaffale, tanto per lo sforzo che il muoversi le costava. Con lentezza si sedette composta, gambe unite, mani sul davanti come una perfetta studentessa ad una interrogazione, una posizione che quasi prese da sola nel momento in cui continuò a pensare che doveva mettersi seduta.
    "Ambulanza? Tutto bene?" chiese, la sua voce leggermente artificiale, come se provenisse da un sofisticato, ma comunque ancora non del tutto perfezionato, sintetizzatore. Eira avrebbe potuto notare che c'era qualcosa di strano, quasi di sinistro, nel modo in cui le labbra si muovevano non in sincrono con la voce, come se quest'ultima fosse in leggero ritardo, un'isteresi di forse un secondo al massimo, anche meno. "Io non sto bene, io ho visto il mio volto essere come finto, lucido. questo non è possibile. E ora il corpo io non... è come se lo muovessi molto a fatica e vedo cose che non dovrei vedere." le disse Magdalena, ancora immobile, se non per il movimento della bocca. Era chiaro che non stesse respirando, nè gli occhi nè il resto del corpo avevano quei minuscoli, ma comunque percettibili movimenti che un corpo vivente ha anche inconsciamente, come aggiustarsi sulla sedia anche se immobili, spostare lo sguardo con rapidi movimenti degli occhi. "Cosa mi sta succedendo, io... No, sì, ho tante domande, sembra che tu sappia cosa mi stia succedendo? Altri hanno avuto questo? quindi non è un colpo alla testa?" chiese, mentre il tono si alzava, come se lentamente, ma non troppo, la sua paura stesse diventando isteria. "Cosa mi è successo Eira? Tu sai cosa mi sta succedendo? я хочу знать, я... Devo sapere!" quasi urlò, e il volume fu così forte da essere paragonabile a quello di uno altoparlante da discoteca, stupendo e spaventando lei stessa, che rimase a bocca aperta, ma silenziosa, gli occhi a muoversi, a dardeggiare a sinistra e a destra come a cercare chi fosse la fonte del suono, mentre due dense lacrime di olio di silicone scesero sulle sue guance. "Ho... paura, io..." balbettò con voce tremante, un ronzio nel tono del sintetizzatore.
    Ascoltò la domanda della ragazza davanti a lei, lasciando passare alcune decine di secondi prima di rispondere, come se volesse essere sicura di aver capito bene e di avere il tempo di trovare le parole giuste.
    "No. Ho conosciuto Besaid solo perchè qui è vissuto mio padre che non ho mai conosciuto. E'... una malattia genetica come l'anemia?" le chiese impaurita, il suo corpo ancora immobile, mentre dentro di lei sentiva sempre di più un freddo che le dava in bocca un retrogusto metallico, mentre i muscoli e la pelle finivano di diventare fibre artificiali, pistoni e polimeri ceramizzati. "Io ho ereditato questo da mio padre?"
     
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