Avant de sombrer dans l'oubli

Delilah & Holden | Tarda mattinata | Ufficio

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    Non si guardava allo specchio ormai da giorni, ne evitava accuratamente ogni più piccolo riflesso, accelerando persino il passo davanti ai vetri delle finestre di casa o in prossimità delle facciate trasparenti di qualche negozio davanti al quale si ritrovava a camminare. Sapeva, Delilah, che anche senza cercarle di proposito, se avesse posato lo sguardo su sé stessa avrebbe visto tutte le crepe che aveva addosso, spacchi che in pochi sarebbero stati capaci di notare al posto di quelli che normalmente avrebbero dovuto essere capillari: lei li vedeva tutti, le attraversavano la pelle come a disegnare una mappa dei punti in cui i terremoti avevano smosso le placche terrestri su quella terra che, senza alcuna atmosfera a proteggerla, veniva ripetutamente colpita da asteroidi di ricordi. Ad ogni caduta uno spacco, ad ogni spacco lava incandescente che iniziava a straripare, era impossibile tenersela tutta dentro. E allora, se fuggire smetteva d’essere un’opzione, in quel tentennante attimo di follia bollente, Delilah si muoveva, agitata e frettolosa, poiché consapevole del poco tempo restante: le ore di sonno si riducevano, le pupille si dilatavano, il cibo diveniva soltanto un’opzione di cui ricordarsi dopo un mattone di ore trascorse in un inconsapevole digiuno, al contrario della mente che, come attraversata da treni di pensieri ad alta velocità, restava attivissima, un covo di informazioni e volontà che, caotiche, non riuscivano a ridarle indietro il senso di realtà che chiunque altro invece possedeva. E se tutto quel fare, tutto quel parlare, sperava le dessero la vita che sentiva scivolarle via dalle mani, d’altro lato, nel profondo, Delilah sapeva perfettamente di non averne alcun controllo. La fuga, sua più sincera amica, continuava imperterrita a restare l’unica soluzione, la boa di salvezza galleggiante fra le acque scure di un mare troppo vasto, perché a nuotare lontano dalla costa avrebbe necessitato di un appiglio, prima o poi, e nonostante la frenesia delle braccia e delle gambe nell’avanzare e combattere la corrente delle onde, l’invincibilità restava solo una speranza e nessuna certezza.
    Però, stavolta sarebbe stato diverso, certamente. Stavolta avrebbe evitato accuratamente di guardarsi allo specchio, si sarebbe ricordata di mangiare, avrebbe dormito un paio d’ore in più e, a differenza delle altre volte, avrebbe trascorso del tempo assieme ad Holden, si sarebbe concentrata su di lui e tutto sarebbe andato benissimo. E con quella convinzione non solo piantata nella testa, ma anche sulle labbra in un sorriso genuinamente felice, Delilah era andata fino a casa del fratello, super eccitata per la notizia che avrebbe dovuto dargli e sicura, al cento per cento, che Holden avrebbe assecondato tutto il suo meticoloso piano di viaggio studiato solo mezz’ora prima, per accompagnarla in un breve weekend lontano dalla città Norvegese che li aveva presi in adozione, con destinazione Parigi, la vera ed unica casa che, nei giorni di frenesia incontrollabile di Delilah, le sembrava meritasse quell’appellativo. Con il pensiero a Montmartre e i suoi infiniti scalini, la bionda pensava finissero i tormenti, inconsapevole del fatto che proprio quello rappresentasse uno dei ricordi che generavano molteplici sensazioni di cui, una volta per terra, avrebbe voluto liberarsi.
    Quando si ritrovò a bussare più e più volte alla porta, nessuno aprì. Continuò inconsapevolmente a farlo, prima con le nocche contro il legno e poi ritmicamente con la punta delle dita. Proseguì anche quando andò ad estrarre lo smartphone dalla tasca dei jeans per comporre il numero di Holden, l’increspatura fra le sopracciglia non andò comunque a sciogliere il sorriso fermo sulle labbra schiuse, nelle orecchie il suono vivido e attivo di quel toc toc contro la porta. Dall’interno dell’abitazione non sembrava giungere alcun rumore, al telefono nessuno rispose, l’impaziente Delilah si ritrovò ad agganciare e staccarsi dall’uscio di casa di suo fratello per dirigersi altrove. Il pensiero di trovare Holden divenne quasi una questione di vita o di morte, dentro la sua testa, che impegnata nell’elaborare possibili scenari alla ricerca dell’unica persona che sapeva potesse aiutarla, distrarla, e salvarla, non smise neanche un attimo di sorridere - nonostante il chiassoso vortice di pensieri - all’idea logicamente irrazionale dell’euforia che avrebbe investito suo fratello non appena lei gli avesse consegnato i biglietti per Parigi, ipotesi che non era ancora pronta a credere potesse essere solo un’illusione nella sua testa e mai realtà. Perché se la vita di Delilah si sviluppava in circolo cominciando e terminando sempre nello stesso identico punto, quella degli altri sembrava avere forme totalmente diverse, percorsi che ad ogni passo si allontanavano dal punto di partenza senza mai retrocedere di nuovo.

    Un tornado di spettinati capelli biondi, una figura avvolta in una salopette beige e un pullover azzurro, Delilah sembrava essere appena uscita da un cartone animato dopo giorni di veglia. «NANO!» Aveva spalancato la porta e si era addentrata nell’ufficio a grandi e larghe falcate, lasciando che lo sguardo ora vigilissimo riconoscesse subito i contorni della figura del fratello minore, acchiappando i riccioli scuri per primi e finendo sulla punta del naso appuntito, lo stesso contro il quale una Delilah più piccolina si era divertita nel premere il dito indice e far suonare un campanello immaginario; a ricordarsi di quel frammento di vita le sembrò quasi che fosse impossibile averne solo immaginato il suono, nella sua testa riusciva ad ascoltare quel rumore ancora forte e chiaro. «Ti ho cercato ovunque, ti ho chiamato, mi stai evitando?» prese a parlare con tono di voce piuttosto alto mentre continuava ad avanzare nella direzione del fratello per avvicinarsi alla sua scrivania e posarne i palmi aperti sulla superficie dopo aver fatto scivolare per terra lo zainetto prima solo fermo su una delle due spalle. Si lasciò andare ad un brevissimo sospiro, come se si fosse concessa uno stop per la prima volta dopo ore. Gli sorrise apertamente e lo guardò per qualche istante ancora, quasi come se catturandone i lineamenti e le sfumature delle sue espressioni facciali, Delilah si rigenerasse. Eccola, la sensazione che aveva cercato fino a quel momento: lontana dalla paura, lontana dalla vergogna, lontana dall’idea di essere in procinto di cadere e farsi male. Era lì e aveva la luce degli occhi di Holden, così diverso da tutto il dolore non suo che voleva far proprio per non guardarsi dentro, diverso dagli occhi vitrei di Heath e ben più luminosi di quelli di Nikolaj che aveva sentito sciogliersi fra le mani un paio di settimane prima, quando gli aveva visto le pupille dilatarsi e inondare tutto quanto. E nella luce ritrovò speranza, Delilah, che quindi drizzò nuovamente la schiena e staccò via le mani dalla scrivania, compì qualche passo lateralmente così da aggirare il tavolo e raggiungere il fratello per abbassarsi nella sua direzione e intrappolarlo in un abbraccio strettissimo che durò più del previsto. A tenerselo così vicino e contro il petto, Delilah avrebbe potuto riconoscere le curvature di quello scheletro così simile al proprio. «Guardati, sembri proprio uno di quei musoni in giacca e cravatta che parlano davanti una piazza ricolma di gente e spera di diventare presidente un giorno.» commentò ancora, strofinando il palmo aperto della mano sulla chioma di capelli ricci così da scompigliarla giusto prima di risollevarsi e allontanarsi da lui per tornare a camminare, in movimento e in cerchio, al centro della stanza. «Ho una sorpresa per te. Hai pranzato? Non è cibo, però. È qualcosa di molto, molto, più invitante del cibo.» prese a parlare, lasciando che lo sguardo chiarissimo vagasse dai quadri sulle pareti a lui, da lui al soffitto biancastro, dal soffitto alla porta d’ingresso, dalla porta d’ingresso nuovamente su Holden. Lo sguardo ora fiammeggiante, poteva sentire l’euforia scorrerle sotto la pelle assieme ai globuli bianchi e rossi, piastrine che Delilah immaginò avessero la forma di piccoli serpenti, forse come il letta della Senna che attraversava la sua casa. «Est-ce que tu veux savoir ce que c’est?» - ”Vuoi sapere cos’è?” domandò allora, fermandosi di nuovo per qualche secondo solamente, riprendendo poi a muoversi in direzione della borsa gettata per terra. L’aprì, prendendo a rovistarvi dentro e tirando fuori un sorrise plico di carta stampata. Tornò a sollevarsi col busto per fronteggiare il fratello e far ondeggiare i fogli davanti al suo viso, sul volto l’espressione soddisfatta e felice di chi ha appena compiuto un’azione meravigliosa. «Moi et toi. Paris.» - "Io e te. Parigi.” confessò immediatamente, senza neanche dargli il tempo di provare ad indovinare, troppo euforica per riuscire a restare con i piedi per terra. «Non riuscivo a dormire ieri sera, mi giravo e rigiravo nel letto e non so neanche come, sono finita a guardare voli online e ho trovato un paio di offerte. Giuro di averci provato, ho messo via il telefono e ho dormito - mentì - e poi quando mi sono svegliata stamattina c’era ancora quest’idea, mi sono detta, perché no?!» parlò ancora, il viso ora una sfera rotondissima fatta di gomma malleabile, sembrava cambiare forma e lineamenti ad ogni parola e ogni singolo livello di euforia che, era evidente, stava animando Delilah più del dovuto. «Quindi ho prenotato per il weekend, ho chiamato anche papà, gli ho detto che lo andiamo a trovare ed era contentissimo.» terminò, allora, fermandosi di nuovo e, giungendo le mani di fronte al petto, portò il mento a posarsi sulla treccia formata dalle dita incastrate le une alle altre, lo sguardo che forse solo ora, finalmente fisso sul viso di Holden, sembrava esser tornato sul mondo terreno. Attese qualche momento, distante, intontita da quello che aveva appena detto, ma l’intervallo fu breve e durò meno della frazione di un secondo, dopo la quale le sopracciglia tornarono a sollevarsi in un arco e il sorriso prese a scoprirle di nuovo la dentatura perfetta mentre, ora silenziosamente, pregava Holden di assecondarla.
    La fuga non avrebbe dovuto necessariamente essere in solitaria, soprattutto se la compagnia aveva lo stesso sguardo e gli stessi spigolosi lineamenti che adorava guardare quando si sentiva impossibilitata nel riconoscerli in un riflesso nello specchio. E di Holden sempre si trattava, in quei casi: sebbene la maggior parte di chi le stava intorno potesse confondere quella frenesia con le ore buie di Delilah, lui sapeva che si trattava esattamente del contrario. Erano piene, stracolme e straripanti di luce, così tanto da accecarla, così impegnative da mandarla in tilt e schiacciarla, obbligandola a serrare le palpebre per non guardare. Ma per Holden una vita a riconoscere gli attimi accecanti di Delilah certamente non lo obbligavano a guidarla, questo però la maggiore forse doveva ancora comprenderlo appieno. Era consapevole ci fosse un punto di rottura per tutto, anche per sé; sapeva ci sarebbe stato un punto di rottura per Holden, forse però evitava di considerarlo più vicino del dovuto.
     
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    Faticava ultimamente, Holden, a riconoscere e tornare nei luoghi luminosi che l'avevano sempre accolto, rifugi talmente accecanti da far brillare anche le preoccupazioni più cupe, almeno per un po'. Erano posti fatti di legno e mattoni come la cameretta nella casa parigina, così piena di libri da farci lo slalom in mezzo per non inciampare, tanto vicina a quelle dei fratelli che bastava bussare una volta per farsi sentire. Parigi era però lontana e Holden era tanto stanco che la capitale francese gli pareva in Australia piuttosto che in Europa, e arrivare fino a lì sembrava un viaggio lunghissimo. Ma aveva qualche asso nella manica, Holden, i cui posti luminosi potevano anche essere mentali, vere e proprie stanze che nella testa lo accoglievano per farlo sentire tranquillo, in pace, al sicuro come nella stanza della musica, che non esisteva nella realtà ma dentro di lui, un posto portatile in cui si trasferirsi ogni volta che suonava. Non importava dove si trovasse il suo corpo, se nella hall di un aeroporto o sul palco di un teatro, quando le dita iniziavano a produrre musica lui si trasferiva lì, lontano, in mezzo alla luce. Capitava sempre, senza eccezioni, a parte dopo la morte di Heath e quella volta, quando anche i suoi luoghi-persona sembravano non essere poi così stabili e, alcuni, non esserci per niente. Quando si era come lui, Holden, un ragazzo a cui spesso veniva a mancare la voglia di aprirsi all'esterno, avere un numero preciso di persone su cui poter contare faceva la vera differenza. Quando tutto il resto falliva, quando neanche i libri e la musica scacciavano più i pensieri, attingere ai semi di luce che negli anni erano cresciuti nelle sue persone faceva per lui la differenza tra una giornata triste e una non poi così male. Questi globi brillanti risiedevano un po' ovunque a seconda della persona in cui si erano installati, di solito nelle parti che Holden associava per istinto a ognuna di loro. Sam, per esempio, scintillava sopratutto nelle mani che da sempre amava stringere, un dito alla volta; a Delilah s'incendiava invece il sorriso quando, puntualmente, ogni volta che lo vedeva si apriva come vi fosse sempre un segreto a unirli, o forse era semplicemente il fatto di essere fratello e sorella ad accenderlo così. Di Valentin, se ne era reso conto troppo tardi, Holden vedeva tutto scintillare, che poi era assurdo perché l'amico si era invece sempre descritto con tanta ombra e nessuna luce, a detta sua neanche uno spiraglio. Ci aveva pensato, Holden, forse anche troppo, a come fosse possibile che Valentin non riuscisse a vedere quanto sole portasse nelle giornate del moro, che quasi doveva socchiudere gli occhi come per proteggersi da qualcosa di troppo forte e di troppo grande per le sue iridi. Come poteva, si era chiesto, pensarsi solo buio? Non vedeva, si domandava, l'esplosione riflessa negli occhi verdi del riccioluto ogni volta che si fronteggiavano? Sarà che lo associava alle estati passate insieme a catturare i ricordi, sarà che pensare a Val gli faceva pensare ai momenti mai persi e sempre trovati quando, stesi sul prato, nel silenzio provavano ad acchiappare il rumore che producevano le ali delle farfalla in volo.
    Poi una mattina grigissima Holden aveva capito, finalmente, che le persone accettano l'affetto che credono di meritare, che al mondo esistono più tempi sbagliati che giusti, e che, dopo un po', non c'è altro da fare che lasciare andare. Non importa quanto faccia male, quanto si pensi sia ingiusto: Holden aveva capito che rispettare le decisioni dell'altro era doloroso ma necessario, sopratutto quando si amava come lui amava Valentin.
    Gli era sembrato così stupido non esserci arrivato prima, visto che la prova che quel pensiero fosse giusto abitava la sua vita da quando era bambino. Delilah, sua sorella, sangue del suo sangue, da tutta l'esistenza accettava così mal volentieri il mondo intorno a lei e persino se stessa tanto da scindersi, letteralmente, nelle forme che la sua anima credeva di poter sopportare e, in fondo, di meritare. Ognuno sceglie i propri metodi per punirsi e in qualche modo andare avanti, anche se significa incastrarsi in se stessi - Holden - o perdersi fuori, in altri, Delilah.
    Rimuginava, Holden, i capelli tormentati da un paio di lunghe dita, mani da pianista, mentre con la schiena s'ingobbiva davanti allo schermo di un portatile alla ricerca di qualcosa, un dettaglio che gli facesse capire cosa stonasse in quel sito web in costruzione a cui non staccava le pupille di dosso. Per raggiungere la chioma con la mano sedeva tutto storto, collo e colonna vertebrale come una C contro la scrivania di legno. Ci teneva, Holden, ci teneva moltissimo a soddisfare le proprie aspettative e quelle di Bellatrix, che da sempre stimava e che da quando lavorava per lei aveva iniziato ad apprezzare anche come persona, non solo come figura plastificata su un cartellone.
    Respirò così bruscamente da spezzare il silenzio della sua solitudine, facendo pensare che il tempo trascorso tra una boccata e l'altra non fosse sufficiente. Solo quando la porta si spalancò Holden tirò su lo sguardo, con collo spalle e schiena che seguirono quel movimento quasi subito, in allerta e, per un momento appena, il ragazzo andò a intermittenza. Sparì, Holden, colto alla sprovvista e genuinamente spaventato da quel baccano improvviso che aveva azionato la particolarità che rendeva lui, e ciò che toccava, invisibile. Era Delilah, avrebbe dovuto capirlo, ma anche dopo che anima e occhi l'ebbero riconosciuta ci mise un po' a riacquistare completamente visibilità, apparendo e scomparendo per qualche minuto come fosse una lampadina difettosa. Par Dieu Deli! Imprecò tra una sparizione e l'altra e ormai in piedi, le dita aggrappate al bordo della scrivania e il cuore a battere nel pomo d'Adamo, furiosissimo. Inspirò dal naso con forza, una mano che a partire dalla fronte passava al centro della testa e acchiappava le onde di capelli all'indietro, lontano dal viso. Nano, aggettivo e sostantivo maschile. Individuo o specie animale o vegetale che ha statura notevolmente ridotta rispetto alla normale. Recitò a memoria inventando la metà delle cose pur non andandoci poi troppo lontano, mentre finalmente riusciva a calmarsi abbastanza da sedersi e tornare, più o meno, completamente visibile. Comprendi come l'uso di questa parola sia decisamente improprio per descrivermi? Sopratutto perché sono più alto di te di almeno dieci centimetri e quindi, in questo scenario, sei tu la nana. E ora abbassa la voce, c'è Bella di là e sta lavorando. La avvertì lanciando uno sguardo alla porta chiusa a qualche metro da loro, dietro la quale il suo capo era impegnato in un'importante chiamata di lavoro. Solo dopo essersi accertato di non aver interferito troppo nella sua giornata, Holden tornò a spostare gli occhi a studiare il viso della sorella, un perfetto ovale di una raggiante felicità, o almeno così sembrava. La osservò attentamente ascoltandola parlare, vaneggiare più che altro, anche se in effetti Holden aveva perso qualche chiamata e messaggio non solo da parte sua, ma da chiunque. Era stato sempre così per lui e, un po' ingiustamente forse, gli veniva naturale concentrarsi su Delilah e i suoi problemi, Delilah e le sue crisi, Delilah e i suoi attacchi, Delilah al vertice più alto d'euforia e Delilah nella più profonda e catatonica tristezza. Delilah andava messa per prima, era sempre stato così per tutta la famiglia, che intorno a lei ruotava come circondando il sole della propria galassia. Cercava la crepa, Holden, la fessura dietro la quale intravedere il punto di rottura, il problema in mezzo a quella felicità esagerata; perlustrava e intanto riconosceva la luce del suo luogo-persona illuminato, era lì, in mezzo a quei denti scoperti e non c'entrava niente con il teatrino messo su per ingannare chiunque, lei inclusa. No, quello sfarfallio che Holden vedeva era tutto Delilah, la vera Delilah, quella che gli rimboccava le coperte e che accorreva subito ad ogni bussare sul muro, non ne mancava uno, era incredibile, come se non stesse mai dormendo e se fosse sempre lì, di fianco. Vederla brillare lo rincuorò perché voleva dire che c'era ancora speranza per lui, che non tutto una scala di grigi senza forma; ma anche perché, finché c'era quel balluginio dentro di lei, Delilah non era persa completamente nei meandri della sua testa, delle sue colpe, e Holden poteva ancora ritrovarla. No che non ti sto evitando, sono stato impegnato. Mentì, più che altro una verità a metà. Era vero che il nuovo lavoro gli aveva portato via molto tempo ed energie, ma era anche vero che ora, da quando Val non c'era più, Holden faceva di tutto per non tornare in quella casa vuota di cui ogni angolo tratteneva un pezzo dell'amico come se, assurdamente, anche quelle pareti non accettassero di doversi sbarazzare di lui. Quella situazione l'aveva rattristato profondamente e, come era solito fare in momenti del genere, invece che circondarsi di persone Holden indietreggiava di più, ancora di più, finendo per vivere solamente nella sua testa.
    Rilassò la schiena contro la sedia o almeno ci provò, mentre lasciava che Delilah aggirasse la scrivania e lo torturasse un po'. Di norma avrebbe scansato le mani di chiunque, perché quel gesto gli ricordava di quando era bambino e i genitori, Heath, Delilah, zie zie e prozii si chinavano su di lui, il più piccolo della casa, per appiattirgli o scompigliargli i capelli così, come se essere il minore desse a tutti il diritto di sovrastarlo. Quel giorno però rimase fermo, Holden, accennando un piccolo sorriso mentre spostava lo sguardo in basso e poi di lato come quando ci si vergogna un po', forse perché in fondo aveva bisogno di sentirsi ancora piccolo e di aver qualcuno a cui chiedere, speranzoso, cosa devo fare? Sapeva però che Delilah non era la persona giusta, che pur volendo non avrebbe saputo come aiutarlo: non riusciva a prendersi cura di se stessa, come poteva farlo degli altri? La guardò di nuovo mentre si allontanava da quell'abbraccio strettissimo attraverso cui, avrebbe potuto giurarlo, un po' della luce di Delilah era passata a lui, scaldandolo. Si allentò la cravatta sentendo le parole della sorella, indice e medio a uncino tirarono il nodo per scioglierlo un po', le dita che andavano poi ad appiattire i lati della giacca aperta come a volersi accertare che stessero ancora lì. Guardati, sembri proprio la fata turchina che non si fa gli affari suoi e va in giro a trasformare burattini in bambini veri. Lo sai che non puoi salvare tutti vero? E comunque il mondo sarà un posto migliore quando diventerò presidente. Si aprì in un sorriso sottile, Holden, gli occhi verdi-marroni che ancora studiavano il viso della sorella cercando di capire dove fosse il problema, perché c'era sempre un problema con lei, e in quel momento trapelava dai gesti scattanti, ostentanti, e dal tono della voce che non voleva starsene buono ma faceva su e giù, come sulle montagne russe. Non rispose a niente di quello che gli disse prima della confessione, che invece lo lasciò interdetto quasi quanto il suo ingresso esagerato di poco prima, quando per poco non era morto di infarto. Aggrottò le sopracciglia ma lasciò che si spiegasse senza interromperla, sembrava importante per lei farlo anche se, durante tutto quel discorso sconnesso, il ragazzo non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che qualcosa di davvero brutto doveva esserle successo. Chiamatelo istinto, chiamatelo anni di convivenza, Holden sentiva che qualcosa non andava, che dietro la scenetta pubblicitaria che stava snocciolando riguardo a quel romantico viaggio a Parigi si nascondevano in realtà verbi chiave come correre, fuggire, scappare e parole silenti come paura, panico, aiutami. Voleva farlo, Holden, aiutarla intendo, solo che il come non le sarebbe piaciuto. Distolse lo sguardo dal suo carico di speranza, chinandosi sulla scrivania e sulla penna per scrivere un post it che andava in pausa pranzo e sarebbe tornato presto, appiccicandolo sul desktop del proprio computer in modo che Bella riuscisse a scorgerlo. Facciamo un giro, ok? Disse con dolcezza alla sorella mentre si alzava spingendo la sedia all'indietro sulle proprie rotelle e si dirigeva verso la porta, tenendola aperta con schiena e sedere per far passare prima lei. Si diressero a un mini parco dietro l'angolo, un paio di panchine e qualche quadrato d'erba verdeggiante sul quale si sedettero, l'uno di fronte all'altro, Holden con le gambe incrociate e i capelli mossi dal vento. Delilah, ça va? Stai bene? Le chiese dopo un po', gli occhi puntati su di lei ma senza più inquisirla: ormai aveva capito. Perché Parigi proprio ora? È successo qualcosa? Sembrava stanco, Holden, che infatti non dormiva bene da quando la casa era vuota e lui si sentiva perso. Era stanco ma non poteva esserlo davvero, non con la sorella che aveva bisogno di lui. E quando sarebbe questo weekend? Lo sai vero che ho una vita anche io al di fuori dei Renoir e dei nostri casini? Cioè, sto provando a farmela, una vita, ma ammetto che è complicato. Non voleva suonare particolarmente frustrato ma forse non ci riuscì del tutto, l'ansia dei mesi passati non voleva lasciarlo in pace neanche per un secondo. Che poi in fin dei conti quella di Delilah non era una cattiva idea, anzi, forse avrebbe fatto bene anche a lui andarsene e cambiare aria senza dover pensare ai propri guai. Alla fine si parlava di un paio di giorno, ma da una parte forse aveva paura che Valentin potesse tornare sui suoi passi proprio quando Holden non c'era: cosa sarebbe successo se non lo avesse trovato? E poi c'era anche il fatto che forse un po' era davvero esasperato di dover sempre passare in secondo piano, Delilah neanche aveva pensato che Holden potesse avere qualcosa da fare o, appunto, una vita che esulasse da lei. E poi, ovviamente, un peso importantissimo lo giocava il fatto che la sorella stesse fuggendo, ne era sicuro, lo sentiva dentro le ossa e fra le fessure di ogni cartilagine. Je ne sais pas si je peux, Delilah. C'est compliqué. Non lo so se posso, Delilah. È complicato. Aveva addolcito il tono, Holden, gli occhi per un momento abbassati sulle dita che intrecciavano un paio di steli d'erba insieme. Forse gli mancava la sensazione d'essere un fratello minore, forse avrebbe voluto indietro la Delilah presente, quella che buttava le lenzuola macchiate fuori dalla finestra e manteneva il segreto ai genitori, forse avrebbe voluto tornare a sentirsi piccolo con la Delilah che lo salvava dalle paralisi notturne, anche fosse per un giorno solo. Alzò di nuovo lo sguardo per assicurarsi che la sorella fosse ancora lì, che non fosse scappata al primo accenno di delusione come a volte invece faceva. Scusa. Disse piano. Erano solo due le persone al mondo ad avere lo stesso tipo di luce, ed erano Delilah e Heath. La conservavano lì, incastrata fra le labbra, e splendeva al massimo quando nessuno la guardava.
     
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    Conosceva Heath? Scosse il capo a tratti lievissimi, insicura delle proprie risposte, incerta di quel “no” che mimò forse solo perché ad annuire avrebbe dovuto fornire spiegazioni di cui non avrebbe compreso la natura neanche lei. Poi, lentamente, si fermò ed annuì una sola volta, sospirando dispiaciuta, sensazione frutto di un dolore a lei distante, la perdita di qualcuno che da lontano si era guardato spesso e mai così bene da conoscerlo con certezza. Il figlio di un vicino, forse il cassiere del negozio di alimentari cui si fa visita prima dell’ora di pranzo. La guardavano come se fosse matta e dentro Judith lo sapeva che non poteva osservarsi per davvero, figurarsi permettere ad altri di spingersi dentro di lei per cercare qualcosa che, in quel preciso momento, nessuno avrebbe dovuto assolutamente trovare. Abitudinario, ormai, ritrovarsi seduti su quella sedia di pelle, altre volte invece dentro casa, e si sentiva sempre così osservata e studiata e privata della propria privacy, una riservatezza fatta di pelle estranea che lei avrebbe dovuto proteggere a tutti i costi pur di tenere il mondo fuori, quello stesso che aveva imparato ad abbracciare e fare proprio per proteggere lei, piccola anima nascosta dentro un cuore incastrato in quel torace, forse l’unico pezzo di quella persona che mai mutava pari passo con l’aspetto. Dentro di sé sapeva, Judith, di essere flebile, leggera come un pensiero fugace, di quelli che arrivano e passano via altrettanto velocemente, fino a scomparire ed esser dimenticati di nuovo. Ad ondate, funzionava lei, eppure questo non le metteva mai paura, neanche per un secondo. Inconsciamente, dentro di sé comprendeva quanto importante fosse la propria figura, un onore far parte di quel disegno, l’opera creativa di una bambina che aveva imparato a proteggersi meglio di chiunque altro al mondo, tenendosi lontana dalle grinfie di chi voleva strappare via tutto quello che di bello aveva avuto intorno e dentro. La guardarono, miliardi di volte, a tratti con aria delusa, a tratti con aria furiosa, alla fine con aria arresa: allentavano la presa, attendevano, sarebbe tornata. E’ qui per aiutare? le chiesero una volta e, quella, fu l’unica domanda alla quale potè rispondere con chiarezza ed estrema consapevolezza, annuendo. Finché ne avranno bisogno. si ritrovò a dire Judith, serissima, mentre con il busto dritto e le spalle alte si chinava pianissimo verso la dottoressa seduta di fronte a lei. La guardò per qualche istante con i propri occhi color nocciola puntati in quelli più chiari dell’altra e poi, ritirandosi con la schiena verso la spalliera della poltrona, si voltò a guardare la donna che sedeva a qualche metro di distanza da lei, lo sguardo basso e le mani incrociate sulle gambe. Allungò un braccio nella sua direzione, allungandosi con il busto per raggiungerla, e le afferrò la mano, stringendo quelle dita magre fra le proprie per attirare l’attenzione della donna su di sé. Quando Iselin la guardò con gli occhi lucidi, Judith sorrise amabilmente. Sono qui per aiutare, non importa quanto tempo ci vorrà. sussurrò di nuovo nella sua direzione e, confortante, strinse piano le dita attorno al dorso nudo di quella mano stanca, porgendole un appiglio.


    Ricci e castani, i capelli di Holden incorniciavano la nuca del ragazzo trasformandosi in milioni di sottilissimi pensieri, i suoi, quelli dai quali il minore non si distaccava mai troppo, sempre così concentrato e quasi perso nei meandri delle parole che in più lingue conosceva e che gli fluttuavano dentro mente e cuore formando luoghi bellissimi, Delilah ci era stata infinite volte e, mano nelle mano col fratello più piccolo, si era lasciata trascinare in mondi che nella sua fantasia per sempre avrebbero trovato casa. Aveva provato spesso ad essere lei, il tetto sulla testa di cui Holden aveva sempre avuto bisogno: una coperta calda che tiene lontano il freddo sconosciuto della Norvegia, i polpastrelli morbidi di un paio di dita che scostano via i capelli un po’ ribelli e, assieme ad essi, tutti quei pensieri più pesanti ed invadenti; avrebbe voluto essere ancora quella, lei, che alla fine neanche sapeva come ma non lo era più stata. Forse un giorno ormai lontano qualcosa era cambiato e, invece di continuare a crescere insieme, lei aveva smesso di farlo mentre Holden, sempre più ricolmo di sentimenti e parole, aveva continuato, cessando una volta per tutte di bussare timidamente al muro che aveva separato le loro stanze nella casa di Parigi. La Senna aveva trascinato via tutto quanto con la sua corrente e, senza neanche rendersene conto, persino Delilah si era ritrovata a migliaia di chilometri di distanza. Neanche se lo chiedeva più come ce l’avesse fatta quel fiume a portarsela via senza mai farla giungere davvero da qualche parte. Lo sei solo adesso, di almeno dieci centimetri più alto di me! si ritrovò immediatamente a puntualizzare la bionda annuendo energicamente con il viso nella direzione dell’altro, ancora seduto alla scrivania di fronte al punto in cui Del si era piazzata, le mani aperte sulla superficie del tavolo e gli occhi luminosissimi e apertissimi ben agganciati alla figura minuta di Holden. Quella era una delle tante cose che ancora stentava ad accettare completamente, l’evidente segnale che intorno a lei il mondo cambiava in continuazione mentre a lei pareva di restare ferma ed immobile, e allora spinta da quella scomodissima convinzione, faceva di tutto per mostrare al mondo quanto, lei più di chiunque altro, mai la stessa restasse. Una forzatura, uno sforzo che ad occhi esterni forse appariva persino facile ma che, dentro, al buio e nel profondo del pozzo dentro al quale ogni tanto cascava, le costava un’enorme quantità di energia.
    Quando Holden l’ammonì di fare silenzio o di abbassare almeno la voce per via di Bella rintanata oltre la porta chiusa alla destra di Del, la ragazza non ci fece neanche troppo caso e, come suo solito, tentò di acchiappare il fratello per stritolarselo un po’ così da assorbire quella sensazione di familiarità che da qualche giorno le sembrava essere scivolata via di dosso. Arricciò il naso alla parole “impegnato”, un concetto assurdo per una come Delilah, nella cui capovolta idea del mondo non esisteva né spazio né tempo all’interno del quale Holden potesse non avere neanche una fetta di esso da dedicarle. Nostalgicamente si ritrovava a pensare spesso a quanto fosse più facile prima, a quanto fosse semplice porgere le orecchie in direzione della parete in attesa delle nocche del minore che, lo sapeva, avrebbero premuto proprio nello stesso punto per comunicarle di aver bisogno di lei e di lei soltanto. Dov’erano rimaste quelle notti insonni?
    Ridacchiò genuinamente divertita alle parole del fratello e fece una piroetta su sé stessa, euforica, quando lui la paragonò ad una fata turchina. A salvarli tutti ci penserà il presidente, allora. rispose con tono gioioso e divertito, incacando piano le sopracciglia mentre con gli occhi puntati sul viso angelico di Holden, Delilah proprio non riusciva a trattenere dentro di sé quella sensazione adrenalinica di felicità, un po’ per via di quello che non stava più nella pelle di dirgli, un po’ perché a stare di fronte ad Holden tutto il suo modo si colorava sempre un po’ di più. Egoisticamente parlando, credeva addirittura che per lui fosse lo stesso, che per lui, proprio come per Delilah, i momenti buio e quelli di luce si alternassero all’unisono, quasi legati da corde che a chiunque avrebbero dovuto essere invisibili, tranne che a quei Renoir. E l’idea di Parigi riprese immediatamente forma nella sua testa, modellandosi addosso ai contorni di quelle parole che vennero fuori come proiettili dalle punte morbide, lo colpirono in pieno e, se solo Delilah vi avesse prestato attenzione, si sarebbe accorta che, dopotutto, i suoi momenti bui o luminosi non avevano poi le stesse tempistiche di quelli attraversati da suo fratello, non sempre almeno. Dei movimenti che lui compì, del sorriso dolce che da lui passò a lei, di Holden che si alzava per raggiungerla oltre la scrivania ed invitarla a fare un giro, Delilah colse solo il tono appena dubbioso della voce e, bravissima ad inventare scuse per sé stessa, si convinse nel giro di qualche nano secondo del fatto che, probabilmente, era stato solo preso alla sprovvista e certamente avrebbe condiviso con lei quella stessa euforia una volta fuori dallo studio. Dopo tutto lì c’era Bella, Holden non poteva mettersi a saltare di gioia. Probabilmente era così.

    Lo sguardo era speranzoso, non si lasciava scappare la figura di Holden neanche per un secondo. A passo svelto, mezzo saltellante, Delilah si lasciò accompagnare dal fratello minore fino al parco, blaterando per tutto il tragitto di quello che avrebbero potuto fare a Parigi, del fatto che papà sarebbe stato contento di vederli, finalmente, dopo tutto quel tempo. E mentre Delilah parlava, raccontava, sognava e immaginava il momento in cui le crepe si sarebbero finalmente richiuse sulla sua pelle, Holden restava di poche parole, insieme a quello che non diceva si mangiava tutto quello che invece Delilah trasformava in voce, una cantilena fatta da catene di pensieri che, a vederselo davanti ora, seduto di fronte a lei su quell’immensa distesa d’erba verdissima, si perdeva nell’aria come sabbia al vento, tornando a posarsi nel punto esatto dal quale si era levata. Che avesse così poca importanza, per lui? Il sorriso non lo perse neanche per un attimo, però, nascondendo la preoccupazione sotto al peso schiacciante del timore che iniziava a pervaderle le ossa mentre, iniziava a comprenderlo, forse stava cercando di remare controcorrente.
    Scosse il capo lentamente, poi di fretta, quasi a voler convincere sé stessa in primis e poi Holden. Tu ne veux pas rentrer chez toi, Holden? Non hai voglia di tornare un po’ a casa, Holden? incitò Delilah, gli occhioni ora illuminati dai riflessi di luce che s’infiltravano fra le foglie degli alberi che si aprivano a conca su di loro facendo da arco verde sopra le loro teste. Gli sorrise, speranzosa, cercando dentro lo sguardo del fratello quello stesso bisogno che si sentiva muovere dentro, la necessità di scappare via per ritrovarsi. Drizzò appena la schiena e, come se qualcosa fosse cambiato all’improvviso, il sorriso si sciolse piano sulle sue labbra rosee mentre gli occhi, prima agganciati a quelli di Holden, ora lo lasciavano andare per puntarsi sugli steli infiniti d’erba verde che fiorivano sotto ed intorno a lei. Dito indice e pollice che, ora centro della sua attenzione, andavano a chiudersi con i polpastrelli attorno a foglioline verdi, ovali di vita che si ritrovò piano a staccare, uno per uno, spezzandone via la connessione con la terra. Dans deux jours. Fra due giorni. sussurrò, sentendosi improvvisamente nuda, osservata in maniera incompresa e proprio dall’unica persona che, lo aveva desiderato tanto, avrebbe invece dovuto farlo. Quando tornò a sollevare lo sguardo, Delilah però gli sorrideva di nuovo, dolcemente: bastava uno sguardo, bastava catturare la sagoma di Holden con gli occhi e trattenersela dentro per qualche istante, allora Delilah si perdonava qualsiasi cosa, qualsiasi delusione che da un suo “no” in lei prendeva vita, ricordandosi in maniera così acuta e pungente quanto Holden fosse importante, quanto forte fosse la sua presenza nella propria vita, anche e soprattutto quando lei non lo vedeva. Se solo avesse potuto tenersi stretta quella sensazione, pensò, le crepe sulla pelle le avrebbero fatto molta meno paura. E' solo un weekend, io, te e papà. Non ti va? Dopotutto non è domani che diventerai presidente, no? constatò ancora, sorridendo appena prima di sollevarsi un po’ con il busto per gattonare nella sua direzione ed avvolgere le proprie braccia attorno al collo del fratello in un gesto un po' stanco, un po' implorante. Nascose il viso contro la sua spalla, stropicciando gli occhi con forza mentre, le dita chiuse in due pugni strettissimi, abbracciava Holden. Je ne peux pas faire ça sans toi, Holi... Non lo posso fare senza di te, Holi... lo sussurrò con tono indeciso e pacato, quasi un filo di voce che venne trascinata alle orecchie del fratello dal vento, non certo dalle labbra di Delilah che, ad occhi aperti, neanche sarebbe mai riuscita a mollare via quella debolezza. Cosa fosse poi, qualsiasi cosa Del non potesse riuscire a fare senza il fratello, non fu esplicato: facile e comodo per Delilah pensare fosse il lungo viaggio da Oslo a Parigi e non quello che avrebbe dovuto affrontare se non avesse ceduto al desiderio incontrollabile di sfuggire a tutto quello che la stava rincorrendo. Non erano ombre di cui non riusciva a definirne i contorni, al contrario, la francese sapeva perfettamente da cosa sentisse il bisogno di fuggire e, silenziosamente disperata, tentava con tutta sé stessa di restare aggrappata a quello che di più reale aveva intorno. Il ricordo di ciò che aveva visto, del buio che aveva assorbito via tutte le luci della sua stanza e aveva macchiato la sua torre Eiffel disegnata in colori pastello sul soffitto della propria piccola tana, gli occhi di Nikolaj che s’ingrandivano e perdevano confini, inondavano tutto il suo mondo così violentemente da farle credere di non avere via d’uscita: tutto quel buio pece le si era attaccato addosso e, dai piedi fino alle gambe ora cercava di inondare il resto del suo corpo finché non restava più niente, solo il nero. Si vedeva stesa per terra, Delilah, le gambe incastrate dentro la propria tana e il busto che, a gomitate sfiancanti, cercava di venir fuori per non esser catturato dal resto delle brutte cose che la volevano far stare male, quello stesso nero che anni prima aveva invaso lo sguardo di Heath e lo aveva spento per sempre, Delilah ancora poteva vederlo ogni qualvolta chiudesse gli occhi, poco importava quante volte girasse il viso per guardare altrove.
    Riaprì gli occhi, sollevando le palpebre per riacchiappare la luce e, quando lo fece, un profondo sospiro di sollievo venne via dalle sue labbra schiuse. Si ritirò con il busto per tornare a posare lo sguardo sul fratello ancora stretto nella sua presa, quando lo lasciò andare così da posare i propri palmi caldi sulle sue guance magre e sorridergli apertamente, gli occhi blu che cercavano quelli più pacati di Holden. Trascinò affettuosamente una mano dalla guancia alla sua fronte calda, andando poi ad afferrare nuovamente i capelli riccioluti di lui per spettinarlo l’ennesima volta. Je t'aime, vous savez? Ti voglio bene, lo sai? gli disse, scoccando poi un bacio sulla guancia dell'altro prima di lasciarlo andare di nuovo e alleggerire quindi la presa della proprie mani magre sulle sue spalle altrettanto minute. Questo non dovrebbe essere complicato fra di noi. E la persona con la quale avrebbe dovuto essere più semplice mostrarsi debole era, al contrario, quella alla cui presenza Delilah si sentiva messa più in difficoltà. Mostrarsi incapace di restare a galla o inerme davanti ad Holden non era mai davvero un'opzione, ma più che altro l'ultima tappa, l'ultima richiesta d'aiuto, una sensazione di inadeguatezza dovuta allo sporco che i sensi di colpa le avevano lasciato addosso dopo aver messo in pericolo lui e, faceva malissimo ricordarlo, aver generato il vuoto che Heath aveva lasciato nelle vite di entrambi quando quei proiettili gli si erano conficcati nel torace. Si chiedeva, Delilah, se anche Holden provasse lo stesso, se per lui fosse importante mostrarsi forte davanti a lei più che ad altri. Perché la parte lucida di lei c'era, era veglia, sempre, solo amava nascondersi per via della vergogna e del dolore; le ricordava in continuazione quanto ad Holden avesse tolto, quanto a tutti loro avesse sottratto, e anche a voler voltare lo sguardo dall'altra parte per fingere di non essere poi davvero così colpevole come invece si sentiva, l'eco dei suoni di quel mondo che si era capovolto in maniera improvvisa restavano intorno a lei senza mai cessare d'esistere, un monito per quello che un tempo era stato e che, ormai, non era più. Persino guardare Holden negli occhi era difficilissimo, a volte, faceva sentire Delilah in debito, lo stesso che sapeva non avrebbe mai potuto saldare, in alcun modo. Avrebbe voluto essere diversa per lui e, a volte, ci riusciva, anche se ad un prezzo che costava caro non solo a lei, ma Delilah neanche se ne rendeva conto. Provava mai vergogna, Holden, standole vicino?
     
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    Delilah prima di tutto.
    A come giravano le persone non si era mai interessato fino in fondo neanche in età adulta. Quando interagire avrebbe dovuto essere facile e invece diventava sempre più un rompicapo Holden non ne parlava, trovandosi invece nelle cose che senza l'ausilio delle parole comunicavano con lui a un livello in cui nessuno gli si era mai rivolto. Come le corde di violino al tocco dei suoi polpastrelli o gli ottantotto tasti di un pianoforte, che li sfiorasse o vi abbattesse scoraggiato la fronte contro loro, ogni volta, erano lì e gli si rivolgevano. Gli si rivolgevano non come a un bambino, che era invece il vizio di mamma papà e anche di Delilah, non come a un caso o uno studio complesso da semplificare, non con i guanti, come se fosse da proteggere o, forse, erano gli altri a volersi schermare?
    Come chiunque dopo Heath. Come se avessero paura che il lutto e la tristezza potessero contagiare anche loro, che il malocchio potesse appiccicarsi alle loro famiglie e distruggerle come aveva fatto con i Renoir.
    La musica gli si rivolgeva nella sua stessa lingua, non francese norvegese o inglese bensì l'unica che contasse davvero, quella che Holden aveva sempre trovato più facile capire.
    Aveva sempre risolto il dilemma dando la colpa al fatto che non fosse interessante, la gente dico, non avendo il coraggio di ammettere che anche solo provare lo terrorizzava. Non erano tanto le persone a spaventarlo ma piuttosto quello che in loro si celava, quelle emozioni sempre pronte a straboccare e spesso incongruenti fra loro come facevano con Delilah, che proprio in quel momento lo fissava con un sacco di cose a straripare dagli occhi spalancati e dalla bocca sorridente. Speranza, felicità, paura, dolore camuffato male e amore: tanto di questi due ultimi che a combinarli insieme veniva fuori un pastrocchio. Anche la loro finalità lo terrorizza, forse più di ogni altra cosa, la fragilità e l'incostanza con cui oggi c'erano e domani chi lo sa. Come Heath. Come Delilah quando spariva.
    E ora Valentin. Il loro comun denominatore era quello e non si sfuggiva: se ne andavano tutti prima o poi. A pensarci e a guardarla gli venne un groppo in gola, che Holden ricacciò giù insieme allo sguardo che abbandonò la sorella e l'impeto delle sue emozioni per scaricarsi sul terreno, sui fili d'erba che sotto di lui avevano già trovato il modo di sopravvivere e rialzarsi insinuandosi fra gli spazi dei lacci delle scarpe e delle dita che minacciavano di distruggere tutto il loro mondo. Avrebbe voluto essere forte come uno di quegli steli e forse, segretamente, covava il pensiero che non doveva essere malaccio essere in così tanti, stare tutti insieme allineanti contro il vento e qualsiasi cosa gli tirasse contro.
    Si sentiva perso, così tanto che aveva iniziato a preoccuparsi perché la solitudine non l'aveva mai spaventato prima anzi, quando arrivava come una vecchia amica la riconosceva andandole incontro per stringerle la mano. Ora, invece, si trattava di qualcos'altro. Ora sentiva la terra sbriciolarsi sotto i piedi e nessuno a cui aggrapparsi. No Val, no la musica e decisamente no Delilah, anche se a quest'ultima aveva smesso molti anni prima di chiedere davvero aiuto. Era strano, pensò sfiorando con l'indice la punta di uno di quei fili d'erba, in un certo senso l'aveva persa quella notte stessa, quella stramaledetta notte in cui non aveva fatto niente per salvare Heath. Restando impalato dalla paura aveva finito per sacrificare anche la sorella, che da quell'isola non aveva più fatto ritorno, non davvero, non del tutto.
    Non integra. Si schiarì la gola mentre alzava lo sguardo verdognolo su di lei, lasciando stare il filo. Meglio non pensarci, doveva concentrarsi su di lei anche se era stanco e la sua vita andava a rotoli. L'aveva fatta dispiacere già abbastanza, Del aveva perso sicurezza e anche il sorriso vacillava, e ora Holden cercava un modo per rimediare. Optò per il tono di voce, che cercò di ammorbidire insieme allo sguardo. Delilah prima di tutto. «Oui...Oui bien sûr.» Certo che si. Certo che voleva tornare a casa, no? Certo che si. Eppure...Deviò lo sguardo, di nuovo, puntandolo sulle fronde degli alberi, che poi era comunque come guardare negli occhi della sorella dove gli stessi rami si riflettevano grazie al rifrangersi della luce del sole. Era impossibile scappare. Non che volesse farlo davvero, Holden, ma ultimamente trovava difficile concentrarsi su di lei, forse perché crescendo andava incontro a problemi che prima non aveva e non era più come quando erano piccoli e poteva bussare alla sua porta in piena notte: ora se la doveva cavare da solo. «Due gior--» Protestò senza riuscire a finire la frase perché si ritrovò a mangiare capelli biondi profumatissimi mentre lei lo stringeva, le braccia al collo in una preghiera particolarmente insistente. «Presidente forse no, non domani, ma ho un lavoro Delilah. Phaw! » A dispetto delle sue parole, dopo qualche secondo anche Holden sollevò le proprie braccia per cingerla. Lasciò però la presa per acciuffare con le dita della mano libera l'estremità e con una smorfia tirare fuori dalla bocca un capello lunghissimo. Lei gli era ancora contro ma Holden arricciò comunque il naso, e le pallide lentiggini si sollevarono come sulla cresta di una piccola onda. Poi Holden sospirò, la mano che tornava a posarsi sulla schiena ricurva della sorella. Delilah prima di tutto, no?
    Era una frase che si era sentita spesso tra le mura di casa Renoir dopo il 22 Luglio 2017 e dopo Utøya. Mai urlata, sempre a bassa voce come se qualcuno stesse perennemente dormendo o fosse malato e dovesse riposare, i genitori avevano più paura di cosa scatenasse in Delilah il dolore che del vuoto che la perdita di un figlio aveva lasciato loro. Ci aveva pensato solo a posteriori, Holden, di come doveva essere stato per loro non avere neanche il tempo o il modo di essere in lutto. Non glie ne aveva mai fatto una colpa, Holden, avevano fatto quel che avevano potuto e fino a quel momento non aveva mai neanche creduto di averne sofferto particolarmente, addossando tutta la sofferenza contro l'incidente, l'unico vero responsabile. Dopotutto era palese a tutti, persino a un bambino come lui: era chiaro che Delilah avesse bisogno di aiuto, e lo dimostrava chiaramente anche senza parlarne. Lui invece se ne era rimasto zitto e incatenato dentro, all'apparenza un bambino imperturbabile, perennemente serio. Non era colpa di nessuno se non era stato capace di farsi vedere.
    Delilah prima di tutto, era cresciuto così e così doveva essere, aveva fatto di tutto per mantenere la promessa che così tante volte aveva sentito i genitori farsi a vicenda anche dopo la separazione. Delilah prima di tutto, ma ora? Egoisticamente si chiedeva se sarebbe mai arrivato il momento in cui sarebbe riuscito a mettersi al primo posto. Ma come poteva Holden smettere proprio adesso, con la sua spina dorsale letteralmente fra le mani? Je ne peux pas faire ça sans toi, Holi... Capì che forse quel giorno non sarebbe mai arrivato: era suo fratello, l'unico che le rimaneva. L'ennesimo movimento prendi aria, l'ennesimo lasciar correre. C'era qualcosa che non andava, qualcosa più del solito che nella sorella non si allineava ma, al contrario, la scindeva da dentro. C'era una preoccupazione, lo sapeva, solo che non riusciva a individuarla e allora restò zitto. Aspettava, Holden, di cogliere il vero motivo di quella fuga pianificata, per una volta, in due. Quando spariva infatti Delilah lo faceva da sola, senza neanche la briga di avvertire, lasciando tutti a chiedersi se stesse bene, se sarebbe mai tornata e se sarebbe stata effettivamente lei a suonare alla porta di casa e non uno dei frammenti in cui la sua mente si era rotta. Era strano quella volta quindi, diverso da tutte le altre. Che fosse davvero solo tutto lì? Volere un viaggio di pochi giorni con il proprio fratello era poi così assurdo? Doveva per forza esserci qualcosa sotto? Quando Delilah sciolse l'abbraccio Holden lo rivide negli occhi azzurri: purtroppo con lei c'era sempre qualcosa sotto, e stavolta sembrava più grave del solito. Si lasciò accarezzare senza riuscire però ad allentare i muscoli, non si lamentò quando i riccioli vennero smossi dalle sue dita ma continuò a cercare di vederle negli occhi quella cosa che la tormentava. Perché non ci riusciva più come prima? Piegò le spalle incurvandole di più in avanti, annuendo una volta sola con lentezza, quasi debolmente. Era rimasto colpito dalle sue parole. «Lo so. » Forse non se lo dicevano abbastanza. «Un. Deux. Trois. J'ai besoin de toi. Ti ricordi?» Sollevò il polso bussando su un muro fatto d'aria e fece un sorrisino. Uno. Due. Tre. Ho bisogno di te. Lo dicevano sempre. Si grattò la testa sul retro, tirando un po' per scuotere le onde. Era un gesto che lo aiutava a raccogliere i ricordi.

    Holden era preoccupato e lo si capiva dal modo che aveva di tirarsi i capelli, sempre dietro la nuca. In macchina guardava le villette scorrere ai lati, la città farsi campagna sulla strada per l'aeroporto. Aveva insistito ad accompagnarle, lei e la mamma, nonostante Heathcliff non avesse voluto. Era troppo triste, lo capiva, ma per Holden non andare avrebbe significato non esserci già più e invece voleva esserci fino alla fine. Però iniziava a pentirsi, lì seduto sul sedile posteriore guardava il paesaggio scorrere senza riuscire ad acciuffare davvero niente con gli occhi. Così si sentiva lui, la vita uno sfondo che andava troppo di fretta e lui non poteva fare niente se non avere la nausea e un groppo in gola. Erano giorni che non riusciva a godersi i momenti con loro perché pensava già che, di lì a poco, non ci sarebbero state più tutti i giorni. Anche lì, nel retro dell'abitacolo, non riusciva ad afferrare la mano della sorella che sedeva di fianco a lui. Perché non riusciva a muoversi? Perché si perdeva ogni attimo più bello? Mentre rifletteva intanto l'ansia gli allagava il petto, poi sentì delle dita stringersi intorno alle sue nocche e allora sì voltò di scatto. Delilah gli circondava la mano con il palmo liscio, freddo, e uno dei pochi in grado di scaldarlo tutto dentro. Non cambia niente, Holdi. Uno. Due. Tre. Ho bisogno di te e mi troverai. Aveva alzato la mano libera e aveva bussato su una parete immaginaria, proprio come facevano attraverso il muro che divideva le loro stanze. Aveva sorriso anzi, aveva proprio riso e la presa si era stretta intorno alla sua mano, così neanche lui era riuscito a trattene una risata.

    Con il senno di poi Holden aveva capito che a dirlo era stata l'intenzione di non vederlo triste, perché le cose erano cambiate e anche parecchio, ma comunque erano riusciti a resistere e a trovarsi ogni volta. Poi però era arrivata quella notte e lui non era più riuscito a scorgere Delilah, non come prima, non importava quanto avesse chiamato. Neanche bussare centoventi volte l'aveva fatta tornare.
    Si era sempre rimproverato in qualche modo, per questo ogni volta che era a tanto così dal mollare e pensare a sé non riusciva a farlo. Non poteva farlo. «Ti voglio bene anche io, Deli. » Allungò una mano per stringere la sua. Un gesto, quello, che non faceva quasi mai di propria iniziativa. Le accarezzò il palmo con dita goffe ma gentili. Non sapeva quando le cose avevano iniziato a essere più complicate e, visto che non succedeva solo con Delilah ma anche con Val, doveva essere lui che sbagliava. Per un attimo fu tentato di raccontarle di Val, di quello che era successo e di quello che ormai era convinto di provare ma poi ci ripensò e richiuse la bocca. «Se dico di si mi spiegherai cosa c'è davvero dietro questo weekend?» Lasciata la sua mano, Holden si spinse indietro poggiando il peso sui palmi premuti sul terreno dietro di lui facendo dondolare la testa sul collo mentre un sorrisino cominciava ad allungargli le labbra. «Se!» Specificò alzando l'indice come a contenere già un entusiasmo che sapeva sarebbe esploso a breve. Ma era troppo tardi, il sorriso sul viso di Holden arrivava pericolosamente in alto. Delilah era come il mare, si infrangeva, andava e tornava diversa, simile ma mai come l'onda che l'aveva preceduta.
    Delilah prima di tutto.

    Edited by Dead poets society - 16/1/2022, 23:49
     
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3 replies since 26/3/2021, 18:28   143 views
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