Time will get us all, big and small

Max & Rem || 11 pm

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    You and I will fall
    we're all so small
    and powerless to this
    and there's nothing we can do
    x


    Le iridi alternavano dallo specchietto retrovisore alla strada uno sguardo alterato, nel vetro quel paio di bottoni che al buio sembravano nerissimi, occhi senza colore, occhi pupille e basta. Scappava, Rem, con le palpebre che si strizzavano in un tic nervoso, fuggiva per lasciarsi indietro parte di quello che aveva giurato di proteggere fino alla fine: la missione, i compagni, Dio. Doveva essere un intervento semplice. In un'ora siamo fuori, aveva detto il sorriso di Lug, che a differenza di Rem faceva tutto con quella curva labiale, anche promettere cose che non avrebbe poi mantenuto. Un'ora non era infatti bastata per entrare e uscire dal palazzo municipale, sessanta minuti non erano serviti per vandalizzare e distruggere l'aula che l'indomani avrebbe ospitato uno degli avvenimenti più importanti della città, l'asta annuale di beneficenza, una delle tante ipocrisie messe in atto da chi, purtroppo, era al potere; non gli era stata concessa che una manciata neanche, un pugno di quei tremilaseicento secondi promessi da Lug per devastare quanti più oggetti possibile, disfare il disfacibile e anche quello che non sembrava possibile danneggiare; le sedie, le panche, i quadri famosi che per i dogs non custodivano nessun senso segreto se non quello d'essere presi a calci, le tele strappate uno squarcio nel viso di una donna, un taglio nel tronco di un'albero, così realistico che risultava facile immaginare le schegge infilarsi nelle nocche che lo stavano spezzando. Sulle superfici più impenetrabili avrebbero scritto frasi atroci, frasi vere scoperchianti realtà segrete, lettere con il compito non solo di insinuarsi nelle intercapedini del muro ma anche nel cervello di chi le avrebbe lette, di quelli che avrebbero visto le foto sui giornali, di chi le avrebbe ascoltate alla radio, l'indomani, senza potersene più liberare.
    Doveva essere una missione facile, quella, infilarsi negli uffici protetti dalla notte e dai passamontagna che, calati sulla faccia, gli annientavano i connotati rendendoli tutti uguali. E allora Lauren diventava sorella di Kris e Rem fratello di Lug se non fosse stato per gli occhi, l'unica parte che si illuminava ad ogni passaggio sotto la luna: marrone ebano Lug, azzurro mirtillo Rem.
    L'ennesimo sguardo nello specchietto gli rimandò la solita immagine, quel paio di occhi che avevano perso colore e nient'altro, a parte la neve che fitta cadeva coprendo la strada e i segni degli pneumatici; la neve vestiva tutto tranne quei dischi riflessi in cui il bianco era quasi scomparso nell'oscurità, pupilla mangia sclera, due grandi punti apparentemente calmi, luminosi nel buio. Demoniaci. Guardò nel vetro come alla ricerca di qualcosa e non aveva niente a che fare con le sirene della polizia dietro di lui di cui, tra l'altro, non se ne vedeva l'ombra; era in attesa che quel qualcosa accadesse, la prepotente follia del volersi sentire come sul bordo più estremo del baratro, per guardarci dentro prima di fare un passo indietro un istante prima di precipitare. Le mani presero a tremare e Rem strinse più forte le dita intorno al volante, giusto in tempo per scorgere un movimento che nulla aveva a che fare con le curve dell'auto e dei bulbi oculari: c'era altro lì dentro, si era mosso come per sdoppiarsi. Lì, nelle iridi. Fu allora che Rem non riuscì più a sostenersi riflesso, quando generato dalla rabbia l'altro dentro di lui minacciava esplosione che Rem disinnescò contro il volante, prendendolo a pugni. Una due tre furono i nodi di carne e ossa che picchiò davanti a sé, la bocca spalancata in un urlo ruvido, animalesco. Tre colpi concessi a un corpo che in sovraccarico tremava, un strabordare veloce ma efficace di adrenalina, paura e veleno di cui poi, tornando a specchiarsi, non se ne vide neanche un grammo addosso. Di nuovo calmo era infatti venuto a guardarsi Rem, sul volto nessuna traccia della detonazione appena terminata se non intorno alla bocca e agli occhi, dove dei segni più marcati erano stati creati dai muscoli che, esasperati, gli avevano per pochi secondi deformato i lineamenti, indici leggeri già in fase di disfacimento come ombre di un frastuono ormai lontano. Leggermente più lucido, i pensieri cercarono di incastrarsi per formarne qualcuno che avesse un senso. Negli occhi, pagliuzze azzurre nel nero già più chiaro, di nuovo soltanto l'uomo nell'abitacolo dell'auto. Molto Rem e poca ombra, un sospiro di sollievo. Per ora.

    Quando fermò la macchina, Rem lo fece a cinque chilometri di distanza, il cappuccio calato sugli occhi per proteggersi dagli altri più che dalla neve, talmente leggera da non ferire come, invece, avrebbe di certo fatto chi lo stava cercando. Sul marciapiede i passi si susseguivano rapidi ma non troppo, gli scarponi due mannaie che calpestavano neve e cemento, uno mezzo slacciato e l'altro no, l'altro era solo sporco i sangue sulla punta. Dare l'impressione di un senzatetto sbandato che alle undici di notte cercava riparo era quello che voleva sin dall'inizio, da quando l'unico rifugio che gli era venuto in mente era, fra i tanti, proprio quell'appartamento ad angolo, compresso tra un alimentari sempre aperto e un bar sempre chiuso. Era un luogo che non strillava casa quanto faceva piuttosto la sua proprietaria, quattro pareti non erano niente in confronto alle stranezze geometriche disegnate inconsapevolmente da rami mossi addormentati, capelli scuri visti centinaia di volte sparsi sul cuscino proprio di fianco al suo.
    Erano anni che non li accarezzava con lo sguardo o con le dita, ma ricordava un tempo in cui li sfiorava continuamente, senza sosta come fosse un pazzo, ma era soltanto così giovane da credere che tutte le risposte fossero lì, rinchiuse tra le spirali morbide che dalla nuca le avvolgevano il collo e la schiena. Avrebbe voluto giustificare la scelta di quella casa con ragioni strettamente pragmatiche, come l'essere la più vicina, la prima da poter raggiungere, quella in cui meno ci si sarebbe aspettati di trovarlo, e in effetti tutto ciò era vero. Però c'era ancora quella sensazione inspiegabile, la stessa che per quasi una decade l'aveva spinto a non cancellarla completamente dalla sua vita nonostante l'avesse tradito pure lei.
    Affiancando un bidone dell'immondizia vi gettò qualcosa dentro, sfilandola da sotto la giacca senza neanche rallentare. Era la targa dell'auto che aveva staccato a forza, cifre riciclate da un veicolo già rubato ma che, se qualcuno sulla scena le aveva viste, poteva essere comunque potenzialmente rischioso averle attaccate al culo.
    Fermo sul ciglio opposto della strada, l'uomo osservava le finestre dell'appartamento che, ormai spente, facevano pensare che stessero tutti dormendo. Pensò ancora, un passo in procinto di staccarsi e scendere in strada, e il pensiero che non fosse la cosa migliore da fare lo bloccò di nuovo. Non era giusto perché, entrando in quella casa, avrebbe svelato ad un'altra persona la verità; affacciarsi significava dire ehi sono qui, sono sempre stato qui, e avrebbe preferito non farlo. D'altronde però, aveva bisogno di un posto in cui trovare tana almeno per quella notte, il tempo di capire come stessero le cose e quanto grande fosse il danno dubito. Il suono di una sirena in lontananza lo spinse a muoversi, il fiato leggermente affannato, le mani infilate nella giacca sulle cui spalle, come uccellini su due trespoli, si era accumulato un filo di neve. Attraversò la strada per salire due a due le scalette dell'ingresso, trovandosi sotto la luce che si accese automaticamente, investendolo per farlo sentire come lo stoppino di una candela, a fuoco in mezzo al buio. Guardò a destra e a sinistra vedendo la strada ancora addormentata, ma la sensazione d'essere seguito continuava a stargli addosso e non gli piaceva per niente. I tre pugni sul legno che fecero tremare la porta gli ricordarono gli spari scoppiati nel timpano appena venti minuti prima, mezz'ora al massimo. Tre colpi alla porta, tre colpi al volante, tre spari, tre pallottole, le gocce di sangue sullo stivale erano sue? Tre, il simbolo della perfezione, della completezza, tre sono le persone della Trinità, espressione perfetta della relazione amorosa e ordinata che si esplica dal Padre al Figlio per mezzo dello Spirito. Guardò in basso, verso la scarpa, toccandosi il sopracciglio destro con l'indice e il medio che si tinsero di rosso. Capì così cos'era quella sensazione che per tutto il tragitto lo aveva accompagnato, come un malessere pulsante reso fastidio e niente di più dall'intorpidimento generale in cui si trovava, una sensazione di distacco dovuta a tutto quello che era andato a rotoli. No, non era sua quella macchia scura sui lacci, e non sapere a chi appartenesse lo faceva bloccare. Era Lug o uno dei poliziotti? Non era riuscito a capirlo, Rem, perché Lug l'aveva colpito in piena faccia quando non aveva accettato di andarsene mentre lui restava indietro a vedersela con gli agenti, quei figli di puttana che erano apparsi all'improvviso come se, Dio lo fulminasse, li stessero aspettando. Bussò forte altre tre volte, lo sguardo azzurro che vagava da una parte all'altra per essere certo di essere solo. Quando la porta si aprì, lui si morse un angolo della bocca. Non farlo, pensò a Max che gli diceva quella frase tantissimi anni prima, quando erano solo dei bambini: sembri cattivo quando fai la faccia così. Lui insistette a masticarsi l’interno della guancia. Chiudi in fretta la porta e accendi la tv. Non parlare. Aveva detto tutto con fermezza e senza un apparente stato d'animo che potesse tralasciare un indizio, che dicesse ehi, da quanto tempo, sono nervoso anche io di vederti. Aveva posizionato un lungo dito sulle labbra, shh possono sentirci, ma non l'aveva quasi guardata. C'erano solo le palpebre a chiudersi e aprirsi più velocemente, quel tic che spinto dallo stress a volte usciva ancora fuori nonostante gli sforzi di Rem per combatterlo. L'aveva detto superandola all'interno della casa, cogliendo l'opportunità che la sorpresa di vederlo le aveva forse causato dentro. Nelle mura non si sentì comunque tranquillo, finendo per prendere lui stesso il telecomando per azionare la televisione che era sempre lì, sul muro sopra il camino. Se si fosse guardato intorno, Rem avrebbe scoperto quanto poco fosse in effetti cambiato dall'ultima volta che era stato lì. Forse il divano dalla parte opposta, era un tavolo nuovo quello? Ma Rem non si guardò intorno e non si pose quelle domande, troppo impegnato a fare zapping fra i canali come alla ricerca di qualcosa mentre, piegato sulle ginocchia col peso sui talloni, fissava i titoli delle flash news sullo schermo, incurante del sopracciglio spezzato, del sangue che era colato sull'occhio e che gli offuscava la vista, incurante dell'ambiente in cui stava e della persona che aveva svegliato e strappato ai suoi sogni come un incubo improvviso, fin troppo reale. Non c'era nient'altro che le notizie, gli occhi azzurri due biglie traslucide quasi fisse. Doveva sapere cosa era successo, se qualcuno fosse stato preso: doveva sapere se lo stavano cercando. Stava trattenendo respiro, movimento, forza aggrappa ai muscoli per tenderli senza rilasciarli, la mascella contratta e una mano sulla faccia, a coprire la bocca. Lui taceva. Serrava le labbra. Si strappava le pellicine coi denti. Sembrava cattivo in quel momento, a vederlo così. Al mondo ci sono persone che nel dolore non fanno compassione ma paura, uomini che coprono la sofferenza con la rabbia, la desolazione con l’indifferenza, e solo conoscendoli bene si può trovare la forza di fare un passo verso di loro.
    Dopo un po' si alzò, Rem, un gigante muto in mezzo al silenzio sospeso intorno a loro, girandosi finalmente per guardare la padrone di quella casa che aveva travolto, la legittima proprietaria della vita dalla quale se ne era andato per irrompere di nuovo così, senza preavviso. Ciao, Love. Nessun sorriso, solo il solito intenso sguardo, come se stesse sempre a rincorrere un pensiero. Siamo le tenebre e nessuno ci guida. Pensò. Era senza saper che fare, senza soluzioni immediate se non quella di starsele lì, con lei.

    Edited by Dead poets society - 26/3/2021, 19:58
     
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    Sakura Blossom

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    Madeleine "Max" Lilian Love

    ”Certe volte sento come se non potessi scappare da nessuna parte, vedo centinaia di porte, ma nessuna ha la maniglia. Mi sento costretto a stare chiuso dentro una stanza col mio potere, il mio peggiore incubo che diventa realtà. La mia gabbia toracica diventa la mia prigione e le costole diventano le sbarre.” Steven fece una pausa fissando il vuoto, non era in grado di proseguire ulteriormente a parlare, era piuttosto chiaro. I suoi occhi si erano persi in un mondo lontano dal loro, così Max si alzò in piedi per raggiungerlo, posandogli una mano sulla spalla con delicatezza. ”Steven, ti ringrazio per aver preso la parola nel Circolo della Condivisione di fine lezione. Come ti senti?” iniziò ad accarezzargli piano la spalla, dandogli il tempo di riappoggiare il peso dell’anima a terra. ”Sei nuovo alle nostre lezioni, ci vorrà del tempo affinché tu impari a convivere con il dono che questa città ti ha fatto. Non è semplice, ma ti saremo tutti vicini in questo percorso alla ricerca della tua luce interiore.” non ruppe il contatto col suo corpo finché non vide il suo sguardo tornare vigile e presente, per un attimo aveva temuto che potesse avere qualche reazione incontrollata. Steven aveva la maledizione di percepire tutte le emozioni negative degli altri, le sentiva graffiargli la pelle, unghie di estranei disperati che si aggrappavano a lui con tutta la loro forza. Così le aveva descritto la sua particolarità al loro primo incontro, era un caso difficile e rischioso da inserire in un gruppo, infatti aveva scelto una classe di veterani per la sua prima lezione. Le classi del Centro Aerial non erano divise in principianti e avanzati, ma in base a come si mescolavano le energie dei partecipanti. Spesso Max cambiava i partecipanti alla lezione successiva per vedere le interazioni e le migliori unioni per aiutare i singoli individui a migliorarsi. Non era semplice tenere d’occhio tutti, ma nel corso degli anni Max aveva sviluppato una buona selettività naturale che la guidava nelle scelte. Questo non significava che si sentisse infallibile, anzi la maggior parte delle volte temeva di fare errori irreparabili che potessero peggiorare lo stato emotivo dei suoi allievi. Nonostante la sua esperienza, non si sentiva mai arrivata, era un pregio, ma al contempo un difetto secondo lei. Era convinta che gli altri potessero percepire la sua insicurezza, anche dietro la corazza inscalfibile nella quale si celava durante le lezioni di Yoga Terapeutico.
    ”Sto.” rispose Steven dopo un tempo incalcolabile.
    ”Io sono qui per aiutarti ad arrivare a dire: sto bene. Ci riusciremo, te lo prometto.” Max trattenne un sospiro di sollievo, lo sentiva bloccato in gola, fastidioso e invadente. ”Per oggi possiamo concludere la lezione, ci vediamo giovedì prossimo.” il suo sguardo finalmente fu libero di vagare per l’aula, osservando gli altri allievi che si alzavano e si salutavano con confidenza. Alcuni di loro si avvicinarono a Max per farle qualche domanda, altri invece per darle una pacca sulla spalla in segno di saluto o forse di solidarietà per quel finale sin troppo intenso.
    L’aula si svuotò lentamente, solamente quando rimase da sola Max si sedette a terra su uno dei cuscini da yoga, e tirò quel sospiro di sollievo che le era rimasto incastrato in gola come un nodo sciolto male. ”Dio, dammi la forza di non cedere alla paura.” mormorò portandosi le mani sul viso, il mondo si ridusse alla penombra nei suoi palmi e alla sua fede tremolante intrappolata tra le dita.

    La gomma che stava masticando ormai da mezz’ora, o forse di più, aveva perso tutto il suo sapore, era rimasto solo il gesto anti stress di stringerla tra i denti. Si era offerta di restare dopo la chiusura per terminare alcune burocrazie pei il Centro Aerial al posto dei suoi genitori, non credeva che alle 10 di sera si sarebbe ritrovata ancora chiusa in ufficio a fissare l’oscurità fuori dalla finestra. L’unica fonte di luce era quella dello schermo del computer portatile, faceva sembrare la piccola stanza il set di un film dell’orrore di bassa qualità, erano inquietanti i riflessi cerulei che danzavano sulle pareti e sui mobili. Max sospirò quando una ciocca di capelli le finì davanti agli occhi per l’ennesima volta, la scacciò via con l’indice a mo’ di arpione. Le facevano male gli occhi per aver lavorato tante ore al buio, se li stropicciò insistentemente, poi si spinse con la schiena contro la sedia sollevando le braccia in aria per stiracchiarsi, coi palmi delle mani rivolti verso il cielo notturno oltre il soffitto chiaro. Era arrivato il momento di tornare a casa, avrebbe finito di compilare gli ultimi moduli comodamente seduta sul suo divano, magari con una birra fredda a tenerla sveglia ancora per un po’. Si alzò in piedi sentendo le gambe doloranti per le troppe ore nella stessa posizione, le mosse lentamente per risvegliarle. Spense il portatile e chiuse la finestra davanti alla scrivania, quando abbassò lo schermo tutto intorno si fece buio. Non c’era più alcun riflesso ceruleo a infrangere l’oscurità, a tentoni prese il portatile e se lo mise sottobraccio. Rimase in contemplazione delle ombre per qualche istante, non distingueva più i lineamenti della stanza, i suoi occhi vedevano un’enorme chiazza nera informe. Max non aveva paura del buio, semmai di tutto ciò che brillava troppo, celando la verità dietro una luce ostentata. I suoi occhi si fecero specchio dell’oscurità ancora per pochi secondi, poi afferrò le chiavi dell’ufficio dalla tasca, chiuse la porta con un paio di mandate e lasciò il Centro Aerial.

    Passò l’indice sullo schermo del suo telefono, erano le undici meno venti, rivolse un sorriso appena accennato alla foto di lei e Lys che aveva scelto come screensaver. L’avevano scattata in occasione del compleanno di sua sorella l’anno precedente, sorridevano entrambe, i denti in evidenza che mostravano una gioia sfacciata. Quando era con Lys non poteva fare a meno di sentirsi leggera, una caratteristica che non le apparteneva, di solito Max era più come la terra sotto i piedi, solida e inflessibile. Sospinse il telefono più in là sul divano, coprendolo con uno dei tanti cuscini disseminati ovunque. Le mancava pochissimo per finire di compilare l’ultimo modulo per le tasse del Centro Aerial, solo due campi e poteva concedersi al sonno che la chiamava da diverse ore. Afferrò la tazza da colazione che aveva riempito di birra, gliel’aveva regalata Astrid per Natale, era dipinta a mano da un’artista locale. Sorseggiò un po’ della sua Haandbakk, il liquido ambrato si muoveva a onde, un oceano di luppolo e schiuma in agitazione. Con l’altra mano tornò sulla tastiera del suo portatile, inserì quei pochi dati mancanti e li salvò immediatamente. Max spense il computer, posò la tazza sul tavolino e si lasciò ricadere sdraiata sul divano. Sentiva gli occhi farsi pesanti contro la sua volontà, voleva raggiungere la sua stanza, ma la mano di Morfeo rendeva le sue palpebre come piombo. Non fece nemmeno in tempo a trovare la posizione migliore per addormentarsi, la stanza svanì alla sua vista e il suo salotto con tutte le luci ancora accese era l’ultima cosa che ricordava.
    Nei suoi sogni sentiva bussare, era un rumore secco e insistente. Piano piano la sua mente iniziò a registrare quel suono come reale, ma i suoi occhi vedevano ancora il mondo onirico, una porta sbiadita tremava sotto il tocco di un’ombra. Ci volle qualche istante prima che Max riuscisse a riprendere coscienza di se stessa e a comprendere cosa stesse accadendo davvero, si alzò pervasa da una sensazione di inquietudine. Prese il telefono che aveva fatto cadere nel sonno, lo raccolse dal tappeto e guardò l’orario, erano le undici e mezza. Chi diamine andava a farle visita in piena notte? Non c’erano messaggi sospesi da leggere, nessuna chiamata di allerta. Di certo non era Lys, tantomeno i suoi genitori. Quel bussare aveva un che di disperato, tre colpi forti e coincisi, poi i prossimi tre. Max si guardò attorno, prese la pinza di metallo che usava per sistemare la legna nel camino davanti al divano. La teneva ben sollevata in aria, allungò piano la mano sulla porta e l’aprì. Tutta la prontezza di spirito che possedeva scivolò via dal suo corpo in un solo istante, rimase a osservare la figura di un fantasma del suo passato. Quella specie di smorfia sul viso che conosceva sin troppo bene le fece tentennare la presa delle mani, la pinza tremava della sua angoscia e del suo stupore violento. Non disse nulla, lo osservò entrare come un tornado nel suo salotto e nella sua vita. Sentiva già le escoriazioni sotto la pelle al solo averlo vicino. Seguì il suo ordine, chiuse la porta e lo seguì verso il centro della stanza. Come sempre non una parola gentile, non una spiegazione, solo un ingresso distruttivo a portare macerie ovunque andasse.
    ’Notizia dell’ultima ora, è stato sventato un attacco vandalico al palazzo municipale. Non è ancora certo lo scopo di tale aggressione e chi siano gli organizzatori. Al momento sembra che tutti i partecipanti al crimine siano riusciti a scappare, ma vi terremo aggiornati su tutti gli sviluppi in…’
    La testa di Max era avvolta da una bolla, la voce della presentatrice del telegiornale notturno era accompagnata da immagini sfocate, in una di quelle riconobbe distintamente Rem. Lo avrebbe riconosciuto anche se fosse stato fatto di pixel o lontano chilometri, conosceva a memoria i lineamenti del suo corpo e quello stupido tic agli occhi quando era nervoso. Max fissava prima la televisione e poi Rem accucciato davanti ad essa che ascoltava attentamente la notizia flash, solo in quel momento si accorse che era ferito al sopracciglio. Una macchia di sangue sul suo pavimento. Le sembrava di guardare un animale rannicchiato pronto per l’attacco, quella maledetta bestia era tornata in casa sua senza preavviso dopo tutti quegli anni. Sentiva una voragine nel petto, la divorava da dentro, lentamente lei sarebbe sparita dentro di essa, ne era certa. Succedeva tutte le volte che lo vedeva, il mondo collassava su se stesso e lei con esso.
    ”Ciao, Love.” furono le prime parole che le rivolse dopo cinque anni di assenza, dopo cinque anni in cui il suo cuore aveva imparato a battere per inerzia senza di lui. ”Cazzo…” sussurrò in risposta. Come faceva a ricordare il suo cognome? Era stato per anni fuori città, non poteva sapere chi fosse, o forse aveva fatto in modo di non dimenticarla? Quella minuscola speranza si accese in lei contro la sua volontà, non voleva sapere se aveva mai pensato a lei in tutto quel tempo in cui erano stati divisi. Era come se la gravità comandasse persino sui suoi pensieri, non riusciva a smettere di sentirsi stupida perché voleva credere a ogni costo che lui avesse fatto in modo di ricordarsi di lei.
    ”Con che faccia da culo ti ripresenti qui senza un invito?” fece un passo avanti per sferrargli uno schiaffo in pieno viso, voleva lasciargli la sua impronta sulla pelle come a dirgli ’e adesso prova a dimenticarti di nuovo di me, stronzo.’ ”E che cazzo è questa cosa al telegiornale? Quello eri tu…” abbassò la voce come se le mura di casa potessero fare la spia. ”Il tic…” si giustificò per averlo riconosciuto anche in un’immagine così rapida e sfocata. Eppure non gli doveva alcuna spiegazione, era lui a doverle dire perché le aveva strappato a forza il cuore, lasciandolo a terra mentre lui svaniva dalla sua vita. Max era combattuta tra la rabbia per la prepotenza del suo ritorno e la dolcezza di quella speranza che non voleva spegnersi in lei. Spintonò Rem con forza lontano da se’, facendolo finire addosso al caminetto in mattoni chiari. Gli andò incontro e prese a prenderlo a pugni contro il petto con forza, poi rallentando sempre più il ritmo fino a sentire le mani molli tanto da non riuscire più a serrarle. Poggiò i palmi aperti sul petto di Rem, sentendo gli occhi farsi lucidi. ”Sai davvero chi sono o adesso le chiami tutte Love?” la voce tremava come una fiammella esposta al vento, allungò piano le dita della mano destra verso il sopracciglio sanguinante di Rem. Accarezzò delicatamente quella peluria folta e incolta, si fermò per un istante, aveva paura di proseguire il percorso con le dita, di attraversare di nuovo il sentiero della sua pelle. Sapeva che se non si fosse fermata lì avrebbe fatto la fine di un tossico in cerca di ecstasy, succedeva sempre, cominciava con una minuscola dose e poi la voleva tutta, senza lasciarne neanche un granello. Possessiva in tutto, quell’uomo era suo, aveva scritto proprietà di Max sulla sua pelle decine e decine di volte, anche sotto l’epidermide. Max deglutì rumorosamente, osservando i suoi polpastrelli tingersi di rosso, era appena stata contagiata da quell’uomo, di nuovo. Posò anche l’altra mano sul suo viso, non azzardò di più. Doveva resistere, era necessario per la sua sanità mentale. ”Perché sei tornato? Cosa vuoi da me, Rem?” si autoconvinceva che quelle domande le avrebbero permesso di non caderci di nuovo, che potessero difenderla da lui. Più lo guardava e più le veniva in mente quella volta in cui da ragazzini avevano fatto l’amore, era notte fonda e Rem aveva quello sguardo intenso che lo faceva sembrare un cattivo ragazzo. ”Sei scuro come la notte con quell’espressione su quella faccia tonta, ma sai una cosa? A me non fa paura il buio, anzi mi piace.” gli aveva detto quella sera e avevano fatto di nuovo l’amore, due adolescenti col cuore già pieno di cicatrici, desiderosi di accarezzare quei lembi di pelle ricuciti assieme dal filo dei loro sentimenti. Da allora tutto era cambiato, Rem era ancora un’anima nera come la notte e Max aveva paura stavolta. Permettergli di entrarle dentro ancora una volta avrebbe voluto dire esporgli ancora le sue cicatrici. E se gliele avesse riaperte tutte, una ad una?
    ”Parlami…” sussurrò, ancora le mani sul viso di lui, temeva che allontanandole il mondo le sarebbe crollato per l’ennesima volta sotto i piedi. Teneva gli occhi fissi in quelli di lui in cerca di qualcosa che nemmeno lei sapeva cosa fosse. Ormai aveva aperto la porta all’ombra più scura che avesse mai permeato la sua vita, non poteva più evitarla, erano faccia a faccia nel suo salotto. Non aveva scampo.

    Se allunghi la mano verso il buio, scoprirai che le dita ci passeranno attraverso e allora farà mano paura, Max.

    Edited by Aruna Divya - 27/4/2021, 23:50
     
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    Nel vederla dopo tutti quegli anni, un breve cortocircuito parve azzerare la volontà di Rem per qualche secondo quando, messo alle strette, fu costretto a rivolgersi direttamente a lei. Avrebbe voluto evitare, se fosse stato per lui, quell'improvvisata proprio lì, nel cuore del suo territorio, un luogo a cui raramente aveva pensato perché, per lui, nessun posto era lo stesso senza i legami che lo tenevano su. Non aveva avuto senso, quindi, rimuginare sulle pareti e i mobili che l'avevano un tempo incluso se il legame che lo univa a Max non era più alimentato, una pianta di cui si smette di prendersi cura così, repentinamente, magari perché ci si trasferisce altrove dimenticandola in un angolo prima importante e ora qualunque. Sarebbe esagerato dire che aveva pensato a lei costantemente, ma sarebbe una bugia affermare di non averlo fatto mai, e se ne rese conto soltanto nel momento in cui fu costretto a fronteggiarne gli occhi scuri, i capelli arricciati e le labbra serrate, tutte parti che di lei già urlavano colpe senza che Max fosse riuscita ancora ad aprire bocca. Fra quell'insensibile saluto e la risposta della ragazza i secondi passarono come sospesi, mentre un invisibile crocevia di ricordi scorreva da iridi azzurre a iridi più scure e viceversa, creando un traffico mnemonico a ritroso negli anni. C'erano molte liti nel loro passato, incomprensioni di ogni genere, grandezza e forma, ma c'erano anche tantissimi momenti che, dopo di lei, Rem non aveva mai più vissuto con nessuna, istanti di una pace che era raro provasse, impegnato com'era sempre a costringersi in uno spazio confinato che racchiudesse, insieme a lui, l'ombra da cui si plasmava. Non fu particolarmente sorpreso quando la vide avvicinarsi di fretta, gli occhi sbarrati, le labbra strette e la mani tremanti per lasciargli sul viso uno schiaffo a tutte e cinque le dita, che Rem sentì bruciare una ad una sulla pelle. Non si stupì perché la conosceva, perché, nonostante tutto, erano cresciuti insieme e un certo modo di prevedere le azioni degli altri non lo azzeravano neanche le incomprensioni, neanche le distanze, neanche le bugie e i cuori spezzati in una, due, tre parti; quel gesto e quelle parole non lo sbalordirono perché in fondo la reattività era la parte di Max che più preferiva, quel suo modo che aveva di essere spontanea nel bene e nel male anche nelle circostanze che meno lo prevedevano, rendendola agli occhi di Rem una persona estremamente vera. Pur senza lasciarlo di stucco, l'attacco non lo divertì comunque ma l'uomo si sforzò di non reagire a niente, neanche alle ipotesi che la donna gli riversava addosso in cerca di risposte, di conferme, di qualsiasi cosa che potesse aiutarla a dissipare il caos che, irrompendo nel cuore della notte, Rem aveva causato intorno e dentro di lei. Rimase invece muto dietro un silenzio caparbio, lo stesso degli ultimi cinque anni, dando l'impressione di essere ancora lontano nonostante fossero ormai solo pochi centimetri a dividerlo da lei.
    Non reagì neanche quando i primi colpi presero a cadergli sul petto come mine che da tempo aspettano di essere lanciate e finalmente esplodono rilasciano energia accumulata, si disinnescano per fare danni e ferire, ma forse il tempo passato a tacere è stato troppo e non esplodono bene, non come avrebbero voluto. E infatti improvvisamente Max sembrò cedere alla stanchezza, o forse era solo un guazzabuglio di emozioni a farla apparire così fragile, come se a toccarla si sarebbe sgretolata fra le sua mani. Provò tenerezza, Rem, una punta di tristezza e una bella dose di senso di colpa, ma non era da lui parlare il linguaggio delle emozioni, che preferiva invece trincerare sotto sopracciglia a ribasso sugli occhi, tanto appiattite da crearvi un'ombra così spessa sopra che da blu elettrico rendeva quell'azzurro più scuro. Il resto, quello che voleva nascondere, veniva fuori a sprazzi contro la sua volontà, quei dannati tic come unica valvola di sfogo. Minuscolo sollievo.
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    Sollevate le proprie mani, Rem andò a stringere fra le dita i polsi sottili della ragazza, ora adagiati mollemente sul suo petto, le dita di lei a riempire gli spazi vuoti fra una sua costola e l'altra. A quel gesto dolce si scontrarono parole invece poco gentili, una dissonanza di elementi che non c'entrano nulla fra loro e che, a conoscere la storia di quei due, si potevano paragonare agli accordi sfalsati che da sempre caratterizzavano la storia delle loro vite. Smettila, sei patetica. Ma la tenne stretta, Rem, i polpastrelli che saldavano la presa come a voler imprimere le proprie impronte digitale su di lei. Per quanto potesse provare a ignorarlo, il fatto che fosse lì aveva un certo effetto su di lui, una reazione che c'era sempre stata e che, dopo i periodi di allentamento, tornava a farsi strada più forte di prima. Non era solo attrazione, quella non sarebbe bastata a spiegare la stretta che ogni suo muscolo provava ogni volta, ma si trattava piuttosto della consapevolezza di non poter recidere mai il loro legame, non completamente, neanche dopo cinque anni passati senza vedersi. Quello, a che ricordava, era il lasso di tempo più lungo che avessero mai passato senza esserci l'uno nella vita dell'altra, che fa ridere a dirlo perché Max gli veniva sempre in mente, sopratutto quando l'ombra prendeva il sopravvento e a Rem pareva di non vedere più niente. Non l'avrebbe mai ammesso, non sapeva neanche mettere quelle parole l'una di fianco all'altra, ma in quei momenti l'unica cosa a cui riusciva a pensare era, come a dodici anni nella scatola, dov'è la scossa che spezza questo buio e dalle fessure fa entrare la luce? Ma le erbacce, le piante più forti, crescono anche in assenza di acqua e la tensione che c'era fra loro ne era la prova: ci sono legami e steli di fiore che non si spezzano mica ma restano lì, sul ciglio della strada, ad aspettare la bella stagione. Ci sono cose che non sai. Rispose piano, quasi un sussurro della stessa cupezza di un rombo di tuono lontano, mentre la presa su di lei si allentava per permetterle di sfiorarlo in punti che nessuno, da cinque anni a quella parte, aveva più toccato. Non sobbalzò quando le dita di Max passarono leggere sul sopracciglio tagliato, non mosse neanche uno di quei muscoli facciali che il tempo aveva segnato nei punti più crudeli, come gli angoli degli occhi e i lati della bocca, dove ora delle linee rendevano il suo viso ancora più serioso; solo di nuovo quel dannato tic, ormai un suo marchio di fabbrica, la testimonianza innegabile che anche lui dopotutto era soltanto un semplice uomo. Sarebbe stato impossibile spiegarle ogni cosa, e sebbene in cuor suo forse sapeva di doverglielo, l'uomo non aveva intenzione di farlo. C'era troppo in ballo per permettere alle emozioni di rovinare tutto, d'altronde l'aveva già tradito una volta, chi gli diceva che non l'avrebbe fatto di nuovo alla prima occasione? Non poteva dirsi fortunato, Rem nell'amore: troppe volte si era fidato delle persone sbagliate. ”Perché sei tornato? Cosa vuoi da me, Rem?” Piegò il collo in una scissione vertebrale, la fronte che si andava a posare su quella più calda di Max e lì si adagiava, una manciata di secondi per chiudere gli occhi e inspirare vicino la sua tempia, perché era lì che le persone custodivano il vero odore della pelle: lontano dal collo e dai polsi, il profumo in boccetta non arrivava fin lassù, preservando a quel pezzetto di pelle la fragranza più intima. ”Parlami…” Cullò la testa un po' a destra e un po' a sinistra, la punta del naso sfregata contro quella di Max mentre la mano si alzava a farle una carezza sul viso, sotto la mandibola, un ammasso di vene e nervi che battevano sotto la superficie dell'epidermide. Ma, ancora una volta, a dispetto delle sue azioni Rem parlò una lingua diversa e molto più dura, brutale nella sua onestà e crudele nell'omettere il resto. È un caso. Non sarei qui se avessi potuto fare altrimenti. Rem infranse quel momento e scostò il capo, sfuggendo alla presa di Max sul suo viso per guardare di lato alla sua sinistra, verso il divano e la televisione ancora accesa. Si mosse, allora, lontano da lei, un movimento che provocò uno strappo leggero nell'epicentro instabile dell'uomo mentre si andava a sedere sul divano, il culo sul bordo, il busto in avanti e i gomiti puntati sulle ginocchia, lo sguardo che si alzava poi su Max ma teneva il telegiornale nella visione periferica, sotto controllo. Stanotte qualcosa è andato storto, l'avrai capito, e andare alla Reservoir non è un opzione per il momento. Questo è il primo posto che mi è venuto in mente, tu la prima persona. Il che vorrà pur dire qualcosa visto che sono cinque anni che non ci vediamo, quantomeno quanto solo in effetti io sia, quantomeno quanto tu mi sia mancata. Non lo disse, ovviamente, che a masticare vulnerabilità Rem avrebbe sempre preferito mangiare se stesso, decidendo invece di abbassare lo sguardo per rendersi finalmente conto del sangue che gli colava ora sull'occhio, come se fino a quel momento l'adrenalina l'avesse scisso dal proprio corpo impedendogli di vedere altro al di fuori del problema, come se ci fossero volute le dita di Max per ricordargli di avere un involucro e di non essere solamente una nube incorporea di buio e rabbia. Sono sempre stato qui a Besaid quindi si, Max, so perfettamente chi sei. Aggiunse come uno strascico, come se parlare e spiegarsi gli costasse una fatica immensa dopo tutto quel tempo, dopo tutto ciò che era andato storto quella sera mentre, con una leggera smorfia sulle labbra, si asciugava il sangue col dorso della mano. Posso passare la notte qui, su questo divano? Me ne andrò alle prime luci dell'alba e non mi vedrai più. Solo allora alzò lo sguardo nuovamente su di lei, gli occhi chiari sempre un po' ombrosi in appiglio su qualsiasi cosa fosse Max, dalle onde dei capelli alla linea degli zigomi. È così che doveva essere, era l'unico modo. Si riferiva all'averle nascosto la sua presenza per tutto quel tempo, come se quelle due parole in croce potessero bastare. Non voleva spiegarle ogni cosa ma si sentì di dover aggiungere quel fatto, una pseudo spiegazione che non avrebbe soddisfatto nessuno, figurarsi la Max che conosceva lui, quel potentissimo terremoto che vibrava anche da fermo e che, insieme a lei, faceva tremare anche il suo animo.
     
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    Sakura Blossom

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    La voce della giornalista alla televisione si perdeva tra i pensieri di Max, era un ronzio lontano di cui non distingueva le parole, restava solo un suono senza senso. Nella sua mente non c’era spazio per altro se non per la persona che le stava davanti agli occhi: Rem, Rem e ancora Rem. Il suo nome sbatteva sulle pareti del suo cervello a ripetizione, come una pioggia di proiettili provenienti da diverse direzioni. Gli stessi che le sue mani avevano iniziato a sparare contro il petto di Rem, un pugno, due, tre fino a che non riuscì più a colpirlo, le dita non volevano saperne di rimanere ancora serrate in attacco. Il corpo si era arreso laddove la mente ancora non riusciva completamente, lasciò che lui le prendesse i polsi senza opporre resistenza. Una parte di lei avrebbe voluto allontanarsi e gridare quanto era stato idiota, quanto lo odiava per essere sparito nel nulla, però c’era quella minuscola e fastidiosa parte di se’ che sperava disperatamente che si ricordasse di lei… di loro.
    ”Patetica.” gli fece il verso indicando se stessa, ”stronzo.” ribatté indicandolo coi polsi ancora tra le sue mani, di ammetterlo non se ne parlava, ma sentiva che quello era il loro posto. A Max non piaceva sentirsi così vulnerabile davanti a lui, nonostante il tempo li avesse separati a lungo, pelle contro pelle si incendiavano i ricordi. I suoi occhi dovettero cercare una via di fuga incollandosi allo schermo della televisione alle sue spalle. Non doveva permettergli di avvicinarsi più di così, già quel semplice contatto aveva risvegliato la memoria della sua pelle, quando l’aveva sfiorata sensazioni che credeva perdute avevano iniziato a percorrerle il sistema nervoso fino a raggiungere prima il suo cuore e poi la sua mente. Cercava in ogni modo di autoconvincersi che sarebbe stata in grado di rimanere distaccata, di mandarlo via in qualsiasi momento, invece quella maledetta vicinanza le offuscava la lucidità come un gas tossico. Riportò lo sguardo su di lui sentendo che non mollava la presa. Dio, quanto le costava ammettere che le era mancato, che sentiva il desiderio di abbracciarlo e affondare nel suo corpo. Invece si limitò ad allungare le dita verso il suo sopracciglio sanguinante, ’è ferito’ era la scusa che dava a se stessa per non indietreggiare e non riprendere l’attizzatoio del camino. Lo aveva lasciato cadere da qualche parte quando Rem era entrato come un tornado nero. Max continuava a fare domande per non farsi travolgere dalle emozioni, ma era così difficile, ogni cosa di quell’uomo la riconduceva a uno stralcio della loro vecchia vita assieme. Persino quello stupido tic le piaceva, sapeva che era il suo unico modo di far vedere al mondo che era umano e non fatto di pietra e oscurità. Non doveva lasciarsi fregare, eppure gli permise di invadere il suo spazio personale appoggiando la fronte contro la sua, il naso contro il suo. Socchiuse gli occhi rigettando in fuori col fiato la tensione che sentiva dentro, Rem le aveva incasinato la vita, le aveva preso a calci il cuore e lei non riusciva a respingerlo ancora una volta.
    ’Cinque anni di assenza. Cinque anni di assenza. Cinque anni di assenza.’ se lo ripeteva in continuazione mentre sentiva il calore del suo respiro entrarle sotto la pelle. Quella mano ruvida sotto il mento era troppo da sopportare, non era pronta per sprofondare nella sua oscurità, non di nuovo. Eppure quando si allontanò da lei per tornare a guardare il telegiornale, aveva sentito uno spasmo all’altezza dello stomaco, una contorsione che non era disposta ad accettare. ”È un caso. Non sarei qui se avessi potuto fare altrimenti. Stanotte qualcosa è andato storto, l'avrai capito, e andare alla Reservoir non è un opzione per il momento. Questo è il primo posto che mi è venuto in mente, tu la prima persona.” non aveva mai perso di vista Rem mentre andava a prendere posto sul divano, temeva che da un momento all’altro potesse dissolversi come uno dei tanti ricordi su cui aveva vagheggiato da sola di notte.
    ”Cazzo, un caso. Sei qui per caso.” scosse la testa incredula. ”Non potevi chiedere asilo a uno dei tuoi cani scodinzolanti?” sparò le ultime parole con astio, non aveva ancora dimenticato la sua unica notte in carcere per colpa della sua idea malsana di creare un gruppo di rivoluzionari falliti. Anche da sveglia riusciva a vedere ancora la cella e a percepire un eco lontano della sofferenza che le aveva causato quel evento. Aveva pianto fino a ritrovarsi a dormire col viso schiacciato tra il pavimento e una pozza di dolore liquido. Max allontanò bruscamente quelle immagini dalla sua testa. ”Cinque anni per ricordarti di me, dovrei essere contenta che hai pensato di cercare riparo qui?” sapeva che non avrebbe ottenuto la risposta che voleva, ma lo provocò lo stesso. Conosceva sin troppo bene Rem, esprimersi gli costava una fatica immensa, nessuno gli aveva mai insegnato a farlo in modo sano. Piuttosto ci pensava la sua ombra ad esplodere per lui, la quale si nutriva di tutti i suoi sentimenti negativi in attesa che Rem perdesse il controllo liberandola. Solo che la comprensione di Max aveva raggiunto il suo limite, non era in grado di tenere a freno ciò che portava dentro da troppo tempo, in un altro momento della loro vita avrebbe apprezzato quel ”tu la prima persona”, anzi ne avrebbe colto il vero valore. Ma lì, dentro il salotto di casa sua non vedeva altro che un’ombra del suo passato. Chi era diventato? Cosa aveva fatto? Quegli stramaledetti Dogs esistevano ancora? A giudicare dalla ferita sul suo sopracciglio sembrava di sì.
    Forse Dio quella sera aveva deciso di mettere alla prova la sua resistenza perché ciò che udì in quel momento le frantumò quel poco che rimaneva della sua lucidità mentale. ”Sono sempre stato qui a Besaid quindi si, Max, so perfettamente chi sei.”
    Era in apnea. ”Sei sempre stato qui.” lo mormorò a voce talmente bassa da essere convinta di averlo solo pensato. Gli occhi correvano da una parte all’altra della stanza irrequieti, come se cercasse qualche prova tangibile del fatto che le parole di Rem fossero solo un’immensa bugia. Aveva creduto di averlo perso per sempre, che la sua memoria fosse stata compromessa dalla lontananza dalla città, invece non aveva mai abbandonato Besaid, aveva abbandonato lei. Non riusciva a pensare ad altro se non al fatto che l’avesse esclusa volontariamente dalla sua vita, che non aveva cercato sue notizie in alcun modo. Era sempre stata certa che nonostante le liti e i silenzi, il loro legame fosse indissolubile, che anche agli antipodi del mondo si sarebbero attratti come due magneti. Quella convinzione le aveva permesso di andare avanti, anche se nei momenti peggiori aveva pensato di abbandonarsi all’oblio di una nuova città all’estero. Se non fosse stato per la sua famiglia, per Lys, probabilmente sarebbe fuggita via, lei lo avrebbe dimenticato per davvero a differenza sua pur di non sentire tutti i giorni quel piccolo spazio vuoto che si portava nel cuore. Le veniva da piangere per la rabbia, per la delusione e per ogni sensazione negativa che aveva portato alla deriva quella verità velenosa. ”Io voglio che tu te ne vada.” lo disse a denti stretti, le faceva male la mascella tanto digrignava con forza. Scattò verso la cucina, prese del ghiaccio dal congelatore, poi tornò in salotto e lo lanciò addosso a Rem colpendolo al petto. ”Era quello che volevi, no? Una medicazione e un divano, peccato che per il secondo dovrai cercare altrove. FUORI!” gridò sentendo che faceva sempre più fatica a respirare.
    Che cosa voleva dire ”era l’unico modo”? Da anni cercava sue notizie, aveva preso l’abitudine di comprare quotidiani stranieri online per seguire la cronaca europea e internazionale. In ogni ritaglio di giornale aveva cercato qualcuno che gli somigliasse, sperando che stesse bene, che ovunque fosse non gli accadesse nulla di male. Dopo le sofferenze causate dalla sua famiglia e dal suo potere non aveva fatto altro che augurargli la felicità anche se lontano da lei, aveva pregato per lui tutte le sere affinché Dio non lo lasciasse solo nei suoi momenti bui. E invece non aveva capito un cazzo, erano sempre stati così vicini da potersi raggiungere in macchina o forse a piedi per quanto poco ne sapeva. Max tremava, non si aspettava che Rem le avesse mentito per tutti quegli anni, un tempo l’amava e adesso cos’era? Meno di niente.
    ”Non posso…” le lacrime si erano affacciate contro la sua volontà, le asciugò in fretta col dorso della mano, poi si diresse verso il portone d’ingresso spalancandolo. Non le importava del gelo che entrava assieme a qualche fiocco di neve, "Vattene." era perentoria, il suo tono di voce non ammetteva repliche. Si avvicinò a Rem solo per afferrargli il braccio con l’intento di trascinarlo fuori da casa sua, non gli avrebbe offerto la sua ospitalità a quelle condizioni. Nonostante fosse molto più alto e più grosso di lei, tirò con tutta la forza che aveva a disposizione per fargli raggiungere la porta della sua piccola “villetta storta” come la chiamavano lei e Lys.
    ”Sei un fottuto bugiardo!” lo spintonò con le mani sulla schiena, quando i piedi di lui affondarono nella neve Max si richiuse la porta alle spalle. Si addossò con tutto il corpo contro la superficie di legno, non era più in grado di sostenere il proprio peso. Rannicchiò le gambe al petto e si lasciò andare al pianto che aveva trattenuto per tutto il tempo, un verso strozzato accompagnava le lacrime che parevano bruciare a contatto con la pelle. Reclinò il capo all’indietro cercando un sollievo che tardava ad arrivare, aveva sognato quel momento decine di volte, aveva immaginato di nuovo le sue labbra tra le sue, l’unica cosa che non aveva previsto era che potessero essere ricoperte di menzogna. Perché scomodarsi a tornare da lei dopo tutto quel tempo? Non aveva nessun altro?
    ’E’ solo.’ glielo dicevano quei segni marcati sul viso che gli rendevano il viso ancora più incattivito, era come se la vita avesse corroso via ogni segno di gentilezza in lui. Chi altri sapeva cosa si nascondeva dietro quelle sopracciglia folte che parevano sostenere il peso del mondo? Per la prima volta da quando era arrivato Rem quella sera sentì un senso di tenerezza accarezzarle lo stomaco, un po’ come le farfalle di chi è innamorato. E lei lo era ancora dopo tutto? Nonostante lo avesse respinto con caparbietà c’era una parte di lei che si chiedeva se avesse fatto la cosa giusta. Non voleva convivere col rimpianto di aver schivato quello che forse era un segno del destino. Punti di vista. Cinque anni per ricordarsi o cinque anni per ritrovarsi?
    Lo sapeva che i suoi pensieri la stavano conducendo verso lidi che doveva evitare, verso una speranza che le avrebbe avvelenato l’anima, ma non riusciva a restare seduta in attesa di scoprire quale fosse la versione giusta. Max si alzò in piedi, andò in bagno, afferrò garze, batuffoli di cotone e acqua ossigenata, nel dubbio che potesse esserci qualcosa nel suo sopracciglio prese anche delle pinzette. Con tutto il necessario tornò in cucina, le pinzette le passò sul fuoco del fornello per sterilizzarle, poi le poggiò su un tovagliolo pulito per evitare contaminazioni. Sospirò e si diresse a passo di marcia verso il portone, lo aprì a metà senza affacciarsi all’esterno, se lui era ancora lì sarebbe rientrato da solo.
    ”Hey!” l’unica cosa che disse per farsi notare.
    Attraversò il salotto fermandosi solo per abbassare il volume della televisione che a quell’ora della notte iniziava a darle fastidio. Portò con se’ il telecomando in cucina, accese solo la luce vicino ai fornelli lasciando che la maggior parte della stanza rimanesse in penombra, quasi temesse che troppa illuminazione potesse ferire Rem. In realtà aveva paura che accendendo tutto lei fosse esposta e pericolosamente vulnerabile, non voleva dargli l’idea che lo stesse accogliendo a braccia aperte, e per adesso ci era riuscita estremamente bene. Si sedette sulla sedia a capotavola lasciando la panca di legno libera per Rem, aveva bisogno di spazio per scalciare come un animale se ci fosse stato da estrarre qualcosa dalla ferita. Max rimase in religioso silenzio tamburellando le dita dalle unghie mangiucchiate sulla superfice del tavolo, unico accenno di rumore in tutta la casa.
    ’Anche se l’onda è fatta di tenebre ormai non puoi far altro che cavalcarla, è solo un Aerial, Max, abbi fede.’

    Aerial nel surf indica una manovra durante la quale il surfista sale sulla cresta dell’onda fino a sollevarsi in aria


    Edited by Aruna Divya - 10/1/2022, 09:29
     
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    Ognuno dei suoi dettagli lo ributtava in un ricordo che lo stringeva stretto tanto quasi la presa che lui le esercitava sui polsi, proprio sopra le vene blu e verdastre che ricordavano le strisce di luce che i lampioni disegnavano sull'autostrada, all'interno dell'abitacolo in cui tante volte si erano stipati e sul viso di Max, accendendolo ad intermittenza. Le dita invece erano come gli steli delle erbacce che alla comunità i bambini strappavano un po' perché costretti e un po' per ricercare quel senso di unione che li avrebbe distinti dai grandi, noi e loro genere di situazione in cui Rem non aveva mai davvero trovato spazio, forse perché figlio del capostipite e per questo sempre guardato con un po' di sospetto (non fai la spia, vero Rèmi?), o forse perché era semplicemente strano. A guardarla a distanza azzerata, anche le ciglia sfioravano le guance allo stesso modo di allora, come aerei che planano su piste di atterraggio di pelle morbida e scivolosa di lacrime rabbiose. L'insulto arrivò come uno spiffero freddo sulla faccia ma Rem sapeva che quello era niente, che era solo l'inizio, che il vento si sarebbe alzato e alzato e alzato e sarebbe stato lui ad aizzarlo. Si scostò senza riguardo. Anche in quel momento quello era l'unico modo: farsi odiare era più semplice che lasciarsi andare al torpore e al profumo di quella pelle, di quei capelli, di quel fiato che a tratti ancora percepiva scaldarlo nel buio delle stanze in cui dormiva proprio come quando, da ragazzino, trovava il modo di raggiungerlo e bucare il nero della sue prigione ermetica. Perforava la sua ombra, Max, ma ora erano cresciuti e non poteva più lasciarglielo fare, c'erano cose più urgenti, cose più importanti di loro due, due semplici granelli in una tormenta di polvere. Perché Max non riusciva a capirlo? Seduto sul divano, Rem tentò di ignorare l'effetto che il vuoto creava sotto le dita ora che non poggiavano più su di lei. Era una specie di prurito, un tormento soffice ma persistente nel background della sua testa. Strinse l'una all'altra le mani, strofinandole come se le stesse sciacquando sotto un getto per pulirle. Doveva togliersela dalla testa, concentrarsi, ma non glie lo rendeva semplice. Non parlò per molto tempo, Rem, che senso aveva abboccare all'amo che Max gli lanciava nel tentativo di farlo incazzare? Voleva risposte, Max, spiegazioni che potessero alleggerirle il cuore, un alibi abbastanza forte da giustificare la necessità che, sotto impalcature di rabbia, che aveva di capirlo e, chissà, forse anche di perdonarlo. Ma le serviva un pretesto, qualcosa a cui appigliarsi, un aiuto che non arrivava, solo silenzio dal bordo di quel divano. Per quanto spontanea fosse non poteva lasciarsi andare così, doveva combattersi e Rem lo sapeva perché, nonostante tutto, la conosceva ancora come il palmo delle proprie mani. Sii quel che vuoi, Max. Felice, triste, incazzata nera... Strizzò gli occhi due volte, lo sguardo che si abbassava scostandosi poi sulla televisione. Ancora nessuna notizia di loro. ...Non sono qui per questo. La voce strusciava fredda e come di controvoglia sulle labbra, sul pavimento e su di lei. Non poteva dirle l'effetto che vederla gli aveva smosso dentro, la valanga che stava arginando a suon di linguaggio laconico e sguardi duri. Non le avrebbe fatto credere di poterlo illuminare di nuovo come tanto tempo addietro, anche se avrebbe voluto che accadesse non poteva, non più, e per sottolinearlo ammise l'ammissione più feroce di tutte, il colpo che l'avrebbe fatta sanguinare di più. Sono sempre stato qui. Lo ripetè anche Max, come se non ci credesse, come se a dirlo anche lei sarebbe suonato ridicolo e assurdo, impossibile. E neanche quella volta alcun aiuto arrivò da parte dell'uomo che le aveva distrutto la vita una volta e ora stava riprovando a farlo di nuovo, imperterrito, come senza cuora. Già, dov'era finito quel cuore che un tempo aveva battuto così tanto per lei? Forse era stato sconfitto, mangiato dall'ombra che sotto i piedi ribolliva come una pentola a pressione, mai tranquilla, ma davvero a riposo. Se fosse stato un alto uomo si sarebbe alzato, le sarebbe andato incontro e l'avrebbe stretta fra le braccia; se fosse stato un tipo diverso di persona le avrebbe asciugato le lacrime con le dita chiedendole scusa, di perdonarlo per tutto il male che le aveva inferto con consapevolezza, volontariamente. Nessun errore, nessun calcolo sbagliato: quello che le aveva fatto era premeditato, calcolato nei minimi dettagli per renderlo un piano a prova di fallimento. Una parte recondita di lui avrebbe voluto essere quel tipo di uomo, davvero, ma non lo era. Alzò due dita sul sopracciglio e il sangue le macchiò raggruppandosi sotto le unghie, ma neanche se ne accorse. Era concentrato su Max, ora, e sulla reazione che le sue parole stavano causando. Se l'era aspettato, che venisse buttato fuori casa dico. Del resto se c'era qualcuno che conosceva era proprio lei, così restò muto a guardar stritolare il loro passato. Si aspettava di essere colpito di nuovo, quello sarebbe andato bene, ma si chiese cosa avesse intenzione di fare quando la vide sfrecciare come una furia in cucina e sparire per pochi secondi dietro lo sportello del freezer. Il sacchetto del ghiaccio lo colpì al petto e ci mancò poco che lo lasciasse cadere, riuscendo invece ad acciuffarlo di riflesso con le mani prima che fosse troppo tardi. ”Era quello che volevi, no? Una medicazione e un divano, peccato che per il secondo dovrai cercare altrove. FUORI!” Lei gridò, lui batté le palpebre. Si lasciò trascinare per il soggiorno, il braccio teso lì dove le mani di Max si piegavano, poco al di sotto del gomito e poi dietro la schiena, sulle scapole, quasi come stesse spingendo una roccia. Non combatté, Rem non oppose alcuna resistenza, gli pareva di sentire le vibrazioni della donna trapassare giaccone, felpa, pelle e trapanare le ossa. Ritrovandosi ad affondare di qualche centimetro nella neve compatta Rem attese qualche secondo prima di voltarsi verso la casa. Si girò anche se aveva sentito la porta sbattere, guardò il legno degli interstizi anche se Max non era più lì ma come se potesse lo stesso raggiungerla, rannicchiata o forse già lontana, già nel suo letto, già dimentica di lui. Abbassò lo sguardo sulle mani, lasciò cadere il ghiaccio. Sarebbe stato giusto così, sarebbe stato giusto che la porta restasse chiusa, che lei tornasse a vivere una vita senza di lui. Alzò di nuovo la nuca, gli occhi fissi sulla finestra. La neve si era trasformata in una pioggerellina lugubre, buio gelido nei fari due una macchina di passaggio, come se il giorno avesse deciso di non spuntare più. Deglutì. Lì fuori da solo era più semplice abbassare la guardia. Non c'era nessuno testimone di quel dolore.
    Dopo qualche minuto Rem si sbloccò, voltando le spalle all'edificio e iniziando ad allontanarsi, mani in tasca e sguardo basso, verso chissà dove. Era giusto così. Neanche a raggiugnere la strada che tuttavia si arrestò, schiena girata, in attesa. Sarebbe stato giusto, si, ma non sarebbe andata così e Rem lo sapeva. Perché? Perché conosceva Love come ogni vena sul palmo delle sue mani anzi di più, come il numero di globuli bianchi, rossi e piastrine che all'interno vi navigavano per fare il giro completo del corpo. Così bene conosceva Max. Era triste, è vero, ma avrebbe lasciato che le poche emozioni positive rimaste per lui vincessero sulla rabbia e a quelle si sarebbe appigliata, in assenza di altro, per trovare la forza di accoglierlo nuovamente. Rem in fondo ci sperava, e non solo perché gli serviva un posto in cui nascondersi. Respirando piano nel freddo, anche se invisibili i pugni erano chiusi nelle tasche della giacca e si rilassarono solo quando sentì aprirsi la porta e l'inconfondibile voce di Max chiamarlo. Non per nome, sarebbe stato troppo, ma con un hey che voleva sembrare indifferente ma in cui lui riconobbe la stessa speranza e la stessa dolcezza con cui tante volte prima si era riferita a lui. Non sorrise, però, mente tornava sui suoi passi avvolta dal solito silenzio. Era una vittoria per lui solo a metà e per lei un passo indietro in tutti i sensi, non c'era niente di cui rallegrarsi. Chiuse la porta dietro di lui con cautela, piano come la stesse accarezzando, rendendosi conto di poter forse fare altrettanto con Max: addolcirsi. Glie lo doveva. Oltrepassò il divano lanciando l'ennesima occhiata alla televisione. Il telegiornale notturno era finito e trasmettevano pubblicità vietate in fascia protetta. Se ne sarebbe riparlato con il notiziario delle sei del mattino, poteva provare a mettere da parte certi pensieri e a concentrarsi davvero su di lei.
    La trovò seduta in cucina, con pinzette e garza a portata di mano e le dita che tamburellavano nervose. Proprio come a sedici, diciassette e vent'anni, quando mi aspettavi alzata per vedere in che guai mi fossi cacciato. Si guardarono per un lungo momento, poi, come dopo un segnale solo loro, Rem avanzò. Grugnì sedendosi con una smorfia sulla panca vicino a lei, accennando senza volere a tastarsi con le dita sotto la giacca, sulla parte che a ogni respiro faceva resistenza come se lì qualcosa si fosse inceppato. Con l'adrenalina che piano piano scemava, d'improvviso si ritrovava a notare le conseguenze di quella notte andata male. Unì le mani in grembo fra le ginocchia aperte mentre chiudeva gli occhi e, per una buona volta, abbassava la guardia. Si fidava, nonostante tutto. Abbassando le palpebre anche i tic sparivano e gli spasmi degli occhi si rilassavano, così Rem potè concentrarsi su altro. Tipo il lato della mano di Max che per disinfettargli la ferita si poggiava sulla sua tempia, o il suo respiro un po' agitato che si mescolava al proprio invece lento, un po' come la mareggiata si addentra notevolmente nel placido letto di un fiume. Ognuna di quelle sensazioni era più forte di qualsiasi bruciare o dolore provasse a livello fisico. Déjà vu. Si ritrovò a dire, la prima parola dopo interi minuti di silenzio. Avrebbe forse dovuto spiegare di cosa diamine stesse parlando ma non lo fece, era sicuro che avrebbe capito. Sollevò le palpebre ritrovandosela davanti, la sua immagine balzò di forza di fronte a lui come ognuno di quelle onde prepotenti che aveva sulla testa. Seguendo il movimento delle sue pupille con le proprie, Rem si ritrovò a girare un pensiero specifico in mente. Non sei cambiata neanche di una virgola. Espresse quel pensiero con estrema naturalezza come una constatazione, mentre sollevava una mano per sfiorare le punte di una ciocca aggrovigliata, aggrapparcisi leggermente per poi lasciarla andare, la mano che proseguiva la caduta e tornava sul suo grembo. Non chiese se lui fosse cambiato. Con la barba di ben più di qualche giorno, le occhiaie e le ferite doveva sembrare proprio malridotto. Sapeva le impronte che il tempo e la vita avevano lasciato agli angoli degli occhi e lungo un sorriso che raramente usciva fuori. Max, invece, sembrava la stessa di quando l'aveva lasciata. Forse il tempo ci andava più leggero con le anime buone. Famiglia? Gli occhi azzurri si erano spostati e fermati su una foto incorniciata. C'era Max con un bambino, lo teneva stretto e sorridevano entrambi. Sembravano felici. Il tono era neutro ma d'allenamento. Aveva messo in conto che potesse succedere, non si aspettava che in tutti quegli anni avesse pensato solo a lui. Aveva espressamente detto alla sorella di non voler sapere niente di Max Love fintanto che lei non avesse saputo di lui. Non mi interessa, gli sembrava di aver detto in quell'occasione, che nel linguaggio stringato e impossibile di Rem voleva dire non posso, sarebbe ancora più difficile. E aveva prestato quel giuramento anche a sé stesso, non aveva indagato, non aveva voluto informarsi. Qualche volta era passato di fronte casa sua ma solo di sfuggita. Forse sperava inconsapevolmente di incrociarla per strada ma non era mai successo. Lei non l'aveva mai più visto, lui invece le due volte in cui l’aveva rivista si era bloccato. Aveva fermato la macchina in un angolo per aspettare che passasse come una corrente d’aria gelida, uno scroscio di pioggia o un colpo di sole. Per lei, lui poteva essere benissimo morto. Ed era giusto così, per questo non aveva mai interferito. Le iridi, due piatti azzurro intenso, si spostarono di nuovo su di lei per trapassarla da parte a parte. La differenza tra la Max allegra della foto e quella dagli occhi arrossati di fronte a lui era abissale. Era mai riuscito a renderla così felice? In poche ore me ne andrò e tornerai a sorridere in quel modo, Love. Te lo prometto.
    Fu difficile pronunciare quelle parole. Fu più dura di quanto si era aspettato. Persino per uno come lui, allenato a non lasciarsi piegare da niente.

    Edited by Dead poets society - 20/2/2022, 18:30
     
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4 replies since 26/3/2021, 19:18   227 views
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