Quest 04: Black Day

01.04.2021

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    Sakura Blossom

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    Madeleine "Max" Lilian Love - Gruppo Lupo - XXX

    Quando il sole e la luna si uniscono nella lenta danza dell’eclissi si spezza ogni catena, il lupo non è più servo della donna dalla pelle argentea, il suo pelo si tinge di nero e si rivela la sua vera essenza. Ogni volta che la luna gli dona la libertà, il lupo scende tra gli uomini per ingannarli. I suoi occhi parlano di solitudine, chiedono compagnia eterna, ma la danza finisce e le catene d’argento tornano a reclamare il servo. Sulla terra brulla il sangue di chi è stato ingannato, tra i cieli l’ululato di un lupo che ha perso ancora la sua libertà.

    ’Seguimi.’ dicevano quegli occhi di cristallo.
    Max annuì in silenzio, osservando il lupo dal manto nero iniziare a muoversi verso una destinazione ignota. Non esitò a bagnarsi i piedi nel Mare del Nord che aveva assunto le tonalità della notte sotto il riflesso dell’eclissi, mosse le dita sotto il pelo dell’acqua, ma non riusciva a vederle. Avrebbe dovuto preoccuparsi di qualcosa le diceva la sua mente, eppure si sentiva così leggera, spogliata dei suoi problemi e dei suoi pensieri. Era come camminare nuda sulla spiaggia. Nuda e sola.
    Più andava avanti e più si rendeva conto che c’era qualcosa di strano, il silenzio rimbombava nelle sue orecchie, era troppo. Non un gabbiano, non una persona ad attraversarle il cammino. Passeggiava coi piedi immersi nella notte senza essere disturbata dal mondo circostante, come se quest’ultimo avesse timore di infastidirla al minimo contatto. Perché si sentiva così turbata da quell’improvvisa solitudine? C’era qualcosa che non riusciva ad afferrare nei suoi ricordi, qualcosa che doveva assolutamente sapere, ma non le importava davvero di comprendere cosa fosse. Scrollò le spalle fissando il movimento sinuoso dell’animale davanti a lei, a ogni passo il suo corpo si fletteva con una grazia altera che aveva un che di ipnotico. Con lo sguardo incatenato al lupo, Max non si rese conto subito che le coordinate del loro percorso si stavano dirigendo verso la Kaigaten. Il paesaggio della spiaggia venne sostituito da quello di un sentiero sterrato nel bosco, sotto le piante dei piedi era fastidiosa la sensazione della terra smossa e dei sassolini sparsi che lasciavano minuscole escoriazioni sulla sua pelle. Ad un certo punto Max percepì forte l’istinto di scappare, ma il lupo parve avvertire le sue sensazioni, si voltò a fissarla con quelle perle di ghiaccio incastonate negli occhi. Non aveva altra scelta se non seguirlo.
    I suoi piedi erano la sua ancora con la realtà, il sentiero nel bosco divenne una strada asfaltata, la percepiva dura e ruvida al contatto. Il lupo avanzava lungo le vie disabitate della Kaigaten, un quartiere abbandonato nella zona ovest di Besaid. Mano a mano che avanzavano, gli occhi di Max accarezzavano i contorni di quella che sembrava una città fantasma: le erbacce incolte nei giardini delle abitazioni parevano tentare di riversarsi fuori dai cancelletti arrugginiti, tentacoli verdi si protendevano verso la strada principale. Gli unici negozi sulla via avevano le vetrine luride, non si riusciva a guardare al loro interno, lo scorrere del tempo era stato inclemente, aveva lasciato ovunque i segni dell’abbandono. Le insegne pendevano dall’alto in un modo strano, erano parzialmente divelte dai cardini, su di esse nessuna scritta che raccontasse la storia di un precedente proprietario. Negozi e abitazioni che non avevano mai visto la vita. Forse Max era il primo essere umano che passava di lì? Un brivido di paura le attraversò la schiena, ma non trovò mai la via per diventare voce.
    Finalmente il passo del lupo iniziò a rallentare, presero una traversa isolata che si apriva su quella che sembrava una grande radura. Per la prima volta Max notò che la luce era strana in quella parte della città, sollevò gli occhi al cielo per vedere se fosse colpa dell’eclissi che stava iniziando a scemare, ma rimase senza parole quando si accorse che sopra la sua testa c’era quella che sembrava essere una cupola di dimensioni interminabili. Dove era finita? Il suo corpo voleva tornare indietro, sulla spiaggia, ma la volontà del lupo era più forte di lei. Era il suo branco, non poteva abbandonarlo neanche volendo. Un ululato squarciò il silenzio, il lupo si era fermato pochi metri più avanti rispetto a lei. Max lo raggiunse e i suoi piedi percepirono ancora una volta un cambio di scenario, c’era qualcosa di liscio e freddo al suolo. Dal cielo alla terra i suoi occhi fecero un viaggio breve, solo che quello che si ritrovò a fissare non era terriccio bensì un pavimento al centro di una radura. Le mattonelle erano enormi quadrati bianchi e neri che si alternavano come su una scacchiera. Non come, quella era una scacchiera.
    ”Dove siamo?” chiese in un sussurro, lentamente abbandonò il fianco dell’animale per guardarsi attorno. Notò che alcune caselle bianche erano macchiate, c’erano incrostazioni che non comprendeva di cosa fossero fatte. Con un paio di saltelli si mosse di casella in casella come una vera pedina, si fermò davanti a una statua enorme che raffigurava un cavallo. Era la pietrificazione di un puledro in rivolta, Max allungò le dita per toccarne la groppa scoperta e selvaggia. Rimase senza fiato quando la sua mano destra venne attraversata da una sorta di scossa elettrica, si allontanò d’istinto e tutto iniziò a vorticare, forse solo nella sua testa. I ricordi di altre persone tentavano di aggrapparsi sulla sua pelle, non voleva sentire quelle grida di paura nelle orecchie, ma dovette arrendersi a quella sofferenza che le riempiva il petto.

    Camminava a piedi scalzi tra le vittime di una partita a scacchi con la Morte. Anime in bilico, se ne poteva ancora percepire il flebile alito di vita. I loro corpi riversi a terra emanavano un fetore di paura che passando dal naso ti penetrava direttamente nelle ossa. Il silenzio era asfissiante, ti mozzava il fiato.
    Le caselle erano suddivise diversamente, bianche, nere e sangue. Max iniziò a tremare, il terrore e il dolore che permeavano l’intera scacchiera iniziarono a vibrare come una scossa di terremoto.


    ”BASTA!” gridò ritrovandosi accucciata a terra con le mani sugli occhi. Cos’era ciò che aveva appena visto? Aveva paura di tornare a guardare la realtà, eppure lo fece quando sentì un improvviso calore spandersi dalla sua spalla a contatto con il muso del lupo. Aprì gli occhi percependo le negatività fluire via dal suo corpo, un improvviso senso di speranza si fece spazio in lei, come luce liquida nelle vene. Al posto dell’animale c’era una figura che i suoi occhi potevano percorrere a memoria anche senza guardarla davvero, vide la sua mano ruvida tesa verso di lei, l’afferrò con esitazione e si lasciò aiutare a rimettersi in piedi. Si ritrovò occhi negli occhi con lui per l’ennesima volta in poco tempo da quando se lo era ritrovato nel salotto poche settimane prima, dopo anni di lontananza ecco che la sua presenza era tornata ad invadere la sua vita. Si morse il labbro inferiore piano, giocherellandoci un po’ mentre annaspava cercando di afferrare più tempo possibile per non parlare. Aveva pensato a lui quando il manto argenteo del lupo era diventato del colore della notte, della sua notte.
    ”Rem…” mormorò.
    Un solo passo verso di lei ed era già Scacco Matto.
    ”Mi hai seguita dalla festa?” incrociò le braccia al petto con aria sospettosa, poi improvvisamente si ritrovò a stringere le labbra tra di loro in preda a un dubbio. Quale festa? Era forse quello che cercava di ricordare quando era sulla spiaggia? Dei flash veloci della giornata trascorsa in compagnia di decine di volti diversi, l’euforia della festa più lunga che Besaid ospitasse dalle sue origini, e Lys. Dov’era sua sorella? Iniziò a guardarsi attorno freneticamente, ma la mano di Rem sulla sua spalla la distrasse trasmettendole un’insolita quiete. ”Hai visto Lys?” gli chiese a bassa voce, come se temesse che dirlo a voce alta avrebbe potuto comportare conseguenze disastrose. Rem si limitò a scuotere la testa e a farle cenno di seguirla, ”andiamo, Love. Ti porto a casa.” incastrò la sua mano con quella di lei, era come se i solchi tra le sue dita fossero stati disegnati apposta per accogliere i suoi, quella pelle ruvida e vissuta era la sua casa. Max annuì in silenzio e si lasciò guidare ancora una volta, raggiunsero il limitare della scacchiera quando i passi di Rem si arrestarono. ”Prima di proseguire devi prendere una cosa importante.” le indicò una roccia frantumata poco distante da loro, lì in mezzo c’era qualcosa che brillava, almeno così le sembrava da quella distanza. Lasciò andare la sua mano e fece quello che le veniva chiesto, le sembrava di essere tornata indietro nel tempo, quando erano solo due adolescenti innamorati e lei non era in grado di dirgli di no. Si accucciò in mezzo ai frammenti di roccia e vide un piccolo pugnale, sembrava uno di quelli adatti a nascondersi tra le pieghe dei vestiti senza dare nell’occhio. Lo raccolse e se lo rigirò tra le dita, l’impugnatura era di legno grezzo, sembrava quasi un coltello da cucina per via delle dimensioni ridotte. ”Perché?” si alzò in piedi ed avanzò verso Rem fino a ritrovarsi ad un palmo dal suo viso. ”A cosa ci serve questo?” il sospetto galleggiava nel suo cuore come una chiazza d’olio in una distesa d’acqua, ma sparì non appena la mano di lui fu di nuovo nella sua. Ancora quella sensazione di speranza liquida a scorrerle nelle vene, era impossibile resistergli. Infilò il pugnale in tasca, col manico rivolto verso il basso così da non bucare il tessuto dei pantaloni, e riprese a camminare al fianco di Rem.
    Sorpassate poche file di alberi nel bosco adiacente alla scacchiera, Max iniziò a riconoscere l’ambientazione davanti ai suoi occhi. Su un abete alla sua destra c’era la “X” che aveva inciso lei con un coltellino per segnare il percorso di rientro verso casa, la riconobbe per la pennellata di celeste che aveva passato per renderla visibile anche col cattivo tempo. Poco più avanti ce ne era un’altra, stavano andando verso la casa sull’albero che avevano costruito da adolescenti per rifugiarsi lontano dal mondo degli adulti e dalle loro responsabilità. Quello era il loro angolo felice, quelle sottili mura di legno erano ancora permeate delle loro risate e dell’odore della loro felicità. Avevano fatto l’amore per la prima volta lassù, chissà se dopo tutti quegli anni il pavimento aveva trattenuto il ricordo dell’orgasmo e l’impronta dei loro corpi innamorati.
    ”Casa.” le sussurrò Rem all’orecchio. Il corpo di Max venne attraversato da una serie di minuscole scariche elettriche, si voltò alla ricerca del suo sguardo sempre torvo. Da ragazzina gli diceva spesso che il peso delle sue sopracciglia gli avrebbe schiacciato gli occhi prima o poi, per quello sembrava sempre che guardasse male tutti. Il colore delle sue iridi era quello del Paradiso, ma dietro di esso si nascondeva l’Inferno. ”Potremmo lasciare tutto e vivere qui, Max.” quelle parole arrivarono a sorpresa, come le mani di un amico dispettoso che si avvicina senza farsi vedere. ”Dopo anni in cui credevo che ti fossi dimenticato di me, mi chiedi di lasciare ogni cosa, compresa la mia famiglia per te. Ti ho cercato nel viso di ogni passante sperando che fossi tu per cinque anni. Sei appena tornato nella mia vita, Rem. Cosa ti aspetti che ti risponda?” nonostante le sue parole dure non riusciva a sciogliere le dita da quelle di lui, una parte di lei era profondamente ancorata a quell’uomo e ai suoi occhi con cui aveva sottoscritto un contratto d’amore anni addietro.
    Tra di loro s’intromise un breve silenzio che divenne vento, quel soffio leggero e costante iniziò a deformare la realtà attorno a loro, la radura iniziò a liquefarsi per fare spazio a quelle che sembravano le pareti della casa sull’albero. Lei e Rem si ritrovarono seduti sul pavimento duro della casetta, ora che erano cresciuti sembrava ancora più piccola. Entrambi avevano la schiena ricurva per non sbattere la testa al soffitto, quel ricordo gli andava stretto. Rem guidò la sua mano sulla parete più vicina, facendole posare il palmo su quel legno depositario di tutte le loro memorie felici. Brevi flash del loro passato si avvicendarono nella sua mente, tutti si concludevano allo stesso identico modo, con la felicità a fior di labbra.
    ”Potremmo vivere così per sempre, Love.” lo sguardo di Rem si posò sulla tasca che conteneva il pugnale. Max lo estrasse e lo guardò per un breve istante, sulla sua lama le parve di scorgere una luce cupa, ma sparì così in fretta da non sembrare vera. ”Quello ci permetterebbe di essere felici, lontani dalle ombre e da ogni male che la vita ci ha fatto. Tu sai come usarlo, non è vero?” quelle parole le sembravano una follia, eppure una parte di se’ le accolse come depositarie di una verità che non voleva ammettere a se stessa. ”Stai vaneggiando, che razza di esempio darei a Lys se mi…” non osò pronunciare la parola seguente, uccidersi era un peccato mortale per la loro religione, per il suicidio esisteva un girone infernale apposito. Scosse la testa con veemenza, ”cos’era quella specie di film vivido che ho visto nella mia testa? Sono impazzita, non è così, Rem? Oppure questo è solo un sogno. Forse sono ancora appoggiata addosso a Riley sulla spiaggia, dev’essere così.” strinse più forte la presa sulla mano di lui che non aveva mai lasciato la sua, era come se la sua pelle le trasmettesse un eco di pace a cui stava diventando assuefatta. Era sempre così con Rem, ogni volta che lo vedeva si drogava di lui e della sua presenza, più sentiva di dover scappare e più si sentiva gravitare verso il suo corpo.
    ”Lys vuole la tua felicità, Max, lo sai meglio di chiunque altro. Lei ti appoggerebbe, e Dio perdonerebbe la tua scelta in quanto atto d’amore. Di questo si tratta, lo sai anche tu.” il suo sguardo chiaro era dolce, come un’onda leggera che s’infrange a riva sui piedi dei bagnanti. Non aveva mai visto quel tipo di luce in lui, c’era qualcosa di strano nella leggerezza della sua voce, la ricordava diversa, corrosa dalle cicatrici della sua vita difficile.
    ”E tu mi ami, Rem?” lo chiese a bruciapelo, mentre puntava il pugnale verso il suo petto fino a sfiorare lo sterno con la punta gelida. Se doveva rinunciare a vivere, voleva essere certa che lui avrebbe camminato al suo fianco per l’eternità. ”Che domanda sciocca, Love. Certo che ti amo.” non glielo aveva mai sentito dire con così tanta facilità, quelle parole che sognava di sentirsi ripetere ogni giorno della sua vita, erano un campanello d’allarme. Il suo corpo s’irrigidì tutto d’un tratto. Rem non le avrebbe mai confessato i suoi sentimenti a quel modo, quel ti amo aveva lasciato le sue labbra con una semplicità disarmante. Finalmente Max sciolse la presa dalla mano di lui, cercando di allontanarsi, ma non riusciva a trovare l’uscita dalla casa sull’albero. ”Tu non sei Rem, DOV’E’ LUI? Che cosa gli hai fatto?” più si dimenava e più i contorni della casetta sbiadivano, quello doveva essere un incubo, non era la realtà. ”Fammi uscire di qui, devo cercare Lys e il vero Rem! Tu cosa diamine sei?” lo spinse via con le mani, ma passarono attraverso alla figura dell’uomo. Le parole le si gelarono in gola, il suo corpo tremava leggermente per la paura e per la confusione. La casa sull’albero si faceva sempre più sbiadita finché non sparì del tutto. Sotto i suoi piedi di nuovo le caselle bianche e nere della scacchiera. Max si guardò attorno e vide altre persone poco distanti da lei, riconobbe immediatamente Bella e Beat, mentre non riusciva a dare un nome al giovane dai capelli chiari. Fece per avvicinarsi agli altri, ma con la coda dell’occhio notò che il lupo dal manto nero era di nuovo al suo fianco. Era tutta opera sua? Non aveva tempo per ragionare su cosa fosse vero e cosa no, anche gli altri erano finiti nella stessa illusione che aveva catturato lei per tutto quel tempo. Vedeva le loro bocche muoversi come pesci sott’acqua, non poteva sentire le loro parole, era come se qualcuno avesse inserito il tasto muto. Vedeva i loro movimenti lenti e ristretti in un piccolo spazio, come se si trovassero in uno scenario più delimitato. Cosa poteva fare per aiutarli tutti? Rischiava di arrivare troppo tardi a svegliarli uno per uno, doveva esserci un modo per raggiungerli tutti allo stesso tempo. Improvvisamente ebbe un’idea, ”Svegliatevi! Non è reale!” gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Si accucciò a terra poggiando entrambe le mani sul pavimento, socchiuse gli occhi e visualizzò la vibrazione che scuoteva il suo corpo da quando era scappata dalla casa sull’albero. Vide dapprima una linea retta arancione, poi iniziò a muoversi sempre più velocemente seguendo il ritmo e il tempo della vibrazione che le attraversava la spina dorsale. Riaprì gli occhi e spinse con forza i palmi al suolo, riproducendo quel tremore a terra amplificandone l’intensità più che poteva. Improvvisamente l’intera scacchiera venne smossa da una scossa di terremoto, alcune delle pedine rotte iniziarono a spostarsi involontariamente a causa delle oscillazioni del sottosuolo.
    ”Svegliatevi, vi prego!” Max non lasciò andare la presa finché non fu certa che gli altri fossero fuori dalla loro visione. Vide qualcuno cadere a terra, altri reggersi a malapena sulle proprie gambe. Era tutto confuso anche per lei, sperava solo di averli raggiunti in tempo per evitare che facessero la fine che lei aveva scampato per un soffio. Il destino le aveva offerto un pugnale per recidere il filo della sua vita in cambio della felicità eterna, era stata tentata, ma poi aveva capito che non era altro che un inganno. Essere felici per sempre equivaleva a non vivere, a non sentire, a non essere più se stessi. Era un prezzo troppo alto da pagare. ”Svegliatevi!” gridò ancora una volta, lasciando che la scossa di terremoto diminuisse gradualmente. Si sentiva spossata per aver utilizzato il suo potere, cadde in ginocchio con le mani a sostenere il peso del proprio corpo provato. Sperava di aver spezzato, così, l’illusione della felicità eterna.
     
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    Bellatrix Josephine Doyle | '88 | Politician | sheet
    No, il lupo non era affascinante. La reazione di Bellatrix alla sua vista era bastata per lei, a farla sentire titubante a riprovare a guardarlo di nuovo. Aveva evitato lo sguardo della bestia finché non era stato il lupo a piazzarsi di fronte a lei. Si costrinse a non guardarlo negli occhi ma le fu impossibile schermare qualsiasi altro senso alla percezione terribile che esercitava in lei. Le parlò, ma nulla fu detto e lei non sentì alcun suono, ululato, o voce provenire da lui. Un'eco lontana riecheggiò nella sua mente, prima di arrivare nitida e distinta ad esercitare in lei la volontà di seguirlo. E così fece.
    Si mosse lentamente, con l'intento incredulo di seguire il lupo sulla spiaggia. Abbandonò il posto riparato che aveva trovato con Egon poco prima, la figura dell'uomo non era più visibile e lei non riusciva a distinguere da nessuna parte la sua presenza attorno, nemmeno a diversi metri di distanza. Così con lui erano anche sparite le scarpe che aveva poggiato via, scalzato e messe in mano a lui, e che lui aveva riposto da parte, così come assieme era sparita Astrid, la misteriosa accompagnatrice e il resto delle figure danzanti, festose, inebriate della popolazione di Besaid disposte attorno e sopra ai carri della festa di fondazione. I rumori non erano cessati. Le arrivavano confusi, come quando apriva una conversazione al telefono e non impostava il suono in vivavoce, dimenticando di aver lasciato la connessione attiva con gli auricolari. Un ronzio diffuso e suoni ovattati, come quando metteva la testa sotto l'acqua nella vasca da bagno per non avere il tempo di stare dietro ai suoi pensieri e lasciare soltanto che le cose scivolassero attraverso, come la schiuma del detergente sul suo corpo. Era una constatazione fatta e finita: non sapeva se aveva voglia di tornare a sentire cosa stesse accadendo. Dopo essersi voltata attorno e aver scoperto che poteva ancora sentire e vedere la spiaggia, le dune ed il paesaggio attorno a lei, dipinto esattamente come prima che si manifestassero le stranezze, ma solo e soltanto la figura del lupo, avvertì che non aveva altra scelta se non quella di passeggiare con lui. E allora cominciò a camminare.
    Con il ronzio fisso e suoni inesplicabili nelle orecchie non le restava altro che guardare la figura del lupo gigantesco che si muoveva producendo il minimo rumore nonostante la sua stazza, ed ascoltare i tonfi delle zampe affondare nei granelli di sabbia assieme all'eco che producevano i suoi. Il tintinnio delle catene che legavano le zampe anteriori dell'animale cadenzava i loro passi e si alternava al suono ritmico che producevano le onde del mare alla sua destra mentre si infrangevano sul bagnasciuga. Lo specchio d'acqua si distingueva come una macchia oscura di cui in effetti Bellatrix non riusciva a vedere nulla, se non il limitare della spiaggia alla riva che veniva scoperto e coperto dalle acque, facendo rotolare ciottoli appena distinguibili, e alghe filamentose che si contorcevano venendo smosse. Tante piccole chiazze che andavano a spuntare nel suo campo visivo riempiendone i contorni e dandole un senso di qualcosa di percepito e conosciuto.
    Mano mano che avanzava, con gli occhi fissi sulle spalle della fiera, cominciarono a deviare il loro sentiero allontanandosi dalla riva per percorrere il tratto più lontano dalla sabbia fine e giungere al terriccio che si mischiava ai ciottoli granitici e ai sassi rovinosi del terreno meno bagnato e sul percorso più irto. Aveva i piedi scalzi ma non sentiva così male come avrebbe invece immaginato al transito tra il terreno soffice e quello impervio. Bellatrix abitava oramai a Besaid da molto tempo, ma non aveva mai avuto un grande senso dell'orientamento in tutta la sua vita. Non c'era nulla che si stagliava attorno a lei tale, conosciuto, da ricordarle qualcosa che potesse ricondurla a dove fosse, e dove si stessero dirigendo. Stavano abbandonando la zona ovest della città che sapeva sua, conosciuta e rassicurante, e con essa la spiaggia ed il piccolo frammento delle cose a cui avrebbe saputo dare un nome per quella serata.
    Le sagome di un bosco di pioppi si stagliarono davanti a lei prima che potesse scorgerne l'avvicinarsi inesorabile ai tronchi ritti e altissimi e alle fronde antiche e folte che si intrecciavano tra loro facendo perdere i contorni tra quello che era un albero e i rami di quello che vi erano accanto. Il sottobosco la avvolse e la circondò, soffice sotto ai suoi piedi come cotone sulle foglie fresche della primavera che cominciava a rinascere. Anche i suoni cambiarono. Era un suono cupo, rimbombante, che cominciava a far tremare la terra ed inviare ai sensi offuscati di Bellatrix vibrazioni che la scuotevano e sembravano minacciare di farla ripiombare nel senso di terrore che l'aveva accolta quando aveva visto il lupo. Si fermò. Osservò il cielo notturno, illuminato dalla luce fioca dei contorni di un eclissi che sagomava il cielo di un cerchio infuocato che all'interno racchiudeva un nero assoluto, qualcosa che non aveva mai visto su nessun indumento indossato e nessun colore di cose e oggetti esistenti altrimenti in natura. Il bosco di pioppi dal basso adesso sembrava mostrarle i rami che tendevano verso l'alto e le fronde si muovevano scosse dal vento che aumentava di intensità, arrivando a smuoverle i capelli che aveva lasciato sciolti sulle spalle prima di vedere il lupo.
    Altri rumori arrivarono a lei, assieme al suono del vento che si scontrava con le sagome delle entità che cominciava a sferzare con i suoi colpi. Le rimandava l'eco di rametti spezzati, di foglie scostate e calpestate con un vigore che si è fatto più forte man mano che la sua coscienza acquisiva come dato di fatto di essere seguita.
    Si fermò, e ricominciò a muovere pochi passi, per poi fermarsi di nuovo. Sentì distintamente il rumore di foglie schiacciate alle sue spalle, ogni volta che si fermava e riprendeva a camminare. Qualcosa la stava davvero seguendo.
    Ritornò a guardare la figura del lupo davanti a lei, per sentirsi stavolta invasa dalla consapevolezza che il lupo si fosse voltato indietro in sua direzione per aspettarla, e il muso che le mostrava aveva una espressione sofferente e consapevole e misteriosa: gli occhi della bestia erano vitrei, ed oscuri e specchiavano la figura di Bella. Dietro di lei specchiata nei suoi occhi una figura dalle sembianze umane nera del colore dell'eclissi del nero assoluto. Le ombre dei rami su di loro si allungarono come plasmate d'elastico vivo, inseguendo gli ultimi raggi della luna morente, di quel cerchio di fuoco che aveva scorso nel cielo, mentre il suo cuore accelerò disordinatamente il ritmo dei suoi battiti. Non si voltò. Cominciò a correre.
    I suoi passi diventarono veloci, da brava corritrice che era sempre stata. Il lupo si lanciò nella corsa avanti a lei e così anche la figura alle sue spalle cominciò a correre, lo sentiva distintamente assieme al suono che le rimandava il fruscio del suo corpo in movimento, che si tendeva in avanti e faceva scattare i muscoli delle braccia e delle gambe in un inseguimento a tre che non poteva sapere dove l'avrebbe condotta, e quando sarebbe terminata. Il vestito che indossava Bella non era fatto per correre: aveva il tessuto libero e leggero del raso lasciato più ampio della circonferenza del torace e dei suoi fianchi, e per un pò tenne prima di cominciare a cedere. Si voltò appena dietro di sé per guardare lo strascico strapparsi, pezzi dei fiori colorati sul raso impalpabile cominciarono ad essere lacerati ed abbandonati sul terreno, brandelli di stoffa che il vento avrebbe portato a vorticare dietro di lei, verso la figura che la rincorreva. Per un pò riuscì a sentire il suo corpo in sintonia con la corsa, le gambe lunghe che sferzavano impavide il terreno sottostante sbriciolando il muschio e le foglie ed il fango umido. Ma aveva bisogno di andare più veloce.
    Portò le mani sulla coda del vestito sul retro cercando di separare la parte del tessuto che la imbrigliava e la teneva stretta senza permetterle di compiere falcate più grandi, e nel farlo, non guardò di fronte a sé una radice contorta che si estendeva a mezz'aria, in parte sommersa e in parte emersa dal terreno, arcuandosi a formare un ostacolo che non poté saltare. Inciampò, e cadde a terra producendo un tonfo rumoroso che stavolta il suo corpo sentì, con dolorosa nitidezza. Accusò subito la caduta sul fianco sinistro e portò le mani sull'addome istintivamente. Si accartocciò su se stessa, affondando nel fango e percependo il freddo del ritrovarsi bagnata e sferzata dal vento gelido che aumentava di intensità. Quanto inaspettata fu la caduta così fu inaspettato l'esito della corsa. Il cuore cominciò a batterle all'impazzata, e le mancò l'aria, come se l'intero globo terrestre avesse cominciato a pesarle sui polmoni. Si voltò subito accucciandosi con la schiena contro al terreno umido, e ascoltò i rumori dei passi veloci della figura che la inseguiva giungere più vicino, finché, prima che le fosse possibile distinguere a chi appartenesse la figura oscura, il lupo che si era lanciato di fronte a lei a farle strada prima fronteggiò il suo aggressore balzandole davanti, e ululò un latrato atroce e acuto. Il ronzio che aveva nelle orecchie si fermò, così come i passi che l'avevano inseguita. Bella si fece forza sui gomiti guardando attraverso le zampe e il pelo del lupo e quando riuscì a guardare oltre la sua pelliccia non vide nulla se non la strada a ritroso che aveva appena percorso. Anche il vento cessò di sferzare lasciando il posto ad una brezza leggera che si sostituì rapidamente ad esso, continuando a viaggiare da est verso ovest, verso il mare, oltre il bosco che stava attraversando. Il lupo si voltò a guardarla e stavolta vide i suoi occhi e le pupille che si contorcevano nelle iridi canine chiare, e capì che almeno per il momento il pericolo era passato.
    Si rialzò a fatica, ricoperta dal fango con il vestito lacerato. Le fu chiaro che il fianco le avrebbe fatto male, amche se non poteva sapere l'entità del danno che aveva subito. Seppe invece con la stessa certezza che non aveva altra strada a quel punto da percorrere se non proseguire dove il lupo la stesse portando. E quando ne fu consapevole lei lo comprese anche il lupo, che era immensamente più grande di lei, e non avrebbe fatto fatica a portarla con sé. Il lupo si accovacciò a terra, e non le sembrò più così minaccioso. Fece un lungo respiro e si rannicchiò contro il pelo dell'animale salendogli in groppa. Il lupo si rialzò con Bella sopra di lui e cominciò ad avanzare in una corsa a falcate ampie, lasciando alle loro spalle il fitto del bosco.
    Bellatrix cominciò a sentirsi stanca e sopraffatta, ma la stessa paura che aveva provato cominciò inspiegabilmente a tramutarsi in curiosità, con la stessa consapevolezza con cui aveva accettato in passato in diversi momenti della sua vita di sentirsi così come doveva e non doversi per forza tormentare per quello. Non le era chiaro perché, ma sapeva che avrebbe dovuto affrontare altro. E perciò cercò di rimanere vigile, occhi aperti, mani salde al pelo del lupo che improvvisamente era diventato molto più pulito di come si era ridotta lei. Guardò in avanti, arrivare lei e il lupo oltre il limitare del bosco, man mano che il cielo oscuro si apriva sopra di loro e gli alberi smettevano di produrre suoni intrecciando le fronde mosse dal vento adesso più calmo. I passi del lupo cominciarono a divenire pesanti e le falcate meno ampie, e sotto di loro si aprì un sentiero che cominciò a tramutarsi in ciottoli che li condussero su una strada di una cittadina fantasma. Fu il lupo a suggerirglielo, di nuovo, senza comunicare a parole con lei ma come se fosse stato lui a riverarglielo. Kaigaten. Si chiamava così.
    Era un quartiere che apparteneva alla Besaid che non conosceva. La natura aveva preso il posto di qualsiasi cosa potesse opporsi al suo cammino, e non c'era traccia di nessuna cosa vivente a parte essa. Gli edifici bassi del tipico stile norvegese e le facciate colorate poste a schiera le une accanto alle altre erano ricoperte d'edera, che aveva minacciosamente ricoperto i perimetri di tutto ciò che aveva conquistato. Non aveva risparmiato le finestre, gli ingressi delle abitazioni, e i lampioni posti ai lati delle strade, così come aveva ricoperto gli altri alberi che i cittadini in passato dovevano aver posto volutamente al limitare dei vicoli per decorarne l'aspetto. Proprio quelli, l'unica cosa che avevano potuto, sembrava fosse stato estendersi e crescere al di là delle potature imposti dagli umani, intricandosi in rami nodosi ed espandendo le radici sul terreno, atte a tendere verso l'alto e a rescindere l'asfaltatura delle stradine. Le crepe nel terreno fatto di radici si estendevano a perdita d'occhio in vari punti, oltre il sentiero che lei e il lupo stavano attraversando, fino ad aprirsi in quella che in un primo momento le sembrò la pavimentazione della piazza del quartiere, e che poi si manifestò a lei in tutto lo splendore di una vera e propria scacchiera a grandezza umana.
    Il lupo si fermò. Bellatrix capì che era arrivato il momento di avanzare sola. Mise un piede dopo l'altro sui tasselli della scacchiera, lasciando il fianco della bestia, un piede sulla lastra bianca e uno su quella nera, dirigendosi verso il centro della scacchiera. Il dolore al torace si era fatto muto e lei non sentiva più male nel procedere lungo il cammino, come se il dolore fosse stato messo in pausa ma fosse lì presente pronto a farsi beffa di lei in un futuro vicino. I piedi imbrattati di fango e sangue cominciarono a ricoprire di chiazze le lastre, e man mano che posava un piede e lo risollevava per avanzare cominciava a vedere le impronte spostarsi con lei, e così allo stesso modo, la scacchiera cominciò a riempirsi di chiazze che avanzavano verso di lei e scomparivano per poi ricomparire più avanti. Impronte e schizzi di sangue che non erano suoi. Ansimò, senza rendersi conto di cosa stesse guardando davvero. Cercò con lo sguardo la figura del lupo dove l'aveva lasciato, ma non lo trovò. L'inquetudine cominciò a montarle dentro il petto quando avvertì nuovamente il rumore di passi che si avvicinavano verso di lei. Si bloccò, guardandosi intorno da una parte all'altra, voltando il viso in direzioni opposte. Così come in un primo momento non erano visibili, adesso, con lei al centro della scacchiera, le fu possibile vedere tutti i pezzi di cui si componeva una scacchiera come si doveva, sparpagliati lungo le lastre, alcuni pezzi ritti e solitari, altri posti ai lati delle piastrelle dipinte accasciati lungo il terreno. Mosse pochi passi in direzione dei pezzi, spinta dalla curiosità di comprendere ciò che non stava capendo. Era come guardare i resti di qualcosa che era già compiuto, i pezzi erano disposti come se la partita fosse stata già giocata. Bellatrix avanzò verso il pezzo che riconobbe, non appena si stagliò nel suo campo visivo. Tese la mano verso la figura coricata del Re Bianco della scacchiera sfiorando con i polpastrelli la superficie porosa dell'oggetto. Il pezzo era disposto sul lato, ricoperto da chiazze scure che comprese a quel punto con una consapevolezza non sua, essere sangue di chi era passato prima di lei. La partita era stata vinta e persa. Ma da chi?
    « Il Re non può continuare senza la sua Regina. » Si voltò in direzione della voce, sapendo già a chi appartenesse. Avevano condiviso nove mesi nello stesso grembo, sentire la sua voce era come sentire la sua fatta di un altro timbro, ma pur sempre parte di lei. La figura di Vega si manifestò a lei, bellissima in un vestito bianco, con un plissé lungo fino ai piedi. « Ma tu questo lo sai già non è vero? » « Si, è vero. » Sentì lei stessa mormorare. Entrambe seguirono con lo sguardo ai margini della scacchiera la figura della Regina Bianca, ritta, pulita, oltre il bordo delle piastrelle che sanciva chi era già fuori dal gioco. « Quindi la regina è stata mangiata. » Sussurrò, e poi la sua voce si spense, e così Vega le andò vicino, prendendole una mano nella sua. Cominciarono a camminare insieme lungo le piastrelle, ponendo i loro piedi uno accanto all'altro. « Cosa ti è successo? » Mormorò Vega, indicandole il vestito strappato e lei sporca di fango dalla testa ai piedi. Bella si fermò, notando che il sangue che aveva addosso era impiastricciato a tutto quello che aveva incontrato nel bosco: foglie e rametti e qualcosa di non ben identificato. Si sentì misera e sporca e bruttissima. « Non lo so. » Poi dopo un pò guardò meglio la sorella, nel suo vestito pulito e perfetto. « Qualcuno mi stava inseguendo. Tu sai chi era? » Mormorò, stringendole più forte la mano. Sua sorella sapeva sempre tutto di lei, le leggeva dentro e capiva quando qualcosa non andava. Era per quello che aveva pensato che lei avrebbe dovuto saperlo. « Si, ma non posso ancora dirtelo. » « Perché? » Ma la sorella non rispose, e l'abbracciò. Così i contorni di quello che vedeva sfumarono e si ritrovò nella stanza che aveva imparato a conoscere molto bene quando erano bambini e non avevano nulla. Avanzò nella stanza e si trovò ai piedi del letto che condividevano le gemelle, quello in cui tutti e tre si accucciavano quando le piccole avevano paura del buio. Aveva di nuovo la mano in quella di Vega, che era diventata bambina, ma lei era ancora adulta. Aveva in mano delle bambole, le uniche che i genitori avevano comprato loro molti anni addietro, in un periodo in cui le le due erano più accondiscendenti e le cose si erano momentaneamente messe meglio economicamente. Poi sarebbe tornato tutto come prima, ma a quel tempo non lo sapeva. Quelle bambole erano tutto il loro mondo, e loro si divertivano tantissimo a giocare con loro, che erano sorelle anche nella finzione. « Eravamo così felici. » Si chinò, sedendosi, guardando la Vega bambina che non avrà avuto più di sette anni ed aveva un sorriso dolcissimo dipinto tra le guance paffute. « Dovremmo rimanere così. » Sussurrò Vega, porgendole una bambola di quelle che aveva tra le mani. La bambola di Bella si chiamava Margaret, quella della sorella Elizabeth, come le due sorelle di corte, la regina e sua sorella, Maggie e Lilibet. Erano sempre state due bambine consapevoli del loro status, ma a loro piaceva fantasticare di tante cose e ogni tanto si perdevano in mondi che non le appartenevano come se fosse naturale farlo. Cominciò a giocare con Vega, inventando una storia immaginaria con la sorella. Poi si guardò allo specchio della camera, l'unica cosa veramente bella che era in camera loro a parte il soffitto che avrebbero dipinto i tre negli anni a venire, e si guardò adulta e sporca con il suo vestito imbrattato. « Ma io non sono più una bambina. » Si voltò verso Vega quasi volesse chiederle qualcosa, ma poi si scordò cosa voleva dire. Posò invece lo sguardo sulla figura di Sirius, che aveva preso il posto di quella di Vega, che sembrò invece essere svanita. Era vestito in un completo bianco, cosa insolita, volle dire il suo inconscio, ma non si ricordò bene perché. Come si vestiva di solito? « Ti sono mancato? » Disse lui, cominciando a ridere. Anche Bella si mise a ridere, il suo fratello aveva sempre avuto il dono di far ridere tutti e di far passare i momenti cattivi in un niente, era sempre il sole dopo la tempesta. « Siamo cresciuti vero? » Mormorò Bella, guardandosi intorno e rendendosi conto che era ancora sulla scacchiera imbrattata di sangue. Sentì se stessa piangere, e stropicciò le mani sul viso per scacciare via le lacrime. « Era così bello quando eravamo piccoli. » Bella cominciò ad avanzare, e passo dopo passo arrivò al margine della scacchiera. Cominciò a guardare il pezzo della Regina Bianca abbandonato oltre il margine. « La partita è finita e qualcuno ha vinto. » Sentenziò lui. Le indicò il pezzo del Re Bianco coricato. « Il Re non può continuare senza la Regina. » Ripeté lei, la frase che aveva detto Vega prima. « Quindi al Re non è stato mosso Scacco. » « No, il Re si è arreso. Perché la Regina è stata mangiata. » Ripeté lui. Tornò a sorriderle, e le riprese la mano che Vega aveva lasciato. Fecero un pò di passi lungo il limitare delle piastrelle insieme, poi Bella tese una mano come a voler sfiorare il pezzo della Regina in piedi al limite, ma incontrò qualcosa. Si bloccò, portò la mano indietro e tornò a tastare una superficie invisibile che la racchiudeva tutt'attorno, tutto il contorno della scacchiera, disse una vocina consapevole in lei. Guardò Sirius come a volergli porgere una domanda muta, e poi i contorni sbiadirono di nuovo e si ritrovò a Dublino, e ricordò distintamente il giorno in cui Vega lavorava lei aveva raggiunto il fratello all'università prendendo il bus da Howth e raggiungendolo nel pub vicino al College. Lei era ancora una ragazza, ma le due sorelle ne inventavano una più del diavolo, ed avevano già i loro ID contraffatti, e le figure snelle e cresciute le avevano fatte sembrare adulte prima del tempo. Era seduta al bancone, e Sirius l'aveva raggiunta abbracciandola alle spalle. « Ecco a te, una sola sennò rischio la galera. » E nel frattempo tirò fuori da dietro le spalle un boccale di birra media per sé e la sorella. Cominciò a bere con la schiuma che le solleticava il naso e la faceva ridere, quella che era in effetti stata la prima birra della sua vita. « Dovreste tornare più spesso. » Disse lui, perdendosi nel racconto delle lezioni del giorno, e fantasticando con la sorella nel momento in cui sarebbero state grandi per andare all'università e lui avrebbe mosso i primi passi nella sua carriera. « Dovremmo rimanere così. » Sentenziò. E quella frase le sembrò la stessa appena pronunciata da Vega, ma non ricordava più quando. Anche quello era un bel ricordo. Ne avevano passate tante insieme ed erano stati felici. Perché non poteva tornare al passato?
    Di nuovo fu circondata dalle lastre della scacchiera. Stavolta Vega si avvicinò a lei, indicandole un punto in alto sopra al pezzo degli scacchi del Re Nero, dove era attorcigliata una corda. « Possiamo tornare come a tanto tempo fa. Eravamo solo noi, e andava bene così. Torniamo a casa. » Sussurrò, dolcissima. Bella si avvicinò al pezzo degli scacchi Nero, tendendo la mano verso la corda. Salì il gradino posto alla base della grande pedina per raggiungere meglio la corda tesa dalla sua corona. L'afferrò e la strinse forte tra le mani, come a distinguerla da una cosa reale e irrreale. Le sembrò strano e difficile da capire, ma sembrava che era molto chiaro l'uso che doveva fare di quella corda. Possibile che sua sorella ne fosse convinta? Alzò gli occhi e stavolta incrociò la figura di Sirius, che le annuì sorridente. « Va tutto bene. Non succederà nulla di male. Sarà bello tornare indietro. » Bella tornò a guardare la corda, la figura del Re Nero. Se il Re Nero era ancora in piedi magari voleva dire che la sua Regina non era stata mangiata. O semplicemente non aveva scelto di arrendersi. Bella roteò gli occhi di nuovo ai margini della scacchiera per cercare la figura della Regina Nera. Al suo posto rivide la figura che, capì, l'aveva inseguita fino a quel momento. Era lei, vestita e ripulita di tutto punto, bellissima, e sì, vestita di nero dalla testa ai piedi. Era sempre stata lei il suo peggior nemico, la figura da cui rifuggiva. Mosse un passo in sua direzione e poi un altro, avvicinandosi a lei sulla scacchiera, oltrepassando la barriera trasparente come se non ci fosse. Il ronzio che era cessato prima tornò e si fece più acuto man mano che la Bellatrix Nera si avvicinava a lei. Strinse meglio la corda tra le mani poggiandosela intorno al collo. Avevano ragione i suoi fratelli, poteva tornare a come era prima di vivere sotto la lente di ingrandimento e schiacciata dalle sue aspettative. Anche il dolore al fianco tornò a farsi sentire, e lei cominciò a far oscillare lo sguardo tra le sue mani, e l'altra Bellatrix che avanzava. Poi una vibrazione sul terreno la scosse, e scosse anche la sua altra sé. Ancora, e un'altra e un'altra. Si guardarono entrambe intorno, non vedeva più nessuno dei due fratelli, ed era pericolosamente in bilico vicino al Re Nero con la corda intorno al collo e il piede sul gradino alla base. « Svegliatevi! Non è reale! » Sentì una voce gridare come se fosse lontanissima. Si guardò intorno, guardò di nuovo le sue mani sulla corda e sospirò, a quel punto piena di consapevolezza, come se avesse ricevuto uno schiaffo in pieno viso. Neanche lei si arrendeva. Slacciò il nodo della corda e la lasciò roteare attorno alla figura della pedina, saltando oltre il gradino del Re in perfetto equilibrio sui suoi due piedi. Si ritrovò al di là della piastrella sul quadrato nero, guardò la figura della sua nemesi con il suo volto e guardò il Re Nero sulla piastrella bianca. Anche i pedoni possono diventare regine se riescono ad attraversare tutta la scacchiera, e la regina è già stata mangiata. E se lei era solo un pedone allora e non c'era altra possibilità per il Re di muoversi significava solo una cosa. « Scacco matto. » Sussurrò ironica. No, quello che stava vivendo non era reale per davvero. I contorni sbiadirono di nuovo. Spuntò veloce la figura del lupo accanto a lei che ululò prima di sparire e così sparì ogni traccia di dolore e il vestito di Bella tornò integro e la sua nemesi scomparve. Si guardò attorno, e riconobbe la figura di Max accartocciata su se stessa che urlava di svegliarsi e la figura di un uomo biondo che non conosceva lì sulla scacchiera con lei. Le scosse di terremoto non erano ancora cessate, e alcuni dei pezzi della scacchiera lì intorno a loro sembravano muoversi e sollevarsi tutt'attorno a loro. Ma Bella non aveva usato il suo potere, quindi dovevano essere stati gli altri due ad esercitare il loro dono. Guardò alla sua destra scorgendo il corpo di un ragazzo riverso a terra. Si avvicinò a lui riprendendo consapevolezza della sua volontà e della sua forza e si inginocchiò accanto al ragazzo steso, portando le mani sul suo volto per accertarsi che stesse bene.
    Bella urlò: il ragazzo era Beat.

    io che posto in orario lavorativo like: :interessante:
     
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    Leo Wagner|28 y.o.|Soldier from the WW2| eclipse

    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [guerra o eventi/momenti storici drammatici e traumatici (Seconda guerra mondiale. I temi non vengono trattati nello specifico, ma in base al suo background, il pg ragiona e si comporta come un reduce di tali eventi. La player si dissocia da qualsiasi esaltazione di ideologie obsolete o disturbanti).].
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.
    Le azioni descritte non sono ad ogni modo condonate e sono diretta responsabilità creativa di chi ha realizzato tali contenuti.


    Lupo


    Guidava il branco, il lupo solitario che si avventurava tra le fronde. Come un condottiero errante, un ramingo apparso tra la folla senza sfiorarla. Le possenti zampe calpestavano il fogliame secco, silenti, guidate da una volontà influenzata dall’effimera luna che compiva il suo percorso innanzi al sole. Era come vivere in un sogno. Non sembravano reali, i passi che Leo muoveva seguendo quella creatura. Non sembrava la sua la volontà che lo spingeva a farlo. Perché il soldato senza gloria si sarebbe posto delle domande, almeno. Aveva già seguito qualcuno alla cieca, una volta. L’aveva fatto una nazione intera. Obbedire senza dubbi non portava mai a nulla di buono, questo l’aveva imparato sulla propria pelle. Eppure tutto sembrava ripetersi, sotto altre forme, reincarnarsi come un ciclico karma.

    Emozione. Il suo cuore batteva all’impazzata, come quello dei suoi commilitoni, mentre tutti schierati col braccio alzato attendevano l’arrivo di una sola persona. Colui che smuoveva gli animi, che aveva regalato loro il riscatto. Colui che con la sua arguzia avrebbe conquistato il mondo intero, e l’avrebbe unificato sotto un’unica bandiera. Colui che avrebbe purificato il modo dando inizio a una nuova era. Attendevano tutti, come se quello fosse il giorno del giudizio. Il cuore batteva all’impazzata, come se quello fosse il giorno più bello delle loro vite. Il silenzio regnava sovrano, mentre la tromba intonava l’inno dell’unico partito, mentre un paio di automobili sfrecciavano precedendo quella che lenta passò in parata, portando sul sedile posteriore il simbolo di quella gloria, e della successiva decadenza. Un uomo minuto, che non avrebbe incusso timore nemmeno a un bambino, per la sua stazza. Era stata forse la sua follia però a piegare anche l’animo più forte. Tutti, in Europa e oltre oceano, temevano quell’omino dalla bassa statura e dal volto quasi simpatico. Perché Adolf Hitler, attraverso la paura, aveva conquistato il mondo intero.

    Provava la stessa tachicardia, quella che preannuncia un incontro col destino, mentre trepidante seguiva il lupo nel bosco. Non aveva paura, l’esule, non ne aveva mai avuta. Forse un paio di volte, ma per un giustificato motivo. Non era quello il momento di avere timore. Non c’era un nemico di fronte a cui arretrare, adesso. Guardò le persone che il lupo aveva condotto lì con lui, prima ancora dello scenario. Un uomo, due donne. Cavalieri erranti condotti lì da una maledetta eclissi, reduci di una guerra che doveva ancora verificarsi. Poi le iridi color del grano acerbo si posarono su ciò che aveva davanti. Caselle nere e bianche, su cui sussistevano macerie di statue che sembravano scacchi. Come echi, voci di persone sembravano librarsi nell’aere, grida, singhiozzi, colpi. A volte ne sentiva di simili, nelle sue allucinazioni. Erano più forti i rumori, più disperate le voci. Ne aveva vista tanta di agonia, quel soldato di Rothenfels.
    ”Non lo so”. Rispose alla donna che si chiedeva dove fossero. Sembrava un campo di battaglia, quello, uno di quelli su cui aveva camminato un tempo, mentre il grande esercito marciava sulle città, mentre calpestava libertà e diritti. Come in una partita a scacchi, qualcuno lì aveva deciso il destino di altri. Tutto era sempre riducibile a uno stupido gioco, in cui gli esseri umani erano le pedine.
    Inquietudine.
    Permeava ogni cosa, ogni atomo della materia, ogni fibra del suo corpo. Era l’inquietudine di qualcun altro, quella, una memoria passiva di ciò che era accaduto in quel luogo. Un tipo di inquietudine che aumentava ad ogni passo lento che muoveva, ad ogni crepitio delle macerie sotto alle sue scarpe. Ogni tanto la coda del lupo faceva capolino, si muoveva tra quei pedoni abbattuti, dietro la testa mozzata del cavallo, oltre il rudere della torre. Passò di fianco a due pedoni, uno bianco e uno nero, un tempo affrontati ed ora riversi a terra. Ed oltre essi, come un giocatore che attendeva la mossa dell’avversario, qualcuno attendeva la sua mossa.
    Sorrise, lui, e Leo si sentì mancare.

    Lo stesso ghigno furbo, la stessa sigaretta spenta portata in bocca. Portava una camicia a quadri, quella che riservava ai momenti in cui si fingeva che la guerra non esistesse. Le sue iridi color del ghiaccio sembravano tanto vive da fare male. Ernst Wagner lo attendeva, su quella scacchiera, come il giorno del giudizio.
    ”Che espressione affranta, Peters!”
    Rise, lui, riaccendendo la sigaretta e mettendosi una mano in tasca, prima di iniziare a camminare girando intorno a quelle macerie. Leo, invece, non riusciva a muoversi, a respirare, ad emettere suono alcuno. Era come se la sua particolarità avesse iniziato a funzionare al contrario, come se fosse riuscito ad annullare se stesso invece che tutto il resto. ”Ernst”. Pronunciò quel nome con un filo di voce, quasi col timore che egli avrebbe potuto volatilizzarsi, se solo il destino avesse scoperto che era lì. ”Tu sei…? Aveva paura di dirlo. Un timore che manifestò somaticamente, mentre il suo cuore prendeva a battere ad un ritmo incontrollato. Doveva essere un’allucinazione quella. O forse l’eclissi aveva compiuto il miracolo, forse il potere di Besaid aveva riaperto il portale. ”Morto? Reale? Entrambe le cose e nessuna delle due.” Parlava per enigmi, il suo fratello d’armi. La luce nel baratro più tetro. Non riusciva a muoversi, Leo. Abbracci, lacrime? Non erano cose da uomini. Non erano debolezze concesse a dei soldati. ”Sono presente in questo momento, in questo luogo. Non è abbastanza? Ti trovo bene.” Abbozzò un sorriso, di nuovo, mentre il compagno si sentiva sprofondare. Aveva sempre pensato che Ernst fosse morto lo stesso giorno in cui l’aveva salvato, o poco dopo. Non aveva trovato traccia di lui, tra gli archivi. Per quanto il mondo potesse saperne, Ernst Wagner era morto insieme a Leo Peters, durante la Seconda Guerra Mondiale. E una parte di lui, in effetti, era morta, rimasta ancorata ad Ernst anche oltre il tempo e lo spazio. Rimasta a farsi cullare dalle sue braccia mentre la vita scorreva via, mentre il cielo tetro si riempiva d’abbagli. Era rimasta a quella promessa, al sogno di tornare a casa insieme, di sentire il tocco delle spighe di grano, lo scrosciare dell’acqua tirata dal mulino, l’odore dei campi fioriti. La guerra non era mai finita, per quei due soldati. Si era solo interrotta, all’improvviso, una sera qualunque.
    ”Oh, andiamo Leo, non essere il solito orso, con me non attacca. Sono qui, per te. Non te l’ho mai promesso, ma l’ho sempre sperato nel profondo del cuore. Sapevo che un giorno ti avrei rivisto, che nel bene e nel male saremmo tornati a casa. Al mulino, alla casa oltre il fiume. Ai papaveri a primavera e alle urla della panettiera in paese. E sapere che ce l’hai fatta mi riempie il cuore. Sapere che sei andato avanti, e che ogni tanto mi pensi.” Fece cenno di avvicinarsi, e Leo lo fece senza esitare, a passo calmo, affiancandosi a lui. Passeggiavano, come i vecchi amici che erano. ”Non sto andando avanti, Ernst. Non ci riesco. Qui è…diverso. Casa nostra non esiste più, tutte le persone che la popolavano saranno morte. Quel sogno che ci ha tenuto in vita non è che un flebile ricordo. La guerra è finita, e non ci resta niente. Dovevi tenermi con te, Ernst, ti avevo chiesto solo questo. Ti ho chiesto di parlarmi di casa, di lasciarmela vedere un’ultima volta. Morire è terrificante, almeno quanto vivere una vita non tua…” Ernst aggrottò le sopracciglia, piegando la testa di lato.
    ”E’ a questo che è servito, dunque? A niente? Avresti preferito morire in quel sudicio angolo, piuttosto che vivere? Avresti preferito me, a tutto questo?” Sapeva dove Ernst volesse andare a parare. Aveva fatto di tutto per concedergli una seconda possibilità. Una vita nuova, lontano dalla guerra. Una vita in cui forse avrebbe potuto conoscere suo figlio, raccontare al mondo di ciò che mai più avrebbe dovuto verificarsi, portare la memoria di lui, ovunque si trovasse. Tutti aspiriamo ad essere ricordati, ed Ernst Wagner aveva deciso di farlo sfidando lo spazio e il tempo, ogni logica e ragione. Tuttavia Leo era troppo preso dall’averlo lì per pensare che non fosse reale, o di doverlo lasciare di nuovo. Un cenno della mano dell’altro lo indusse a posare lo sguardo su una boccetta che ben conosceva. Era merce di lusso, quella, spacciata a peso d’oro tra gli ufficiali in terra straniera. Un modo per non farsi catturare, per non subire la vergogna, o la fucilazione disonorevole. Una scappatoia Veleno. Una stretta allo stomaco precedette il suo rialzare lo sguardo verso l’amico. ”Una soluzione c’è. Ce l’aveva detto pure il Generale, ricordi? Basta un sorso. Sarà breve, come addormentarsi dopo qualche spasmo. Se è questo che vuoi, può essere reale. Il paradiso è reale, anche se non come ce lo immaginavamo. Niente nuvole bianche o angeli, niente donne velate lucenti. Ci sono solo le persone che hai amato, i riflessi dei luoghi in cui hai vissuto. Nel mio c’è il mulino, e il fiume. Ci sei tu che sposti il fieno e mi saluti con noncuranza. Ci sono prati fioriti in cui i nostri figli giocano insieme, o su cui ci stendiamo con un fiasco di vino ridendo di ciò che è accaduto. E’ un posto silenzioso, senza spari o grida, senza la puzza di morte che ti permea le narici, senza fuoco che brucia e devasta. Puoi averlo, se vuoi. Puoi restare con me adesso. Andare avanti non sarà meglio. Fermati in tempo, non proseguire. Ciò da cui siamo scappati può ancora accadere. Ciò che ti faceva urlare di notte, ricordi? Non viverlo di nuovo. Torniamo a casa.”
    Una lacrima rigò il suo viso. Era quello che voleva, ciò che gli mancava. Ernst, i loro sogni, la trepidante attesa della fine di quella logorante guerra. Non erano mai passati, gli incubi. L’odore di carne umana bruciata, l’assordante fragore delle bombe, il tonfo sordo di corpi che cadevano a terra, le risate dei suoi compagni, i passi cadenzati delle marce. Non era riuscito a lasciarsi alle spalle niente di tutto ciò. Prese la boccetta tra le mani, soppesandola. Era facile, non avrebbe fatto male come l’ultima volta. Lo ricordava, Leo, il terrore che si provava a morire, l’attaccarsi alla vita con ogni fibra del proprio corpo. Stavolta sarebbe stato diverso. Stavolta ci sarebbe stato Ernst dall’altra parte. E Rothenfels, e i papaveri. Eppure mancava qualcosa. Mancava il motivo di quel sacrificio e del precedente. Aveva promesso che avrebbe vissuto, anche per Ernst. Aveva promesso che avrebbe espiato le colpe di entrambi, e che per entrambi avrebbe visto il mondo nato dalla buia notte. Si avvicinò a lui, di qualche passo, con la morte nel cuore per ciò che avrebbe detto. ”Io volevo solo tornare a casa con te, e voglio ancora farlo. Ma tu mi hai dato tempo, mi hai permesso di respirare, di riprendere fiato. Sono pronto ad affrontare ancora la guerra, adesso. Siamo soldati, siamo addestrati a questo. A combattere fino alla morte. Come un muro di fuoco, ricordi?” Non c’era tristezza nel suo tono, solo rassegnazione. La rassegnazione di chi aveva compiuto una scelta dolorosa, in quel momento. ”Hai fottuto la morte e il tempo per me. Lascia almeno che possa portare a casa qualche trofeo. Aspettami, un altro po’.” Abbozzò un sorriso, avvicinandosi a lui. Non gli importava se qualcuno li avesse visti. Il mondo era degenerato dal 1944. Gli accarezzò una guancia, restituendogli quel bacio che Ernst gli aveva dato a un passo dalla morte. Non esisteva il tempo, non era mai esistito. Nemmeno si accorse di aver perso il controllo della sua particolarità, di aver negato la gravità lasciando che i pezzi degli scacchi fluttuassero in aria, o di aver annullato ogni suono riducendo tutto al silenzio. Una scossa di terremoto lo costrinse a staccarsi, ad indietreggiare di un passo. Era un’avvisaglia, quella. ”Ci vediamo a casa.” Gli disse, in un sussurro. Sapeva che quel limbo sarebbe venuto meno, lo percepiva. Percepiva quella scossa di terremoto come qualcosa di esterno. Tremava, ma non si pentiva della sua scelta. Aveva scelto la vita, quella che Ernst avrebbe sempre scelto per lui. Ancora qualche istante, ne sarebbe valsa la pena. L’amico sorrise, poi un colpo fin troppo famigliare lo costrinse a voltarsi. Uno sparo squarciò il silenzio. I pezzi frantumati caddero di nuovo sulla scacchiera. Qualcuno gridava. Qualcuno era riverso a terra. Il suo cuore perse un battito.
    La guerra era già iniziata. Così presto.

    C’erano una volta due soldati, che attorno al fuoco si raccontavano come fosse casa loro. Curioso era, come le due descrizioni combaciassero, frutto di prospettive poste al di là e al di qua di un fiume. Ammazzavano il tempo, lasciavano scorrere le giornate che non passavano a uccidere per un misero ordine, per quel poco denaro mandato a casa. Nessuno dei due tornò alle amate sponde. Si persero nel tempo, loro, si strinsero la mano nell’ultima ora. Non vinsero la guerra, ma abbatterono il tempo stesso. Come gli dei antichi si rincorsero, lungo quella linea. Lo faranno sempre. Che siano fatti di carne e ossa, di terra, di polvere o solo di memoria, quei soldati si rincorreranno sempre, fin quando non saranno pronti a tornare a casa.
     
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    LUPO


    b5623dfb31bd795464668a2e90f9c0fd8f2bf88a

    I can't seem to let myself leave you
    but I can't breathe anymore
    I can't seem to not need to need you
    And I can't breathe anymore
    ]


    Was? Non avrebbe mai saputo, Beat, se quel sussurro udito dentro la testa se lo era solo immaginato fra le ossa del cranio un attimo prima che l'ombra sequestrasse al mezzogiorno la sua luce e lì, in mezzo, si impigliasse anche lui; o se fosse stato vero, quel respiro, magari intrappolato nel vento, magari un presagio di quello che più in là si sarebbe schiantato sulle guance e sulla punta del suo naso, così nitido e inaspettato da poterlo acchiappare e adagiare lì, sulla punta delle dita. Finto o reale, Beat si mosse per seguire l'unica presenza a cui, pure senza conferme, sentiva di voler credere, di volersi fidarsi delle promesse non dette che gli sussurrava sulla faccia e che sembravano dirgli, dolcemente, seguimi. E così fece, un passo dopo l'altro premuto sulla sabbia lasciava la sua impronta che il mare poi lambiva, prima ai bordi come a volerli stuzzicare e poi giù, lungo i lati bagnati per riempire il vuoto del calco di un piede già tre falcate più avanti, già altrove, già dimenticato prima che l'acqua a ritroso portasse via quelle mille impronte che si allontanavano dal presente, dalla realtà, verso il regno in cui tutto si capovolge e nell'insensatezza forse ritrova il senso di ogni cosa. Se solo si fosse fermato a riflettere, forse Beat avrebbe potuto afferrare la sensazione che sotto pelle strisciava e gli diceva non andare; se avesse avuto occhi per altro, forse Beat avrebbe sospettato che la direzione intrapresa sarebbe stata l'ultima, che il sole non lo avrebbe più sentito scottare sulla pelle e che forse il mare non l'avrebbe mai più rivisto, non così almeno. Ma c'era solo il manto del lupo da seguire nella notte, e la luce intrappolata in quegli occhi bestiali ricordava tutte le cose che esistono al riparo di un tetto, di quattro mura, fra le pieghe di dozzine di cuscini, ricordava casa e tutto quello che per Beat quelle quattro lettere significavano, tra cui il senso di sé, che le proprie radici aveva visto troncate una, due, tre volte di troppo. Ritrovandosi in quello sguardo Beat non si accorse di nient'altro, lasciandosi dietro quel che restava del mondo conosciuto per inoltrarsi nel bosco fino a scomparire, una delle tante ombre in quella semi luce forzata che di normale non aveva proprio nulla. Della sua presenza rimasero soltanto le orme delle nike che ancora per un po' resistettero al moto del mare, che lottarono per lasciare un ricordo il più a lungo possibile combattendo contro l'acqua, contro il lupo e quello che simboleggiava, forse lui, forse il destino o forse tutta la sua storia; ostinate si scontrarono contro passato presente e futuro, contro il destino che già da lì, già dagli albori di quella notte infinita complottava a sua insaputa per cancellarlo, fare come se non fosse mai esistito. Ma tutto cede, prima o poi, e con il ragazzo sparirono anche le impronte dei suoi piedi, gradualmente, rendendo Beat fantasma prima del tempo.

    Durante il tragitto solo una volta Beat tentennò, quando il ricordo di qualcosa gli spaccò come un fulmine la testa a metà rendendola per una frazione di secondo lucida, un urlo famigliare che voleva avvertirlo di un pericolo uguale e contrario a quello che lui conosceva e che si celava poco più avanti, tra le rocce e le loro fessure. Successe alla foce del sentiero che dal bosco usciva a estuario sulla Kaigaten dove, sotto gli occhi ingannevoli di Beat, per un anomalo processo evolutivo le radici si trasformavano in strisce pedonali sbiadite e le fronde in interstizi di palazzi mai finiti, al posto dei boccioli pezzi di insegne penzolanti. Fu allora che il lupo accelerò l'andatura come se sapesse, come se avesse intuito che, nel voltare il viso indietro a dar retta a quella voce nel bosco, c'era pericolo che Beat non riuscisse più ad andare avanti, che sfuggisse. Con l'increspatura fra gli occhi ad accentuare un broncio confuso, il moro guardò le foglie ondeggiare dietro di lui con tanta intensità da spingerlo quasi a tornare indietro, il vento che pareva aver cambiato rotta per respirare nella direzione opposta a quella dove il lupo voleva invece che andasse. Mentre ascoltava le piante inspirare, Beat ancora non sapeva che forse quella era l'ultima possibilità che aveva di salvarsi, che da lì in poi la realtà non sarebbe più riuscita a far breccia in un sogno talmente intimo da giocare con le corde più sepolte della sua anima. Il lupo dovette percepire pericolo, perché senza preavviso si mise a correre verso quella parte di città, una grande promessa ancora disabitata, e il vento cambiò direzione con la stessa violenza di un'auto che sterza e all'improvviso sbanda, allontanando da Beat ogni ragione rimasta per costringerlo invece a correre verso il suo dolce ma terribile destino. Aspetta! Ed ecco che, come alcuni prima di lui, anche Beat si ritrovò a catapultarsi sulla strada mal asfaltata, mosso da un istinto che non capiva ma che somigliava all'urgenza di arrivare e alla paura di cosa si sarebbe trovato davanti al momento di fermarsi, di metter un punto a qualunque cosa fosse quell'ansia non sua che aveva nel petto e non riusciva proprio a spiegare, come se qualcuno fosse in pericolo e avesse bisogno di lui. Quando le nike calpestarono i quadrati più esterni di un'enorme scacchiera, la fronte e il collo di Beat erano ricoperti di piccoli cristalli di sudore che, salatissimi, gli bruciarono gli occhi. E allora li socchiuse strizzandoli forte, il dorso della mano a raccogliere quel che al corpo faceva male per portarlo via senza sapere, non ancora, che presto un gesto del genere non sarebbe bastato a scacciare via il dolore, che nessuna parte del corpo poteva lottare contro quel che c'era in serbo per lui. A nulla infatti servirono le mani, le braccia o le gambe quando, troppo tardi per accorgersene e troppo velocemente per fare alcunché, l'acqua cominciò a lambirlo come se fosse stata sempre lì, già all'altezza delle ginocchia. In quel momento, il suo incubo privato si stava mischiando a quello delle persone che prima di lui avevano calpestato lo stesso suolo, e una profonda paura lo immobilizzò sui piedi rendendogli impossibile muovere un passo. Raddrizzò il busto mentre, il panico negli occhi, il collo girava sulla propria asse alla ricerca del lupo, di qualcun altro o delle figure a cui appartenevano le voci che ora sembravano provenire da ogni parte, bombardandolo. Laß mich nicht! Non mi lasciare. Era ancora un ordine, quello, detto quasi con rabbia a nessuno e a tutti in particolare, mentre Beat ruotava su se stesso con la mente che cercava di dare un senso a quel mare che si allargava intorno come se lui ne fosse il centro gravitazionale e, vacillando sui piedi, creasse onde piccole ma insistenti. Ben presto l'acqua superò il petto e la linea lì tatuata, quella del cuore che è vivo e che batte grazie a quella minuscola conca cicatrizzata esattamente nel mezzo, lì dove tanti anni prima qualcuno aveva premuto per portarlo indietro nel mondo, per richiamarlo alla vita.
    Era assurdo pensare che l'epicentro di Beat non fosse più grande dei polpastrelli di Lys.



    Sentì di non toccare più il fondo proprio quando lontano intravide una forma che poteva essere qualsiasi cosa ma galleggiava al centro di tutto, nel bel mezzo della scacchiera su cui la punta delle scarpe di Beat scivolò per finire poi per arrendersi, lasciando che fosse la sola, disperata forza di braccia e gambe a farlo restare a galla. Da paura, la sensazione principale si era tramutata in terrore insinuandosi ovunque dentro di lui, dalla punta dei capelli pesanti d'acqua alle terminazioni nervose delle dita. Doveva nuotare verso quella figura che a tratti credeva fosse la bestia ma poi, a guardarla bene, con gli schizzi negli occhi azzurri, ad ogni su e giù di una nuova onda cambiava nei contorni del viso di Lys o nel naso a punta di Jan, nel sorriso dritto di Mia - una linea che non si spezza - e negli occhi buoni di Paul; quelli dovevano essere i ciuffi più corti che sfuggivano sempre dalla coda di Lys, ma non c'era verso che quelle spalle un po' spioventi non appartenessero alla madre, quel che ricordava di lei era poco ma incancellabile. Laß mich nicht laß mich nicht laß mich nicht. Non mi lasciare non mi lasciare non mi lasciare Bitte, laß mich nicht hier. Per favore, non mi lasciare qui. Ormai una supplica spezzata dall'acqua che finiva in bocca, a Beat sembrò di rivivere tutti insieme i tre grandi strappi della sua vita, i momenti di rottura che non puoi ricucire ma che restano lì, con te, per sempre. In quel mare o in quel lago si ritrovò ad essere come era stato in quei momenti, incapace di fare qualcosa per impedire che il male accadesse e macchiasse, poi, tutto il resto a venire. Si rivide da bambino rifiutare il fatto che la madre avesse avuto intenzione di andarsene, o quando, molti anni dopo, aveva negato che al fatto di essere vivo fosse indubbiamente legato che Jan non ci fosse più, o la paralizzante idea che Lys potesse volerlo lasciare in favore di un completo annullamento di sé su un fondale qualunque, da sola, senza di lui. Tra tutti, proprio lei: come aveva potuto? E come aveva potuto, lui, fallire con così tante persone? Si era aspettato dolore ma, una volta vicino, una volta che quel paio di braccia l'avevano stretto al collo adagiando su di lui un peso caldo e familiarissimo, una volta che anche le gambe si erano intrecciate alle proprie sfiorandolo nell'acqua fangosa, quella volta, ancora una volta, Beat si riscoprì non solo in grado di toccare il fondo con i piedi, ma anche di non tremare più. Gli stava in braccio, la figura, che a chiamarla così fa ridere perché l'aveva riconosciuta da tempo e non si sarebbe mai potuto sbagliare, consolidata com'era ora nelle sue curve, linee e angoli preferiti; stretta a lui acquisiva pian piano il suo peso fisico e nel cuore di Beat, che sentiva gonfio e palpitante, nel senso buono però. Non ti lascio. Il suono di quella voce confermò le sue sicurezze, e mentre le braccia si stringevano intorno alla vita di Lys e il viso di Beat affondava nell'incavo della sua spalla, anche ogni residuo di paura lasciava il suo corpo per confondersi e sparire nell'acqua ormai agli sgoccioli. Il suo livello si era infatti abbassato come se qualcuno, da qualche parte, avesse tolto il tappo e ora l'immensa piscina si stesse essiccando, lasciando entrambi inspiegabilmente asciutti. Rimasero stretti l'uno all'altra per non so quanti minuti, Beat che muoveva qualche passo minuscolo spostando il peso di entrambi su un piede o poi sull'altro mentre Lys, appesa su di lui, ricordava una riccio incagliato su uno scoglio. Solo dopo un po’, Beat aggiunse: Sonnenschein, era tanto che non ci abbracciavamo. Il sollievo nella sua voce gonfiò i polmoni come dopo una lunga apnea o come dopo una risata incontrollata, mentre con le mani ai lati del collo di lei Beat disincastrava le loro teste, piegate in curve precise per stringersi anch'esse, e le tirava indietro il volto per guardarla come ad accertarsi che fosse tutto lì, che fosse tutto vero, e Lys accompagnava quel gesto decidendo solo in quel momento di poggiare i piedi per terra. E alla fine era proprio tutto lì, davanti a lui come se lo stesse attendendo da sempre, quasi come se non se ne fosse mai andata. I capelli tirati in una coda e i ciuffi ai lati del viso che Beat appiattì contro le guance in una carezza, le fossette che a lui piaceva pensare della forma del suo indice, la fronte un po' larga, gli incisivi leggermente più grandi scoperti da quel sorriso che lo destabilizzò tanto era ampio, che sembrava espandersi dagli angoli della bocca alle pieghe delle guance e poi agli occhi, come il filo su cui a intervalli regolari brillano lucine intermittenti. Denti fossette occhi denti fossette occhi denti fossette occhi: un loop ipnotico. Dove siamo? Chiese Beat senza però riuscire a guardare altro al di fuori di Lys, che come al solito era al centro e che in quel momento, a differenza di qualche ora prima, il ragazzo sentiva di non aver bisogno di fingere fosse alla periferia della sua vita . Dove andare sei tu a deciderlo. Con le dita intrecciate alle sue, Beat si voltò senza mai mollare la presa, come se a stringerla di meno l'avrebbe poi persa di nuovo. Ma non vide niente, Beat, se non l'acqua che ormai sfiorava placida i polpacci e si insinuava fra le porte senza vetri dei palazzi, fra le crepe tra i quadrati bianchi e neri e fra i lacci delle sue nike. Allora si voltò di nuovo verso la ragazza, che non serviva metterci ex davanti perché era un sogno anche se Beat non riusciva ad afferrarlo, e nei sogni belli non c'è posto per ptefissi del genere. Forse voleva così tanto che tutto quello fosse vero da decidere di ignorare la parte di lui che lo ammoniva, desiderava così tanto un po' di pace dal tedioso ignorarsi da far finta di non aver visto Lys baciare Paul dozzine di volte: in quella lotta mentale, pure la litigata in cucina sembrava solo un incubo piuttosto realistico.
    Di fronte agli occhi luminosi della ragazza, ancora una volta ognuna di quelle preoccupazioni si fece nulla e anche lui accennò un sorriso, l'istante prima che Lys districasse la propria mano dalla sua per poggiarle entrambi sulle sue spalle e spingerlo all'indietro, sorprendendolo. Nella caduta che seguì Beat non chiuse gli occhi neanche per un secondo ma strinse le dita intorno ai fianchi di Lys, quello si, e da lontano quei due ricordarono una coppia di steli che si piega e poi, come fa un taràssaco, si sfalda nell'acqua e nell'aria.

    Atterrare su una superficie dura non fece alcun male e, con le scapole premute contro una superficie metallica, le risate di Beat e Lys si mischiarono nella notte fino quasi a raggiugnere le stelle. Lui sotto, lei sopra, con le ginocchia incastrate in angoli sconnessi ma dalla punta arrotondata che non facevano male ma erano giusti così, Beat si perse di nuovo tra le fessure di quelle iridi azzurre che da sempre, e mai come in quel momento, contenevano i soli di mille galassie. La mano sulla schiena, Beat accarezzava Lys come a contarne i dischi vertebrali per stupirsi di trovarli lì, impilati l'uno sull'altro e, insieme, su di lui. Riconosci questo posto? Dovette pensarci lei a distoglierlo da se stessa e da quello strambo conteggio osseo, solo allora Beat distolse lo sguardo per puntarlo su ciò che li circondava, una scintilla che si accendeva nelle iridi non appena riconobbe quel luogo. La ferrovia. Disse a bassa voce mentre, libero dal corpo di Lys che si era spostata di lato, Beat riusciva a tirarsi su col peso poggiato sui palmi, dietro la schiena. Ci sdraiavamo sulle rotaie e aspettavamo che il prossimo treno passasse su quelle adiacenti per urlare a squarciagola, perché qualcuno ci aveva detto che questo binario era in disuso, in teoria, ma non ne siamo mai stati sicuri. Più si guardava intorno, più i contorni delle cose acquistavano chiarezza, come le fronde di un pioppo vicino e ogni singolo bullone che teneva insieme i binari. Volevamo superare il rumore del treno o anche sfogarci per non impazzire. È stato Jan a trovare questo posto per primo, poi io l'ho fatto vedere a te e ci sei entrata come hai fatto in tutte le cose: come se fossi stata sempre lì, non dovevi neanche sforzarti. Aggiunse con un lieve sorriso mentre, lo sentiva, le pupille di Lys non lo abbandonavano neanche per un secondo. Provò nostalgia a ripensarci, le dita che lasciavano i binari affinché potesse sdraiarsi di nuovo nel loro mezzo, Beat, gli occhi puntati sui tralicci in alto, persi nella notta. La consapevolezza che quel pensiero non avesse portato tristezza alcuna si piantò nel suo cuore sollevandolo: provava piuttosto una sorta di calma serenità, di quelle che impregnano i momenti importanti, specialmente verso la loro fine. Lanciò uno sguardo a Lys che, vicinissima al suo fianco, gli sfiorava una spalla con le labbra. Eccoci. Aveva accennato al di là di lui e allora Beat girò il capo, ritrovandosi di fronte a una scena accaduta così tante volte da perderne il conto. A qualche metro da lì c'erano le loro copie quasi fedeli, solo qualche anno di meno sui lineamenti pesava con più delicatezza agli angoli degli occhi; c'era Lys e c'era Beat, al cui fianco si allungava la figura sottile di Jannik intento a rollarsi una sigaretta - forse una canna, a giudicare dall'odore dolciastro - le guance scavate aperte nel solito dolce sorriso. Ridevano forte, si spingevano prendendosi in giro, e il Beat di adesso rimase ipnotizzato a guardare come una sua mano accarezzasse la nuca bionda di Jannik mentre l'altra, lentamente, si intrecciava alle dita di Lys. Sembravano uniti da un filo di lana invisibile, quei tre, che dai capelli di Lys - più corti di adesso - affondava nelle sopracciglia folte di Beat per passare, infine, fra le ciglia chiare di Jannik. Come in risposta a un riflesso istintivo, il Beat soggiogato dal potere dell'eclissi allungò il proprio braccio per cercare il polso di Lys, e subito il pollice iniziò a strusciare su e giù lungo il dorso della sua mano. Ti manca, vero? La voce di Lys era un sussurro dolcissimo nel suo orecchio. Mi mancate. Specificò lui, distogliendo lo sguardo dai loro cloni dal passato per ruotarlo nuovamente su di lei. Possiamo rimanere qui, se lo vuoi. Dove siamo ora? Lys aveva sollevato lo sguardo pieno di meraviglia, le dita sottili che accarezzavano una superficie diversa da quella più dura del metallo, il fresco dei cuscini contro le costole ristorava di più mentre loro facevano il morto come stessero galleggiando sul pavimento. In un posto davvero bello: casa tua. Rispose con sicurezza Beat, negli occhi il riflesso di alcune lucine appese come rami sopra le loro teste. Lys annuì come soprappensiero, le mani che in qualche modo non smettevano mai di toccarlo. Possiamo restare anche qui, se preferisci. Possiamo azzerare qualsiasi cosa e fermarci a riprendere fiato. Lasciò passare qualche secondo nel silenzio, Beat, le unghie che giocavano con la punta di un filo che sbucava da una delle tante stoffe sotto di loro. Poi, come a sottolineare le parole che seguirono, inspirò profondamente dal naso buttando fuori aria e ammissioni. Non mi sono mai fermato se non per correre insieme a te. Dimmi cosa devo fare. Lys sorrise, uno scintillio di denti bianchissimi nella penombra. Si tirò su, la ragazza, allungando la mano per fare in modo che Beat incastrasse le dita alle sue per tirarsi su e atterrare, questa volta, di nuovo sulla scacchiera a mollo nell'acqua bassa.


    L'unica cosa a cambiare in quel lasso di tempo erano stati i contorni di quel luogo, su cui ora erano schierati pezzi enormi di una partita a scacchi in procinto di iniziare o, forse, di finire. Cosa succede ora? Come a rispondere tacitamente a quella domanda, qualcosa urtò la sua gamba all'altezza del ginocchio e, abbassato lo sguardo, le iridi di Beat si strinsero sui contorni di una pistola nerissima a galleggio nell'acqua. Col peso del corpo si chinò a raccogliere il calcio nel proprio palmo, sollevandolo poi per frapporlo tra loro due mentre la consapevolezza si faceva piombo tra le budella. E Mia? Paul? I Bryne... Che ne sarà di Anders? Disse quello e nient'altro, come se avesse già deciso e quello che gli premeva fosse solo di assicurarsi che la sua famiglia sarebbe stata bene, anche dopo di lui. Lys, che lo fronteggiava senza mai lasciarlo solo, gli rispose con quella dolcezza che gli aveva riservato per tutto l'anno trascorso insieme. Hai dato loro tutto quello che potevi, hanno qualcuno da chiamare casa, staranno bene. Beat annuì, gli occhi che solo in quelli della ragazza trovavano sicurezza. Non hai voglia di tornare anche tu a casa? Tua madre, Jan... Non vuoi stare con me senza doverci nascondere? Ancora una volta, il mento di Beat si mosse in su e in giù. Non si chiese come facesse lei a sapere della madre, non l'aveva raccontato a nessuno a parte Jan, ma forse era stato proprio lui ad averle rivelato quel segreto nel mondo in cui i vivi si congiungono con i morti, un luogo sospeso nel tempo che solo Lys poteva raggiungere. Cosa ne sapeva lui di tutto quello? Non voleva saperne, infatti, voleva solamente smettere di correre e fermarsi lì con lei.
    Non so come fare. La voce tremò un po'.
    Ti aiuto io. Un passo avanti, le mani di Lys a coprire le sue come una morbida coperta.
    Dove? Non ci pensò, Beat, che quello potesse essere un inganno, che invece di illuminargli la vita il suo sole stesse cercando di accecarlo e, purtroppo, ci stesse riuscendo.
    Dove tutto inizia e finisce. Da qui possiamo ricominciare.
    La canna ritorta contro il petto proprio all'altezza del cuore, proprio premuta sulla cicatrice lasciata dalle dita di Lys che tanti anni prima l'avevano riportato indietro e che ora, per scherzo del destino, dall'altra parte volevano trattenerlo.

    Tocca il metallo con le mani, sente il ruvido sui polpastrelli, le punte dei grumi imprimono minuscoli solchi. Beat scruta i palmi e non gli interessa più se i buchi hanno solcato o meno la linea della vita, visto che la vita crede di averla davanti e lo sta aiutando a puntarsi l'arma contro. È una fortuna che ci sia lei, pensa, a trattenergli le mani che altrimenti tremerebbero troppo per andare fino in fondo.
    È stato difficile. dice in un sussurro e le ciglia della ragazza si alzano, non dice niente ma chiede con quegli occhi lì, occhi per cui varrebbe la pena morire. Fare finta che fossi per me come tutte le altre. Un sorriso e di nuovo quei denti a far capolino tra le labbra e in quel momento il mare trema un po', o forse è sempre e solo lui, ma la scossa sembra dare fastidio a Lys che si spinge contro di lui quasi a volerlo abbracciare, una stretta costole contro canna contro altre costole. Cos'è? Chiede ma lei lo zittisce subito, le mani sulle guance e poi sul collo, lì, dove i capelli sono ancora solo peluria leggera. Lo fa sempre, lei, quel gesto che sa così tanto di casa da provocare uno spasmo dentro di lui. Niente. dice. Fallo. Insiste, ma il tremolio si fa più forte e Beat quasi si convince che non sia colpa sua, non sono le sue dita a tremare ma c'è una voce, qualcuno grida qualcosa, sembra dire: ... vi prego! Lys preme più forte le dita sulla sua faccia, lo accarezza per non fargli sentire e vedere niente che non sia lei e il suo viso perfettamente ovale, lei e le pagliuzze negli occhi di un azzurro più chiaro del resto, lei e i suoi denti bianchissimi che lo chiamano a ripetizione: beat beat beat beat beat. La terra, il mare e le mani tremano ancora, mentre all'urlo si mischia il suono di un treno in corsa e le grida di due ragazzi e una ragazza gli fracassano i timpani. È confuso, Beat, da tutto quel rumore, è nervoso l'indice che si aggancia al grilletto e fa pressione.
    Prima piano.
    Sono qui con te.

    Farà male?
    È come quando ci addormentavamo insieme sul tetto della tua macchina solo quando ormai faceva alba: quando tutto finisce e il resto ricomincia lo decidiamo solo noi.
    La guarda e lei guarda lui.
    Ich liebe dich. lo dice nel tedesco ruvido, paradossalmente più reale.
    Vorrebbe tanto che gli rispondesse.
    Il dito preme sul grilletto, prima piano:poi fino in fondo.
    Le labbra di Lys si muovono senza dire niente e tutto, di botto, cessa.
    Per Beat la voce di Max resterà per sempre soltanto un eco lontano, e il tremito della sua scossa debole come un prurito quasi estinto; Beat non sente le mani che gli premono il viso e l'urlo di Bella rimarrà un grido muto, senza suono, mentre ai suoi occhi la luce finalmente squarcia l'eclissi e fa scomparire tutto, anche lui.


    "Come fa il sole a bloccare le cose, a ridurre a un’inerzia totale le strade, gli alberi, persino il mare di Besaid, come può essere tutto immobile?"

    Edited by Dead poets society - 13/5/2021, 12:02
     
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    Drago


    Sei qui per me? Per portarmi via? La belva soffiò sul viso di Rei, avvolgendola con il fiato sulfureo e caldo. Il drago non le rispose ma si voltò, in un movimento che le parve tanto attento quanto calcolato, mostrandosi allo sguardo della donna in tutta la sua crudele bellezza, mentre i raggi solari davano nuova vita alle scaglie del prodigio che le si era mostrato davanti: la invitò a seguirlo e così fece, addentrandosi nell'acqua come non avrebbe potuto fare prima. Le vesti iniziarono a bagnarsi ed allargarsi, dandole l'idea che, dall'esterno, sarebbe potuta apparire come una scura e esamine medusa: dov'erano finiti tutti? C'erano mai state altre persone su quella spiaggia? Ne era certa - o quasi: era sempre stata sola. Improvvisamente, la realtà le sembrava tanto distante da spingerla a metterla in dubbio, a mettersi in dubbio. In fondo, era mai esistita una realtà? Aveva mai fatto altro se non seguire la sinuosa coda del drago? Altre ombre lo stavano seguendo proprio come stava facendo lei, seguaci di altre versioni della bestia, o forse avevano davanti proprio lo stesso enigmatico drago che si era presentato a Rei. La donna non avrebbe potuto conoscere tutto ciò, e presto quelle due anime entrarono a far parte dello sfondo, così come l'acqua gelida che l'avvolgeva, così come la luce che filtrava dall'alto.
    Mi divorerai qui? Domandò, riuscendo a coglierne le forme sfuggenti una seconda volta. Ancora una volta la risposta fu no. Ben altre sembravano essere le intenzioni del drago a cui Rei non poté far altro se non abbandonarsi, avviluppata in una frastornante ma silente confusione che si tramutò velocemente in sabbia. Questa, alzata da un vento che aveva in sé l'aroma del ferro e che le accarezzava delicatamente il viso, aveva aperto davanti gli occhi di Rei un'intera distesa abbracciata esclusivamente da confini in pietra. Non era mai stata in quel luogo tuttavia credeva di ricordarne le fattezze, realizzate e tenute in piedi dalle parole di altri, aneddoti di cui, come sempre, aveva finito per non interessarsi. Attorno a lei c'erano quelli che sembravano spalti, eppure non c'era nessuno ad osservare quello spettacolo inusuale. "Porunn... Innar... Ti amo". Echi di voci, grida e gorgoglii distanti giungevano alle orecchie di Rei, chiamandosi fra loro senza aver alcun riguardo per lei, disorientandola e sibilando al loro passaggio, proprio mentre si trovava costretta a chiudere gli occhi per proteggersi dalla sabbia. "Non costringermi a scegliere tra te e me, sai cosa sceglierei". Nella disperazione di tante ombre senza un volto ben definito, mentre nomi continuavano a rimbalzare da una parte all'altra di quel luogo di un passato a lei sconosciuto, il dolore, la rabbia e un terribile dispiacere parvero in grado di possederla. "Non ti ricordi di me? Sono io…" Avvertendo la pressione farsi sempre più pesante sulle sue spalle, Rei venne costretta a chinarsi, chiudersi su se stessa alla ricerca di una via di fuga da quelle sensazioni mortifere.

    Una voce rauca e bassa spezzò quelle tenebre, raggiungendola come il calore di una piccola fiammella ondeggiante. Che fai lì a terra, Rei-chan? Richiamata da una voce familiare e maschile, Rei alzò gli occhi al cielo, stringendo appena le palpebre nel cercare di mettere a fuoco la sagoma che, immobile davanti a lei, non riproduceva nessuna ombra. La luce zenitale aveva annientato ogni possibilità d'evasione e picchiava forte sulla sua testa scura, portandola a chiedersi se si trovasse ancora nella realtà che conosceva e di cui credeva di fidarsi - ma anche quel pensiero iniziò a scivolarle via dalla mente, sciogliendosi e unendosi all'aria insolitamente calda che abitava l'Arena. Non credeva di aver mai avvertito temperature così alte, ma Rei non riuscì a sentirsi a disagio, godendo di quel calore che ora sembrava circondarla come un abbraccio. Stava bene, ora che c'era suo padre lì accanto a lei. Hajime... credevo saresti diventato uno spirito, ma mi sembri più un fantasma. Si alzò mentre parlava lentamente, scuotendosi di dosso la sabbia. L'odore inconfondibile di nicotina e acqua di colonia raggiunse i nervi di Rei - forse, pensò, si sbagliava. Perché tutto attorno a lei aveva fattezze così reali? Se avesse allungato la mano sarebbe stata in grado di stringere la spalla di suo padre? Pensi di essere in una posizione migliore? Sai che presto sarai proprio come me. Parlò in uno sbuffo di fumo, lasciando a Rei il tempo necessario per articolare una risposta ma la donna non trovò la forza di parlare. Hajime era stato ucciso da Besaid, la stessa città che gli aveva dato la gloria, un potere straordinario e letale. Un giorno sarebbe successo anche a lei. Lo osservò a lungo: aveva mantenuto lo sguardo serio, distante, ma sembrava sereno, finalmente in pace. Rei si domandò se, in fondo, non sarebbe stato così male rimanere in quella nuova realtà a lungo, almeno per un po'.
    Resta con noi, Rei-chan. Nonostante Rei riuscisse a vedere solamente suo padre, una voce femminile si unì alla richiesta, lanciando un brivido di anticipazione lungo tutta la schiena della donna. Si guardò attorno, cercando la fonte di quella voce familiare, ma riuscì ad individuare solo Hajime. Più vicino a lei, ancora imperscrutabile in volto, continuò a parlare. Resta con noi, continuava a sentire la donna, mentre quella voce spettrale ma incredibilmente reale si faceva più vicina. Non vuoi mettere fine alla loro sofferenza? Domandò Hajime mutando volto, facendosi più gentile, emanando ancora dell'altissimo fumo: sembrava in fiamme, ma sembrava rivelarsi a lei come una verità pura, limpida. La loro sofferenza? Ripeté con un filo di voce, costretta a guardarlo ma cercando in ogni modo di divincolarsi da quella presenza e allo stesso tempo rimanendo immobile, completamente catturata dalle certezze che Hajime sembrava contenere in sé. Non è quello che si meritano? Abbiamo creato tanto dolore a persone innocenti, usandole per nostri stupidi umani scopi... perché non farla finita qui? Per quanto allusive, quelle parole non le lasciavano scampo. Allora Rei comprese, riuscì a vedere la pienezza di Hajime e, guardandosi il petto, non riuscì a vederne il riflesso. Era diventata il buco nero alla base di una terribile piramide in grado di divorare qualsiasi forma di luce. Si aggrappò a se stessa, stringendo i propri vestiti: voleva chiudere quel vuoto, voleva somigliargli a tutti i costi. Farla finita qui... come-come farla finita? Sussurrò, implorante, fino a quando delle mani calde non raggiunsero le sue, districandone i nodi e regalandole le risposte di cui aveva bisogno. Vide di fronte a sé sua madre, Valentina.
    Meu amor... non devi aver paura. Ti mostrerò tutto quello che vuoi sapere, Rei-chan. Devi solo fidarti di me. Si perse negli occhi verdi di sua madre per degli attimi che le sembrarono anni interi, come se in un solo sguardo avesse potuto recuperare il vuoto che Valentina aveva lasciato in sua figlia. Era sparita all'improvviso e ora era davanti a lei, le poteva stringere le mani, poteva sentire il suo odore e poteva cullarsi nel dolce soprannome in una lingua per cui provava vergogna, che avrebbe potuto replicare solo attraverso goffi tantivi per tutta la sua vita. Improvvisamente, Rei si sentì di nuovo una bambina: così come allora, tutto le sarebbe stato permesso. Ma-mamma... Prima che potesse balbettare qualcosa, le due figure le si fecero più vicine, abbracciandola con la loro presenza cristallina. Rei... resta qui con me, resta qui con noi. Fallo per te, fallo per i tuoi pazienti. Staremo tutti meglio, alla tua morte. Andrà tutto bene. Continuarono in una lenta ripetizione, una nenia che non sembrava esaurirsi e che sembrava aggravare solo il pianto di Rei. Era un pianto caldo, liberatorio, lenito dalle parole di Hajime e Valentina, dalle loro carezze sulla testa e le mani della madre sul ventre, da dove aveva generato ed era stata generata a sua volta, mentre il padre le faceva scivolare una boccetta fra le dita. Sei stata brava, vero? E lei, tua figlia, è qui con noi. Ti aspetta, sai? L'ha fatto per tanto tempo... ci hai regalato una nipote splendida. Non vede l'ora di conoscerti. Un singhiozzo altissimo la strozzò, costretta a piegarsi di nuovo in due mentre, al posto del vuoto che sentiva al petto, ora stringeva un vetro che conteneva tutte le verità liquide che avrebbero potuto tramandarle i suoi genitori. Avrebbe rivisto sua figlia. Avrebbe terminato le angoscie di tanti altri. Annientarsi, per non generare più altro dolore. Morire per conoscere davvero come vivere la vita, con la pace e l'assenza di desideri dei morti che, ora di fronte a lei e ovunque, l'avevano aiutata a capire. Sono stata brava... non sono più vuota. Le dita tremanti e bagnate svitarono il tappo, le labbra tristi ricevettero per l'ultima volta un tenerissimo bacio e permise al veleno di inondarle la bocca.

    Credeva le andasse bene morire in un giorno qualsiasi. In fondo, non avrebbe potuto far nulla per cambiare quello che era. Andrà tutto bene. Inginocchiata fra la sabbia, non si rese nemmeno conto di essere di nuovo sola. Come un fortissimo liquore, il veleno zampillò sulla sua lingua, ardendo lungo le vie respiratorie e per tutto l'esofago, costringendola a avvertire ogni singola goccia entrare dentro di lei. Mentre la morte la penetrava, riducendola ad un involucro esanime di se stessa, Rei fissava il cielo, spenta e sogghignante. Chissà se hai davvero gli occhi verdi... come i suoi. Pensò a sua figlia, alla codardia che aveva dimostrato nell'abbandonarla: abbastanza grande per torturare le persone, non troppo per curarsi di una minuscola vita appena germogliata. Forse i suoi genitori si erano sbagliati. Forse sua figlia non era davvero morta ed era altrettanto umana, viva, vuota come lei. La sentiva vicina, incredibilmente vicina, e ribolliva dal basso, dalla sua ferita che le attraversava il ventre: la coda della cometa che l'aveva attraversata, costringendola a rincorrerla fino alla fine dei giorni, fino alla fine dell'Universo. Mentre le palpebre avevano ripreso a roteare senza che avesse la volontà di fermarle, in quel turbinare d'immagini Rei credette di vedere in lontananza un'altra coppia, altre due figure. Non erano i suoi genitori, erano due donne. Che cosa ci facevano lì?
    Un rantolio di dolore la sollevò da quel flusso di pensieri mentre la potenza rovinosa del suo stesso sangue stava iniziando a reagire a quella intromissione. Avvertì la necessità di portarsi le mani alla gola, in fiamme, spalancando quelle che divennero fauci sibilanti: dalle punte dei due denti retrattili apparsi dal suo palato iniziarono a zampillare gocce di veleno, il suo, pronto a respingere quello estraneo. Mi avete creata così! Sapevate quel che sarebbe successo! E non avete avuto il coraggio di uccidermi a suo tempo. Si lamentò con voce rauca e provata, sicura di non riuscire a raggiungere nessuno, nemmeno i fantasmi che l'avevano portata a raggiungere quello stato, ora costretta a rimanere lucida di fronte a quel dolore atroce. Si buttò a terra, cercando sollievo nel terreno, contorcendosi sotto la potenza della sua stessa particolarità che, salvandola, la avrebbe portata ancor più pericolosamente vicina alla morte. Allora vivrò fino all'ultimo. Porterò a termine quello che voi non siete riusciti a fare. Una voce sconosciuta, giovane, una diversa da quelle che l'avevano assediata fino a quel momento, la raggiunse con urgenza e la spronò a liberarsi da quella lotta, a vincere sul male che lei stessa si era inflitta. La mia sofferenza sarà la nostra punizione. Agonizzante e contorcendosi fino a trovarsi con la faccia contro il terreno, fece scivolare con forza le dita fino alla fine del proprio palato. Alla fine, di tutto il dolore, non rimase che una piccola pozza creatasi davanti a lei e le fauci, ancora aperte e bagnate, continuavano a far cadere gocce velenose. All'incontro fra i due liquidi, delle piccole fughe di vapore si alzavano dalla superficie ma Rei non ci fece caso, ancora nauseata da quella tempesta chimica. Forse tutto quello non era stato che un sogno, il sogno di una donna ridicola.
    Quando allora le tempie smisero di battere come delle percussioni impazzite, si fece forza e si tirò su da sé, o forse venne aiutata da una delle due figure che si erano avvicinate. Sembravano due miraggi per quanto erano meravigliose, vive, e portavano negli occhi un dolore simile al suo. Si passò una mano contro le labbra, ringraziò, forse a vuoto, quelle anime che le si erano fatte più vicine. Fino all'ultimo respiro. Mormorò seriamente, scavando con una mano nelle proprie tasche, tirando fuori un pacchetto a lei estraneo - di quel tipo non ce n'erano più in commercio, ma le riconosceva ancora, erano le stesse di suo padre. Si avvicinò alle labbra una delle sigarette e l'accese, inspirando dal naso del fumo grigiognolo. Ben presto l'aroma della nicotina si unì ad uno più pungente, più forte, abissale: il drago era tornato, ma questa volta non credeva di essere del tutto la sola a vederlo.

    non ho riletto sennò non postavo più ciaooo grazie per la proroga queenz :malefico:
     
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    Muoveva dei piccoli passi sul posto Astrid, girando lievemente su se stessa, seguendo il movimento che Hugin e Munin stavano facendo con il loro volo: Volete venga con voi? chiese loro mentalmente, senza aprire la bocca. La traiettoria dei due uccelli cambiò, come se le stessero rispondendo, volando verso la scogliera, che quel giorno aveva visto solo da lontano. Perché la stavano portando lì? Il rumore delle onde che si infrangevano contro le rocce sembrava scandire i suoi stessi passi, come un tamburo. Era sempre stato così? Perché non sembrava la solita rilassante melodia? Nonostante quegli interrogativi, Astrid non aveva paura: era curiosa, si sentiva leggera, tranquilla. Voleva sapere dove quelle creature la volessero portare con la genuina curiosità che forse si associa meglio ad un bambino che ad una donna. Arrivati lì, osservò i due uccelli sparire all'interno di un'ampia crepa all'interno della quale l'oscurità pareva tangibile: protese la mano destra, come a sfiorarla, fino a quando un gracchiare dall'interno non le suggerì di fare quel singolo passo. Aveva paura del buio, l'aveva sempre avuta, tanto che si ostinava a dormire con una luce sempre accesa, rischiando di disturbare il suo sonno già spesso troppo travagliato. Si sentiva oppressa nell'oscurità totale ed era per quello che aveva vacillato, sebbene solo per un attimo. Il suo respiro seguì l'andamento del suo primo passo, quello più complicato da fare: sapeva di avere paura, che normalmente ne avrebbe avuta, eppure si sentiva ancora tranquilla, nonostante tutto, bloccata su quell'uscio solo da un pensiero razionale che da veri sentimenti. Mosse ancora un passo, poi un terzo, poi un quarto: a poco a poco la sua vista parve abituarsi a quel buio che iniziò a sembrarle sempre meno pesto, fino a quando un fascio di una luce fioca non catturò tutto il suo interesse. Non c'era più nessuna onda, nessun gracchiare: d'un tratto, si era ritrovata nel centro esatto di una lussuoso salone che oramai odorava solo di decadenza. «C'è qualcuno?» chiese d'istinto, sentendo l'eco della sua stessa voce. Non c'era un singolo individuo lì, solo lei, come poteva vedere dai grandi specchi che troneggiavano ad ogni angolo: non drappeggi, non arazzi, non meravigliose pareti ornate da quadri, solo ampi specchi che le mostravano se stessa. Avanzò di un singolo passo, sentendo il rimbombo delle sue scarpe che poggiava sul pavimento in marmo, sul quale aveva lasciato una piccola impronta: serpeggiava un rosso intenso che un tempo, non coperto dalla cenere, aveva illuminato a giorno quella sala. Toc. Toc. Toc. Ogni movimento scandiva un attimo, come le lancette di un orologio: tic, toc, tic, toc. Ogni passo, le mostrava come in quel luogo, per davvero, ormai ci fosse solo lei.
    Su di un angolo del salone, vi era un pianoforte a coda, quel che ne rimaneva di un bellissimo piano che doveva aver visto qualunque cosa nel corso degli anni: nel camminare, si era avvicinata proprio a quello, sfiorando con le dita il leggio sul quale vi erano delle scritte in russo, come degli appunti, in parte distrutti da un fuoco che ormai si era estinto tanto tempo prima. Anche sua madre suonava, ci aveva provato almeno: i nonni le avevano raccontato della piccola pianola che teneva in casa quand'era bambina, l'aveva acquistata con la sua paghetta, mettendosela da parte a poco a poco affinché tutto quadrasse e non dovesse gravare sulle loro spalle. Quello era un piano decisamente più lussuoso.
    Astrid premette uno dei tasti, generando un rumore sordo, generato solo dall'aver alzato un po' di polvere e dall'aver urtato ingranaggi ormai logori. Premette ancora, generando un piccolo sbuffo scuro, di cenere, depositata lì da ormai un tempo incalcolabile. Alzò lo sguardò incrociando i suoi stessi occhi, nello specchio che sembrava seguirla ovunque andasse. Dove doveva andare? Perché era lì? «Hai sempre avuto paura di cose futili.» sentenziò quasi divertita una voce femminile che, nel tempo, Astrid aveva imparato ad amare e a cercare come la più bella delle sinfonie. Si voltò di scatto, facendo ondeggiare la sua treccia, ormai rovinata dalla festa, da tutto quel ballare che aveva caratterizzato la serata passata al falò: le sembrava un ricordo lontano ormai, come se fosse avvenuto in un sogno e solo quella ormai, per quanto assurdo, fosse la realtà. «Bella?» rispose, cercando di mettere a fuoco la figura i cui capelli biondi, nonostante la scarsità di luce, non riuscivano a non brillare. «Che... Che ci fai qui?» domandò, con un velo di confusione a ornarle gli occhi. «Dove siamo?» «Mi saluti ancora quindi.» rispose, con un sorriso, lo stesso che le aveva dedicato quando le aveva organizzato una piccola festicciola a casa: aveva invitato i suoi fratelli, qualche amico comune, passato la serata a parlare e a bere insieme, senza pensieri, senza preoccuparsi del domani. Non le era mai piaciuto dare troppo spettacolo in giro, Astrid lo sapeva, era per questo che si era limitata a fare qualcosa all'interno delle mura casalinghe, il suo rifugio, come spesso l'aveva definito, accoccolandosi accanto alla persona che per la prima volta, dopo anni, aveva amato. Gliel'aveva detto quella sera stessa, osservandola passarsi il tonico sulla pelle: le aveva depositato un bacio sulla spalla, coperta solo da una spallina sottile, poi vi aveva poggiato su il mento ed aveva osservato il loro riflesso insieme all'interno dello specchio. «Ti amo.» Forse all'epoca era stata troppo frettolosa, troppo sincera, eppure aveva sentito la forte esigenza di schiudere le labbra e pronunciare quelle due paroline che da troppo tempo le formicolavano sulla lingua. Si era voltata Bellatrix, facendole alzare la testa dalla sua e le aveva sorriso: «Vorrà dire che non mi impegnerò più ad avviare la lavastoviglie dopo averla caricata.» Entrambe avevano riso e quello, per Astrid, era diventato uno dei ricordi più dolci che avesse.
    «Io...» Cosa avrebbe dovuto dire? Bella sorrise ancora, scuotendo la testa ed avvicinandosi di più a lei: le poggiò le mani sulle spalle, inclinando il capo, avvicinandosi di più al corpo della ragazza che mai come in quel momento sembrava essersi fatto sempre più piccolo. Tra le due, c'era sempre stata differenza d'altezza, soprattutto in virtù del viscerale amore della più alta fra le due per le scarpe col tacco: probabilmente Astrid doveva a lei l'aver iniziato ad indossarle più spesso. Cercava sempre di non sfigurare accanto a lei, di essere almeno vagamente decente accanto a qualcuno che vedeva più come un raggio di sole che come una persona vera. In quel momento, come forse mai da tanto tempo, aveva paura, pur non sapendo bene se di Bella, se degli specchi o del buio: su una di quelle superfici, veniva impresso il movimento appena accennato dei piedi della giovane che, in visibile imbarazzo, si piegavano lievemente verso l'interno. Da bambina lo faceva spesso, sia quando era a disagio che quando mentiva: era più forte di lei, non riusciva proprio a non farlo. «Tu cosa?» rise, allargando la presa a stringerla forte, mentre le pupille dell'altra si dilatavano per lo stupore. Eh? «Mi sei mancata, Astrid, non puoi immaginare nemmeno quanto.» Se fosse stato possibile, il cuore le si sarebbe bloccato: le mani erano penzoloni lungo il corpo, la bocca appena schiusa, mentre a poco a poco il battito iniziava ad accelerare, di più, sempre di più, minacciando quasi il suo cuore di saltarle via dalla gabbia toracica. L'aveva detto davvero? «Bella io...» fece, mentre una lacrima le solcò la guancia destra, seguita da una seconda, che fece la stessa cosa sulla sinistra. Perché stava piangendo? L'amava ancora? Era passato tanto tempo, non poteva ancora provare quei sentimenti per lei. Di tutte le sue storie, Bella era stata l'unica che, per quel breve periodo, l'aveva fatta sentire completamente a casa: conoscevano i reciproci familiari, avevano una piccola comitiva, delle abitudini, si supportavano a vicenda. Bella, in tutto e per tutto, era diventata ciò che più Astrid aveva bramato. Per quanto sciocco fosse, per certi versi persino infantile, Astrid aveva davvero desiderato poter completare la sua vita con qualcun altro: in cuor suo sapeva che non era del tutto necessario, che la gente era in grado di stare da sola, ma dall'altra parte temeva quella solitudine, sapeva di non potercela fare da sola, di non essere abbastanza forte, ed era per questo che si circondava di gente migliore di lei, gente che avrebbe potuto sostenerla e per le quali sentiva di non fare mai abbastanza. «Che fai? Piangi?» chiese la bionda, sollevando lo sguardo dalla sua spalLa per asciugarle con le dita le due singole lacrime, mentre lei se ne stava ancora immobile, come pietrificata. Piangeva ma non sapeva nemmeno lei il perché. «Sono stata una stupida ad aver troncato tutto. Avevo paura, più di quanta ne abbia tu ora.» mormorò, soffermandosi ad accarezzarle la guancia destra. «Ma adesso possiamo cambiare le cose, se tu lo vuoi.» «Come?» rispose, in un soffio. Le stava chiedendo di tornare insieme? Era forse quello il punto del suo discorso? Anche Bella, con i suoi occhi, il suo sorriso, le sembrava più simile ad un sogno che alla realtà: era tutto troppo bello per essere vero. «Puoi restare.» Le sfiorò le labbra con l'indice, poi lasciò la presa, allontanandosi di poco, facendo ticchettare le decolté che aveva indossato. «So che non è granché, ma possiamo renderlo migliore.» Si voltò ed indico l'alto soffitto, allungando al contempo una mano per prendere quella di Astrid: «Tipo potremmo cambiare quel lampadario, aprire un po' quelle finestre e portare un po' di luce qui. So che non ti piace il buio, in fondo neanche a me fa impazzire.» Sopraffatta. Ecco come si sentiva. Più Bella parlava, più Astrid si sentiva emozionata, quasi come se tutte quelle frasi, quei desideri, la stessero inondando, non permettendole nemmeno di respirare. Sentiva un groppo alla gola, un nodo che le impediva di parlare: stava davvero succedendo? Era tutto così... Non avrebbe saputo definirlo.
    «Qui poi ci sono tante stanze, anche quella per la bambina che desideravi.» L'aveva detto una volta sola, parlando del futuro: prima o poi, le sarebbe piaciuto poter crescere qualcuno. Sapeva non sarebbe stato facile, ma nutriva un desiderio di maternità da che aveva memoria: in particolare, le sarebbe piaciuto avere una bambina. Non aveva importanza se sua, frutto di un'unione eterosessuale, oppure se adottata, sapeva che prima o poi, quando sarebbe stata più matura e più stabile economicamente, avrebbe voluto fare quel passo. «Davvero?» chiese, poi scosse la testa, non appena la giovane si voltò a guardarla per annuire. «Non è possibile, io... Noi... Bella non è vero tutto questo. Non può esserlo.» sbottò, guardandosi intorno, ancora una volta, fino a quando gli occhi non si posarono su una piccola fessura ai suoi piedi che brillava appena. Si abbassò sui talloni, infilando le dita sottili sotto quell'ammasso di polvere ed intonaco, recuperando un pugnale dal manico in legno, finemente intarsiato. «Io non so nemmeno dove sono.» fece, chiudendo gli occhi e stringendo tra le mani quell'arma che, come per i due corvi, sembrava averla chiamata, in quel mare di desolazione. In quel buio, la mano della ex le sfiorò la testa: «A casa.» Quando riaprì gli occhi, il Palazzo era sparito ed al loro posto era apparso un appartamento che aveva visto quando aveva iniziato a cercar casa: aveva pensato di invitarla a convivere ma mai aveva trovato il coraggio di farlo davvero. C'erano due stanze, una camera da letto, una cucina, un salotto e persino una cabina armadio: «Ti sei impegnata per sceglierlo vedo. E' perfetto.» Astrid si rialzò, guardandosi intorno, riconoscendo sulle pareti i quadri di sua madre che da anni ornavano tutte le sue case. Stringendo la mano di Bella, esplorò ogni stanza, soffermandosi su una foto in cucina: c'erano loro due, Vega, Sirius, Rem e Lys. Tutti sorridevano, tutti sembravano felici. Era contornata da calamite, attaccata al frigo, e, sotto una di quelle c'era un bigliettino con la lista della spesa e, in corsivo, un "Grazie" in bella grafia. «Può essere reale, Astrid, se lo vuoi. Tutto può esserlo. Devi solo farlo «Fare cosa?» Bella protese la mano verso quella di lei, prendendole delicatamente un polso e mostrandole il pugnale che ancora stringeva saldamente. «Un attimo e questo mondo sarà tuo per sempre. Io sarò tua per sempre.» Nella lama, l'immagine della ragazza appariva lievemente distorta: inclinò di poco il capo, osservandosi, studiandosi. Per qualche ragione, sembrava che anche quel pezzo di ferro potesse parlare e le stesse sussurrando come un serpente di farlo, di porre fine alla sua vita, a quella terrena, a quella che sempre le era stata stretta, che l'aveva fatta sentire sbagliata, diversa, anormale, quella che l'aveva costretta a terribili torture pur di cambiare, senza riuscirci. Fallo e non sarai mai più sola. Astrid sollevò la mano destra, le cui dita ancora erano intrecciate a quelle di Bella, strinse con tutte e due gli arti quella daga e, con lo sguardo perso negli occhi turchesi dell'altra, cercò un ultimo consiglio: «Ferme, ferme. Buttate via quella roba.» Non era la voce di Bella. Chi era? Perché stava urlando di non farlo? Da dove proveniva? «Non sono veri, è solo un’illusione.» disse ancora, mentre l'immagine di colei che aveva tanto amato la guardava stupita. «Avanti, non importa quanto la vostra vita sia difficile, vi assicurò che c’è sempre una ragione per continuare a vivere. Vi prego, vi prego, ascoltate me.» «Bella...» fece, in un soffio, mentre la mano lasciava la presa sulla daga e l'immagine di lei, insieme alla casa, si diradava nel buio, scandita solo dalle scosse di terremoto che, dall'interno, la stavano riportando alla realtà.

    FRETTOLOSO, NON LETTO E IN CORNER. VI AME CIAO.


    Edited by Nana . - 12/5/2021, 23:28
     
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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [Descrizione di suicidio].
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.


    Corvi

    "You said it was a ghost story. It isn't. It's a love story."
    “Same thing, really."

    Quando si parla di guerre, lotte e battaglie, ci viene spiegato chi siano i vincitori, chi i vinti, quali siano state le cause e conseguenze del conflitto, i suoi protagonisti principali ed i luoghi che hanno visto la storia svilupparsi. In pochi parlano dei "danni collaterali", delle vite di coloro che si trovavano nelle cosiddette retrovie ed i cui volti sono stati cancellati dal passaggio del tempo, delle ferite che, pur se non mortali, sono peggio della morte stessa perchè grondano ancora sangue e segnano per sempre. Coloro che rimangono ma che hanno visto, i sopravvissuti sono molto più importanti dei vincitori, perchè è attraverso di loro che la storia acquista numerose prospettive e si dirama come un prisma colpito dalla luce in mille sentieri diversi, piccole vite con un impatto inimmaginabile. Eira, a suo modo, stava per far parte del gruppo di esseri umani destinati a quel fato. Il battito delle ali dei corvi si faceva più intenso e la chiamava ancora e ancora, rèeificandosi e facendosi carne, ossa e piume, non più ombre bidimensionali e pulsazioni sottopelle. Gracchiavano, invitavano Eira a seguire il loro volo, e lei non potè che soccombere, sonnambula ed inebriata dei suoi stessi pensieri, incapace di separare la sua quotidianità a contatto con quel singolare volatile da ciò che realmente stava accadendo. Le sembrò quasi di fluttuare, conducendosi passo dopo passo sin fuori dalla barca e sulla spiaggia per poi camminare avanti, avanti, avanti, finchè non incontrò un'apertura tra le rocce. Le sue suole iniziarono a bagnarsi, inumidirsi di acqua marina una volta abbracciata l'oscurità sempre più pressante e materna, un abbraccio sicuro nel quale Eira si sentiva completamente protetta, nonostante fosse certa di non aver mai messo piede in quel luogo prima d'allora. Le protuberanze rocciose all'interno della cava assumevano forme grottesche ed allungate, eppure lei proseguiva, lasciandosi accompagnare dalla loro presenza e dal loro odore salino finchè il verso dei due animali non si intensificò, guidandola sino allo sbocco di quel tunnel che sapeva di correnti ed onde che chissà quanti secoli prima l'avevano plasmato come mani di un'abile scultrice. Si fermò qualche centimetro prima di entrare in quella che le sembrava una sala da ballo, imponente, spaziosa, morta. Non c'erano luci ad animarla, danzatori e danzatrici che si concedevano un ballo in compagnia, musicisti con i loro strumenti come in uno degli sceneggiati in costume che Eira adorava e divorava in una sola serata. Sembrava però che vi fosse un rumore bianco, un disturbo nella staticità di quel luogo, e la ragazza poteva riconoscerne facilmente le tracce, ricordando anche la propria presenza: spettri. Erano ovunque, si spostavano, aleggiavano in quella enorme sala in cerca di pace, oppure ancor peggio, intrappolati nel desiderio di far soffrire i vivi che solcavano quelle zone nello stesso modo in cui loro si erano distrutti in passato. Eira, però, doveva farsi forza ed andare avanti. Non c'era modo di tornare alla spiaggia ormai. Vi ricorderete di me, vero? Domandò sollevando così la testa, convinta che in un modo o nell'altro i corvi l'avrebbero capita. «Non dimentichiamo nessuno di noi.» Le voci dei volatili aleggiavano nella mente di Eira come un unico suono, forse inquietante e sinistro ai più, ma quelle poche e sincere parole bastarono a rassicurarla, motivandola a seguire entrambi i pennuti neri all'interno della sala.
    Come aveva previsto, Eira venne colpita dall'orribile sensazione di essere entrata nel dolore d'altri, ne ripercorreva i passi, ne udiva le voci. Non aveva idea di chi fosse stato in quella sfarzosa camera che vagamente le ricordava un palazzo che aveva visto nei libri di storia in classe, eppure avvertiva ogni sensazione dentro di sè con chiarezza cristallina: amore, perdita, sofferenza, speranza. Non riesco a fermarlo! Lo sguardo si spostava da un angolo all'altro del grande salone, e le voci concitate di persone invisibili continuavano a struggersi sino a far tremare Eira, a costringerla racchiudersi nella stretta delle proprie braccia, come se venti glaciali l'avessero attraversata da parte a parte in pochi secondi. «Ce la fai, puoi resistergli. Puoi controllarlo, Ivar. Non sei solo, siamo tutti qui.» Alla lontana, quella voce riuscì a raggelarle il sangue nelle vene: non le era del tutto sconosciuta. Fae. L'aveva incontrata, così come Beat, nella folla del Bolgen, era stata aiutata più e più volte da lei per quei maledetti amplificatori che non funzionavano, ed Eira l'aveva osservata e le aveva detto: "sai che sei proprio forte", un evenienza più che rara per persone non immediatamente vicine al cerchio di amici stretti della ragazza. Anche Fae era stata rinchiusa in quella stanza? Aveva sofferto, aveva sperato ed aveva amato, ed ora toccava ad Eira. Sarebbe uscita da lì come aveva fatto Fae prima di lei? Si sarebbe spezzata sotto al peso del passato che ora incombeva su di lei e la schiacciava sino a farle tremare le vertebre? Perdonami! Perdonami non volevo farlo! Altri fantasmi si aggiungevano a quel simposio lugubre, e in un angolo, il più scuro di tutta la stanza, Eira la vide: «Gioca con me.» Per qualche attimo si irrigidì, impaurita dalla visione della bambina dalle intenzioni e fattezze demoniache che restava ferma in quella porzione di buio, fissando lo sguardo su Eira e costringendola a distogliere il proprio, ora che gli occhi le si erano riempiti di lacrime. Non si accorse nemmeno dell'arrivo di altre due donne, una presente persino da prima del suo arrivo, che all'improvviso suscitarono un suo sussulto. Non le conosceva, eppure era certa che fossero di natura diversa dalle voci che echeggiavano tra le ampie vetrate opache e dalle visioni tetre che le comparivano davanti agli occhi e la facevano sentire inerme. Voi- Scusate, chi siete? Dove siamo? Eira si fece avanti, eppure notò che quasi immediatamente entrambe le ragazze, sperdute ed impaurite quanto lei, si stessero iniziando ad allontanare da lei pur restando ferme. Davanti a loro comparvero delle persone, e sembrarono non riuscire più a sentirla, immerse nei loro discorsi, catapultando Eira in una invisibilità che aveva potuto vivere solo nei suoi incubi.
    «Questo però non è un incubo, Raven.» Da quando era arrivata, Eira non aveva che esplorato superficialmente quel luogo, muovendo solo qualche passo al suo interno, eppure la sua immobilità sembrò essersi dissolta in un attimo quando si voltò di scatto nell'udire una voce a lei sin troppo familiare. Kris! Squittì immediatamente più sollevata, correndo verso il suo caro amico per portare le braccia attorno ai suoi fianchi e stringerli. «Ahh, da quando sei così sdolcinata, mh?» Ricambiando affettuosamente l'abbraccio, Kris lasciò che Eira trovasse conforto nella sua presenza prima di lasciarla andare, rivolgendole poi un dolce sguardo. Zitto eh, non è stato il massimo arrivare qui. Li sento, sai? I fantasmi. Si lamentò infine la ragazza in un lieve borbottio, indicando l'angolo del salone dove aveva incrociato lo sguardo con quello dell'inquietante bambina. «Lei non può farti alcun male, vedi? E nemmeno il ricordo degli altri. In realtà, tu dovresti capire..» Col sollevarsi di una delle mani tatuate di Kris, l'immagine dello spettro più spaventoso si dissolse nel nulla, e tutte le voci calarono nel loro volume sino a scomparire del tutto. Il sollievo che colpì Eira si fece immediatamente pervasivo, distruggendo anche il peso che le opprimeva il petto e distendendo la sua tensione. Si rese conto solo in seguito si star lasciando scorrere la sua particolarità liberamente, privandosi persino del fardello del suo corpo fisico. Io.. Capisco quel che vuoi dire. Ma non sono come loro. Non sono ferma nel dolore. Confermò, abbassando lo sguardo verso di sè come ad esplorarsi per la prima volta dopo molto tempo: sì, le mani erano traslucide, opache, immateriali, e così anche il resto del corpo andato oltre la morte, e di questo Eira non era più spaventata. Aveva capito che la morte in realtà fa parte di tutti, sin dalla nascita, ci accompagna nella vita e la rende significativa con la sua sola esistenza. In lei, semplicemente, agiva in maniera intermittente, rendendola un individuo tanto particolare ed unico quanto l'epitome dell'umanità stessa, ritratto della fine comune a tutti noi. «È vero, loro hanno sofferto, ma come te, hanno anche amato.. Penso che sia inutile spiegartelo, tu più di tutti sai cos'è un fantasma.» Il fantasma è ciò che resta di una persona quando non vogliamo o possiamo lasciarla andare. In un cenno d'assenso, Eira volse le spalle all'amico, tornando ad indagare la sala con lo sguardo. Non sembrava più il posto inospitale ed alieno in cui era entrata poco prima, ma un luogo accogliente che, seppur in rovina e sporco di sangue, avrebbe potuto abitare. Fluttuò verso una delle pareti segnate dagli eventi del passato, ed immergendoci il palmo dentro, si sentì al sicuro. Sì.. Lo so. Il fantasma è il ricordo e la perdita, ma soprattutto il rifiuto di abbandonarla. Come si può andare avanti quando qualcuno che perdiamo è parte di noi? Non c'è bisogno di andare avanti vero? Quanto odio quando lo dicono ai funerali. "Non ti preoccupare, andrai avanti, la supererai". Che idiozia. Ho sempre pensato che non si debba lasciare nessuno indietro. Eira era ritornata a periodi ben precedenti a quello; si era ricordata di quando si era sentita abbandonata tra le pieghe del tempo ma la sua forma era tutt'altro che immateriale. «Ti senti così per l'orfanotrofio, vero?» Sollevò la testa e tornò ad osservare Kris, senza dire niente. Il bagliore più malinconico nelle sue iridi aveva risposto per lei. «Mm. Però.. Tu sei rimasta fedele a te stessa, sempre. Sono d'accordo con te, ad ogni modo. La perdita non si supera, si impara a camminarle affianco, proprio come hai fatto tu. Ti sei sentita lasciata indietro, ma hai proseguito nella tua vita con i fantasmi senza volto dei tuoi genitori biologici, e poi hai trovato i tuoi papà, Hakon, e una fichissima famiglia di amici che ti vuole bene - di cui, modestamente, mi definirei il capo.» A quelle parole, con tanto di terribile occhiolino finale, Eira non potè fermare lo sbuffo divertito che le scappò dalle labbra, prima di fermarsi nei suoi passi incorporei ed assumere un'espressione perplessa.
    Kris.. Sei reale o sei solo nella mia testa? Domandò infine, impaurita di ritrovarsi di colpo nuovamente sola, in quel luogo che ora percepiva come suo ma dal quale non trovava via d'uscita. «Oh beh, certo che sono nella tua testa, Eira.. Però, proprio come per te, il fatto di non far del tutto parte del mondo fisico non significa che non sia reale.» Proprio come poco prima, al sollevarsi del palmo di Kris, nella sala vuota e provata dal tempo, ora priva persino delle altre due donne che la più giovane aveva individuato una volta lì, i lampadari di cristallo rimasti ancorati al soffitto si illuminarono, riempiendo gli spazi di luce calda e fioca. Eira seguì con lo sguardo il tremolio di quelle luci e ne fu affascinata, notando il modo in cui abbracciavano l'oscurità. «Se lo volessi, potresti rimanere qui. E sì, prima che tu me lo chieda, tutti saranno con te, anche lei.» Sarebbe stato inutile chiedersi di chi Kris stesse parlando, poichè Eira lo sapeva già; dalle ombre emersero i contorni di una figura che aveva visto più e più volte e che ormai erano sinonimo di batticuore ed amorevole nervosismo. Era Petra, sorridente e bellissima, fasciata in un elegante abito maschile, che la salutava e le porgeva la mano. L'unica differenza con la Pepi della vita di tutti i giorni stava nella sua pelle: anche lei, come Eira, abitava una forma spettrale ed incorporea. Quando Eira si voltò per chiedere conferma al suo amico, per essere sicura che andasse tutto bene, Kris annuì sereno, anch'egli vestito con il proprio abito nero. «Divertiti, io ti aspetterò Sembrava tutto così tremendamente bello, che Eira non esitò nemmeno per un attimo nei suoi gesti, tornando a Petra per avvolgere la sua mano nella propria e stringerla teneramente. In quel modo, entrambe oltre la vita, era facile avvertire il suo palmo, in un contatto che non aveva niente di fisico e tutto di umano. Petra, ti va di ballare con me? Domandò lei, intrecciando le dita alle sue ed attendendo un cenno, proprio mentre attorno al proprio corpo prendeva forma un meraviglioso vestito nero. Così, Eira indugiò in quel tenue contatto con Petra ancora qualche secondo, rafforzandolo solo al suo "sì". Dopo che entrambe ebbero compiuto un passo avanti, il loro abbraccio si fece più intimo, racchiuse in una dolce presa ed iniziando ad ondeggiare in un valzer echeggiante per tutta la sala. Con le braccia attorno alle spalle di Petra, Eira semplicemente lasciò che i movimenti facessero ondeggiare il suo corpo effimero, vicino a quello di colei che più le piaceva e che era sicura non l'avrebbe mai abbandonata. Tra una giravolta e l'altra notò anche i volti di suo fratello, dei suoi papà, e di una donna che non conosceva e di cui non riusciva a tracciare i lineamenti, sfocati e quasi privi di forma, se non fosse per il caschetto corvino che li contraddistingueva. L'aveva già visto da qualche parte, eppure non riusciva ad identificarne l'origine, non spaventata da quella persona senza volto, piuttosto, rassicurata dalla sua presenza. Lasciò quindi che Petra la avvolgesse ed a sua volta la abbracciò più stretta, posando una guancia contro la sua per poi affondarvi le labbra. Era fredda, quasi umida, e la faceva sentire a casa. Ballarono, si strinsero e si baciarono, ed Eira perse completamente la nozione del tempo, persa in quei lenti volteggi e tra le note di un'armonia meravigliosa, superata nella sua bellezza solo dalla presenza di tutte le persone a lei care. A chi importava se si trattava di un sogno? Quando quella musica perfetta, triste e soave divenne appena udibile, come se gli invisibili strumentisti si stessero preparando al momento topico della sinfonia, Petra si fece indietro gentilmente, ed Eira, comprendendo il suo gesto si voltò verso la sua famiglia e Kris - quest'ultimo con la sua ampia falce in mano. Fu allora che lanciò un ultimo sguardo all'altra ragazza ed alle altre persone che avevano preso la sua stessa forma. Spero che ci incontreremo nell'altra vita. Succederà? Domandò infine lei, gonfiando il petto in un respiro, un vezzo umano che non le apparteneva più. Petra sembrò annuire ed intercettarla con le sue iridi lucenti e vispe, che quasi brillavano di desiderio nelle tenebre.
    Bene.. Bene.. Si ripetè con un filo di voce, rivolgendosi ora alla figura del suo amico, lì ad attenderla. La lama della sua ampia falce nera pareva affilatissima. Il Cupo Mietitore si è rivelato, eh? Eira sapeva quale fosse la sua particolarità e chi fosse davvero, ed aveva sospettato questo finale sin dall'inizio della storia. «Ci sei quasi Eira. Verrai con me?» Eccola, la Morte pronta a mietere la vita da Eira; è spesso un controsenso grottesco ed allucinante vedere un'esistenza così giovane spezzarsi, eppure per lei nulla era fuori posto. Per questo, quando si rivolse a Kris sollevò le spalle, lasciando scivolare via una lacrima dagli occhi smeraldini. Forse, sono sempre più appartenuta a questo posto che a tutti gli altri. Era tornata lei, Eira, così com'era alla festa, con i suoi abiti, le tinte di guerra sulla pelle, in carne ed ossa. Le sembrò quasi innaturale ritornare al proprio corpo, tanto che prese a lasciar scorrere le mani sul costato ed i fianchi, quasi come se non credesse di aver esaurito lo scopo per cui era diventata spettro: comprendere quali fossero il luogo e le persone con cui restare. Di fianco alla figura di Kris si trovava, insieme agli sfarzosi lampadari semidistrutti, anche una corda, un lungo cappio che penzolava dal soffitto. Non si muoveva, statico ed intrappolato nell'immobilità eterna simile a quella del sonno mortifero. Hey.. Kris io.. Non lo credevo, ma.. Si interruppe, adocchiando la carcassa del pianoforte e proseguire sino ad arrivare alla cima di quel cumulo di legno ormai incapace di produrre alcun suono. Ho davvero paura. Sussurrò, preda di un pianto lento e silenzioso, trovando difficile persino respirare. Le dita tremule e sottili sfiorarono il cappio quasi come ad acclimatarsi a quella ruvida corda, e lo sguardo cercò quello di Petra, Hakon, William ed Oliver, la signora dai capelli neri. Erano tutti lì, nessuno l'avrebbe lasciata più sola. «Lo so, fa sempre paura. Ma va bene così Eira, non devi per forza combatterla. Non te lo nasconderò, all'inizio fa davvero schifo, perchè al tuo corpo non piacerà. Però poi tutto si dissolve, e ci sarò io tutto il tempo, così come gli altri. Infine spirerai, ed inizierà tutto.» Eira soppesò ogni parola, eppure sentiva di non avere più la forza di esaminarne il significato; sentiva solo che fosse tutto vero, visceralmente, in quelle stesse interiora che di lì a poco non si sarebbero più contorte dal terrore. Inizierà tutto. Ripetè, ricevendo in risposta un lento cenno d'assenso. Kris fece per avvicinarsi ed aiutarla con il cappio, ma Eira lo fermò prima che lo toccasse. Devo farlo io. Quando salterò giù, per favore tienimi la mano. Si raccomandò unicamente, stringendo così i palmi sulla corda per sollevarla oltre la propria testa per cingersi il collo e stringere. Il nodo scorreva più facilmente, molto più di quanto Eira avesse mai immaginato, ed una volta bloccato, lasciò cadere le braccia lungo ai fianchi. Nulla le fece più paura, quando cercando Petra con lo sguardo la trovò ancora lì, lontana eppure al tempo stesso ad un solo passo da lei. «Avanti, non importa quanto la vostra vita sia difficile, vi assicurò che c’è sempre una ragione per continuare a vivere. Vi prego, vi prego, ascoltate me.» La voce di Riley la raggiunse solo come un'eco lontana, sfiorandola senza però toccarla per davvero. Ciò che realmente Eira sentì fu il tremore della terra, che fece vibrare persino le fasce di legno sotto ai suoi piedi. Di colpo, tutti tranne Kris svanirono, e davanti allo sguardo della giovane emersero anche una donna bruna e proprio Riley stessa, forse tanto agitata da scatenare la sua particolarità terracinetica. Devo tornare da loro. Infondo, Eira l'aveva sempre saputo. Non era mai appartenuta al mondo dei vivi, non del tutto almeno. Era arrivato il momento di tornare a casa, e l'avrebbe fatto volentieri, sicura che lì avrebbe trovato tutte le persone che più amava e che non avrebbe mai lasciato indietro. Lanciò uno sguardo verso Riley e le sorrise, serena, non appena la terra si mosse un'altra volta, come ad incitarla a saltare. Le serviva solo un ultimo incoraggiamento. Grazie. Mimò con le labbra, prima di afferrare la mano di Kris, pronto ad accompagnarla, e saltare. In quegli ultimi terribili spasmi fu solo il corpo di Eira a combattere per la vita, poichè il suo cuore era già fermo, adamantino nella decisione presa. Sentì l'aria e la scintilla vitale scivolarle via dalle membra, e quando le palpebre iniziarono a farsi pesanti, le parve quasi di poter fluttuare nuovamente, anche mentre le sue gambe si muovevano alla ricerca di un appoggio in un estremo ed istintivo tentato salvataggio. Aggrappata al palmo di Kris, Eira strinse, strinse, e strinse, finchè poi non riuscì più a mantenere la presa, affievolendosi assieme a lei. Gli ultimi secondi si trasformarono in pura agonia, ma furono brevi.

    Eira, infine, spirò.

    Era tornata ad essere un fantasma, e si sa, le storie di fantasmi e le storie d'amore sono la medesima cosa.
     
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    Il sole è ancora alto nel cielo ma la luna ora lo copre solo per metà, ed ecco che appaiono nuovamente le figure mitologiche: il lupo, i due corvi e il drago sono davanti a voi per riportarvi indietro, alla spiaggia. Non avete il tempo di reagire, di trascinare via i corpi di Beat e Eira, deceduti, poiché questi si dissolveranno davanti ai vostri occhi o fra le vostre mani, allora non vi resterà altro che lasciarvi guidare, i restanti ora tutti insieme, dagli animali legati al vostro spirito.

    Abbandonerete la Kaigaten per tornare a calpestare sentieri umidi e verdi attraversando i boschi e giungere alla spiaggia.
    Abbandonerete la bellissima sala di San Giorgio e, immergendovi nel buio delle rocce, tornerete a premere i piedi sugli scogli e sulla sabbia.
    Abbandonerete l'ossigeno lasciando che l'acqua dell'oceano vi sommerga e, una volta tornati in superficie, sarete nuovamente sul bagnasciuga.
    Abbandonerete i vostri animali guida.



    I granelli di sabbia dorata sembrano l'unica cosa reale ai vostri occhi che, spinti dalla curiosità, cattureranno immagini di un mondo che non sembra il vostro nonostante ci somigli più di quanto possiate credere. State forse ancora sognando? L'intera spiaggia è illuminata non solo dai raggi del sole, ma anche dalle fiamme di alti falò che, bruciando in fila indiana l'uno di fianco all'altro come a formare una sorta di barriera, riscaldano l'intero paesaggio, sembra quasi assurdo tutto quel calore. A circondare quella schiera di fiamme ci sono fiori meravigliosi di tutti i colori, alcuni spaiati e sparsi lungo l'intera costa, altri raccolti in bouquet ed aiuole di rose, lavanda, andromeda, orchidee e tulipani, impossibile non catturarne il profumo agrodolce. Il vento caldo oltre a smuoverne i petali, s'infrange anche contro la superficie in movimento dell'oceano che, in un moto cantilenante, si spinge contro il bagnasciuga in onde di schiuma e sale. La natura e i suoi fieri elementi - fuoco, terra, aria e acqua - è forte intorno a voi, vi circonda e vi culla con le sue braccia. Vi spingerete verso il centro della spiaggia, riunendovi gli uni agli altri, e da lì sarete in grado di scorgere molto altro, ciò che dietro gli alti falò o fra le aiuole si cela: il confine, sottilissimo, fra morte e vita. Lì appariranno quelli che han ceduto per primi, Eira e Beat, che solo voi avrete la possibilità di vedere ma non di toccare mentre, restandovi vicini, vi seguiranno per tutto il tempo guardandovi le spalle. Se sarete saggi, darete loro ascolto. Allora l'incanto sarà spezzato, frammentato, distrutto, e tutto ciò che di bello avrete catturato con lo sguardo e il calore delle fiamme da cui vi siete lasciati avvolgere fino a poco prima svanirà per lasciare spazio allo sgomento.
    Sono tanti, troppi i cadaveri riversi sulla sabbia, ammassati sulla parte sinistra della spiaggia come carne al macello e privi di alcun colore, grigi e freddi, hanno gli occhi sbarrati. Potreste riconoscerne qualcuno, potrebbe essere un amico, un conoscente, forse un parente. Di fianco alla montagna d'ossa e morte s'innalza un grande gazebo in legno dalla forma triangolare, il tetto cremisi s'infrange contro l'azzurro opaco di quel cielo di mezzogiorno rompendone la monotonia ed invalidando qualsiasi regola monocromatica.
    Una musica leggiadra risuona in lontananza, sebbene non sembri avere né origine, né fine. Raggiunta l'apertura nel centro esatto della schiera di quei alti falò, sarete accolti da un gruppo di persone che vi circonderà, figure quasi oniriche avvolte in lunghe tuniche bianche e i cui volti sono stati animati da pittura bianca e rossa: vi sorrideranno e spingeranno ad entrare nel grande spazio aperto ai piedi del gazebo, passando attraverso i sentieri di fiori luminosi e colorati così da raggiungere quindi il centro esatto della spiaggia. All'interno di quel grande piazzale non avrete alcuna via d'uscita, se non quella di lasciarvi avvolgere dall'atmosfera pacata che aleggerà intorno a voi, effettivamente mai liberi del tutto dall'alterato stato mentale in cui vi siete ritrovati non appena avete visto gli animali guida.

    "E' nella morte che siete voi la nostra unica fonte di vita"


    Mai verranno pronunciate quelle precise parole, ma ne verrete a conoscenza. Un sussurro che si sposta tramite una folata di vento caldo e smuove i placidi sorrisi su quei volti per trasformarli in lettere che, dentro la vostra mente, diverranno urla.
    Quando ognuno di voi otto rimasti verrà afferrato e catturato con le mani legate dietro la schiena da una corda spessissima, dimenarvi sarà inutile. La luna copre ora solo tre quarti dell'immenso sole, lontanissimo eppure così vicino da iniziare a farvi credere di bruciare sulla pelle come farebbero le fiamme dei falò che vi separano dal mare e dalla libertà. Ognuno di voi otto verrà innalzato su una pedana in legno bianco posizionata davanti all'entrata del gazebo; verrete legati ad altissime colonne dello stesso materiale e colore ed Eira e Beat non potranno aiutarvi, ma saranno lì per guidarvi invece alla vita.

    Le fiamme divamperanno sotto di voi, intorno a voi, su di voi.

    Bloccati dalle corde, la consapevolezza che inizia a scorrere in voi è che non ci sia più alcun modo di tornare indietro. Potete solo andare avanti ed ancora avanti, sino ad andare oltre, fino a che non riuscirete a vedere più la storia che si è avvicendata alle vostre spalle come fosse ormai tra le ombre di un sentiero lontano. Ora che siete fermi sulla pedana, comprendete di non essere solamente dei prigionieri: siete gli otto prescelti, coloro che verranno guardati; voi siete lo spettacolo pieno di meraviglia e potere capace di riportare tutto alla normalità ed alla pace. Man mano che i secondi scorrono veloci, vi sembrerà di abitare una fetta di eternità, un infinito presente; non c'è alcun futuro ad attendervi se non quello che state vivendo di attimo in attimo, e lo sentite nelle vene, nelle ossa, nei muscoli che si tendono e contraggono dalla paura. Sono mani profondamente umane, tangibili e carnali anche quelle che vi strattonano e vi costringono ad inginocchiarvi, a prostrarvi davanti agli dei che vi hanno creati ed agli uomini ed alle donne che si aspettano molto da voi - loro, anzi, si aspettano tutto.
    Non c'è modo di fuggire dall'euforia metodica che vi avvolge, uno alla volta, non appena la melodia leggiadra si trasforma in vibrazioni di tamburi e di sonagli che iniziano ad emettere suoni ritmici e profondi che avvertite sin nelle interiora raccolte nel vostro stomaco. Udite il suono dei secoli avvicendarsi in una successione di battiti, gli stessi che scandiscono, primordiali ed arcani, i passi delle figure i cui volti sono ornati dai colori di guerra. Non siete certi che stia accadendo tutto per davvero, così come non potete essere sicuri del fatto che si tratti di un'illusione: ogni evento scorre su ed attraverso voi, e non c'è nulla che possiate fare per fermarlo. Potete cercare di gridare, di lottare, di dimenarvi o di estraniarvi da ciò di cui siete testimoni proprio davanti ai vostri occhi, ma ogni tentativo sarà vano. Le corde attorno ai vostri polsi sono troppo strette, la paura troppo paralizzante. Si pensa che con l'arrivo delle tenebre arrivino anche gli incubi, ma nel vostro caso accade tutto il contrario: è con l'arrivo della luce del sole che sentite la morte avvicinarsi, nascondersi nella brillantezza della luce per accecarvi con essa. Man mano che il suono dei tamburi si fa più intenso si aggiungono delle voci, cantano e rendono omaggio alla musica che benedice quel momento, ed una delle persone lì presenti si fa avanti, reggendo in una mano un ramo di un frassino, la stessa tipologia d'albero dello Yggdrasil, e nell'altra quello che sembra essere un semplice secchio. Vi accorgete solo quando la donna immergerà il fuscello al suo interno che esso risalirà in superficie coperto di sangue, rosso, brillante, vivo e da poco ricevuto in dono da chi è venuto prima di voi.
    Pronunciando parole che non conoscete ma i cui significati vi sono visceralmente chiari, ella solleverà il ramo e vi bagnerà di quello stesso sangue, benedicendo la vostra vita ed il vostro avvenire nella gloria che porterete alle generazioni avvenire. Dopodichè come fosse il leggiadro pezzo finale di una elaborata coreografia, un tonfo segnala l'arrivo di coloro che proseguiranno quella singolare sinfonia: otto individui, tanti quanti siete voi, si posizioneranno alle vostre spalle, le piante dei loro piedi ora che percuotono con cadenzati colpi le lastre legnose della pedana. Per voi sono solo braccia semoventi, niente facce, niente occhi, nient'altro. Ciò che riuscite a vedere sono solo braccia che si sollevano, rese brillanti dalla presenza di una lama in ogni mano destra, proprio nel momento in cui la donna di fronte a voi compirà lo stesso gesto, innalzando i suoi stessi arti superiori verso il cielo. Di fronte a voi non scorgete che devastazione e delirio, il tremore di un mondo che sta per collassarvi davanti, e forse, con voi. Eira e Beat saranno presenti in quei lunghi attimi, per non abbandonarvi mentre i coltelli si poseranno freddi sulle vostre gole, fermi, in attesa, proprio come lo siete stati voi non appena intrappolati contro quelle colonne che ora sembrano ergersi sino a sparire nelle vette più alte del cielo, come se sorreggessero il perso del mondo intero ed anche quello delle entità spirituali che solitamente accendono la fede degli esseri umani. Voi siete le fondamenta su cui altro si ergerà, così come accade ad ogni corpo morto, che diviene nutrimento per la vita che ne segue. Lys è la prima a cadere sotto il taglio impietoso che le solca la trachea, dopodichè Magdalena, poi Riley, Max, Astrid, Bella, Rei e Leo, uno ad uno lacerato là dove l'aria passa ed anima le membra, sancendo la fine delle vostre vite. Sono squarci netti, sicuri e pieni d'intento quelli che vi recidono la carne, lasciandovi cadere uno dopo l'altro nella morte, la fine della via che vi conduce al vostro nuovo inizio.


    #indicazioni:.
    -- Siete disorientati ed ancora in uno stato di non totale lucidità, tuttavia riuscite a comprendere cosa sta accadendo a livello sensoriale attorno a voi.
    -- Ogni player dei pg rimasti in vita riceverà un MP da parte del Master. Consultatelo e seguite le istruzioni lì presenti.
    -- Anche le player che hanno i personaggi di Eira e Beat ne riceveranno uno, ma sono invitate a mettersi in contatto quanto prima dopo aver letto questo post ed i loro messaggi, in modo da decidere i personaggi a cui affiancarsi.
    -- Fatto ciò, nel canale telegram ci saranno spazi dedicati alla discussione di eventuali interazioni tra Beat/Eira ed i pg rimasti in vita.
    -- In questo turno dovrete descrivere le vostre reazioni a ciò che sta accadendo ed eventuali interazioni tra voi.
    -- Questo turno si deve concludere con la morte dei vostri pg.
    -- Vi invitiamo ad iscrivervi alla discussione per non perdere nessun post.
    -- Questo turno finale contiene delle informazioni importanti, quindi vi suggeriamo di seguire con la lettura, per quanto possibile, ogni singolo post.
    -- Infine, vi ricordiamo che avete la possibilità di postare entro 3 giorni massimo, dopodiché salterete il turno.


    #recap azioni & info utili:
    • Seguite gli animali scelti;
    • Tornate alla spiaggia;
    • Scorgete dei falò ed anche un ambiente ricco di fiori e colori;
    • Una volta arrivati al centro della spiaggia vedete Eira e Beat in forma spettrale, ed assieme a loro anche una moltitudine di corpi senza vita;
    • Da quel momento, Eira e Beat sono con voi sino alla fine del turno;
    • Approdate quindi al gazebo, e siete guidati al suo centro;
    • Lì, verrete catturati e legati, e per voi non ci sarà più via d'uscita.

    Turni:
    1. Eira
    2. Lys
    3. Riley
    4. Max
    5. Astrid
    6. Magda
    7. Bella
    8. Rei
    9. Leo
    10. Beat

    I turni iniziano da domani, martedì 18.05.

    Qualsiasi dubbio o domanda riguardante la Quest potete porgerla in questo topic.
     
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    "E quando riaprì gli occhi..." No, Eira non si svegliò, non riaprì gli occhi, nè tantomeno emerse dal suo sonno eterno - non c'era più alcuna vita a cui tornare. Nel momento in cui spirò, Kris non mancò alla promessa fatta, ed in un infinito spazio buio Eira riuscì comunque a vedere, e non era sola: tutti coloro che amava erano lì, con lei. Non erano più separati, erano diventati uno - una sola energia, una sola vibrazione, un solo vuoto. Adesso Eira non esisteva più, eppure era consapevole del fatto che il suo cammino non fosse stato completamente reciso dal mondo dei vivi. Una consapevolezza amorfa ma spessa e precisa la colpì, ed il momento in cui l'oscurità totale sopraggiunse fu per lei anche quello della chiarezza più cristallina. Ora comprendeva tutto ciò di cui non era riuscita a tracciare i contorni, riusciva finalmente a percepire ogni cosa - ciò che fa della conoscenza sia una benedizione che una disgrazia. Oltre il velo, Eira conosceva il passato, il presente ed il futuro, ma come tutti coloro nella sua posizione, non sarebbe mai stata in grado di rivelare nulla agli altri che, differentemente da lei, avevano scelto di vivere. Infondo si dice così, "portarsi un segreto nella tomba". Non c'è frase più calzante. Per portare a termine il proprio compito, Eira tornò nella sua forma spettrale, ed una spessa patina di tristezza colmò i suoi occhi vitrei. Non ci sarebbe stato nulla da fare, nulla per fermare l'inevitabile. «Non vi siete dimenticati di me, allora.» Acquorea e riverberante, la voce della giovane tornò ad interpellare i corvi, che ritornati da lei nella sala di San Giorgio si accingevano ad accompagnarla là dove era destinata ad arrivare. Il suo tono si era fatto ambiguo; non era più sicura che essere ricordata dai suoi animali guida le avrebbe risparmiato dolore persino nella sua forma più intoccabile, tuttavia era certa del fatto che la sua presenza sarebbe stata utile, forse persino necessaria. Per questo, non esitò ad emergere dalle pareti dall'ampia stanza e fluttuare sino a dove tutto era iniziato, in un ciclo infinito che da ere si ripeteva senza mai spezzarsi, proprio come quello delle molteplici vite umane che nascendo, crescendo e morendo continuavano ad esistere e decadere incessantemente. La spiaggia. Eira non riusciva più ad avvertire l'odore salino del mare, tuttavia avvertiva il vento passarle ormai attraverso, e solo quando le sue iridi si spostarono dal taglio dell'orizzonte, notò una seconda figura accanto a lei. «Beat.» Esordì, rivolgendogli la sua completa attenzione solo dopo averlo salutato. Lo conosceva, eppure sembrò sorprenderla vedere proprio quel ragazzo pieno di vita con cui aveva condiviso dei momenti di musica e divertimento al Bolgen di fianco a lei, traslucido ed opaco proprio rassomigliante a- a se stessa, un fantasma. «È stato per amore, no?» Più che una domanda, Eira parve constatare una verità, che profondamente, aveva toccato entrambi - l'uno colpito al cuore da un colpo di proiettile, l'altra avvolta ancora da un cappio in corda attorno al collo. «Resteranno.» Le cicatrici, gli amori, i ricordi di quei momenti. Tutto sarebbe rimasto. «Farà male, perciò.. sono contenta di non essere sola.» Nel mezzo di quella tragedia pronta ad incombere su di loro - su tutti loro - Eira sembrava rassicurata dalla presenza di Beat. Non poteva dire di sapere che forme avessero le profondità del suo animo, ma così com'era stato per Fae, Eira lo aveva senz'altro in simpatia, e non avrebbe voluto vederlo soffrire come sarebbe accaduto di lì a poco. «Ora dobbiamo fare del nostro meglio per loro. Non sei d'accordo?» Gravoso e pieno d'intenzione, lo sguardo di Eira si posò sul volto di Beat, indagandolo un'ultima volta mentre le labbra si distendevano in un sorriso triste e la testa si muoveva in un piccolo cenno d'invito: era arrivato il momento di andare, e sebbene i pesi di ogni persona coinvolta avrebbero schiacciato tutto quel che di loro rimaneva, Eira sperò di finire il suo operato nel migliore dei modi, con l'aiuto di Beat.
    La strada era già segnata per loro: avrebbero dovuto seguire la morte a cui ormai appartenevano, la scia di cadaveri che si fermava oltre le fiamme, là dove i vivi non avrebbero potuto scorgerle di primo acchitto. Sempre più, Eira si convinse di avere un cuore pulsante nel petto: sembrava che ogni volto ritraesse qualcuno a lei conosciuto, qualcuno che era suo parente, familiare, sorella, fratello, amante. Ogni essere umano esanime su quella spiaggia era ormai parte di lei, e causava ad ogni incontro uno spasmo nel suo petto; sapere tutto e non poter dire niente nè ora nè in seguito turbava Eira oltre ogni dire, portandola a sospirare rassegnata - gesto ormai inutile ma non per questo inespressivo, ora che la sua angoscia rispecchiava quella delle anime in pena i cui lamenti si possono udire in castelli infestati e luoghi di morte violenta. Sì, perchè violento era il futuro che attendeva Eira ed i suoi amici e compagni, pronto a realizzarsi, appunto, in una violazione, una profanazione dei loro spazi, dei loro corpi, della loro psiche e del loro futuro. Eira li vide tutti, uno per uno, sgomenti e spaventati, ed avvicinandosi al loro fianco si rese manifesta, senza però rivolgere loro parola. Sfortunatamente, quel momento sarebbe arrivato presto. Nel mentre, coglieva delle informazioni, delle quiete riflessioni, proprio poco prima della cattura. Immediatamente e dopo poco tutto cominciò, ed Eira accorse vicino a Riley, Magdalena, Leo e Rei. «Per favore, non resistete, altrimenti sarà peggio. Dovete fidarvi di me, più lotterete e più soffrirete.» Indicò, sfiorando la corda che le cingeva il collo, accompagnando così i quattro malcapitati verso il gazebo. «Sono qui. Non vi abbandonerò.» Tentò di rassicurarli adamantina nella voce, mentre il suo corpo veniva attraversato da gocce di sangue che lo superavano per atterrare su quelli degli altri, ora purificati per accogliere la rinascita attraverso il decadimento. «Vi prometto che finirà presto, finirà presto..» Nella sua posizione, Eira non poteva svelare tutto quel che sapeva, nè tantomeno condividere la tessitura del gramo arazzo di cui lei ormai conosceva tutti gli intrecci - bloccata in un sonno lungo e purtroppo irraggiungibile. Non poteva essere toccata o abbracciata, eppure poteva essere vista ed udita, percepita come un conforto per coloro che dopo di lei sarebbero trapassati. Proprio quella esperienza già vissuta avrebbe dato a lei il vantaggio necessario a consolare gli altri, scrutandone il passato, la storia e le infinite prospettive dell'avvenire.
    Le ginocchia dei vivi toccarono il pavimento, e fu allora che Eira si avvicinò di più, fino ad immergere una fredda mano incorporea nella spalla di Riley, cercando così di darle un po' di strambo ma forse ben accetto supporto. Era come se il tempo si fosse dilatato, permettendo ad Eira di avanzare, trovare la sua strada nei cuori tremanti di coloro che stavano per perdere la vita. «Sei molto coraggiosa, io l'ho visto.. Ho visto tutto, tutto ciò che sei riuscita a conquistare, ad ottenere nel tuo passato.. E poi, nel presente sei riuscita a riportare Astrid da te. So che sei una guerriera, ed affronterai anche questo come tale.» Asserì, inginocchiandosi così davanti a lei, in modo da rivolgerle un sorriso riconoscente. «Per favore, non essere triste per me. Non è stata colpa tua, è stata una mia scelta. Tu non mi hai condannata, mi hai solo fornito una spinta - sono io che ho deciso di saltare nonostante tutto. Non c'è nessun colpevole, solo passeggeri; in questo viaggio io ho deciso di andare oltre, tu di restare. Sei stata brava Riley, non ti dimenticherò mai. Tu invece ricorda. "Guerriera".» Così, Eira fissò il suo sguardo in quello più languido dell'altra per qualche lungo secondo, nella speranza di infonderle ancora un po' forza, approdando così vicina a Magdalena. La vide cercare di resistere alle corde per cercare di raggiungerla ancora una volta, con le guance solcate da calde lacrime, e per questo fu lei ad andarle incontro, sino ad avvolgere le braccia attorno alle sue spalle in un amichevole abbraccio, purtroppo non percepibile. «Non preoccuparti di ciò che avverrà, Magdalena. Ci conosciamo da poco, eppure sono sicura che non ci perderemo.» Affermò Eira con convinzione, solo dopo distaccandosi dalla sua figura in modo da poterla osservare. «Tu hai avuto una vita in cui il tempo è stato importante, per via dei tuoi genitori. Lo capisco, cercare qualcuno che non ha partecipato alla tua vita è un'impresa, ma tu ti sei liberata dalle catene che ti tenevano imprigionata, e hai reclamato quello stesso tempo speso per tuo padre investendolo su te stessa. Pensa a questo quando ricorderai la nostra conoscenza: il tempo ha importanza e significato, ed anche se breve, anche quello passato insieme ne ha avuto, per te stessa ed anche per me. Sarò qui con te ora.» Commentò con dolcezza Eira, lasciando che quel messaggio sedimentasse qualche attimo tra loro prima di passare a Leo, che la ragazza si perse ad osservare per dei lunghi momenti, come se ne contemplasse i lineamenti del volto e non riuscisse a riconoscerlo. «Tu..» Soffiò, senza alcun tono di giudizio nella voce. «Hai chiuso gli occhi, morendo prima di me.» Confermò, inclinando così appena il viso, continuando la misteriosa ricerca negli occhi dell'uomo. «Sei diventato cieco non vedendo umanità negli altri, e negandola a loro, hai finito col perdere la tua. Tu non hai volto, eppure in questo momento hai gli occhi aperti, ed affronti la morte che non ti spaventa più. In fin dei conti sei un soldato, Leo.» Senza distaccare lo sguardo da lui, Eira si concesse di lanciare uno sguardo alle corde che lo tenevano legato, ora vittima e non carnefice, prigioniero e non aguzzino. «Oggi però nella morte vivrai l'esperienza più umana di tutte, forse l'inizio di una redenzione, oppure semplicemente la fine di tutto. Questo sarai tu a deciderlo. Tuttavia, devi ricordarti del fatto che colui che hai amato ti ha dato una seconda possibilità. Rinasci essere umano e coglila.» Con fermezza, Eira dedicò a Leo quelle ultime parole, parlandogli proprio da dove in lontananza poteva udire le grida di spiriti che, differentemente da lei, non erano giunti alla falce della morte con la stessa consapevolezza e serenità. Il suo sguardo era ora diretto lontano, oltre tutte le figure di quegli uomini e quelle donne - alcuni con armi in mano, altri pronti a cadere sotto al loro colpo. Quando Eira riportò le iridi su Rei, l'ultima dei suoi protetti, per quanto bizzarro potesse essere in quanto spettro, i suoi occhi erano umidi, bagnati di lacrime che, osservando l'altra donna, si fecero più intense. Quella reazione sorprese anche Eira stessa, che portandosi le mani al volto ne raccoglieva quei tristi frutti. Piangeva, piangeva e piangeva, avvertendo ora più che mai la morte nel cuore. Quel caschetto, quegli occhiali. Qualcosa in Eira si risvegliò, non potendo collegare con certezza quei lineamenti all'ombra ferma nella sala di San Giorgio, colpita altresì dalla tristezza infinita di vedere qualcuno di così familiare morire. Non riuscì a dire niente. Si avvicinò solo a Rei, così tanto da sfiorarne la fronte con le labbra. Chiuse gli occhi e le tenne lì, per qualche istante, come se potesse imprimervi il respiro che invece da lei non sarebbe più esalato. «Io ti aspetterò. Ti prego, non lasciarmi andare ancora.» Le disse semplicemente, tenendo quindi la fronte contro la sua finchè ogni lama non fu pronta a scivolare lungo quelle quattro povere gole, ed Eira, in un ultimo gesto non si allontanò, espandendosi sino a disintegrarsi del tutto, attraversando i corpi di quei compagni di disavventura in un ultimo tentativo di donare loro sollievo: sembrava come se, tra gli zampilli di sangue, una lieve pioggia trasparente toccasse i volti di Riley, Magda, Leo e Rei, dando loro in dono un ultimo assaggio delle bellezza della vita sulla terra proprio mentre la abbandonavano.

    abbiate pietà di me😭 fa schif ma ho postato😭
     
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    Si stenta a crederci, ma anche gli incubi hanno qualcosa di sfacciatamente meraviglioso: non ha importanza cosa accada, cosa gli occhi credano di vedere, gli incubi restano tali. Sono a volte menzogne, a volte paure di cui non si può parlare a voce alta quando si è svegli. Raramente un incubo si maschera da sogno e nasconde la propria reale identità fino all’ultimissimo secondo, fino alla fine di quel tempo che, attraverso le immagini che appaiano sotto le palpebre, non riesce mai a scorrere in maniera fluente. Eppure avviene ed è bellissimo, con il suo calore avvolge e inganna la preda per catturarla e tenersela stretta, legata alle paure che, d’un tratto, hanno forme e suoni completamente differenti. Ma l’incubo resta incubo, il sogno resta sogno, la realtà resta realtà: bisogna solo aprire gli occhi di nuovo e tornare a guardare.

    Fino all'ultimo respiro. lo sussurrò la donna dai capelli scuri di nome Rei alla quale Lys si era avvicinata a passo svelto non appena l’aveva vista, accertandosi che Magda facesse lo stesso. Aveva allungato una mano nella sua direzione e l’aveva aiutata a sollevarsi, improvvisamente di nuovo conscia di chi fosse e a cosa aveva appena rinunciato, pur restando emotivamente alquanto instabile. «Ce la fai? Sono Lys, posso aiutarti?» sussurrò in direzione di Rei appena dopo essersi inginocchiata per sostenere l’altra, le mani pronte a darle la spinta giusta o, semplicemente, a far da appoggio alla donna ancora provata da ciò che aveva visto e dal veleno con cui aveva tentato di togliersi la vita. Quando furono in piedi ci fu un breve attimo di silenzio e Lys guardò alle altre due con espressione preoccupata, un po’ alla ricerca delle stesse sensazioni e un po’ perché, lo vedeva, le donne che aveva davanti erano più grandi di lei e forse -ci sperava- avrebbero saputo meglio come comportarsi. C’erano volte in cui, lo sapeva, si sentiva ancora tremendamente bambina, come se gli anni che le eran scivolati addosso dopo l’adolescenza in realtà fossero stati solo flebili riflessi di ciò che da piccola era stata, imitazioni mai abbastanza mature di quello che avrebbe dovuto essere a quel punto della vita. Si perdeva spesso in quei pensieri, chiedendosi cosa poi potesse renderla adulta per davvero e quando avrebbe finalmente smesso di sentirsi così piccola, un po’ inerme, come se tutte le ferite e il dolore passato sarebbe restato dentro di lei per tutta la vita e speranzosa nello scorgere qualcuno giungere per sollevarle quel peso via dal petto.
    Distaccando gli occhi dai volti delle altre, Lys sollevò il viso in direzione del cielo, labbra schiuse e pupille dilatate per via della luce solare che, lentamente, iniziava a riappropriarsi del suo spazio. Quando la figura maestosa del solito drago attraversò, in lontananza, gli spazi aperti fra un dito e l’altro della mano che aveva sollevato davanti al viso, Lys trattenne istintivamente il respiro, in attesa: giunse nuovamente l'acqua e divorò ogni cosa, bagnò l'asciutto del terreno e il calore dei vestiti, s'infranse contro le pareti degli spalti e ne distrusse i gradini, uno per uno, finché non restò solo sabbia. Fluttuarono dentro quel mare scurissimo tutte e tre, stavolta Lys poteva vederle e si sentiva rincuorata nel non sapersi sola sotto la pressione schiacciante di quell'oceano che si svuotava e riempiva come voleva, portandosele all'interno di quello spazio privo d'ossigeno per qualche istante ancora. E fu il ricordo di un lago a spaventarla, la sensazione del soffocare che la spinse ad allargare le braccia più di quanto forse le sarebbe stato concesso, eppure si sentiva fatta di plastica, come se potesse allungarsi senza mai spezzarsi, e allora cercò di afferrare le mani di Magda e Rei che, sotto la superficie dell'acqua insieme a lei e alla figura del drago, venivano spintonate ora di nuovo verso la superficie attraverso cui fitte lastre di luce danzanti le invitavano a salire, nuotare in fretta nella loro direzione per tornare finalmente a respirare.

    Venne via dall'acqua a fatica, cercando di correre per lasciarsi alle spalle le onde del mare e con la paura di esser risucchiata via di nuovo, ora più consapevole di ciò che le era appena accaduto. Con la stoffa bagnata del vestito che le si incollava alla pelle e avvolgeva la sua figura in maniera gentile ma opprimente, Lys raggiunse a grandi falcate il bagnasciuga dove, con le dita dei piedi che tornavano ad affondare nella sabbia, si chinò per qualche secondo su se stessa e riprese fiato. Inspirò ed espirò profondamente, mano al petto che, tremante, risaliva gentilmente con i polpastrelli verso la gola, quasi avessero ad ogni tocco l'abilità di fare in modo che l'attraversasse più ossigeno fino ai polmoni. Quando tornò a sollevare il mento e a drizzare la schiena, l'opprimente sensazione che aveva stritolato il suo petto fino a quel momento sparì del tutto insieme all'acqua che aveva appesantito i suoi indumenti. I capelli, ancora legati nelle due trecce ben ferme sulla nuca, tornavano a scenderle morbidi lungo la schiena. Si voltò immediatamente verso Rei e Magda per accertarsi che fossero uscite anche loro dall'acqua, ritrovandosele vicine proprio come, l'una di fianco l'altra, le tre si erano fatte condurre dal drago verso la superficie e, quindi, al punto di partenza: eppure, sulla spiaggia vi era qualcosa di stranamente errato, scomposto. Non era esattamente come lei la ricordava, non alla stessa maniera in cui - ne era perfettamente certa come se però fosse stato tutto solo un sogno - l'aveva lasciata. Strinse le dita dei piedi contro la sabbia, incastrando qualche granello sotto i polpastrelli così da accertarsi che le sensazioni che stava vivendo in quel momento fossero vere, tattili e reali, per poi lasciarla andare di nuovo e riprendere a camminare. «Non dovremmo essere qui.» sussurrò lievemente alle altre due, continuando ad avanzare in direzione di ciò che, ora, si apriva dinanzi ai suoi occhi. Una catena di fiamme si ergeva davanti a loro e separava la zona sabbiosa in due, relegandole in prossimità della riva e lasciando in sospeso delle domande che lentamente parevano prender vita sotto pelle. "Dov'è Lys?" se lo chiese come se non fosse certa delle risposte che fino a quel momento aveva avuto, come se la propria immagine fosse stata sfocata fino a quel momento e, ora, tutto tornasse a prendere le forme giuste anche contro lo sfondo più errato di sempre. "Chi è Lys?" si domandò ancora, silente, mentre la mente cercava di elaborare teorie a quell'assurda consapevolezza che, sebbene similissima ad altre della vita passata, ritornava ora forte e chiara, più vera di tutte le altre, più concreta di qualsiasi altro concetto a lei associato prima d'allora. E mentre quelle domande non trovavano risposta, Lys seppe con certezza qualcosa di infinitamente importante, di rilevanza assoluta da cui mai avrebbe potuto voltare via lo sguardo, ora che sapeva: ciò che aveva davanti agli occhi non era un sogno, non era un mondo inventato dalla sua fantasia e non era il frammento di un incubo da cui avrebbe potuto salvarsi riaprendo gli occhi. Le fiamme che solleticavano il blu del cielo chiarissimo, i fiori sparsi su tutta la sabbia, le piccole aiuole colorate che ne decoravano il percorso fino al piazzale al centro del quale s'innalzava il grande gazebo, la sensazione di prigionia dalla quale Lys venne d'un tratto sopraffatta mentre tornava a guardasi intorno pur sapendo di non avere alcuna via di scampo, neanche se avesse provato a correre, neanche se si fosse gettata di nuovo in acqua per tornare indietro, neanche se avesse saltato così tanto da poter volare via, altrove. Era quello il punto di partenza e, in qualche modo, seppe fosse assurdamente anche il punto d'arrivo.
    Quando la vide, però, tutto s'infranse davanti agli occhi e Lys si concesse di tornare brevemente piccolina, lasciandosi così istintivamente tutto il resto alle spalle, tutto quello che sapeva e che non sapeva, tutto quello che l'aveva spaventata e l'aveva ingannata per farle chiudere gli occhi, forse per sempre. Quando la vide, tornò a muoversi come sempre faceva, veloce, scattante, agile. Corse incontro a Max e, a braccia aperte, si fiondò sulla sorella per abbracciarla e stringerla forte, tirandosela stretta contro e cercando di cogliere ogni più piccolo particolare di lei per accertarsi che fosse realmente lì, sotto i suoi occhi, fra le sue braccia. «Max!» lo disse perché l'avrebbe resa vera sotto la pelle e nel cuore, un battito che presero a condividere nello stesso momento in cui si ritrovarono strette l'un l'altra come spesso era accaduto. Anni ed anni di sussurri nel mezzo della notte se la minore non riusciva a dormire, anni ed anni di fiducia tattile, bastava prendersi per mano, bastava lasciarsi andare, bastava chiudere gli occhi e starle in braccio per sapere di che sostanza si fosse fatti: Max e Lys erano diversissime, eppure così simili da essere quasi indissolubili. «Stai bene?» chiese senza però tirare via la nuca dall'incavo del collo della sorella e restando con il viso nascosto fra i lunghi capelli dell'altra. Lasciò andare via un po' di quelle tossine sporche che si sentiva dentro, un po' di quella tristezza che le era strisciata sotto pelle poco prima, quando aveva visto Beat. Per fortuna solo un sogno, forse un incubo. si ritrovò facilmente a pensare in quel momento, avvolta dall'affetto della sorella maggiore. Cullata da quel momento, dalla sensazione di tenerezza che l'aveva sopraffatta non appena aveva visto Max, Lys quasi dimenticò del luogo in cui si trovavano e di quello che, avrebbe potuto esser chiaro perfino ad uno stupido, anche la sorella aveva sicuramente vissuto. Quando poi finalmente riacquisì la forza di staccarsi da Max, Lys si allontanò in un primo momento solo con il busto, così da allacciare il proprio sguardo chiaro a quello di lei e, finalmente, sorriderle, ora che c'era lei al suo fianco decisamente più sollevata. La solitudine, la sensazione di paura che aveva provato fino a quel momento, tutto sparì dissolvendosi nello sguardo dell'altra che, Lys ora se lo sentiva addosso, si ergeva attorno a lei come una sorta di protezione, uno scudo di cui Lys aveva imparato a fidarsi sin da bambina: se c'era Max mai niente di brutto poteva davvero ferirla. Lo credette anche nel momento in cui ebbe modo di scorgere l'ombra di paure nello sguardo di Max che questa tentò però di mantenere celate ancora un po' agli occhi di Lys, in quel momento troppo felice di sentirla viva fra le sue braccia per accorgersi delle parole che l'altra imbrigliava a stento sulla punta della lingua e dietro l'arcata di denti bianchissimi che si mostrarono in un sorriso un po' triste, un po' sollevato per lo stesso motivo. Fu quasi come guardarsi allo specchio e ritrovare, nel riflesso dell'altra, la stessa sicurezza che l'aversi di fronte dava loro.
    Allentò la presa dalle spalle di Max, facendo scivolare le mani lungo le sue braccia fino a raggiungere quelle di lei e stringerle fra le proprie, mentre si allontanava di poco da lei - senza però mai lasciar andare la presa - e tornava a voltarsi per posare lo sguardo ora più rilassato sul paesaggio intorno a loro e, ora li vedeva, sugli altri volti e figure che apparvero lì vicino. Fu contenta nel constatare che stessero tutti bene, soprattutto quando lo sguardo cristallino si posò sulla sagoma minuta di Astrid cui rivelò l'ennesimo sorriso un po' stanco ma tranquillo. Si sentiva nuovamente avvolta da un'inconfondibile sensazione di pace che non credeva avrebbe potuto vacillare di nuovo, non prima che i suoi occhi furono capaci di scorgere ciò che dietro le alte fiamme di quei falò si celava ai loro occhi. Avanzò quindi insieme con Max in direzione del gruppo che sembrava essersi riunito in prossimità dell'alta schiera di fumo che s'innalzava verso il cielo, calpestando fiori colorati dai quali alcuni petali si erano staccati mischiandosi ora alla sabbia. «Siamo a casa.» disse a voce alta per farsi udire dagli altri, eppure corrucciò le sopracciglia, conscia di quanto quella casa non fosse esattamente la stessa dalla quale si erano mossi poco prima. Non aveva idea di dove gli altri fossero stati, ma poteva leggerne strascichi di tristezza sui visi pallidi e riconoscerla come propria, la stessa che aveva avvertito aggrapparsi al suo stomaco quando nella grande arena aveva visto cose bellissime da cui però si era fatta spaventare. «Questo - continuò interrompendosi brevemente per indicare il resto della spiaggia con una delle due mani libere - è reale. Sta accadendo davvero, non lo stiamo immaginando.» disse confusa, stringendo appena più forte le dita attorno al dorso della mano di Max mentre provava a spiegare a parole la sensazione che avvertiva dentro, la consapevolezza che ciò che avevano dinanzi agli occhi non fosse solo frutto della loro immaginazione o di un sogno all'interno del quale erano stati intrappolati. «Dovete credermi.» aggiunse con tono un po' più malinconico, sperando che gli altri si fidassero di ciò che lei credeva fosse certo. Non sapeva il come, non sapeva il perché, ma era a conoscenza del fatto che quel luogo fosse vero tanto quando i battiti che, sotto la pelle di ognuno di essi, continuava a far circolare sangue e vita. A vederla lì in mezzo, Lys, sembrava quasi esser distaccata dal resto di loro: guardò Astrid, poi Riley, Bella, le sue compagne Rei e Magda, fino a posare lo sguardo sul ragazzo dai capelli chiarissimi che mai aveva visto prima, uno sconosciuto con cui lei non aveva condiviso nulla di quella esperienza e nulla nel prima, nella realtà che ora cozzava brutalmente con ciò che, lo sapeva, era altrettanto vero per loro. Li guardò tutti, tornando a ricercare gli occhi scuri e familiari di Max per aggrapparsi a lei nel momento in cui lesse dello sconforto misto a stanchezza sul viso di tutti gli altri. Se da un lato era rimasta scottata dalla visione che aveva avuto, dall'altro Lys si era costretta a rimettersi razionalmente con i piedi per terra e convincersi, quindi, che tutto ciò che aveva visto era stato solo un inganno: ben architettato, ben costruito, tanto simile alla visione del suo mondo ideale da averla quasi fatta franca. Ma non ci era riuscito e lei era tornata indietro, ritrovando nelle sagome di Magda e Rei la stessa paura che aveva scacciato via, sentendosi meno sola. Qualcosa però s'incrinò tempestivamente quando, di sfuggita, altre due sagome apparvero oltre le figure di chi aveva intorno oscurando ciò che forse gli altri avevano già potuto vedere prima di lei.
    Lasciò andare la mano di Max repentinamente, sciogliendo quella presa solida in un batter d'occhio mentre il corpo già si muoveva, gli occhi che avevano catturato i contorni di Eira per primi e si erano poi immobilizzati su quelli spigolosi di Beat. Inspirò profondamente, quasi dovesse raccogliere un'enorme quantità d'ossigeno per avere la forza di compiere qualsiasi gesto intorno a lui o nelle immediate vicinanze, quasi avesse bisogno di molecole di vita terrestre per riuscire a guardarlo, perché lui tutto poteva su di lei, persino toglierle via qualsiasi respiro. «BEAT!» gridò, il tono di voce fatto di caramelle di zucchero e stupore. Con la stoffa del vestito sollevata e stretta fra le dita delle mani, Lys si aiutò spingendo i talloni nella sabbia mentre questa tentava di impedirle di raggiungerlo, e ad ogni passo le sembrava quasi di affondare: doveva correre, sempre più in fretta e sempre con più forza per riuscire a raggiungerlo, eppure non era neanche troppo lontano. Impossibile per lei nascondere la sensazione di felicità nel vederlo lì, anche lui insieme a loro, anche lui superstite di qualcosa che li avrebbe segnati per il resto dei loro giorni. «Beat?» lo chiamò, come lo aveva chiamato miliardi di notti prima, nel buio di una stanza e in procinto di aprire una finestra qualsiasi su un balcone qualsiasi, come aveva attirato la sua attenzione milioni di volte, anche dopo, anche solo affinché lui potesse girarsi verso di lei e guardarla. Ma Beat non sorrideva come al solito, Beat non l'ammoniva con lo sguardo come al solito, Beat non si mosse, non si avvicinò, restò fermo lì senza muovere un dito, braccia distese lungo i fianchi, mento appena sollevato e sguardo vitreo e malinconico, più malinconico di tutti gli altri. Tutto ciò che non era e che non faceva però non fermarono l'avanzata di Lys che, ora ad una spanna di distanza dal ragazzo, allungava già un braccio nella sua direzione per afferrarlo, convinta di ciò che la sua mente avrebbe voluto farle credere. Spostò furtivamente le iridi azzurrine intorno a loro, appena prima di raggiungerlo, per accertarsi che fosse ancora sulla spiaggia e non appesa ad una corda sopra le bellezze di Berlino che lui un tempo le aveva mostrato e che con lei aveva voluto condividere, felice.

    Acciuffò l'aria.

    Sciolse la stretta delle dita dal pugno che aveva chiuso attorno alla mano di Beat e poi, in silenzio, Lys tremò. Non respirò per qualche secondo, lo sguardo ora basso sulle dita della mano pallida che, piano, portava verso l'alto, in direzione del viso, nel centro esatto fra quei due corpi muti e sordi. Scosse appena il capo, increspando le sopracciglia mentre l'ennesimo rifiuto veniva a galla dentro di lei. «No.» si disse sbattendo piano le palpebre e compiendo un passo indietro per allontanarsi da lui, ora nuovamente ferita. «Non di nuovo.» sentenziò, furiosa, tornando a respirare a ondate, profondamente, il petto che compiva movimenti alterni, su e giù, mentre lei si rifiutava di credere che tutto si stesse ripetendo. «Smettila!» gridò nella sua direzione una volta sollevato nuovamente lo sguardo sulla sagoma del ragazzo che, ora, non aveva più niente a che vedere con quella di Beat. Si voltò a guardare frettolosamente gli altri, vedendosi raggiungere dalla sagoma di Max che, ora a qualche passo di distanza da lei, la richiamava a sé. «Cosa succede?» gridò in direzione degli altri per accertarsi di non essere l'unica a rivivere l'inganno del sogno, giusto in tempo per voltarsi nuovamente verso Beat e istintivamente riprovare a spingerlo via, senza però riuscire a toccarlo. Fu come sentirsi strappar via il terreno da sotto i piedi, fu proprio quella la sensazione che provò Lys non appena le mani lo attraversarono in pieno petto, là dove un tempo aveva premuto le due dita per riportarlo indietro. E allora si domandò, Lys, perché mai Beat volesse intrappolarla dentro un sogno e strapparla via alla realtà, la stessa dalla quale lui non aveva avuto il coraggio di perderla sette anni prima, quando l'acqua l'aveva sommersa e ne aveva tirato giù il corpo proprio come lui ora stava tentando di fare con lei per soffocarla dentro un mondo che non era il loro, non davvero. E a conoscerne la risposta Lys forse avrebbe potuto evitare di porsi qualsiasi domanda, evitando la verità come avrebbe voluto evitare tutto quello che dopo la notte trascorsa con lui al lago c'era e non c'era stato.
    Prima della voce di Max, prima dell'ombra che il corpo della sorella si trascinò accanto a quella di Lys sulla sabbia, prima della consapevolezza che non ci fosse molto altro da fare, ci fu il pizzico. guardò Beat dritto negli occhi e poi, con fatica, chinò il capo di lato ed abbassò lo sguardo sulle dita della sorella che, invadenti, si chiudevano attorno ad una porzione di pelle di Lys e distruggevano completamente ogni sua consapevolezza.
    Restò in silenzio non perché non avesse compreso le parole di Max quando parlò, ma perché faticò a credere che fossero veritiere. Come poteva, sua sorella, mentire dopo un’intera vita di verità? Semplice: non poteva. Al cospetto del buio che prendeva forma dentro di lei mentre fuori, al contrario, tornava ad illuminare tutto il sole, Lys spostava ora finalmente lo sguardo da Beat a Max, attendendo che uno dei due le dicesse che fosse tutto un errore, uno sbaglio matematico. Scosse il capo, prima lentamente, poi con fretta, un'espressione corrucciata sul viso, Lys non volle accettare, non subito almeno. «Max, no...» sussurrò verso la sorella, ancora incredula, "ti sbagli, non lo farebbe, perché mi dici questo?" chiese tacitamente appena prima di tornare a guardare lui ed intercettare qualcosa che prima non aveva notato, non così chiaramente. «Cosa hai fatto?» lo chiese sussurrando, con le sopracciglia sollevate in un arco ampio, non lasciava spazio a nient'altro mentre, il resto del viso, sembrava combattere il movimento dei muscoli che, da un momento all'altro, avrebbero fatto cedere tutta la pelle e sarebbero state solcate da lacrime ancora increduli. Quando le iridi lucidi di Lys si scivolarono lentamente dal viso scarno del ragazzo fino al suo petto, il sole vide le crepe della luna davanti a sé: due, piccolissime, avevano la stessa forma esatta dei suoi polpastrelli; l'altra, appena più in basso, aveva una forma più circolare e nascondeva un proiettile di metallo che, incastrato nella carne di Beat, lo fece sanguinare all'improvviso. E il terremoto e il temporale e la fine del mondo giunsero a lei sotto forma di brevissimi respiri che si susseguivano veloci uno dopo l'altro all'interno della cassa toracica ora di nuovo troppo stretta, aderente ai polmoni, non dava loro alcuna possibilità di movimento, come aveva fatto Lys a respirare fino a quel momento rinchiusa dentro quella gabbia d'ossa? «Cosa hai fatto, Beat?» ripetè allora, il tono della voce rotto dai singhiozzi. Si portò le mani al viso, unendole a coprire le labbra schiuse dallo sgomento e dalla paura, emozioni che sapevano di perdita definitiva, qualcosa al quale non avrebbe potuto rimediare in alcun modo, non più come una volta. E la veridicità di tutto quello che aveva davanti agli occhi venne giù pesante su di lei, che ora sapeva alla perfezione di stare in piedi difronte proprio a lui e nessun frutto marcio della sua più recondita immaginazione. «Max, che accidenti ha combinato lo chiese per la terza volta quando avvertì le braccia della sorella che come cinture di sicurezza iniziavano ad avvolgersi attorno a lei per tenerla stretta. E fu al petto di Max che Lys si poggiò con la schiena appena ricurva e stanca, lasciandosi andare piano e inconsapevole mentre affondava fra le sue braccia per non cadere. Poco contava la distanza che li aveva separati sette anni, poco contava il silenzio riguardo Beat smezzato con Max e forse anche la maggiore aveva sempre saputo che non era sinonimo di dimenticanza ma solo di paura, quella di cedere ai ricordi che un tempo l'avevano sempre fatta stare bene e, poi, non lo avevano fatto più. Si chiese fugacemente cosa pensasse quindi Max di quella reazione, delle lacrime di sconforto che solcavano le guance pulite di Lys e lavavano via perfino i brillantini che si aveva spalmato sul rosa della pelle: ora, chiaro come la luce del sole che tornava a splendere da dietro l'ombra fitta che la luna aveva lanciato su tutto il resto, Lys non riusciva a nascondere più proprio alcun sentimento e gli anni che li avevano separati, il profondo sentimento di affetto che provava per Paul, le litigate con Beat solo perché nessuno dei due era capace di chiedere scusa e tornare indietro, tutto sembrava tremendamente inutile e, di quell'inutilità, loro ne avevano fatto un campo di guerra senza alcun reale motivo. «Come faccio a portarti indietro, così?» bofonchiò in un sussurro un po' incerto e quasi automatico, cercando di trovare sui contorni della sua figura qualcosa, qualsiasi cosa, una piccola parte rimasta intatta, tattile, senza però avere alcuna fortuna. «Come faccio stavolta ad aggiustare tutto se...» s'interruppe, sollevò lo sguardo e allungò di nuovo una mano verso di lui, all'altezza della guancia chiarissima e ruvida dalla barba, l'avrebbe avvertita pungente sotto le dita se solo quello fosse stato un incubo e nient'altro. «...se non posso neanche toccarti, Beat?» chiese quindi, tornando a guardarlo in volto, provata dalla realtà dei fatti che prendeva sempre più forma compatta nella sua mente.
    Non ebbe modo di dire altro, poiché altre sagome apparvero dietro di loro per condurli verso il centro della spiaggia e, per tutto quel tempo, Lys non lasciò andare mai la presa su Max, dal quale a stento accettò di separarsi quando, tirata via dalle sue braccia, Lys venne catturata e le sue mani vennero legate dietro la schiena. Venne portata assieme agli altri sulla pedana in legno bianco dove, spaventata e preda di quelle che parvero convulsioni respiratorie, Lys potè udire le melodie dei tamburi e dei sonagli mentre la facevano inginocchiare, in attesa. Fu distorto il modo in cui le parve di percepire quella realtà: quasi non si accorse del sangue che, scivolando via dai rami secchi del frassino che una donna teneva fra le mani, giunse a macchiarle la pelle candida e imperlata dal sudore. Ma lo sguardo di Lys era altrove, il suo io era altrove, intrappolato in quello che a stento riusciva a comprendere davvero, dentro di sé. La tirarono poi nuovamente su e, spingendola con la schiena contro una delle alte colonne bianche, la legarono ad essa con la corda, Non disse nulla, Lys, che lasciava le iridi vagare ai propri lati, alla ricerca di quegli sguardi di cui si fidava, consapevole tutto ad un tratto che, con molta probabilità, se quella era la realtà di cui era stata a conoscenza sin dal momento in cui aveva messo piede sulla spiaggia, non avrebbe più visto nessuno di loro, se non forse in un mondo parallelo, un paradiso che avrebbe accolto tutti quelli a cui voleva bene. Astrid, Max, Beat. Si tranquillizzò il respiro e il petto tornò a muoversi lentamente sotto al richiamo d'ossigeno che la spingeva ancora ad incamerarne altro dentro ai polmoni stanchi. «Vi voglio bene.» sussurrò rivolgendo il viso in direzione di Astrid e Max, certa che ne avrebbero potuto leggere il labiale anche senza udirne ogni parola. Eppure distolse in fretta lo sguardo per puntarlo di fronte a sé mentre sollevava il mento, un pianto quasi rabbioso e silenzioso che si faceva strada sulle guance umide, Lys seppe di non potere proprio nulla contro il destino che per loro sembrava esser stato scritto e la consapevolezza che tutto fosse reale di certo non aiutava la fantasia, l'idea che potesse esserci una via di scampo.

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    Si sussurrarono tantissime parole, Beat e Lys, lontano da chi avrebbe potuto udire ciò che si dicevano.
    Sarebbe stata bene, quella sì che suonava come una vera promessa dopo la spirale d'inganni. Sarebbe rimasto con Lys, dentro ogni battito del suo cuore, appeso al suo sguardo in mezzo alle folte ciglia scure, nell'ombra che si sarebbe trascinata con lei sul terreno ad ogni singolo passo compiuto, ovunque, fino alla fine. «Abbiamo sprecato moltissimo tempo.» I sette anni trascorsi ad incolparsi anche senza mai dire neanche una parola al riguardo, gli attimi a schivare ogni sguardo, il desiderio di ferire l'altro nella stessa maniera in cui già prima lo avevano fatto, inconsapevolmente, solo per salvarsi l'un l'altra. «Lo comprendi davvero, ora, Beat?» l'impronta dei polpastrelli di Lys sul petto di Beat, i crateri piccolissimi ed invisibili agli altri, per loro due equivalenti a gigantesche crepe nella terra da cui vien fuori lava. «Che senso avrebbe avuto riportarti indietro, se poi avessi davvero voluto abbandonarti di nuovo?» Aveva nuotato e poi aveva smesso, l'idea embolo che aveva infettato Lys e si era fatta casa nella sua mente dopo esser stata cacciata via dal cuore, passata ai polmoni, fino ad essersi spinta sempre più su e aver accecato colei che da sempre tutto aveva visto. «Ti ho amato anche quando non l'ho detto e tu hai pensato che non fosse vero, anche quando ti allontanavo.» Lei, che mai si stancava di ripetere quanto tenesse a quelli cui voleva bene. «Non abbandonarle, ti prego. Sono la cosa più importante che ho, lo sai.» Le luci della sua vita, sangue del suo sangue, occhi rassicuranti e braccia minute ma forti, l'avevano sorretta da sempre anche solo con una storia della buonanotte o un coniglietto da salvare; se ne stavano di fianco ma lei non si sarebbe voltata a guardarle, le sue Max e Astrid, che di quel destino a lei affibbiato ne condividevano la stessa sorte. «Io non ho paura, fa' in modo che non ne abbiano neanche loro. La morte mi è amica, lo sai anche tu.» Le scorreva sotto la pelle, raggiungeva la punta delle dita, era parte di lei, del passato, del presente e del futuro. «Da qualche parte staremo insieme, io e te.» Un giardino. No, forse una distesa di verde molto più estesa, miliardi di luci, fasci di luce coloratissima che raggiungono il cielo, pungono l'atmosfera e illuminano il buio soffocante dell'universo fatto di stelle, pianeti, soli e lune che si girano intorno restando nello stesso inalterato equilibrio di sempre. Con gli occhi avvolti nel buio delle palpebre ora serrate con forza, Lys scivolava già via, lontano. «E balleremo, berremo, e mi stringerai come facevi sempre, e io dirò soltanto una cosa. Solo una, e sai quale sarà?» Avrebbe pianto legata a quell'alta colonna mentre la lama del coltello si posava sulla gola, avrebbe sorriso in quel parco gigantesco, in mezzo al verde degli steli d'erba sotto i piedi. «Beat?» Avrebbe detto.

    Forse, dopotutto, non è poi così vero che una volta aperti gli occhi l’incubo si dissolve. Forse resta tale proprio perché, una volta sollevate le palpebre e messo a fuoco il mondo reale, ci si rende conto che l’incubo non è una parte a sé stante e che, nei casi peggiori, può mischiarsi alla realtà e mangiarsi ciò che del sogno resta e, ormai, più niente può tornare a separare quei mondi come dapprima lo erano stati.
     
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    Riley Møller
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    Riley era sotto shock. Era riuscita a non cadere nella trappola di quello che credeva fosse suo padre ma, a quanto pare l’altra ragazza che era con lei in quel salone misterioso non ce l’aveva fatta. Le aveva mimato un ‘grazie’ con le labbra prima di scegliere le braccia della Morte alle sue di braccia che si erano protese per aiutarla. Mentre la terra smetteva di tremare guardò l’altra ragazza, colei che invece l’aveva ascoltata e, per lo meno, era ancora viva. Non aveva mai visto quelle due ragazze, non conosceva i loro nomi né mai aveva incontrato i loro volti lungo le vie di Besaid. Non sapeva nemmeno se esistessero veramente o fossero solo frutto della sua immaginazione, nonostante avesse la consapevolezza che in realtà fossero esseri umani reali. I corvi sbattevano le ali intorno alle due superstiti, comunicando l’urgenza di tornare indietro, facendo la strada a ritroso. Avrebbe voluto portare con se’ il corpo di Eira, fare qualcosa, aiutarla, accertarsi che avesse veramente esalato l’ultimo respiro, ma il corpo inerme sparì in pochi secondi, che però a Riley parvero un’eternità. Guardò Astrid tentando di non apparire troppo sconvolta, ma in realtà non c’era un modo per apparire calma dopo tutto quello che era successo. «Grazie.» La ragazza le disse quella semplice parola, mentre nelle sue iridi poteva specchiarsi e leggere il suo stesso sgomento e, a quel punto, il gesto inaspettato. Astrid l’abbracciò, stringendola, come se Riley avesse compiuto un’impresa eroica. Era tutto vero, quindi, Astrid era vera, non era frutto della sua immaginazione, quell’abbraccio apparteneva ad un essere umano. Solo in quel momento, però, si rese conto quanto, in quel contesto, avesse bisogno di un contatto fisico, di una persona che l’abbracciasse proprio come aveva appena fatto Astrid. Ricambia, stringendola per una manciata di secondi e poi sciogliendo l’abbraccio. C’erano i corvi che continuavano a richiamare la loro attenzione e non poterono fare a meno di seguirli lungo quella strada che avevano già percorso. «Andiamo via di qui.» Intimò alla ragazza, mentre tornava ad essere inghiottita dalle tenebre per rivivere quella scena già accaduta prima: lei che seguiva i due volatili. Ancora le tenebre circondano le due figure mentre avanzano nell’oscurità delle rocce, abbandonando la sala di San Giorgio e le sue impolverate rovine, fino a raggiungere gli scogli e, infine, la sabbia che Riley sente sotto i piedi e quasi ne è sollevata perché è finalmente tornata in un posto che conosce: la spiaggia, da cui era partito tutto. Socchiude un po' gli occhi, colpita dalla fioca luce del sole che adesso è coperto solo a metà, e tenta di guardarsi intorno alla ricerca di Beat, la sua nuova conoscenza, di Lys, di Max, di Bella.
    E’ comunque sollevata da quella luce, la fa sentire come se il peggio sia passato e, forse, è solo frutto di un incubo che sta facendo mentre è ancora addormentata sulla spiaggia. Tuttavia, oltre alla luce del sole, c’è anche una luce fiammeggiante che attira la sua attenzione e che prima non c’era; una lunga schiera di alti falò illuminavano l’ambiente che la circondava, dando a Riley l’impressione di trovarsi su una spiaggia totalmente diversa da quella che aveva lasciato. Probabilmente era ancora troppo ubriaca, ma non ricordava che i granelli di sabbia fossero corredati anche da tutti quei fiori che, a dir la verità, emanavano un buonissimo profumo, Riley sentiva in maniera particolare la lavanda. Avanzò, certa che il pericolo fosse scampato, certa di poter tornare alla normalità, ormai il sole era quasi del tutto scoperto in cielo e sentiva dentro di sé una strana pace, come se il suo essere si fosse finalmente conciliato con la natura circostante, con quella consapevolezza che l’eclissi, nel bene o nel male, aveva fatto parte della sua vita e continuava a farne parte, segnando ciò che per lei, a quel punto, era un punto di svolta. Sentiva Astrid camminare accanto a lei, mentre avanzavano lungo la spiaggia fino a vedere le sagome degli altri. Riley sospirò, un sospiro liberatorio mentre li guardava assicurandosi che ci fossero tutte le persone con cui aveva interagito sul carro. Sorride quando vede Max che, vicino a Lys, le mima un “sei viva” da lontano. Hanno tutti lo stesso sguardo, anche Bella ha sugli occhi quel velo di tristezza e Riley capisce che tutti hanno avuto la stessa esperienza che hanno avuto lei ed Astrid. Un po’ si domanda chi mai abbiano dovuto fronteggiare loro prima di rendersi conto che fosse tutto un inganno, è strano pensare che nelle vite di ciascuno c’è quella persona a cui si è talmente attaccati tanto da voler morire per lei. «Questo è reale. Sta accadendo davvero, non lo stiamo immaginando.» Lys, il viso pallido e le iridi ancora provate da quello che avevano visto, attirò l’attenzione del gruppo, mettendo da parte ogni briciola di dubbio rimasta in Riley: quello era tutto vero, stava accadendo sul serio. Ormai aveva abbandonato da tempo il confine tra cosa fosse reale e cosa fosse frutto della sua fantasia, Riley stava accettando per inerzia gli avvenimenti che la stavano travolgendo da quando era iniziata l’eclissi, non le rimaneva altro che reagire, procedere lungo quella strada che tenebra dopo tenebra stava forgiando il suo cammino a Besaid. Annuì a Lys, lei le credeva, la sentiva sotto la pelle quella consapevolezza che fosse tutto vero quello che stava accadendo, nonostante avesse tentato di convincersi del contrario.
    Seppur ancora turbata Riley pensava che la sua esperienza si fosse conclusa lì, circondata da alti falò e dal profumo dei fiori, quando senti l’urlo di Lys e si voltò. Ciò che vide le fece portare d’istinto una mano sulla bocca, in segno di stupore. Puro stupore, solo questa era la definizione più adatta nel vedere materializzati dinanzi a loro Eira e Beat, coloro che non ce l’avevano fatta. Lo sgomento tornò a farsi strada nella sua pelle, mentre il senso di colpa riaffiorava per non aver salvato Eira e il dispiacere per Beat si faceva sentire forte nel suo cuore. Lui, a cui la sera prima aveva lanciato le gomme per cancellare. Lui che aveva appena conosciuto e che le avrebbe fatto piacere conoscere di più. Lui, Beat, non ce l’aveva fatta, così come Eira, che Riley non aveva mai incontrato ma a cui ormai si sentiva irrimediabilmente legata. Quella conoscenza mai iniziata adesso sapeva di eternità. Rimase in silenzio mentre sotto i suoi occhi si dipanava il dramma della sua collega, di Lys, che non aveva mai visto con quella disperazione nel corpo. Non stava giudicando, Riley, nessuno in quel gruppo poteva giudicare dopo aver vissuto una tale esperienza e avrebbe voluto fare qualcosa per Lys, consolarla, ma dal suo dolore sapeva che ogni lacrima, ogni lembo di disperazione era inconsolabile. Poi, come se il velo di Maya fosse finalmente caduto mostrando la realtà declamata da Lys, eccoli lì, una serie di cadaveri tutti intorno, pallidi, e freddi. Riley potè sentire il gelo scorrerle lungo la schiena, com’era avvenuto nella sala in rovina, ma non fece in tempo a metabolizzare quella visione che una serie di figure quasi surreali, oniriche, spinsero lei e il resto del gruppo verso lo spazio aperto del gazebo, posto al centro di quella scena sul filo dell’inverosimile.
    Sembra trovare la pace, Riley, pronta ad accettare tutto ciò che avverrà dopo quell’eclissi, se non fosse che il suo sguardo al futuro viene interrotto dal brusco strattone che la costringe a portare i polsi dietro le spalle, sentendoli stretti dalla presa di una corda spessissima. A nulla serve dimenarsi, e quella pace diviene irrequietezza, mentre cerca risposta inesistenti negli sguardi degli altri otto, suoi compagni in quell’assurdo destino. Mentre lei, come gli altri, viene sollevata su una pedana di legno bianca, pensa che un po' quello probabilmente è sempre stato il suo destino, dal momento in cui i suoi piedi sono stati bagnati dall’acqua del mare, la consapevolezza che da quel sole ormai scoperto dall’eclissi arrivino la luce e il calore necessari per raggiungere il punto di svolta, per iniziare quella nuova vita che le era stata promessa poco fa. Con quei tamburi che suonavano all’unisono del suo cuore aveva accettato quel destino, sgomenta, sorpresa, ma non impaurita. Aveva un unico conto in sospeso, però, ed era con Eira che non l’aveva lasciata un attimo in quel dipanarsi di atti veri misti a leggenda e folklore. Sussulta quando due mani la costringono ad inginocchiarsi. Sta succedendo. Non sa come, ma sta succedendo. Altri stanno facendo per lei quello che non è riuscita a fare da sola, credendo di poter offrire ancora tanto in vita quando, a quanto pare, avrebbe offerto di più in un’altra vita. I presenti intonano una melodia che conoscono solo loro, mentre una donna tra di loro si fa avanti, brandendo un ramoscello di frassino intinto di sangue, Riley se ne rende conto quando il liquido denso la bagna e il senso del sacrificio è tutto lì, nel sangue di altri che l’hanno preceduta. Non c’è via di scampo se non quella di liberarsi da ogni legame terreno. E’ amara quella consapevolezza, seppur inevitabile. Guarda Eira, che è sempre stata accanto a lei durante quel rito e adesso le si avvicina, per dare un senso a quegli ultimi istanti. Parole al miele, quelle di Eira, che rendono più sopportabile l’odore ferroso del sangue che lascia la sua impronta in ogni battito di tamburo, in ogni melodia cantata dai presenti.
    Aveva paura, Riley, tremava ma, allo stesso tempo, sapeva che urlare e dimenarsi non avrebbe avuto alcun senso, il suo cuore continuava a battere, spaurito mentre le otto lame designate ad intingersi con il loro sangue erano ormai pronte. Poi accadde, e tutto fu più veloce di quanto avesse mai immaginato e, allora, il suo cuore non seguì più il ritmo dei tamburi ma, semplicemente, smise di battere.

    scusate se è orribile, ma l'ho scritto di volata, vogliateci bene lo stesso
     
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    Sakura Blossom

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    Madeleine "Max" Lilian Love

    Un grido.
    La corona di pietra della Regina Nera cadde davanti a lei con uno schianto forte come un tuono, iniziando a rotolare verso il lato opposto della scacchiera. Max trattenne il respiro, non sapeva se fosse ancora un effetto dell’illusione di cui tutti erano stati vittima, ma per pochi istanti la gravità era stata sovvertita. Pedine fluttuanti senza più schieramento, pedoni della stessa quadra si scontravano frantumandosi, mentre alfieri avversarsi ruotavano l’uno accanto all’altro come in un valzer veloce. Meteore di pietra iniziarono a cadere quando la gravità riprese improvvisamente a funzionare, si sentiva rumore di esplosioni, sembrava un bombardamento aereo. Max si coprì il capo d’istinto, consapevole di quanto il suo gesto fosse inutile, eppure sentiva la voglia di sopravvivere scorrergli prepotente nelle vene. Quando il frastuono terminò, alzò lo sguardo per osservare l’ambiente circostante. Tutto era calmo e immobile, c’erano schegge di pedine e caselle ovunque, una devastazione silente. Era stata una guerra lampo. Max non poté fare a meno di dubitare dei suoi stessi sensi, erano ancora all’interno dell’illusione?
    Si rimise in piedi a fatica, ancora debilitata dall’utilizzo della sua particolarità, mosse i primi passi tentennando fino a raggiungere Bella. Si lasciò cadere di nuovo in ginocchio al suo fianco, solo in quel momento comprese perché l’aveva sentita urlare. Beat era disteso a terra, aveva la maglietta intrisa di sangue che gocciolava a terra, ogni lacrima scarlatta faceva il rumore fastidioso di un lavandino che perde. Max deglutì il risalire acido della nausea assieme al dispiacere, non era stata abbastanza veloce, quel ragazzo così giovane si era fatto ingannare dalla Morte travestita da Amore. Diede un pugno a terra, sentendo le schegge delle caselle rotte entrargli nella pelle, avrebbe voluto vedere ancora una volta i suoi occhi pieni di vita, invece si ritrovò a fissare delle chiarissime iridi disabitate. ”Cazzo, Beat, non potevi aspettare un secondo in più?” dovette distogliere lo sguardo da quella patina spettrale che si espandeva nelle iridi del ragazzo, era rimasto solo un involucro di carne e ossa, l’anima era scivolata via come un velo troppo leggero sospinto dal vento. ”Avrei voluto raggiungervi tutti…” appoggiò l’altra mano su quella di Bella che sfiorava il suolo, mentre con la coda dell’occhio notò la figura di un ragazzo biondo farsi loro vicino. Ci mise un po’ a parlare, le sembrava tutto fuori luogo davanti a quel corpo esanime. ”Dovremmo portarlo con noi…” aveva la voce affaticata, come se qualcuno le avesse legato un peso alle corde vocali. Socchiuse gli occhi, muovendo le labbra in una preghiera muta per quell’anima troppo giovane volata via dal suo corpo. Max tornò a mettere a fuoco Bella e Leo, facendo un cenno col capo verso Beat, mise le sue mani dalle unghie rosicchiate sotto le sue spalle per aiutare gli altri a sollevarlo. Provò a fare leva, ma venne allontanata dal lupo che aveva seguito dalla spiaggia, il quale si frappose tra loro e il ragazzo. Non lo avevano sentito arrivare, i suoi passi di seta li avevano colti di sorpresa. Negli occhi dell’animale un monito a non muoversi, il suo corpo sembrava più grande a Max ora che era così vicino da poterne ammirare il pelo lucido del colore dell’onice. Rimase a osservare il lupo mentre accostava il muso al petto di Beat, al suo tocco comparve una luce piccola come una lucciola che s’infilò nel petto del ragazzo. Max dovette sbattere gli occhi più volte per capire che non era un inganno della sua mente, il corpo di Beat iniziò a frammentarsi in minuscoli punti di luce che svanivano nell’atmosfera. Una manciata di secondi prima che là dove c’era un cadavere, rimanesse solo il pavimento a scacchi usurato dal tempo.
    ”Che fine gli hai fatto fare?” chiese mordicchiando l’unghia del pollice per il nervoso, sentiva la paura farsi strada lungo la sua spina dorsale. Il lupo si limitò a fissarla, poi si voltò e iniziò ad allontanarsi lentamente, ad ogni passo il suo corpo si fletteva dolcemente, sembrava quasi un movimento rassicurante. Max ne rimase ipnotizzata e dimenticò quella sensazione d’inquietudine che l’aveva attanagliata fino all’istante prima, era solo un ricordo lontano di giorni, settimane o forse mesi. Non poté fare a meno di seguire il lupo, mettendo i piedi sulle sue orme, un imprinting involontario. Bella e Leo l’affiancarono mentre percorrevano la Kaigaten al contrario, oltrepassarono la città fantasma fino ad addentrarsi nel bosco. Max passò un braccio attorno alla spalla di Bella alla ricerca di qualcosa che l’ancorasse alla realtà, aveva la sensazione che i suoi piedi scalzi fossero l’unica cosa che percepiva davvero ciò che la circondava. La terra umida tra le dita e i minuscoli sassolini che le graffiavano la pelle erano una certezza, esistevano davvero, ma tutto il resto? E lei era vera? Forse era tutta la proiezione di un sogno che a tratti lambiva il confine dell’incubo. Strinse con forza le dita sulla spalla nuda di Bella, ne osservò il vestito a fiori rovinato e pieno di strappi, anche le loro anime avevano fatto la fine di quel bellissimo abito. Il lupo condusse tutti e tre fino alla spiaggia dove tutto aveva avuto inizio, esattamente come un cerchio tracciato sulla sabbia, che si chiude nel punto in cui è affondato per primo il dito.

    Sabbia a non finire, si voltò indietro e non vide più l’ingresso del bosco, ancora sabbia. La linea dell’orizzonte era sparita, si riusciva a vedere solo quella al di là del mare, una recinzione naturale che dava un senso di spazio in quell’infinito. Temeva che se avesse iniziato a camminare, sarebbe stato un viaggio lungo una vita intera, fino a ritrovarsi in là con gli anni senza ricordare dove tutto aveva avuto inizio. Lasciò andare la spalla di Bella per guardarsi intorno, alla sua destra scorse un gazebo, lentamente la realtà iniziava ad acquisire dei confini che fino a quel momento le erano sembrati inesistenti. Un forte odore di fiori le arrivò alle narici misto al calore che proveniva da una schiera di falò poco distanti da lì. Si sentiva il fuoco scoppiettare piano, le scintille arancioni si stagliavano sul cielo scuro come uno sciame di lucciole disordinato. In sottofondo una musica lontana, solo il battito di un duetto di tamburi e la melodia di un flauto dolce, un eco leggero trasportato dal vento. Sulla sabbia sembrava essere esplosa una bomba di colori, erano i petali dei fiori che circondavano l’immenso gazebo e tutto il lungo viale. Doveva essere il Paradiso quello, anche se l’odore troppo intenso delle orchidee e della lavanda le faceva girare la testa, eppure in Paradiso avrebbe dovuto essere tutto perfetto.
    ”Max!” già la sentiva la porporina passare dalla guancia di Lys alla sua, il solo contatto con la sua pelle le trasmetteva un senso di felicità che credeva perduto per sempre. Strinse sua sorella con forza, come a volerla inglobare nel suo corpo affinché il mondo non potesse più arrivare a toccarla. Lo sentiva dal modo in cui la teneva vicina a se’ che anche lei aveva vissuto la sua stessa esperienza, c’era una necessità profonda di sentire il suo corpo per rendersi conto che fosse vero, e lo stesso valeva anche per lei. Max le accarezzò piano i capelli, poi le guance, sorridendo tra se’ e se’ per le tracce di porporina che le erano rimaste impigliate tra le dita. ”Io sto bene,” mentì mostrando i piccoli denti candidi a dare manforte alla sua bugia, ”e tu, piccolo uragano?” trattenne quella gioia finta tra i muscoli delle guance che le allargavano le labbra, anche se un accenno di verità c’era: Lys era viva e questa era l’unica cosa che contava. L’abbracciò ancora, come se sentirla respirare contro la propria gabbia toracica potesse confermarle che la Terra ancora esisteva e che le sue certezze nella vita avevano ancora un senso. Si lasciarono andare piano, come se il separarsi potesse creare un butterfly effect di dimensioni colossali. Max si nutrì di quel sorriso che sua sorella le dedicò, come se lei fosse l’unica persona importante al mondo, intrecciarono le dita tra di loro in una stretta che aveva ristabilito gli equilibri della sua anima. Non importava quante cose potessero andare storte o turbarle il cuore, la sola presenza di Lys rendeva tutto sopportabile, per lei avrebbe mosso le montagne a mano nuda pur di vederla sorridere. Se solo avesse potuto le avrebbe evitato ogni sofferenza, le avrebbe fatto da scudo contro i demoni della vita in ogni istante, ma sapeva che ormai non era più una bambina, aveva delle splendide ali che stava imparando a sbattere da sola. Certe volte a lei non rimaneva che guardarla volare via e tornare a casa ammaccata per abbracciarla e disinfettarle le ferite, odiava vedere il suo sguardo triste – come in quel momento – eppure non le avrebbe mai posto dei limiti. Amare qualcuno significa saperlo lasciare andare, chissà dove lo aveva letto, nemmeno lo ricordava, anzi aveva difficoltà a inquadrare se stessa in una situazione fuori da quella spiaggia. Si sbarazzò di quella sensazione scrollando le spalle e seguendo Lys, la sua mano era la bussola che segnava sempre il nord sbagliato, una rotta fatta di raffiche di vento emotive pazzesche e di iceberg nascosti alla vista pronti a spaccare il ventre della loro nave. Non aveva importanza, l’avrebbe seguita ovunque, si fece silenziosa mentre i suoi piedi sporchi di terriccio proveniente dal bosco affondavano nella sabbia tiepida, i granelli rimanevano impigliati nella fanghiglia, creando una tavolozza di colori mescolati sulla sua pelle.
    Max si guardò attorno riconoscendo visi familiari che le sembravano solo ricordi remoti a guardarli, Riley, Astrid, Bella e alcune persone di cui non sapeva i nomi erano tutte sane e salve. Fece un cenno con la mano a Riley, mormorando un “sei viva” di sollievo muovendo solo le labbra, era svuotata emotivamente al punto che la voce era rimasta impigliata nella laringe o forse altrove, non voleva saperne di esplodere in superfice. Spostò i suoi occhi scuri su quelli di Astrid, annuì col capo in sua direzione, come a volerle dire che andava tutto bene, forse non avrebbe compreso il suo messaggio silenzioso, ma era contenta che non avesse fatto la fine di Beat. Per un attimo gli occhi vitrei del ragazzo le tornarono alla mente, fu un lampo doloroso nella sua mente, come se qualcuno le avesse punto il cervelletto con un ago senza chiederle il permesso. Tutti i presenti avevano lo sguardo spento, ma le labbra aperte, cercavano di sorridersi, ma ciò che avevano vissuto li aveva segnati. C’era un filo invisibile di dolore che li legava tutti, attraversava di anima in anima tutta la spiaggia, poteva quasi sentirlo tirare nel petto quando qualcuno si allontanava troppo da lei.
    ”Questo è reale. Sta accadendo davvero, non lo stiamo immaginando.” si voltò a guardare Lys mentre raggiungevano il gruppo che si era radunato vicino al gazebo.
    ”Io ti crederei anche se dicessi che esistono gli unicorni, lo sai, non è vero?” le diede un bacio sulla tempia con dolcezza, sentendo il sapore familiare della sua pelle stamparsi sulle sue labbra, assieme a quel profumo che sapeva di pomeriggio al lago in una giornata d’estate. Aveva inalato la sua dose di tranquillità giornaliera, adesso avrebbe potuto scalare la cima del monte più alto del mondo, nonostante sentisse il cuore scricchiolarle pericolosamente, come una statuina di legno corrosa dai tarli alle fondamenta.
    ”BEAT!” in un secondo le dita di Lys abbandonarono le sue, ecco l’ennesimo nord sbagliato che aveva indirizzato la sua bussola verso quello che rimaneva del ragazzo. Max non credeva nei fantasmi, non aveva mai tremato per quegli sciocchi racconti dell’orrore ai tempi del liceo, tutti in cerchio chiusi in camera al buio a raccontarsi di case infestate. Eppure in quel momento dovette ricredersi, il suo stomaco si contrasse, lo aveva visto svanire al tocco del lupo sulla scacchiera maledetta ed ora era di nuovo con loro. L’euforia di Lys le faceva male al cuore, dalla sua reazione non aveva capito la realtà dei fatti, ne era certa, glielo aveva letto negli occhi che brillavano come stelle a mezzanotte. Max sentiva la testa farsi pesante, divisa tra il suo tentativo di ricollocare il suo scetticismo nei confronti dei fantasmi, e il suo desiderio di evitare l’ennesima delusione a Lys. Non poteva fare nulla se non rimanere a guardare e raccogliere i cocci quando il cuore di sua sorella si sarebbe frantumato in mille pezzi davanti alla verità scioccante che l’aspettava. Aveva sempre avuto un occhio di troppo su Beat nel corso della sua vita, era convinta che cercasse di deviare Lys dal suo percorso, di portarla su strade poco raccomandabili. Poi lo aveva visto sdraiato in una pozza di sangue e ogni sua convinzione aveva fatto una capriola all’indietro senza sapere come atterrare, cadendo malamente al suolo. Perché quel ragazzo si era tolto la vita? Chi aveva visto di così importante da non permettergli di arrivare alla spiaggia sui suoi piedi?
    ”Non andare…” mormorò a se stessa, ma ormai era troppo tardi, le sue parole si persero nell’atmosfera carica di quell’asfissiante profumo di fiori che le levava lucidità mentale. Rimase a guardare Lys, sentendo un misto di emozioni scontrarsi nel suo petto, ora che era sola sentiva l’ombra di Rem accarezzarle la schiena. Le sembrava così reale quel tocco che dovette voltarsi per trovarsi davanti a una catasta di corpi interminabile, non riusciva a vedere il mare tanti erano i cadaveri ammassati gli uni sugli altri. Deglutì la paura in un colpo solo, indietreggiò di un passo, sentiva gli occhi pungerle per le lacrime che tentava di trattenere. Aprì la bocca in un urlo muto. Ancora un passo indietro e poi improvvisamente si sentì invadere da una sorta di tranquillità liquida, il suo corpo iniziò a rilassarsi come se quello scempio fosse normale. Il profumo di fiori andò a mescolarsi a quell’odore rancido e troppo pungente, le risalì su la bile, ma non diede di stomaco. Perché tutto d’un tratto si sentiva come se ci fosse una giustificazione per tutti quei corpi senz’anima? La sua mente combatteva con il suo corpo, la prima era disgustata, il secondo si sentiva in pace. Lentamente quella guerriglia interiore trovò un equilibrio, un pensiero che forse non era suo le attraversò il corridoio dei pensieri. ’E’ il rito della rinascita e tu lo sai. Tutto è partito da qui, non sono sacrifici invano. La morte troverà la sua sconfitta ancora una volta, non devi opporti, Max.’ quelle parole placarono quel senso di inquietudine che da sola non era riuscita a scacciare, non sapeva perché, ma qualcosa dentro di lei le diceva di crederci. Si portò le mani sugli occhi, non voleva vedere ancora quella moltitudine di cadaveri, erano tutti coloro che avevano fatto il loro stesso percorso in passato, vittime di un rituale che doveva compiersi senza indugi.
    Si morse il labbro inferiore e tornò a cercare Lys con lo sguardo, aveva bisogno di allontanare la confusione che la permeava, la vide con la mano tentare di afferrare il vuoto. Sentì il rumore di qualcosa che si frantumava, sospirò e si avvicinò a sua sorella. ”Lys, vieni qui, per favore.” ma sapeva che era inutile, non avrebbe lasciato il suo… amico, prima di scoprire la verità. ”Cosa succede?” quella era la domanda che temeva più di ogni altra, sapeva che toccava a lei romperle il cuore, così come era inevitabile che rimanesse al suo fianco per raccogliere ogni singolo frammento del suo essere. Era stanca Max, provata dalle troppe informazioni che le vorticavano nella mente, non poteva cedere, non voleva. Doveva trovare il modo per rendere sopportabile quella notizia, le sembrava impossibile. Con la coda dell’occhio notò che oltre a Beat anche un’altra ragazza era ricomparsa sulla spiaggia in veste di fantasma, non la conosceva, non le sembrava di averla mai vista prima d’ora. Anche lei aveva scelto di seguire qualcuno nell’illusione. Max socchiuse per un attimo gli occhi, avrebbe voluto addormentarsi e anestetizzare quel maremoto di emozioni che non la lasciava in pace, sbatteva contro la sua gabbia toracica con veemenza, al punto da sembrare sul punto di fracassarla.
    ”Piccolo uragano, vieni qui.” si fece ancora più vicina, come se così potesse tenerla insieme per qualche istante in più prima del crollo. Sollevò lo sguardo verso il fantasma di Beat, si morse l’unghia del pollice anche se ormai c’era ben poco da rosicchiare via. Lasciò cadere le braccia lungo il corpo, vinta dalla situazione più grande di lei, ma non diede altri cenni di cedimento, non poteva per Lys. Tenne gli occhi incollati a quelli del ragazzo, attendendo un segnale da parte sua per poter dire qualcosa. Con sua sorpresa le bisbigliò qualcosa riguardo a un pizzico, non fece domande, non poteva che rispettare la volontà di colui che era passato oltre. Annuì in sua direzione prima di rivolgersi a Lys. ”Lo sai che tutti siamo caduti nell’illusione, vero, tesoro? Non tutti ne sono usciti. Beat ha scelto di rimanere lì, non l’ho raggiunto in tempo…” strinse la mano destra in un pugno, affondando le unghie nella carne, quella più lunga del mignolo le provocò una piccola ferita a forma di mezzaluna sul palmo. ”Devi credermi…” allungò la sinistra verso la spalla della sua sorellina, pizzicandole la pelle abbastanza a lungo affinché il messaggio passasse attraverso la marea di dolore che percepiva provenire da lei. Il breve silenzio che intercorse con la realizzazione di Lys le parve interminabile, asfissiante e invadente come se le fosse entrato nel cervello dilatandosi in ogni direzione. Non disse nulla Max, lasciò che sua sorella elaborasse l’informazione appena ricevuta, non l’aveva mai vista così sconvolta, forse solo il giorno in cui andò a prenderla all’istituto per riportarla a casa. Esattamente come quel giorno, si accostò a lei e le offrì il suo petto per sostenere il peso del suo corpo, la abbracciò piano da dietro, permettendole di appoggiarsi contro di lei. ”Lo so che è difficile… ha fatto una scelta diversa dalla nostra.” lo disse con dolcezza al suo orecchio, come se dirlo a voce alta potesse rendere la verità più sconcertante. ”Lo porterai sempre con te, non smetterà mai di seguirti in ogni passo della tua vita, non è vero Beat? Prometti che non le permetterai di cacciarsi nei guai?” le uscì un sorriso storto, come la linea dell’orizzonte vista col capo inclinato. Teneva le braccia incrociate sul petto di Lys morbidamente, pronta a stringerle se la sua spina dorsale non fosse bastata a reggere il peso della realtà per sua sorella.
    ”Come faccio stavolta ad aggiustare tutto se... se non posso neanche toccarti, Beat?” Max chiuse gli occhi quando sentì quelle parole, una lacrima solitaria le scese sul viso infrangendosi sul mento. Fece per dire qualcosa, ma improvvisamente delle mani la afferrarono da dietro, delle figure con delle lunghe tuniche e i visi colorati di bianco e rosso arrivarono per trascinarle verso il centro della spiaggia. Max soffrì visceralmente quando le strapparono sua sorella dalle braccia, come se le avessero portato via una parte del proprio corpo. Era quello il momento della rinascita? Quella strana rivelazione che l’aveva colta di sorpresa prima, riecheggiò di nuovo nella sua mente. ’E’ il rito della rinascita e tu lo sai. Tutto è partito da qui, non sono sacrifici invano. La morte troverà la sua sconfitta ancora una volta, non devi opporti, Max.’ così fece, lasciò che quegli uomini la legassero a un palo su una piattaforma senza opporre resistenza di alcun tipo. Fece un respiro profondo cercando di mantenere una calma interiore che non aveva, i suoi occhi percorsero tutte le piattaforme alla ricerca di Bella, Riley, Astrid e ovviamente Lys. Vide la figura di Beat fluttuare vicino a sua sorella, le uscì un sorriso triste, sapeva cosa li attendeva e si rese conto solo in quel momento che avrebbero raggiunto il ragazzo a breve. Lui era morto dolcemente, tra le braccia di qualcuno che amava, loro stavano per soccombere lo stesso. Per un istante si diede della stupida, avrebbe potuto dare la sua vita a Rem in quella casa sull’albero, baciarlo e morire tra le sue labbra, invece ora doveva solo attendere che qualcun altro scegliesse per lei. Strinse le mani in preghiera, sollevò lo sguardo verso il cielo e si raccomandò a Dio per un posto in Paradiso per Lys, mentre di lei poteva farne ciò che voleva. Max non aveva paura di finire all’Inferno, la sua vita era stata così complicata che certe volte si era chiesta se non avesse già sperimentato un frammento d’Inferno sulla Terra. Non aveva idea di cosa sarebbe accaduto a loro con quel rituale, “la morte troverà la sua sconfitta ancora una volta” cosa voleva dire esattamente?
    Max sospirò prendendo talmente tanta aria, che dovette riemetterla a singhiozzi in tre sospiri ravvicinati. Si allungò col collo per rimettere a fuoco la realtà, una donna con una lunga tunica chiara immergeva un ramoscello in un liquido scarlatto che poi tirava addosso a tutti coloro che erano legati sulla pedana. Solo quando lo vide colare sulla fronte di sua sorella si rese conto che era sangue, un moto di panico le rese la spina dorsale molle, faceva fatica a stare dritta. Sentì le gocce di sangue arrivarle sul viso a sua volta, una particolarmente fastidiosa le finì nell’orecchio, cercò di inclinare il capo per farla uscire, ma non servì a nulla. Non voleva morire ricordando come ultima sensazione il prurito all’orecchio, da una parte invidiava sua sorella, aveva Beat al suo fianco prima di chiudere gli occhi per sempre. Dov’era il vero Rem in quel momento? Era certa che stesse organizzando qualche nuovo piano folle con i Dogs, poteva vedere i suoi occhi chiari stretti dal peso delle sopracciglia massicce mentre setacciavano i visi dei suoi compari. Un sorriso divertito si dipinse sul viso di Max, se fosse stato lì non le sarebbe stato di grande aiuto, lui e i suoi silenzi carichi di discorsi non detti. ’Ci vediamo alla fine del tunnel, Love.’ forse le avrebbe detto così, ma di rassicurarla neanche a parlarne, l’avrebbe fissata con un ghigno su quelle labbra che aveva baciato così spesso da averle consumate d’amore. Probabilmente avrebbero litigato per qualcosa di sciocco anche prima di morire, Max se la sarebbe presa per qualcosa completamente priva di senso pur di sentire quell’adrenalina che le faceva scattare Rem con le sue provocazioni. Si vedeva bene con lui all’Inferno a scontare la pena per le loro vite sregolate, a incontrarsi durante una pausa tra un incubo e un altro solo per bisticciare, la loro scusa preferita per finire labbra contro labbra e poi contro il muro. Chissà se le pareti bruciavano all’Inferno, si sarebbe ustionata la schiena cento volte pur di fare l’amore con Rem ogni giorno come se fosse l’ultima volta. Loro due insieme erano un angolo di Paradiso nel grande regno dell’Inferno.
    I suoi pensieri vennero interrotti da un forte rullo di tamburi, cercò disperatamente Lys, vide un uomo vestito di bianco al suo fianco, eppure le sembrava un’ombra oscura come un demone. Vide il sangue schizzare sulla pedana bianca, gli occhi le si gonfiarono di lacrime e stavolta non ne trattenne neanche una, una cascata di dolore. ”LYS! LYS!” gridò dimenandosi, sentendo le corde stringerle con forza i polsi a ogni movimento, le facevano male, ma almeno le dava una parvenza di vita in quella morte interiore. Il boia passò alla vittima successiva, una donna bionda, nessuna emozione sul viso dell’esecutore. ”Dio, dovevo morire prima io!” non vedeva più nessuno, c’era solo il corpo di Lys coperto del suo stesso sangue. Era come se il mondo si fosse spento e lei continuasse a vedere a ripetizione la stessa scena, stava per dare di stomaco, il suo corpo non rispondeva più ad alcun comando. Aveva fretta di morire, voleva essere la vittima successiva e invece doveva attendere per spegnere quel dolore che le bruciava sotto la pelle. Aveva i brividi anche in parti del corpo che non aveva mai percepito prima di quel momento, la schiena non sosteneva il suo peso, si fletteva in avanti portando le corde che la tenevano legata al palo a farle così male da temere di essersi rotta un polso. In quel caos di emozioni e desiderio di morte arrivò la voce di Beat, non lo vedeva, i suoi occhi erano nel suo mondo interiore e non riuscivano a riconnettersi con la realtà. Lo lasciò parlare, le faceva bene all’anima ascoltarlo, era come una carezza da parte di una madre dopo una caduta spettacolare. Nonostante ciò non riusciva a smettere di piangere e di dimenarsi, se avesse ancora avuto con se’ il pugnale avrebbe saputo come usarlo stavolta, non avrebbe esitato nemmeno per un istante. Assieme alla voce di Beat si fece vicina quella di qualcun altro, diceva cose in una lingua che non conosceva, eppure comprendeva perfettamente il loro significato. Finalmente toccava a lei, lo aveva capito. Accolse la morte a braccia aperte, come una liberazione. Non sentì nemmeno dolore, tanto ne portava dentro.
    Il mondo si spense in un istante.

    I petali dei fiori smossi dal vento sulla spiaggia erano sporchi di sangue, c’era un silenzio inquietante. I gabbiani planavano sul mare, ma non emettevano un verso. Intanto la vita attorno a lei scorreva ferocemente, vedeva gente danzare, cantare, ridere e baciarsi. La spiaggia era colma di gente, eppure lei era completamente sola. Max s’incamminò verso il mare, un passo, due, tre fino ad annegare.
    Se l’era immaginata così la morte, dolce fino a smettere di respirare.
     
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    Astrid aveva pensato molte volte a come sarebbe stato morire, come la vita degli altri sarebbe stata se lei avesse smesso di respirare: non era un pensiero ricorrente, dopotutto, si reputava una persona appassionata, legata alla vita, una che la ama e che cerca di trarne il meglio in ogni occasione, ma alle volte quel piccolo tarlo si era impossessato di lei, quel "cosa sarebbe successo se..." tanto insistente quanto pesante da sopportare. Se l'era chiesto soprattutto durante la terapia di conversione, quando avevano cercato di inculcarle che tutto di lei, tutte quelle pulsioni, tutto quell'amore, ogni cosa in realtà fosse solo profondamente sbagliata. Era un peccato, si stava macchiando del peggiore dei crimini: amare una donna non era lecito, Dio non l'avrebbe mai voluto. Era il Diavolo che la stava tentando, quella ragazzina, Grethe, non era altro che un messo di Satana. A ripensarci, quasi le veniva da ridere: come potevano delle persone dotate di intelletto credere a certe sciocchezze? Era una follia, così assurdo da sembrarle quasi un sogno. Non credeva d'essere stupida, per cui reputava impossibile che anche lei stessa avrebbe potuto convincersi di tutte quelle parole che, invece, giorno dopo giorno, l'avevano plagiata, riempiendole la mente. Anche a quel tempo aveva cercato di vedere il buono nelle cose, di trovare quel singolo evento che avrebbe potuto renderla contenta della giornata appena vissuta: aveva conservato un barattolo di marmellata, l'aveva lavato e al suo interno, tutti i giorni, aveva iniziato a riporre un bigliettino con su scritto qualcosa che la rendeva grata. Una volta, aveva scritto "Oggi ho vinto giocando a carte con Mikael". Sciocchezze, certo, piccole gioie che tuttavia l'aiutavano a guardare al giorno seguente con meno paura di quanta ne avesse quando chiudeva gli occhi per andare a dormire, nel vano tentativo di allontanare il "se" più grande che si portava con sé: "E se non mi svegliassi più?".
    Tutto ciò ormai era parte del suo passato, eppure, quando la sua mente ripercorreva quelle lente giornate, sentiva il cuore perdere un battito, l'ansia crescere e la voglia di dimenticare, nonostante non fosse nella sua natura: dopotutto, cercava di dirsi, ormai è passato. Era da allora che non pensava alla morte in quel modo così intenso, così reale, da quelle giornate in quel centro in cui era stata sigillata dai suoi tutori per un tempo che le era parso eterno: quella visione, in quella casa, l'aveva resa inerme come allora. Piccola, dinanzi ad un desiderio che aveva cercato di sopprimere con tutta se stessa. Bella era stata ogni cosa per Astrid, da quando aveva varcato la porta del locale in cui, con Vega, stava sorseggiando da bere: l'aveva reputata bella, sofisticata, soprattutto nel parlare. Se avesse potuto, l'avrebbe ascoltata per ore ed ore. Le cose erano state veloci, naturali, ogni tassello era andato al proprio posto e, giorno dopo giorno, aveva iniziato a vedere per loro un futuro che si era concretizzato in quella illusione: dal palazzo d'Inverno alla casa dei suoi sogni, alla famiglia che aveva sempre desiderato, alla maternità per la quale non si reputava davvero idonea ma che non poteva fare a meno di volere. Non c'erano motivi per non restare, per non cedere ad un desiderio che da sempre l'aveva attanagliata: potevano essere felici, loro, insieme, potevano tornare ad essere ciò che erano sempre state prima che ogni cosa andasse in pezzi.
    Aveva lasciato la presa sul coltello d'improvviso, richiamata dalla voce di una ragazza che aveva visto solo poche ore prima, resasi conto grazie a lei che non si trattava altro che di una menzogna: aveva usato proprio quella parola quando avevano rotto lei e Bella. «E' stato tutto una menzogna allora? Non c'è mai stato niente di vero fra noi?» Come aveva potuto lasciarla solo perché in quanto donna? Cosa c'era di sbagliato in quello, nella loro stessa storia? Mai come con Bella si era sentita al proprio posto, mai aveva visto così distintamente un futuro degno d'essere vissuto come con lei. Il suo mondo, con quell'ultima litigata, si era infranto: i suoi sogni, le sue ambizioni, ogni cosa si era completamente dissolta, come la stessa meravigliosa illusione che aveva vissuto. Il volto di qualcun altro le stava dinanzi ormai, della stessa persona che l'aveva tirata fuori da quell'Eden: «Grazie.» fece, spontanea, ancora con gli occhi sbarrati e con una lacrima solitaria che si infranse contro la maglietta di Riley, quando senza nemmeno riflettere su chi fosse e su cosa stesse facendo, l'abbracciò, alla ricerca di un conforto a cui non sapeva dare un nome. Riaperti gli occhi, i due animali che l'avevano condotta in quella dimora richiamarono l'attenzione di entrambe le giovani che un po' titubanti, si incamminarono all'interno delle tenebre: dovevano seguirli, non sapevano perché, non c'era un motivo, ma entrambe probabilmente sentivano di doverlo fare, com'era successo prima dell'inizio di tutto.
    Dalle tenebre, la luce fioca del sole coperto per metà dall'eclissi, per un momento la fece sentire al sicuro: erano di nuovo a Besaid? Su quella sabbia, a poco a poco si iniziarono a far largo anche altre facce amiche: sentì il cuore farsi un po' più leggero quando in mezzo a loro scorse il volto di Lys, di Rei, di Max, persino del ragazzo a cui aveva versato la birra addosso e di persone sconosciute che, oramai, erano legate indissolubilmente a lei da un'esperienza probabilmente troppo traumatica da raccontare. Sorrise appena, più con gli occhi che con le labbra, nella loro direzione, soffermandosi su ognuno dei volti che, da sempre, l'avevano accompagnata in ogni esperienza. Accanto a Max, che forse per la prima volta le stava riservando uno sguardo diverso, c'erano gli stessi occhi che, stavolta, la scrutavano per davvero: era lì Bella, viva, un po' provata, come tutti, ma stava bene. Era stata una menzogna, giusto? Non aveva visto tutte quelle cose anche lei, non c'era stata, non è vero? Le labbra di Astrid erano socchiuse, il fiato sembrava esserle diventato d'un momento corto, quasi come se in quel momento, ciò che temesse di più fosse il sentirsi nuda, ancora una volta, dinanzi a lei. «Siamo a casa.» Le parole di Lys la ridestarono da quello sguardo, che distolse rapidamente per ritrovare quello della sua migliore amica che, ancora una volta, sebbene senza volerlo davvero, l'aveva aiutata a tornare in sé. Era tutto reale, diceva, non era un semplice frutto della loro immaginazione, ogni cosa lì era successa davvero. Ma quanto di quelle visioni corrispondeva davvero a realtà, quanto avevano condiviso gli uni con gli altri e, soprattutto, perché? Se avesse ceduto, se davvero fosse morta lì, sarebbe morta per sempre? Quell'ultimo quesito trovò purtroppo risposta quando, in mezzo alle fiamme, accompagnato dal solo rumore delle onde, apparvero Beat ed Eira, vivi, eppure non completamente. Non poté nascondere un sospiro di sollievo nel vederlo, accompagnato dalla voce di Lys che ormai associava alla sua figura: l'aveva trattato male prima, da ubriaca, ma nemmeno ci pensava più. Era tutto passato, stavano per andare a casa, anzi, erano a casa. No?
    Erano lì, lui ed Eira, ma al contempo non erano davvero lì. Non c'erano più Beat e Lys, c'erano solo le grida di lei che si infrangevano in quel vento che profumava di lavanda. Astrid si portò una mano alla bocca, mordendosi il labbro inferiore per cercare di trattenere sentimenti che a poco a poco iniziavano a pervaderla: egoisticamente, non pensò al ragazzo, a cosa avesse dovuto passare, pensò alla sua amica, a colei che in quel periodo si teneva a distanza per un torto che in quel singolo momento le sembrava assurdo. Come avrebbe potuto aiutarla, come avrebbe potuto fare in modo che non si rompesse dinanzi a quel dolore che la stava dilaniando dall'interno? Avrebbe voluto abbracciarla, aiutarla, fare qualcosa, qualunque cosa affinché quel volto triste sparisse. Per quanto ci provasse, non riusciva mai ad esserle davvero d'aiuto: era assurdo, in fondo lei aveva persino studiato per poter aiutare le persone, per cercare di liberarle da quel brutto male, silente, invisibile, che attanagliava le loro stesse vite. Per quanto si impegnasse, Lys era sempre un passo più avanti, anche quando soffriva, anche nei momenti più brutti. Fu grata a Max per essere lì: se c'era qualcuno in quel momento che potesse aiutarla quella era Max, la stessa ragazza che per anni aveva guardato con una certa ammirazione mista ad una genuina invidia per tutto ciò che era e che lei mai sarebbe potuta essere. Mentalmente, la ringraziò, mentre il percorso a poco a poco, si sgretolò, mostrandole una montagna di corpi senza vita: occhi sbarrati, pupille immobili, che non rispondevano più alla luce che fioca brillava nel cielo. Scorse il volto della sua insegnante di yoga, del cameriere del suo bar preferito. Avevano sofferto? Erano stati anche loro in quel bellissimo palazzo, godendosi la più bella delle illusioni? A guardarli, ebbe la sensazione che non si trattasse altri che di compagni di una stessa esperienza: era come loro, erano tutti sulla stessa barca, ormai alla deriva.
    Con quei pensieri a occuparle la mente, due figure iniziarono ad avanzare l'improbabile comitiva che si era formata, quasi invitandoli con un sorriso verso il gazebo cremisi che troneggiava più in là: era lì che sarebbe morta, lì che tutti loro sarebbero morti? Quella domanda, fra le tante che nella sua mente si erano avvicendate, aveva una risposta più netta rispetto a tutte le altre: lei sapeva che sarebbe successo, lo sentiva, come se negli occhi vitrei di Ingrid vi fosse scritto proprio quello. Si voltò a guardarli ancora, prima di affrontare quanto l'attendeva, come se con quella singola occhiata qualcosa potesse cambiare: qualcosa cambiò davvero. A una spanna di distanza, mentre una musica incessante li accompagnava, gli occhi turchesi di Bella furono quelli in cui si perse ancora una volta. «I-io...» balbettò: cosa poteva dire? "Eri davvero lì?" o forse "Volevi davvero ciò che mi hai detto?" o magari "Perché hai deciso di buttare ogni cosa alle ortiche?". Non c'erano davvero parole corrette, discorsi giusti da fare: in quel momento, c'erano solo loro, di nuovo, faccia a faccia, dopo anni, dinanzi ad un dolore che nonostante tutto sembrava più vivo che mai.
    Anche Bella sarebbe morta lì, insieme a lei.
    Sentiva la testa pesante, ovattata, come se fossero ancora in un mondo fatto di illusione, come se tutto quello, la musica, i profumi, le fiamme, persino le persone, fossero in realtà frutto solo di un brutto sogno. Lasciò ricadere la testa sulla spalla dell'altra, sentendosi debole dinanzi a quei pensieri che in quel momento si rese conto di non poter più sopportare: per la prima volta dopo anni, Astrid aveva paura, per lei, per tutti gli altri. La morte le era sembrata una liberazione all'inizio, eppure, finalmente, si sentiva attaccata alla vita più d'ogni altra cosa al mondo: «Bella...» disse soltanto, mentre gli occhi le si gonfiavano di lacrime e le dita si stringevano in un pugno, tremante, poco sicuro. Le unghie, tagliate corte, si conficcarono appena nel palmo: «Mi dispiace.» disse solo.
    Nonostante quanto per anni si era detta, quanto l'avesse incolpata di non aver lottato abbastanza, di non averla mai davvero amata come le aveva in realtà fatto credere, Astrid si stava scusando perché si sentiva dispiaciuta per ogni cosa: per come era andata a finire la loro storia, per non essere stata una persona comprensiva come forse avrebbe meritato lei, aver pensato troppo ai suoi bisogni, a se stessa, per essere stata così egoista e per non aver pensato nemmeno per un attimo, nemmeno in quella meravigliosa illusione, che anche Bella avesse bisogno di coronare i suoi di sogni prima di pensare a quelli di qualcun altro. Nonostante l'avesse amata ed, in fondo, forse una parte di lei non avrebbe mai smesso di amarla, Astrid non era mai riuscita a fare quel passo, quel porre i bisogni del partner se non al di sopra almeno al pari dei propri: aveva creduto di farlo ma, alla fine, soltanto dinanzi alla morte si era finalmente resa conto di quanto avesse profondamente sbagliato a sua volta. «Non voglio morire sapendo di avere ancora questo rimpianto.» lo disse quasi in un sussurro, a se stessa, mentre sollevava il capo dallo sguardo di lei e la mano sinistra a sfiorarle la guancia. Le dita tremavano, così come la voce, quasi al ritmo dei tamburi che sembravano sempre più forti, incessanti: dovevano andare. Si allungò lievemente verso di lei, a colmare quella distanza che intercorreva fra i loro volti con un bacio che sapeva di sale, quello delle onde e forse quello delle lacrime di Astrid che, nemmeno in quel momento, avevano cessato di cadere silenziose lungo le sue gote fino a raggiungere le loro labbra. Aveva accarezzato la guancia di Bella delicatamente, come soleva fare un tempo, quando si rivedevano dopo qualche giorno di lontananza e finalmente potevano passare qualche ora insieme: quei baci, inizialmente così casti, iniziavano ad essere sempre più intensi e alla fine finivano con lo staccarsi l'una dall'altra con il sorriso malizioso di chi sapeva come sarebbe andata a finire la serata. Anche in quell'occasione, Astrid si allontanò, le sorrise lievemente, poi le prese la mano ed iniziò a camminare insieme agli altri, senza lasciarla: non c'era bisogno dicesse altro, Bella la capiva sempre, anche senza parlare.
    Strinse le sue dita fino a quando non fu catturata, insieme a tutti gli altri, ai sette predestinati la cui vita sarebbe stata presa in quel momento: gli occhi verdi della giovane vagarono a cercare gli altri, quelli familiari, che erano stati con lei durante quel viaggio che stava volgendo al termine. La luce di una lama, illuminata dai raggi del sole ormai quasi del tutto coperto, le ferì gli occhi: un coltello, lo stesso col quale poco prima stava per togliersi la vita. Per qualche ragione, lo trovò persino ironico.
    Era ferma Astrid, la sua mano non tremava più.
    Guardava Beat, dinanzi a Lys, con un sorriso di tenerezza sulle labbra, sorriso che mai sparì e che si aprì solo a mimare un "anch'io" quando la sua migliore amica le mimò un "ti voglio bene", poco prima che la sua gola venisse squarciata. Cadde immediatamente, sotto le strazianti urla di Max che come lei vide morire un pezzo di sé. Va bene. Andrà bene. si disse, mentre anche altri caddero, finendo con l'accompagnare la pila di cadaveri che avevano visto poco prima.

    Polvere alla polvere, cenere alle cenere.
    In fondo, per rinascere, bisogna morire.

    Quando arrivò il suo turno, dopo che anche una delle donne più forti che conoscesse esalò l'ultimo respiro, guardò negli occhi Beat, un ragazzo che in quel momento le sembrava diverso dai suoi ricordi: gli sorrise appena, come a ringraziarlo per essere lì, con lei, per essere stato con Lys, con Max, per non averle lasciate nonostante in quell'illusione avesse scelto di rimanerci. Aveva sbagliato nel giudicarlo, era servita la morte per capire che avesse un pessimo istinto con le persone e che forse anche lui meritava delle scuse: Magari nella prossima vita. O in quella parallela nella quale stavano per addentrarsi, chi poteva dirlo. Astrid non sapeva cosa stesse per affrontare e nonostante il suo raziocinio le suggerisse di scappare, di provare a dimenarsi e a fuggire dalla morte, la sua parte più calma, quella che aveva imparato la respirazione, che aveva cercato la pace anche nel più brutto degli ambienti, aveva deciso di calmarla, mentre a guidarla vi era la voce di un ragazzo dai tratti spigolosi che, tutto sommato, non era poi così male.
    Mentre il suo boia pronunciava frasi in una lingua che non conosceva ma che le suonava chiara come se stesse parlando norvegese, Astrid voltò appena il capo verso Bella, che sarebbe stata la prossima: «Non avere paura. Hai superato cose ben peggiori della morte.» le disse, parlando un po' anche a se stessa e a Beat che, dalla morte era persino ritornato. «Non sei sola.» Erano insieme, dopotutto, e con loro c'era qualcuno che le aspettava dalla parte, lei stessa l'avrebbe fatto, qualunque altra cosa ci fosse ad attenderle oltre quel momento.
    Chiuse gli occhi, mentre poche parole, forse dello stesso Beat o forse di qualcun altro, accompagnarono la lama che passò sicura sul suo collo, privandola dell'aria e del sangue che zampillò copioso dalla sua carotide. Era buio quando spirò, quasi non se ne accorse, spegnendosi in pace, così come aveva sempre desiderato quando, tanti anni prima, invece che con timore, aveva iniziato a guardare la morte con affetto, lo stesso che si nutre verso un caro amico: dopotutto, ormai, Astrid non aveva più rimpianti.
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    Magdalena non vide nulla, non poté vedere nulla dopo che gli occhi del drago la fissarono, la avvolsero nelle profondità senza tempo di cui erano fatti. Non vide che cosa successe alla donna, non poté capire cosa avesse deciso, se fosse riuscita a sfuggire alle bugie delle ombre che apparentemente abitavano quel luogo così strano, così irreale ma allo stesso tempo concreto. Il drago continuò a fissarla e il suo mondo prese a vorticare; il nulla inghiottì tutti i suoi pensieri mentre alla donna sembrò di iniziare a sollevarsi, a fluttuare sopra le gradinate, sopra l’arena stessa, una sensazione che sentiva nella mente e nel cuore mentre gli occhi fissavano solo le iridi verticali e di un color nulla cangiante del drago, sentì di fluttuare al centro dell’arena, il sole strano a scaldare il suo corpo senza peso per alcuni istanti prima che il drago distogliesse lo sguardo, come non più interessato a lei. Improvvisamente sentì un vuoto dentro di lei, come se le avessero tolto un ricordo caro, come se le avessero strappato un angolo dell’anima, come se le avessero tolto l’ossigeno dai polmoni. Quella sensazione crebbe, si fece più vivida, pesante, concreta sul suo corpo, sulla sua pelle, mentre il calore lasciò improvvisamente posto ad un freddo appiccicoso, doloroso come la poca aria nei suoi polmoni. Aprì gli occhi, li strabuzzò sentendo finalmente dove si trovava. Era sotto l’acqua, era sotto la superfice del mare, in posizione fetale. Non più nell’arena dai dolorosi ricordi di battaglie, ma sotto il mare, dove aveva visto il drago prima che tutto quello strano sogno, se lo era davvero, avvenisse. Trattenendo il riflesso di inspirare, mentre il suo corpo per qualche motivo si rifiutata di ricorrere alla sua particolarità, che le avrebbe permesso una più agevole e meno dolorosa risalita, Magdalena iniziò ad agitare le braccia per tornare a respirare, guidata dalla luce movimentata dalle onde che si trovava molti metri sopra di lei. L’aria in superficie fu quasi dolorosa, entrando nei polmoni, ma il bruciore passò in alcuni secondi, mentre la sua mente ritornava lucida, o perlomeno più lucida di prima. Il sole era ancora parzialmente oscurato dalla luna, l’eclissi non era ancora finita, sebbene quasi terminata. Non era passato molto, non era passato il tempo che lei sentiva di aver trascorso nell’arena, di cui non vi era assolutamente traccia. La sua mente razionale tentò di relegare il tutto ad un sogno, alla stanchezza magari dovuta al lavoro e poi alla nottata fuori, ma sapeva che non era solo questo, o almeno la sua mente le diceva che non era stato solo uno stupido sogno ad occhi aperti. Si trovava a una decina di metri dalla riva. Con lente bracciate arrivò alla spiaggia, guardandosi attorno a quattro zampe, la schiuma e le onde a infrangersi dolcemente sulle sue braccia e sulle sue gambe prima che lei si rialzasse. Se così poco tempo era passato, considerando la posizione della luna e del sole, cosa era ciò che vedeva? Sapeva che era Besaid, lo sentiva dentro di sé, eppure non era la spiaggia che aveva lasciato, non era la festa a cui aveva partecipato. Cosa era successo in quel breve lasso di tempo? I piedi affondarono leggeri nella sabbia, soffice e fredda, eppure allo stesso modo serica, dolce come una carezza di una persona cara. Sentiva la sabbia, ne poteva vedere i granelli uno per uno, dorati e declinati in ogni sfumatura, tanto che per un istante credette che il suo corpo, il suo potere si fosse finalmente attivato, ma non era così. Erano i suoi occhi, gli stessi che avevano fissato per un istante lungo come il Tempo stesso gli occhi del drago, che riuscivano a scorgere i granelli, a perdersi in essi, uno per uno, come se la terra fosse tutto ciò di cui aveva bisogno dopo essersi salvata dalle acque del mare. Si voltò a vedere da dove proveniva, da quel punto nel mare a pochi metri dalla spiaggia, ma non provò paura, quanto una sensazione simile a quella che provava con i ricordi della madre, a quella sensazione di quiete e di sicurezza che solo chi ti ha dato la vita può trasmetterti. Inspirò a fondo, osservando la schiuma formarsi apparentemente dal nulla sulle languide onde che si infrangevano sulla spiaggia, allungandosi e poi ritraendosi come ad accarezzare non solo lei, ma anche la spiaggia, l’intero mondo. Ne sentiva il dolce solletico quando arrivava sulla sua pelle, mentre con quel suono speciale scompariva, fondendosi, con la sabbia, muovendola come a giocare con lei, titillandola con infinite invisibili dita. Sorrise per un istante, inspirando nuovamente, attratta da qualcosa che arrivò alle sue narici. Sapeva di dolce, di rosa e di magnolia principalmente, profumi fusi assieme ad altri fiori in una fresca, dolciastra armonia, portato da un calore che sapeva di quercia, tasso e cenere. Magdalena si voltò, individuando, come se prima non li avesse visti, come se fossero comparsi all’improvviso, una serie di alte fiamme create da imponenti pezzi di legno accatastati ad arte, dove altissime e calde fiamme danzavano al ritmo del vento che soffiava, giocando con il mare e con loro, senza mai lasciare i falò alti come pire. Erano innumerevoli, una fila continua, quasi una muraglia interrotta solo da piccoli spazi tra uno e l’altro, riempiti a volte dalle fiamme che, giocando, si intrecciavano le une alle altre, per poi tornare ognuna al suo ovile ligneo. Magdalena spostava gli occhi da uno all’altro, la pelle a sentirne l’intenso calore unito a quello del sole ancora parzialmente nascosto, calore portato dal vento, riverberato dalla sabbia, attenuato dall’acqua. Cosa stava scaldandola? Il sole, la sabbia dorata e calda, o i falò? O forse un insieme di questi, una sorta di gara senza apparente senso, eppure per un istante perfettamente comprensibile e, nella sua mente, corretta. Si mosse, un passo dopo l’altro, senza staccare gli occhi dalle fiamme, per poi fermarsi quando davvero mancavano alcuni metri alle grandi pire. Le fiamme sembrarono rallentare per un istante, di nuovo il tempo sembrò rallentare, spiegarsi davanti ai suoi occhi come un qualcosa di tangibile, permettendole di vedere oltre la muraglia, oltre il fuoco. Qualcosa sembrava esserci, non la città, non altre fiamme, non altre persone, ma un velo, un confine nebbioso eppure fisico, tangibile. Fece un passo, sentendo sotto i piedi i fiori di cui aveva prima odorato le fragranze. Erano tantissimi, sparsi come singoli petali, raccolti in piccoli bouquet, o addirittura in intere aiuole che circondavano i falò, il cui calore serviva a spanderne il profumo tutto attorno. Raccolse dei fiori vicino a lei, la attirarono. Rose nere. Erano strane, sapeva che erano strane quanto rare. Erano dodici, perfettamente regolari, identiche una all’altra, come fossero clonate. Come erano disposte le ricordarono le ore, le dodici ore di un orologio, o i dodici mesi dell’anno. Guardò le rose, guardò oltre il fuoco. Qualcosa si mosse alla periferia del suo sguardo. Si voltò allarmata, vedendo però altre persone, altri uomini e donne che come lei sembravano vedere ciò che vedeva lei. Non ne riconobbe nessuno, ma sicuramente erano alla festa come lei. No, ecco, lei, la ragazza che era sugli spalti. Lei la conosceva, almeno di vista. Si mosse leggermente come per raggiungerla. Le rose, ancora nella sua mano, persero alcuni petali, come a sfiorire.
    “Noi siamo ora come le rose…” mormorò guardando i petali cadere lentamente, mossi dal vento e portati da esso poco lontano, vicino al fuoco, alcuni dentro di esso, sparendo in una debole ombra mangiata dalle fiamme. “Come i petali delle rose.” mormorò di nuovo mentre le rose persero altri petali che vennero ingoiate dai fuochi. Le lasciò cadere, il mazzo ad atterrare silenzioso su un letto di crisantemi e campanule. Si fermò, spaventata, per poi riprendere ad avvicinarsi, ma nuovamente si fermò, attirata da delle ombre oltre quella sorta di velo. Ne vide molte, ombre che potevano essere giochi dati dal fuoco nei suoi occhi, ma poi una in particolare la attrasse, grigia ed eterea ai suoi occhi. Sapeva chi fosse, e gli occhi le bruciarono riconoscendola. Era Eira, la sua amica. Sembrava muoversi fuori fase, come se entrasse e uscisse dal loro mondo, dal loro tempo, qualunque esso fosse. Si era avvicinata ad altri come lei, ad altri… sopravvissuti. Sembrava, no, era un fantasma, quindi lei non ce l’aveva fatta, si era fatta irretire, ingannare dalle ombre come quelle che aveva visto nell’arena. Lacrime brucianti riempirono ancora di più i suoi occhi mentre la guardava muoversi, mentre la vedeva camminare nell’aria come se non avesse peso. Ascoltò ciò che le disse mentre si avvicinò a lei, mentre la strinse in un abbraccio che non riuscì a reciprocare, mentre le lacrime sempre più dolorose le solcavano le guance e la sua voce le entrava dolcemente nella mente, come una droga, come le parole di conforto di una madre a una bambina quando si è fatta male. Lei semplicemente ebbe la forza di sorriderle mentre piangeva, mentre annuiva e la vedeva spostarsi. Doveva lasciarla andare, voleva farlo, eppure sapeva che era lì non solo per lei, ma per uno scopo più alto, qualunque esso fosse, e per tutto il tempo che le abbisognava. Il poco tempo che aveva passato con la sua amica sembrava così tanto in quel momento, ogni singolo istante distillato dalla sua mente, rivisto e amato uno per uno, come i vetri infranti del negozio, schegge belle quanto dolorose. Udì quello che un’altra accanto a lei disse, come lei parlando come se fosse in un sogno, in una sorta di realtà che non era quella corretta, ma quelle parole inspiegabilmente la colpirono, come se fossero verità che lei conosceva, ma che aveva rifiutato di accettare fino a quel momento.
    “Noi stiamo davvero vivendo…” mormorò, lasciando che la frase finisse nella sua testa e come una chiave le aprisse gli occhi. I falò erano reali, la spiaggia lo era, lo scorrere del tempo inesorabile come le rose che erano appassite lo era, ed era reale anche ciò che i suoi occhi videro e che la fecero cadere in ginocchio, preda di conati di vomito: pile e pile di grigi, esangui cadaveri riversi sulla spiaggia. Una mattanza, una scena straziante dove centinaia di corpi, forse migliaia erano ammucchiati gli uni sugli altri, scomposti, simili a quei quadri e affreschi dei secoli scorsi a rappresentare l’inferno. Riuscì a trattenere il dolore e lo stomaco, il secondo meno del primo, rialzandosi, muovendosi verso l’unica apparente uscita in quella fila interminabile di falò, verso uno strano gazebo che sembrava attirarla come un luce attira fatalmente una falena. Guardò i falò, come a contarli. “Tanti come i giorni di un mese, di due, di un anno, ognuno che prima o poi si spegne fino a che i più fortunati vedranno l’ultimo…” disse calma, eppure iperventilando, fissando la costruzione mentre si avvicinava, mentre camminava con gli altri e le altre, mentre guardava i corpi di chi fortunato non era stato e che era quindi morto prima. O forse era stato il più fortunato, non doveva sopportare ora il dolore di essere visto da chi era rimasto. Scorse ancora i fantasmi muoversi per poi spostare la sua attenzione verso una serie di figure che erano comparse, o che non aveva visto prima. Si stavano avvicinando. Sembravano fantasmi anche loro, come Eira e un altro che vide staccarsi e risaltare sugli altri oltre la cortina, eppure li sentiva, li sapeva reali, facce bianche e rosse immobili, eppure ferocemente espressive. Per lei orribili, delicatamente stravolgendo quelle che erano i suoi ricordi delle maschere No, eppure non poteva non osservarle, seguirne i lineamenti e i disegni rossi sul volto bianco, camminando con chi era rimasto fino al punto apparentemente prescelto, al centro del gazebo, circondata da musica rilassante, sotto i piedi ancora la sensazione dei fiori che avevano calpestato come un dolce tappeto.
    Smise di guardarsi attorno, qualcosa in lei le stava dicendo che non c’era motivo di resistere, di tentare di muoversi, di scappare, che tutto era assoluto, ineluttabile. Morte per nuova vita. Né si mosse quando corde spesse, ma soffici, le cinsero i polsi, portandoli dietro la schiena come una dolce ferma carezza di un amante che mai aveva avuto, finché non si incrociarono e vennero fissate. Lei non si oppose, ormai apatica, resasi conto dalla serie di eventi e da quanto Eira le aveva detto che non poteva fuggire, che qualunque cosa avesse fatto l’avrebbe portata allo stesso punto. “Eira, saremo presto assieme, amica mia…” pensò chinando il capo, sapendo che solo la sua morte, la morte di tutti loro poteva far continuare quella di altri, quella di coloro che li stavano guardando, esseri reali e strani, al di fuori dal mondo ai suoi occhi stanchi e appannati dalle lacrime. Come lei, altre sette persone, ognuna con le sue reazioni, fu tradotta sul palco di quella assurda rappresentazione, legata e fatta inginocchiare. Erano vittime sacrificali, era chiaro, ma le sfuggiva qualcosa. Non che la cosa le importasse, l’ineluttabilità di quanto era successo e di quello che sarebbe successo aveva scosso la mente e la volontà di Magdalena rendendola apatica. Si guardò attorno, la musica che si spandeva nell’aria si mischiava al vento, alla risacca delle onde, al crepitio dei falò e alle parole, mormorii e urla degli altri. La musica cambiò, come e in che modo non le fu dato sapere, ma divenne percussioni, tamburi e altri strumenti, ogni colpo un secondo scandito dall’orologio, poi un minuto, un giorno, un mese un anno… un secolo. Ogni istante, ogni colpo di tamburo facevano sfilare davanti ai suoi occhi, dentro al suo cuore, tutto ciò che sarebbe accaduto fino alla fine del tempo, che arrivò, lento nei battiti, la stasi prima che nulla si muovesse, dove tutto era solo terrore, la più cupa paura di essere soli in mezzo al nulla. Tutto era freddo, fermo, immobile, buio. No, non era buio. La fine del tempo fu come un sole allo zenit, una luce improvvisa che la abbagliò per pochi secondi, abbastanza per farla tornare là, in quel preciso momento, al mezzogiorno di quella strana giornata, su quel palco, in ginocchio. Vide una delle figure muoversi. Teneva un ramo in mano, piccolo, sottile, e un contenitore, un piccolo secchio, una sorta di aspersorio metallico. La guardò. La figura sembrò sorriderle, senza che nessun muscolo si muovesse. Con ieratica calma intinse il ramo e le piccole foglie nel liquido, per poi sollevarlo sempre con calma, come a far vedere a chiunque fosse presente cosa stesse facendo. I liquido era brillante, rosso, denso. Lo riconobbe immediatamente, quasi ne sentì il sapore metallico nel naso. Spuzzi le colpirono il viso, la guancia destra e il petto, lasciando poi lente strisce di sangue a colare, senza però sporcare l’intonso legno sotto di lei. La figura si allontanò, probabilmente per continuare a fare quello che aveva fatto con lei con gli altri. Sentì dietro di sé passi, vari passi, più persone. Una di loro si fermò dietro di lei, vide l’ombra, ne poté quasi sentire il calore. I piedi iniziarono a battere sul pavimento di assi di legno allo stesso ritmo dei tamburi, facendolo vibrare. Non solo i piedi di chi le stava dietro, ma anche gli altri, all’unisono, coprendo parole incompresnsibili dal significato chiarissimo nella loro ancestrale verità. Era ipnotico, trascinante, sempre più sincopato finché al culmine vide le braccia di chi le stava dietro, i suoi occhi fissi su un lampo metallico, una lama che veloce si abbassò e le accarezzò la gola, baciandola e lasciandole una linea che si tinse di rosso velocemente, bolle di sangue che si formarono quando l’aria dell’urlo che non arrivò mai alle labbra uscì dal profondo taglio. Magdalena chiuse gli occhi un’ultima volta, senza più forze per riaprirli. Il cuore perseverava, muscolo ribelle e aggrappato alla vita sempre più debole, lui sempre più lento, mentre il collo si piegava innaturalmente indietro. Nell’assenza di ogni sensazione, di ogni movimento, al trecentosessantacinquesimo battito di una lunga, quanto silenziosa agonia, Magdalena spirò.
     
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    Bellatrix Josephine Doyle | '88 | Politician | sheet
    Bella non aveva mai pensato davvero all'eventualità della sua morte. Non era un pensiero che aveva fatto volutamente. Non si era mai imposta di non pensarci, non si era neanche mai imposta di pensarci, semplicemente così era capitato. Nella sua vita non aveva mai immaginato di essere di quelle persone che non avrebbero avuto il tempo di compiere le proprie scelte, di realizzare nel concreto un piccolo sogno. Aveva sempre creduto fermamente di essere un'eletta, sempre nel suo piccolo, di quelle persone che in qualche segreta circostanza sarebbero vissute per sempre. Forse non si fregiava nemmeno della possibilità di essere ricordata come immortale nei secoli, studiata, compianta, sentita nel petto come una migliore amica da chi l'avrebbe letta, ascoltata, anche quando non ci sarebbe stata più. Però avrebbe immaginato che qualcuno nel mondo, nella sua Irlanda, o nella sua Norvegia, l'avrebbe ricordata. Per qualcosa. Lei il suo qualcosa se lo sentiva nelle ossa. Realizzare un futuro che avrebbe costruito mattone su mattone con tutte le sue ideologie, con gli stessi mattoni di pensiero avverso che la gente le avrebbe gettato contro, lei avrebbe innalzato un castello su cui salire e ammirare il panorama attorno. Magari le avrebbero intitolato una piazza, un ricordo tangibile della memoria che aveva lasciato, qualcosa su cui camminare e riflettere per bene. Voleva un lascito per lasciare questo mondo nella maniera serena che era convinta le sarebbe toccata quando avrebbe lasciato la Terra. E perciò si era sempre immaginata di diventare una bella signora anziana, prima di spirare l'ultimo respiro, una di quelle con i lunghi capelli bianchi che avrebbe divertito ad acconciare proprio come faceva a quel tempo, nei suoi trentanni, in trecce elaborate, e in crocchie scomposte. I suoi occhi sarebbero rimasti vispi e cristallini e saccenti e anche incredibilmente sensibili per tutto il tempo che le sarebbe toccato in prestito dalla banca della vita. Questa sarebbe stata la sua storia. Ma mettere piede a Besaid tanti anni prima aveva probabilmente sconvolto l'ordine delle cose. O era così che doveva esattamente andare, ed era tutto già scritto tra le pieghe di un destino che qualcun altro aveva scritto per lei?
    Bella rimase in silenzio ad osservare il corpo di Beat davanti a lei. Aveva sentito un urlo fuoriuscire dalle sue labbra. Le grida erano tra quelle espressioni da cui lei tanto si discostava, una manifestazione di debolezza che lei detestava. Non voleva dover giustificarsi mai delle sue reazioni, non era nella sua indole. Ma le era scappato via prima che potesse avere cognizione di se, dopo essere riemersa dal sogno che quella scacchiera le aveva donato, una visione strana che aveva distorto la sua serata di anniversario di fondazione. Non aveva il coraggio di fissare gli occhi vitrei del ragazzo che non c'era più. L'aveva visto prima in quella serata, danzare con Lys, e si era sentita così distante da quei due ragazzi, persi in un mondo tutto loro, aveva sentito la mancanza di qualcuno da guardare negli occhi e capire solo con un cenno di un linguaggio incomprensibile per gli altri. Le sembrava così strano che non fosse più possibile guardare il volto di Beat illuminarsi di una espressione viva mentre guardava Lys. Le sembrava perfino strano in quel momento pensare di non poterlo più conoscere bene, di non poter chiedere a Lys cosa ne pensasse di quel ragazzo, condividere un pò di quel segreto che esisteva tra loro in maniera diversa. E la consapevolezza di sentirsi perduta in quel momento le fece più paura del resto. Stavano affrontando qualcosa di irreale o qualcosa che stava accadendo? Perché il corpo di Beat grondante di sangue disteso davanti a lei parlava chiaro. Aveva una ferita sul petto, all'altezza del cuore, ma cercò di concentrarsi sul defluire del liquido viscoso attorno a lui piuttosto che guardare la sua ferita.
    Attorno a lei le pedine sulla scacchiera si agitavano impazzite fracassandosi e riempiendo di schegge le piastrelle alternate. Lei era rimasta lì accanto a Beat. Gli prese una mano stringendola nella sua come se gli stesse facendo un silenzioso commiato, un saluto muto che non sapeva cosa volesse dire, ma pensava che sarebbe stato bello se qualcuno avesse stretto la sua mano per farlo sentire meno solo, anche se non poteva più sentirlo con il suo corpo. Sentì la circolazione del suo sangue nelle gambe, che cominciarono a pulsare per la posizione in cui si trovava, rannicchiata per terra accanto al corpo del ragazzo. Allo stesso tempo si rese conto che attorno a lei il rumore dei pezzi di granito che andavano in frantumi rimbombava forte e lasciò la mano di Beat per proteggersi le orecchie quando il suono fu così forte che l'istinto di coprirsele fu più forte di qualsiasi altra cosa. Quando sollevò la testa di fronte a lei rientrò nel suo campo visivo un pezzo della scacchiera che si agitò veloce fino ad arrivare pericolosamente vicino a lei e Beat, e allora lo bloccò con la sua particolarità, facendo arretrare il pezzo dall'urto che ne sarebbe conseguito e facendolo fermare a tre piastrelle da lei. Il cavallo bianco si fermò diritto sulla piastrella nera e il corpo di Beat non fu toccato, non ancora.
    Poi il rumore cessò. Non si chiese in quel momento cosa potesse essere stato a provocarlo. Sentì dei passi attorno a lei, tolse le mani dalle orecchie per guardare più in là la figura di Max che si avvicinava con occhi sgranati, e lesse sul suo viso l'orrore e il dolore per quello che stava provando. Ma quando ci era arrivata la figura di Max lì accanto a lei? Non se lo ricordava più. Ricordò di averla vista poco prima accucciata per terra, gridare di svegliarsi. E poi qualcosa scattò di nuovo nella sua memoria e si rese conto che sì, era proprio vero, era stata lei con la sua voce a svegliarla dalla sua visione. Il ragazzo biondo si avvicinò allo stesso modo accanto a loro. Avrebbe voluto chiedergli, stranamente, come si chiamasse e chi fosse, quasi quale fosse la sua storia, come se volesse ricomporre perché c'erano loro tre lì attorno su quella scacchiera come pedine sacrificate su un gioco bislacco e poi Beat che non ce l'aveva fatta. Max diede un pugno a terra, le schegge attorno alla piastrella colpita vibrarono sotto il suo pugno, forse più gioco della sua stessa particolarità che della sua forza, o un miscuglio di entrambe le due forze canalizzate a colpire quel punto esatto del pavimento. Parlò a Beat, Max, e si rivolse a lui dicendogli qualcosa. E poi posò la mano sulla sua, e Bella la strinse di rimando. Come era strano trovarsi lì in quel posto con loro, e condividere un'esperienza che era inspiegabile a parole, nel suo pensiero, nella vita che avevano vissuto fino ad allora. Besaid non era mai sembrato un posto così lontano, la sua vita fino a qualche ora prima non era mai sembrata così finta. Poi ci ripensò, e si chiese se fosse passata un'ora, un'eternità, o un battito di ciglia. Non poteva più pensare di misurare il tempo come era abituata a fare, ma non sapeva proprio come esprimersi altrimenti.
    Le dita della mano di Max erano graffiate e contuse dalla botta che aveva sferrato sulla pietra, così come anche l'aspetto dei tre ragazzi allora sembrò stravolto. Ognuno nel corpo e sul viso sembrava conservare più tumefazioni di quelle che avevano davvero provato, eppure qualcosa di visibile c'era davvero, parlava il sangue sulla mano di Max, il suo fianco dolorante, le sue gambe che pulsavano, il viso del ragazzo con un taglio sopra la fronte. ”Avrei voluto raggiungervi tutti…” disse Max, ed era rivolto a tutti loro. Bellatrix aprì la bocca senza emettere alcun suono. Non riuscì a risponderle. Ci mise un pò a riprendere fiato e si sentì mancare la voce. Presa alla sprovvista annuì a Max, e chiuse gli occhi. ”Dovremmo portarlo con noi…” Disse ancora Max. Allora Bella si rialzò sulle sue gambe, e guardò i volti degli altri prima di riprendere consapevolezza di dover spostare il corpo di Beat, dove prima c'era una vita pulsante, e adesso chissà cosa c'era. Max si avvicinò ad una spalla, e il ragazzo raggiunse l'altro lato del corpo di Beat sulla spalla opposta per prenderlo di peso sul torace, a Bella restò aiutare loro a issarlo portando le mani attorno alle sue gambe, che accarezzò piano come se potesse fargli del male tirandolo in modo sbagliato da un punto qualsiasi, toccando la sua pelle. Nessuno di loro si accorse della presenza del lupo alle loro spalle, che era ricomparso vicino avanzando piano piano, senza far rumore. Si fermarono, con le mani sul corpo del ragazzo. Aspettarono tutti e tre che il lupo facesse qualcosa, come era successo prima, e anche Bella capì che come lo vedeva lei lo avevano visto gli altri tre, e che il lupo li aveva portati lì per una ragione. Avevano visto tutti qualcosa, ma non avevano visto Vega e Sirius mentre la incitavano a restare con loro.
    Il lupo si avvicinò allo stesso modo silenzioso al corpo di Beat e lo toccò con il muso. Il corpo di Beat cominciò a dissolversi e le sue mani strinsero aria dacché percepivano la pelle del ragazzo. Si inondò di luce e scomparve silenziosamente. Bella sentì una lacrima scivolare giù dai suoi occhi e rotolare lungo il mento. Era così che doveva andare? Non doveva proprio rimanere più niente di quelli che non ce l'avevano fatta? Sentì in sé stessa una nuova riaffermazione di consapevolezza, e un brivido la attraversò tutta: era viva, e seppur non riuscisse razionalmente a spiegare ciò che aveva vissuto, era riuscita a salvarsi. ”Che fine gli hai fatto fare?” Sentì dire a Max, ma il lupo ovviamente non rispose. Si mosse nell'altro verso e cominciò a camminare, tutti e tre seppero istintivamente che le risposte che cercavano si sarebbero trovate nel luogo dove il lupo li stava nuovamente conducendo. Si strinse le mani attorno al corpo e come gli altri cominciò a camminare seguendo il lupo a ritroso nel percorso che l'aveva portata alla Kaigaten. I ciottoli del sentiero che vedeva davanti erano quelli che si era lasciata dietro di sé dopo aver visto la figura della persona che più di tutte teneva ad accontentare e temeva di deludere nella sua vita, se stessa. Max si avvicinò a lei, passo dopo passo, e le poggiò un braccio dietro la spalla. « Mi hai salvato la vita. Non lo dimenticherò mai. » Sussurrò, decisa, stringendo la mano di Max pervasa da una sensazione di condivisione che solo due persone che avevano vissuto una simile esperienza potevano arrivare a contemplare. Le sembrò così lontano il tempo addietro di tanti anni prima che avevano solo parzialmente condiviso, le avventure di ragazze meno di trentenni che avevano affrontato quando semplicemente condividevano lo stesso gruppo di amici perché Bellatrix faceva parte della vita di Astrid. Guardare Max in quel momento accanto a lei vestita di nero la portò addietro nella memoria di un tempo passato, quando le cose erano semplici e comuni perché la loro vita era fatta di piccole cose che venivano ingigantite dalle incombenze del quotidiano. Quello che aveva vissuto adesso Bella era surreale, ma il fatto che uno di loro non fosse sopravvissuto, che Beat non ce l'aveva fatta faceva sentire lei il battito del suo cuore, e le pulsazioni del sangue nelle tempie. Aveva lasciato dietro di sé una Bellatrix spaventata da episodi che non erano normali, ma adesso era pronta a sentire il corpo scattare nuovamente con i muscoli pronti a tendersi, pronta a tornare a casa. Attraversarono un bosco muto e silente, gli alberi altissimi che estendevano le loro fronde verso l'alto non si muovevano più al ritmo del vento. Tutti gli animali che popolavano il bosco alla primavera erano taciturni, o forse assenti. Solo i passi del lupo e soprattutto i loro la facevano da padrone. Fu così che arrivarono alla spiaggia. Bella alzò lo sguardo sul primo spiraglio di luce che giungeva oltre il limitare del bosco. E passo dopo passo arrivarono a vedere il palpitare delle onde del mare sulla riva della spiaggia. Anche il rumore delle onde le arrivò lontano, ma non sentiva più ronzii. Un cupo silenzio si estendeva tutto attorno oltre la bolla che occupavano loro. Bella sentì i piedi affondare nella sabbia, e più camminava più sentiva la percezione di essere sveglia e di aver voglia che quella notte fosse oramai un ricordo da dover imporsi di dimenticare.


    Il sole era alto nel cielo, e la luna lo copriva per metà. Questa volta il senso che la faceva da padrone tra tutti fu l'olfatto, e il profumo di una fioritura che non riconosceva la pervase arrivandole alle narici. Qualcosa di più simile a tante fragranze messe assieme, una mistura di odori che le arrivò forte al naso e la lasciò perplessa e conscia che questa dove affondava i piedi non era più la spiaggia che aveva lasciato prima. Dove era finita la Besaid che conosceva? In quel momento le uniche cose che distingueva chiare e veritiere erano le persone che aveva accanto, Max e l'altro ragazzo. Tutto attorno il mondo sembrava finito in un inferno che ardeva di fuochi di falò che si estendevano in fila indiana l'uno di fianco all'altro formando un lungo anello che si estendeva alla sua destra. Guardò alla sinistra il mare, che muoveva le sue onde disegnando semicerchi sulla spiaggia, e sentì forte, nuovamente, in sé la voglia di fuggire per tornare a casa. Ma la conformazione di quel territorio non sembrava aiutarla. Fu nel guardare più avanti, scorrere lo sguardo verso l'orizzonte, che distinse i contorni di un gazebo oltre le fiamme, e vide i fiori estendersi a tappeto tutto attorno ai fuochi che scoppiettavano, e l'ultimo senso ad arrivare prepotente fu nuovamente l'udito, delle pire che ardevano incendiate e tremolavano nell'incandescenza e il suono come di un eco di tamburi che venivano percossi ritmicamente.
    Quando cominciò a guardarsi intorno allora li vide. E la vide, e tutto si fermò.
    Un gruppo di altre cinque persone, vere, esattamente come loro, arrivarono vicino ai tre da due punti diversi del cammino che avevano percorso. La figura di Lys si avvicinò invadendo il suo campo visivo solo per un pò, perché in quel momento nessuno avrebbe potuto offuscare via dal suo sguardo il volto di Astrid. Perse consapevolezza di parte del discorso che Max e Lys si sussurrarono, staccandosi dal corpo della donna che l'aveva salvata con il suo grido di battaglia. Come Max e Lys si corsero incontro, lei raggiunse Astrid andandole vicino, e le strinse la mano forte, molto più di come l'aveva stretta a Beat poco prima sulle piastrelle degli scacchi, quando aveva avuto paura che andasse in frantumi. Non disse nulla, non ancora, e il resto delle brutture che aveva vissuto sparì per un pò. Ma come era difficile trovare adesso parole da dirle che sapessero di cose buone, di rassicurazioni, dell'affetto, della presenza, dell'amore che provava. Voleva che bastasse che le dicesse che stava pensando a lei, quando si era resa conto che aveva visto il suo doppione immaginario raggiungerla, che aveva capito che aveva messo in fila una scelta dopo l'altra per una ragione, ma che c'erano tante spiegazioni e voleva spiegarle di nuovo come tanti anni prima aveva fatto, ma con altre parole, quelle che non era riuscita a dire allora. Ma non fu ancora il turno di Astrid e Bella. Quando tutti i ragazzi si ricongiunsero raggiungendosi a un passo di distanza gli uni dagli altri la voce di Lys la portò a quello che stavano vivendo. «Questo è reale. Sta accadendo davvero, non lo stiamo immaginando.» Sentì dire. «Dovete credermi.» Mormorò ancora, e tutti compresa Bella capirono che era vero, che nessuno stava immaginando nulla. Bella si sentì forte della convinzione che il suo corpo stava cercando di tenere stretta a sé, che doveva affrontare quella sfida paurosa come nessuna sfida le era mai capitata nella sua vita. Dovevano tutti uscire di lì, tutti i ragazzi che stava guardando allora, e lei e Astrid anche. Ripensò con la mente a Beat che si era dissolto e nel momento in cui ricordò il suo volto così lui ricomparve di fronte a tutti loro, anche se per molto tempo dubitò dell'immagine che le si parò di fronte. Lui e una ragazza che non conosceva si mostrarono in una forma estranea e sconosciuta. Le loro figure eteree erano invisibili eppure pregne dell'essenza di quello che erano stati. Era difficile allora credere di nuovo che fosse tutto reale, ma ci fu un pensiero che balenò nella sua mente e le diede un barlume di speranza su un baratro di cui non conosceva alcuna risposta, la sottile linea di confine tra ciò che esisteva nel mondo dei vivi e cosa esisteva dopo sembrò stagliarsi raggiungibile e visibile all'orizzonte. Beat era indiscutibilmente morto. Aveva stretto la sua mano, e non aveva sentito da lui nulla se non il peso abbandonato delle dita nel suo palmo. Avevano visto in tre i suoi occhi spenti, e la ferita sul petto. Avevano anche visto il suo corpo scomparire, e quello che stava accadendo continuava a ricordarle che tutto fosse irreale, le sembrava ricordarle di fluttuare anche lei in un sogno e non nella vita reale. Avrebbe voluto chiedergli tante cose, di ottenere spiegazioni. Ma il dolore straziante per la vita che era stata e osservare il ricongiungimento con la sua Lys le fece male, facendole sentire un nodo allo stomaco e al resto delle viscere. Beat era morto, eppure compariva assieme a loro in maniera diversa. Fu terribile guardare i due ragazzi, due anime che si amavano come loro, essere separate. Forse per sempre. E proprio per quello mentre Beat e Lys parlavano e Lys piangeva perché non poteva portarlo indietro, intercettò lo sguardo di Beat e fu come se avesse capito che ci sarebbe stato il tempo dopo per le loro spiegazioni, lo sentì e basta. Si voltò allora per guardare Astrid ma entrambe e tutti loro videro che accanto alle pire incendiate si era materializzata una pila di corpi umani che giaceva sulla spiaggia, infiniti corpi disposti gli uni sugli altri, esangui e terribili. Si coprì la bocca con la mano e strinse Astrid in un abbraccio desiderato da tanto tempo. Non era così che finiva. C'era ancora tempo. Non guardò nessuno dei corpi riversi e immobili, non volle riconoscere nessuna delle persone che giacevano abbandonate. Erano persone che amava? Avevano sofferto? Perché si trovavano lì? Erano domande tra le mille che si pose e che cercò di ricacciare via lontano. L'unica consapevolezza di incredibile nitidezza era che tra quelle domande aveva una risposta. Quelle persone erano state private della loro particolarità. Forse tutto il loro essere e la bruttura del modo in cui erano stati eliminati, cancellati dalla vita, racchiudeva anche una parte della verità di quella infinita tristezza. Non avevano più i loro poteri, li avevano persi prima di spirare, e così come Bella sentiva scorrere in lei il suo sangue, si sentiva viva e sentiva in lei la sua particolarità, la sua telecinesi che tanto l'aveva divertita e tanto si era resa utile nella sua vita. Si voltò verso il gruppo dei ragazzi ancora stretta ad Astrid e disse, sentì sulla sua pelle, che come Lys aveva raccontato che quel sogno era in verità la loro realtà, e gli altri avevano annunciato qualcosa, così doveva rivelarlo anche lei. «Sono stati privati del loro potere.» Sussurrò. Le sue parole si mischiarono al resto delle confessioni che tutti loro si stavano rivolgendo, echi di verità che cercavano di unirsi per trovare consapevolezze in un puzzle difficile da completare, forse impossibile.


    Vennero trascinati assieme al centro del falò. Nessuno ebbe tempo di accorgersene per tempo, ma figure altresì oniriche e diverse da loro comparvero attorno. Erano ominidi, ma non umani, figure dai volti ornati dai colori di guerra, pronti per un massacro. La paura che avvertì Bella fu diversa. Sentì allora che il sogno di tornare a casa non si sarebbe realizzato. Non ci sarebbe stato tempo. Non avrebbe potuto vivere ancora. Ridere con i suoi fratelli, preparare i convegni, sentire la dolcezza di un letto comodo che ti avvolge dopo una giornata di lavoro, bere senza remore e imprecare di fronte agli impicci che le erano capitati nella settimana. Non avrebbe più potuto abbracciare una persona amata.
    Guardò i volti delle figure che li sospingevano e sentì intorno a lei i suoni dei tamburi che riecheggiavano forti, suoni che diventavano più distinti man mano che loro venivano condotti al centro dello spiazzo fiorito, di fronte ad un gazebo di legno, pericolosamente vicini alla pila dei corpi già passati oltre il velo. Si tenne stretta ad Astrid, lasciando via altro che non fossero loro due. Sarebbero morti tutti. Ma soprattutto sarebbe morta Astrid, insieme a lei. Astrid la chiamò. «Bella...» Si ricordò tante cose, altri lampi nel buio dei suoi ricordi. La sua espressione quando la veniva a prendere fuori dal Congresso puntuale, tutti i giorni, perché si precipitava dopo il suo lavoro a raggiungerla per portarla a casa. Il calore del suo corpo quando si abbracciavano nelle notti in cui Bella non riusciva a dormire. Il giorno in cui avevano posto fine alla loro relazione. «Mi dispiace.» Le disse Astrid. Bella la guardò e piansero assieme. Da quando l'aveva vista sulla spiaggia aveva voluto dire che si dispiaceva perché sentiva che era stata colpa sua. Aveva così tanti sogni che aveva accumulato uno sopra l'altro e tanti obiettivi che voleva raggiungere da aver cercato di porre dietro di sé la persona che le era accanto, perché era convinta che nonostante tutto l'unica persona da cui doveva guardarsi era se stessa. Ma per i motivi sbagliati.
    Bellatrix aveva amato Astrid senza un perché, perché certe sensazioni non si capiscono mai davvero fino in fondo. Trovava tantissimi motivi al perché la stimasse, al perché se ne sentisse attratta, ma poi sulla logica delle emozioni non capiva quale tra quelle che provava quando la guardava avevano la meglio. Aveva deciso che sarebbero state bene, perché tanti contro si erano frapposti tra lei e se stessa, e loro, la loro storia. E poi aveva perso inevitabilmente con lei una parte di sé con una decisione sofferta. «Non voglio morire sapendo di avere ancora questo rimpianto.» Le disse, e Bella fremette, e le rispose. «Non hai sbagliato nulla. Noi abbiamo ancora tempo.» Mormorò, contraddicendosi, per poi aggiungere. «Non volevo davvero lasciarti indietro. Lasciami riprovare.» Ammise, con la voce incrinata dal pianto, quando si rese conto che stavano per essere separate. Astrid le sfiorò la guancia e lei si asciugò le lacrime, e sfiorò con l'altra mano la guancia del suo amore perduto. Si baciarono, un bacio che era un addio quando Bella voleva acciuffare la sua vita e riprendere in mano il corso del suo destino, e opporsi alla situazione che le stavano causando. Non poteva permettere che stesse accadendo qualcosa ad Astrid, a loro. Max l'aveva salvata. Adesso perché lei non poteva salvare di nuovo tutti loro? «Non può finire così.» Lo disse con stizza e rabbia, e quando gli altri vennero sospinti e lei cercò di porre forza non poté nulla contro la forza delle figure che sospingevano lei e Astrid. Il volto delle figure era dipinto di bianco e striato di tinta rossa che non poteva far altro che presagire una cosa soltanto. «Io tornerò per te.» Disse Bella ad Astrid tenenendo la sua mano finché non furono separate. «Mi hai sentito? Non ti lascerò andare così!» Ma vennero separate per davvero, e perse il suo tocco. Al suo posto il ricordo della sensazione della sua pelle contro la sua.
    Ognuno di loro fu legato da una corda diversa e Bella perse la possibilità di rescindere la stretta per l'ultima volta. Adesso era intrappolata come un agnello sacrificale su di un altare che aspettava soltanto di versare il loro sangue.
    Morirono. Così, semplicemente, uno dopo l'altro, portati via come foglie appese ad un albero trascinate via dal vento. Osservò Lys essere macchiata dal sangue intinto da un ramo di frassino e così essere sacrificata, la gola recisa. Così quello fu il destino di tutti, uno dopo l'altro, bagnati dal sangue del precedente uomo o donna sacrificata e poi colpiti alla trachea da una lama che non avrebbe sbagliato mira. Alzò il volto e guardò le ultime espressioni di tutte le persone che aveva conosciuto in quella vita o che non conosceva, troppo turbata dal pensare di guardare degli omicidi ma piuttosto di non sprecare gli ultimi attimi della sua vita. Portare con sé il ricordo delle persone che morivano prima di lei. Si voltò verso Astrid. Non l'aveva salvata. E quando fu chiaro dalla disposizione dei loro corpi che sarebbe toccato prima a lei che a Bella, si scosse e si girò verso le figure che battevano il ritmo per incitare il rito, cercando di richiamare la loro attenzione, di fermare quell'ordine sbagliato e perverso. «Prendi prima me!» Si agitò, ma mosse solo le sue gambe, le braccia erano oramai intrappolate. Voleva sentire la lama recidere la sua vita prima che fosse toccato ad Astrid perché non voleva lasciarla di nuovo sola. Questa volta doveva esserci qualcuno dall'altra parte pronta ad aspettarla a braccia aperte. Ma nessuno ascoltò la sua richiesta che si perse nel suono dei tamburi che rimbombavano attorno.
    Si voltò verso Astrid dopo che vide morire anche Max, che l' aveva tirata via dall'incanto e niente per lei aveva invece potuto, e pianse quando Astrid fu colorata di rosso e arrivarono al suo turno. «Non avere paura. Hai superato cose ben peggiori della morte.» Non era vero. Stava affrontando qualcosa che non avrebbe mai voluto vedere. La morte di una persona amata. «Non sei sola.», le disse prima di lasciarla. Aveva ancora Beat accanto a lei, quando il fuoco negli occhi di Astrid lasciò il posto a due pupille mute. Urlò dal dolore, ma non riuscì a piangere più. Non era questa la fine che aveva immaginato. Non era così che doveva morire.
    Non era così che doveva vivere. Lo sentì nella sua testa, l'eco dei rimpianti. Aveva tante cose da fare, ma qualcuno di più saggio di lei aveva detto che il peso dei minuti passati sulla terra si contava di più nei minuti spesi ad amare e a lasciarsi amare, piuttosto che il tempo trascorso davvero in vita o a fare altro se non del bene. Voleva dire qualcosa al corpo di Astrid, e non poteva più toccarla. Ma l'unico che poteva sentirla in quel momento era Beat. Guardò il ragazzo, come se stesse guardando il Dio in cui credeva l'avrebbe accolta alla fine del mondo. « Cosa succederà dopo? » Domandò, stremata, voltandosi verso di lui prima che la figura con il ramo insanguinato si dirigesse verso di lei. « Mi hai sentito quando ti ho stretto la mano, o è stato tutto invano? » Ebbe il coraggio di chiedere. Aveva molta paura che Beat potesse solo darle risposte vane, e che in realtà la morte era per sempre e nulla aveva potuto e nulla aveva concluso anche solo sfiorandolo. Si sarebbe sentita sola anche lei, pensò accatastata tra tutti gli altri? O avrebbe sentito il corpo di Astrid contro il suo quando sarebbero state rimosse dalla stretta delle corde?
    Il ramo la bagnò con il sangue, e capì che era il sangue di Astrid. Aveva ragione quando aveva detto che non era sola, una parte di lei era tornata su di sé. La guardò per l'ultima volta, anche se aveva paura di ricordarla così e non ricordare quella che era stata in vita, un uragano di emozioni. « Tu hai rimpianti Beat? Hai i miei stessi rimpianti? » Mormorò, quando il ramo finì di sporcarla o salvarla con il sangue di Astrid e lei si rese conto che così come aveva sentito prima aveva perso la sua particolarità. Non era servita a salvarli comunque. Forse sì, si disse, anche Beat la pensava come lei, anche lui sentiva di lasciare il posto che gli spettava sulla Terra senza che avesse voce in capitolo.
    « Cosa faresti se potessi rifare tutto da capo? » Bella non lo sapeva che cosa avrebbe potuto fare se avesse potuto rifare tutto, scegliere nuovamente le sue scelte o scegliere di proseguire al bivio all'incrocio diverso. Beat le rimase accanto perché era l'ultima delle persone da cui sarebbe rimasto, e lei ascoltò la sua risposta e lasciò l'ultima lacrima della sua vita alla vista del ragazzo, prima che anche la sua vita fu spezzata e il filo del suo destino tagliato al pari della sua gola.


    La donna finì di intrecciare i capelli con mani sapienti ed esperte. Si guardò allo specchio guardando la sua opera riuscita. Era una lunga treccia di capelli bianchi e biondi, che nell'insieme sembravano risplendere di un colore argenteo. Sistemò il vestito azzurro che aveva indosso piegando il tessuto stirando le pieghe che si erano spostate sull'abito mentre era seduta alla sua sedia. Si alzò, aprendo la porta, e camminò piano, veloce per quanto potesse essere veloce alla sua età, per raggiungere la sua persona. Superò tutte le stanze e l'ultimo corridoio, prima di trovarsi di fronte alla grande vetrata spalancata sul giardino, nella casa dove avevano vissuto tutti gli anni della propria vita insieme.
    Era lì, che la guardava. L'aveva aspettata per tutto il tempo, mentre finiva di prepararsi. « Quante volte ancora mi farai aspettare? »
    Risero entrambi. Adesso la persona che amava si doveva mantenere ad un bastone e le rughe di espressione erano state sostituite da quelle di vecchiaia, ma il suo volto per quanto trasformato dal tempo sarebbe stato l'unico che avrebbe riconosciuto tra mille. « Per tutte le volte che riterrò necessario. » Si mise a ridere, e Bella si intenerì a pensare che dietro di sé non aveva lasciato rimpianti. Tanti ricordi di una vita vissuta insieme, con amore. Si commosse come solo le persone da anziane si riescono a commuovere, intenerendosi di fronte al peso di un'esistenza condivisa.
    Non poteva fare altro che regalare a quella terra silenziosa le sue lacrime, aspettando assieme il sole.



    Aggiungere drama al fuoco delle pire, FATTO. :devil:
     
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33 replies since 31/3/2021, 23:37   1889 views
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