Doubt in your eyes, I'm trying not to bother

Anastasija&Matt | Casa Morgenstern | tardo pomeriggio

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    Sguardo rivolto al paesaggio in movimento fuori dal finestrino dell'auto, pensieri che si accavallano, incisivi che si premono sulla pelle liscissima e rosea delle labbra ricoperte da un sottilissimo strato di rossetto chiaro e matte, guance arrossate dai ricordi che si sovrappongono gli uni agli altri, momenti di un passato remoto che si lasciano schiacciare da quelli più recenti e ancora così vividi dai quali Anastasija prova silenziosamente a scappare. Non una parola vien fuori per mischiarsi all'aria, non dalla sua bocca, né da quella di Matthew, solo un paio di sguardi che si incrociano per un brevissimo attimo e, poi, tornano a separarsi. E in mezzo a quel silenzio pesa inesorabilmente ancora qualcosa, l'eco di parole dette da qualcuno che non avrebbe dovuto parlare per portare a galla un argomento forse un po' scomodo, ancora troppo incerto nonostante gli otto anni passati l'uno al fianco dell'altra, nonostante i palmi delle mani premuti contro le sue spalle, nonostante il calore dei corpi che, ogni sera, si fa uno solo.

    Quando le dita solide di Matt girarono la chiave inserita nel cruscotto e il motore dell'auto si spense, Anastasija aveva già posato entrambi i piedi per terra, fuori dal veicolo e con le scarpe a tacco basso che affondavano nel ciottolato del sentiero che portava alla porta d'ingresso di quella grande casa che amava, pareti fatte di mattoni che conosceva come le sue tasche per tutte le volte in cui ci aveva strofinato le dita così da lasciarsi guidare da essa stessa quando lei invece era persa nel buio più fitto. Si distaccava con difficoltà dalle cose che conosceva bene e, nella miriade di immaginari cui la sua mente poteva dar vita, Anastasija non riusciva mai a vedersi altrove. Anche Matt era ormai parte di quel quadro, un futuro tanto simile al presente, momenti di un tempo che aveva scelto con consapevolezza. Questo erano, Matt e la casa: la libertà di cui si era cosparsa, li aveva indossati come una lunga veste leggera da cui si era lasciata avvolgere con cautela, mai troppo aderente, mai quanto gli occhini un padre che, lo aveva saputo anche senza aver potuto incrociarli con i propri, mai era stato davvero suo, l'illusione di qualcosa che un tempo aveva potuto amare e che, poi, non c'era stato più. Fuggire era stata la soluzione, sposarsi era stata la salvezza anche là dove altri avrebbero creduto il contrario. E ci si era abituata a quel piccolo mondo fatto su misura per lei, per loro, finché qualcuno quella mattina non aveva osato troppo e un pensiero estraneo si era intersecato fra di loro e quell'equilibrio che avevano costruito silenziosamente per otto lunghi anni. Ci sarebbe stato spazio per tre?
    Inserì la chiave nella porta d'ingresso e l'aprì, un gesto tanto semplice quando speciale per lei, che neanche aveva bisogno di cercare i lineamenti della maniglia o la superficie puntigliosa della serratura per compiere quel semplicissimo gesto. A volte si soffermava ancora su tutti i particolari che le capitavano sott'occhio e, curiosa, restava a guardarli e studiarli per memorizzare ogni cosa al meglio, così da ricordarne le caratteristiche anche quando poi si ritrovava nelle tenebre della propria mente. «A che ora dobbiamo essere lì?» chiese rivolta a Matt, quasi casualmente, prendendo ad avanzare nell'ingresso principale della casa, il rumore dei tacchi sul pavimento a fare da sottofondo, restava quello e le spalle che, imperterrita, continuava a dare a suo marito. Guardarlo avrebbe potuto scaturire parole, concetti, idee che probabilmente non era ancora pronta ad affrontare, così cercava di lasciarselo poco più indietro, a rifuggire il suo sguardo celeste mentre lei abbassava le iridi in direzione del pavimento, poi sull'attaccapanni fermo contro la parete destra del corridoio, appena dopo aver lasciato cadere le chiavi sul piattino di porcellana decorato a mano e posizionato con estrema precisione sul mobile a muro quasi di fianco la porta d'ingresso. Tutto, in quella villa, aveva un proprio perché, un proprio posto. Ogni volta in cui qualcuna di quelle porzioni di mondo che lei amava cambiava forma o posizione, Anastasija se ne accorgeva immediatamente, legata morbosamente allo spazio che lei abitava, motivo per il quale si accinse quasi immediatamente a posare le mani intorno al collo di uno degli alti vasi posizionati di fianco alle scale, così da spostarlo di qualche centimetro verso destra. Avrebbe dovuto nuovamente ricordare al personale di rimettere tutto esattamente al proprio posto, dopo aver pulito. Drizzò nuovamente la schiena e chinò il capo da un lato, lo sguardo sulle foglie della Kentia Hawaiana che andò a smuovere piano fra i polpastrelli caldi, appena prima di fare un piccolo passo indietro e riprendere a camminare raggiungendo le scale che portavano al piano superiore e, dita strette attorno al corrimano, avanzò a mento alto, gradino dopo gradino, schiena dritta e passo svelto.
    Di sopra si diresse verso la camera da letto, avanzando oltre l’uscio per ritrovarsi di fronte al tavolo da trucco che aveva posizionato di fianco all’entrata della cabina armadio. Si sedette sulla sedia affondando fra i cuscini morbidi e iniziò a togliere via gli orecchini dai lobi, lasciandoli poi cadere dentro il contenitore aperto di fronte al petto. Prima il sinistro, poi il destro, lo sguardo fisso nello specchio fu questa volta incapace di sfuggire al riflesso di Matt che prese vita dietro di lei una volta entrato in camera. Lo guardò per qualche istante, tornando a drizzare il collo e ritrovandosi a mento alto in direzione del proprio riflesso e quello di lui nello specchio, Anastasija fece un brevissimo cenno del volto nello sua direzione, sollevando il mento e sbattendo due, tre volte le palpebre, le folte ciglia chiare ricoperte da uno strato leggero di mascara si incontrarono sfiorandosi appena per poi lasciarsi andare di nuovo. Che avvertisse, lui, la stessa tensione che sentiva lei sotto la pelle e sopra di essa? A dirselo, facciamo un figlio, le sembrava una scalata ripidissima senza protezione, non era pronta e forse non lo sarebbe mai stata. Il pensiero di Roman, questo lo sapeva anche Matt ormai, era l’unico che all’idea di un figlio qualsiasi per lei più si avvicinava. Dopo di lui, dopo la separazione che le era stata imposta, dare vita a qualcos’altro, qualcun altro, sarebbe stato come tradire ciò che un tempo era stato suo e che poi le era stato strappato via senza alcun permesso. Come avrebbe mai potuto dare amore a qualcun altro a quel modo, sapendo che quegli occhioni che mai aveva visto erano ora familiari ad un’altra madre e non a lei? Che ne sarebbe stato di Roman, se Anastasija avesse acconsentito a compiere quel passo? «Vuoi una mano a scegliere cosa mettere?» chiese allora continuando a fissarlo attraverso lo specchio e abbassando le mani sulla superficie del tavolino mentre andava a richiudere la scatola degli orecchini per riporla dentro uno dei due cassetti. Si voltò piano verso di lui con il viso, mento che andava a premersi sulla pelle chiarissima della spalla sinistra e labbra ora serrate, Anastasija indagò con lo sguardo sui lineamenti del viso di Matt alla ricerca di qualcosa, risposte a domande mai pronunciate, non ancora e non esplicitamente da uno dei due.
    Si diede una spinta leggera per tornare a sollevarsi dalla sedia e, avanzando in direzione del letto, si sedette su di esso per chinarsi e far scivolare via le scarpe dai piedi, che sistemò con cura alla propria sinistra, appuntando mentalmente che avrebbe dovuto riporle all’interno dell’armadio. Drizzando nuovamente la schiena portò le mani dietro di essa e, istintivamente, i polpastrelli del dito indice e pollice si chiusero attorno alla linguetta della cerniera del vestito, tirandola giù, fino al basso. Si liberò delle spalline dell’abito con un movimento elegante delle spalle e, di nuovo in piedi, lo fece scivolare giù così da toglierselo di dosso. Avvolta nella sottoveste leggera e color panna, sollevò con cautela il vestito e si avvicinò alla cabina armadio, oltrepassandone l’uscio per afferrare una delle grucce vuote. Vi appese il vestito con cura, stirandone piano il tessuto con la mano libera e tirando appena l’estremità dal basso per lasciare che le piccole pieghe d’usura tornassero a dissolversi. Dopodiché lo appese lateralmente, così avrebbe potuto ricordarsi facilmente di doverlo lavare. Aveva un’attenzione particolare per tutto quello che indossava e come lo indossava, trattava i propri oggetti personali e tutto ciò che le apparteneva in generale con estrema attenzione e premura, da sempre impaurita che a non tenere d’occhio tutte quelle piccole parti del suo mondo, qualcuno avrebbe potuto portargliele via prima o poi. Sospirò silenziosamente, in piedi davanti all’arcobaleno di stoffa che le si apriva dinanzi agli occhi, per un momento lontana dalla presenza di Matt che, seppur nell’altra stanza, avvertiva prepotentemente attraverso le pareti. Inspirando un’ultima volta, tornò a voltarsi ed uscì dalla cabina con un paio di grucce fra le mani e due vestiti tra i quali era indecisa. Li distese sul letto e, guardandoli con curiosità, cercò di capire quale indossare. Uno era nero, lungo fino alle caviglie, morbido sul petto e poi stretto in vita; l’altro era fiorato, sulle spalle il tessuto si rigonfiava come palloncini per bambini, dal busto in giù scendeva in piccole ondate leggere fino alle ginocchia. Afferrò quello nero, portandoselo davanti agli occhi e, dopo averlo guardato per qualche istante, se lo poggiò contro il petto mentre si voltava in direzione dello specchio fermo nell’angolo della stanza, alla ricerca del proprio riflesso. Sorrise piano, ancora un po’ incerta ma allo stesso tempo soddisfatta di come sarebbe sembrata la propria figura avvolte nella stoffa nera. «Ti piace?» chiese d’un tratto, voltandosi verso Matt e mostrandosi a lui con il vestito ancora premuto contro. Gli sorrise compiaciuta, un’espressione pacata sul viso, la stessa di chi proprio non vuole mettere sul tavolo le carte scoperte e cerca inavvertitamente di prendere e guadagnare tempo.
    Nello spazio fra loro due l’eco, lo stesso di qualche istante prima, altrove: Non è il momento di allargare la famiglia?
     
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    Quel sorriso sbieco. Lo ripercorro con l’indice tante volte, di notte, quando sei sdraiata accanto a me. Le fossette, che in realtà sono proprio fessure, due fessure di pelle che si formano sul viso quando sorridi. Io non te l’ho mai detto, ma le amo. Le amo da impazzire, perché sono tue e solo tue, perché sono speciali. Perché quando compaiono vuol dire che stai sorridendo, e sorridi a me. Ne seguo la piega con il dito, sfiorandoti il volto delicatamente, e tu mi guardi. E io ti guardo e i tuoi occhi mi spaventano, perché ci vedo il mondo dentro, e quell’universo incredibile che racchiudi nel tuo sguardo ceruleo mi fa tremare nell’anima, se ne ho ancora una, forse, ma chi lo sa, e ho paura che legga l’abisso che ho in me, il vortice nero che mi porto dentro. Perché tu mi guardi come nessuno mi ha mai guardato prima. Mi fa sentire scoperto, nudo sotto il tuo sguardo, in una maniera diversa da quando mi stendo accanto a te tutte le notti. E ho paura che tu ci legga troppo di me, nei miei occhi troppo chiari, nei miei occhi troppo grigi. E allora distolgo lo sguardo e mi concentro di nuovo su quella fossetta poggiata sul cuscino che mi piace tanto, mentre, lo sento, tu continui a guardarmi. E sparisce per un attimo quella fossetta. Pensi? Pensi a qualcosa, chissà a cosa pensi. Il tuo viso mi suggerisce che pensi a me, a noi. Chissà cosa pensi di me. Ma questo non ho il coraggio di chiedertelo, e rimango lì accanto a te, assorto. E quando è così tu lo capisci, per colpa dei miei occhi e per colpa dei tuoi, tu lo scorgi quell’abisso che riaffiora in superficie a inquinare l'azzurro delle iridi, lo vedi. Tu leggi la paura che nascondo dentro le mie ossa e la vedi riaffiorare sulle labbra quando l’oblio è più vicino, mi senti tremare, in quella che chiamo la mia anima, e allora mi abbracci forte, rimanendo in silenzio, e io chiudo gli occhi per un attimo, li strizzo con forza e quel nero diventa bianco, e il vortice scuro si allontana piano e svanisce. E quando li riapro ci sei solo tu e il tuo corpo che si cinge stretto al mio e il tuo respiro con cui sincronizzo il mio. E sento i battiti del tuo cuore all’unisono con i miei, ed è l’unica cosa, quella, che ti rende debole come me. Quel cuore è l’unica traccia, in questi casi, della tua fragilità. Sei umana come me, in qualche modo. Ma non mi spaventa, è ciò che ci rende uguali. E’ il segno che anche se in piccola parte, condividi con me una debolezza intima e quasi segreta: che sei un essere umano, che non sei infinita, proprio come me, e che forse anche tu, in fondo a quello sguardo dolce e sicuro, hai un po’ di timore dell’abisso. Ma il tuo abbraccio mi sta dicendo che nessun vortice potrà mai avvicinarsi, quando mi sei vicina; che nessun oblio profondo potrà inghiottirmi e soffocarmi finché tu mi tieni ancorato alla vita. E allora alzo di nuovo lo sguardo, e tu mi scruti nel blu e ci vedi dentro, e vedi che l’abisso, anche stavolta, è passato. E sorridi di quel sorriso speciale, solo tuo, e io so che il mio posto può essere accanto a te, in quell’abbraccio audace che sfida le tenebre, lotta le ombre dei pensieri, combatte per noi.
    Però non te l'ho mai detto, e mai te lo dirò.
    Io non ho più un'anima di quelle tra tanti che possono permettersi di dire queste cose.



    Odiava le chiacchiere. L'aveva sempre fatto. Le aveva sempre ricacciate via con un grugnito, un'occhiata perplessa, qualche volta aveva sollevato gli occhi al cielo e aveva respirato male, di quei respiri pesanti fatti per far capire agli altri che provava fastidio, ed era sempre sembrata una cosa un pò sciocca praticamente a tutti, anche quando lo raccontava poi a se stesso. Ma che importava. Perché era stato anche il modo di evitare che il fastidio diventasse rabbia, e la rabbia si tramutasse in qualcosa di pericoloso e temibile. L'aveva fatto anche per gli altri, alla fin fine.
    Perciò arrivato adesso alla sua età aveva saputo convivere con molte cose, ma tante davvero, e le cose erano addirittura cambiate, erano cresciute con lui, avevano assunto dei contorni difficili da associare alla sua persona, alla sua personalità, al suo stile di vita.
    Erano cose perlopiù strane, quelle che avevano cominciato a gravitargli intorno, ed erano oramai diventate parte della sua vita. Agli occhi degli altri conduceva una vita apparentemente perfetta. Aveva una bella casa, una famiglia, un lavoro che gli piaceva e non gli rendeva le notti insonni. Faceva un pò quello che voleva. Era benestante, avevano dei domestici tutti per loro, tutti per sé. Gli altri, della sua vita, nulla sapevano. Non potevano immaginare quello che si celava dietro i suoi andirivieni, cosa facesse durante il giorno o la notte, come fossero arrivati a quel punto lui e Anastasija, come si fossero conosciuti. Quale era, a tutti gli effetti, la loro storia, cosa la rendeva tale. Una famiglia. Faceva parte come membro effettivo di un costrutto societario che a lui era sempre sembrato, come d'altronde molte cose che riguardavano la società, e le comunità, molto complicato da capire. Pensare alla famiglia, alla sua, ai suoi genitori e a suo fratello, gli faceva venire un gran mal di testa, come quando da bambino provava tanto a leggere e ci si intestardiva con la voglia di fare quello che faceva sempre suo fratello maggiore, e allora si era convinto, come gli dicevano sempre gli adulti, che tra i due era lui il figlio stupido e che poteva capitare, non tutti nascevano intelligenti. E allora lui ci riprovava, ci si rimetteva con la forza, costringendosi, legandosi alla sedia - come Alfieri, sentiva recitare suo fratello, che sapeva proprio tutto di tutto e conosceva anche la letteratura e la drammaturgia straniera - e lo odiava, e più sentiva di odiarlo, più si arrabbiava, e buttava via i libri che aveva provato a conoscere, come un amico che ti rigetta via e tu rimani ferito perché ti senti non capito, trascurato, ripudiato. Così i libri lo avevano allontanato, e lui aveva scoperto da adolescente, quasi adulto, di essere stato tutta la vita dislessico. Non era stata colpa sua. Qualche volta se lo ripeteva pure quando pensava che di molte altre cose non fosse colpa sua, e ripuliva la sua coscienza pensando che erano solo cose che gli erano capitate, e che non aveva potuto farci proprio nulla. Quante volte le cose che erano accadute avevano sfiorato il suo cuore, e la sua mente non riusciva a raccogliersi dietro quei pensieri, che cercava di ignorare, segnali di allarme che avrebbero scalfito chiunque, ma lui aveva deciso per il bene di Anija - forse anche il suo? - di non sentirli. Eh già. Quando era arrivata Anija con la sua vitalità, la sua parlantina, aveva portato colore in una vita che sembrava fosse già fatta a forma di lui. E poi aveva cambiato tutto e lui si era racchiuso attorno a lei, anche se sembrava fosse successo il contrario, ed era cambiato. Una parte di lui almeno lo aveva fatto. L'altra era rimasta nell'ombra a guardare, silente, in attesa.
    Girò le chiavi, e spense il motore dell'auto. Guardò il cruscotto, il volante, saggiò la presa delle mani attorno ad esso prima di lasciarlo andare. Riprese le chiavi e le infilò in tasca. Anastasija si era già incamminata lungo il viottolo della loro abitazione. Ascoltò il rumore della portiera del lato passeggero che si chiudeva, e storse le labbra in un pensiero che cominciò a fare capolino nella sua mente, aveva cominciato a farlo prima, e adesso non sapeva come lasciarlo andare via. Aprì la portiera del suo lato, ne uscì fuori e la richiuse, guardando il verde scuro della sua Shelby Cobra 427, una delle auto che da restauratore appassionato aveva deciso di tenere per sé quando gliela avevano venduta dopo averla portata in riparazione. Cofano e portabagagli si estendevano sul motore dell'auto in una lunga linea sinuosa, bella come quella del fondatore che l'aveva creata. La guidava solo quando avevano temperature miti, e non c'era motivo di avere preoccupazioni per la sua tenuta. Era andato a prendere Anastasija dall'orfanotrofio così, ogni tanto si premurava di compiere quei pochi gesti che potevano essere definiti romantici agli occhi degli altri, a cui lui si aggrappava con una strenuità e una voglia di esserci sconosciuta per altre persone. La voglia di essere sempre presente.
    Era proprio bello Matt agli occhi degli altri. Un marito devoto e perfetto, perfettamente in linea e così strano con i suoi lineamenti accigliati e i suoi gesti contenuti, dolci nella loro semplicità, del compiere un gesto ricorrente che dava conforto, come passare a prendere sua moglie dal posto in cui lavorava per riportarla a casa. Doveva aver fatto quella sensazione lì quel giorno. Perché l'aveva guardato, aveva guardato lei, e la responsabile di Anija aveva solo detto qualche parola messa in riga, in un impeto di espansività che pensava fosse naturale e bellissimo.
    « Dovreste proprio fare un figlio. Quando farete un figlio? Siete così belli assieme. »
    Matt non aveva grugnito. Aveva sollevato il suo sguardo aprendo gli occhi in una espressione di sorpresa, ed era sembrato davvero bello con il suo viso che si rilassava e gli occhi curiosi nel guardare una figura che non aveva minimamente notato prima di allora, e l'aveva guardata davvero, riconoscendo nella direttrice dell'Istituto una donna qualsiasi più grande di lui di un paio di decadi e passa di età, una vita trascorsa a guardare bambini crescere e a cercare di aiutarli a trovare un posto sicuro dove passare la propria.
    Matt aveva guardato Anija. L'aveva guardata come quando la guardava lui, forse in maniera simile a come la guardava quando lei ancora non poteva vederlo, la osservava silenzioso quando si aggirava per le stanze della loro casa o si aggrappava agli angoli che conosceva, e lo cercava riconoscendo sempre i suoi passi o la sua presenza negli ambienti. La sua Anija sapeva guardarlo anche senza vederlo, lo aveva imparato a fare con il tempo, ma era andata proprio così. In quel preciso momento anche potendolo vedere, non stava guardando Matt.
    Seguì Anija lasciando l'auto nel cortile antistante il viottolo prima delle siepi che contornavano il giardino che si espandeva attorno tutta la loro abitazione. Con il peso del portafoglio in una tasca dei pantaloni e delle chiavi nell'altra seguì la figura della moglie fino all'ingresso. «A che ora dobbiamo essere lì?» La sentì dire. La guardò lasciare le chiavi di casa nel piatto di porcellana sul mobile alla sua sinistra, sistemare il vaso accanto con entrambe le mani, e sfiorare le foglie della pianta che non ricordava come si chiamasse, non aveva mai avuto capacità di ricordarne i nomi, per poi guardarla procedere a passo svelto su per le scale al piano superiore, stretta al corrimano quando adesso poteva non averne più bisogno di aggrapparsi. «Alle otto.» Sussurrò Matt, sostando sull'ultimo gradino delle scale per qualche momento prima di seguire nuovamente la sua ombra. Non disse nulla. Sapevano entrambi che era infinitamente strano il fatto che Anija non ricordasse l'orario o che chiedesse conferma di quando si sarebbe svolta la cena in casa Evjen. Era abitudine, era sempre stata una cosa loro dovuta da tante cose, che Anija chiedesse che ore fossero, non potendo controllare in alcun modo l'orario se non provando a leggere dove si trovassero le lancette nel grande orologio a pendolo da pavimento che avevano proprio all'ingresso. Adesso poteva scorgere l'orario da lontano anche senza il suo aiuto, ma era rimasta l'abitudine per lui e lei che fosse proprio lui ad occuparsi del controllare il tempo che scorreva per rendere conto del momento in si trovassero. Percorse le scale lentamente, superando i gradini un passo assestato alla volta. Quando si ritrovò in camera captò il suo sguardo nel riflesso dello specchio di fronte a lei, alla toeletta. Era stata lei ad intercettare il suo sguardo, ed era stato lui ad indugiare in esso. Una domanda muta in essi che non sapeva come esternare. «Vuoi una mano a scegliere cosa mettere?»
    «Si, dammi una mano.» Mormorò, gentile, in realtà, anche se dalla scelta delle parole poteva sembrare un ordine, non c'erano più formalismi in una coppia sposata da tanto tempo come la loro. Anche se in generale non succedeva mai che Matt usasse le parole 'per favore' con nessuno. Che avesse intuito Anija che volesse chiederle qualcosa? Che, forse, avesse semplicemente immaginato che volesse una mano a scegliere tra i tanti completi nel suo armadio, uno da indossare per quella sera?
    Sollevò lo sguardo da lei, per dirigersi di fronte alla cabina armadio. Lasciò andare la giacca di pelle e cominciò a sfilare via la cintura che tratteneva i jeans alla vita, per poi posarle sulla sedia del suo lato della cabina armadio alla rinfusa, avrebbe sistemato i vestiti smessi dopo o l'avrebbe fatto qualcun altro. Si liberò del peso della maglia che indossava, sfilando via le braccia e il collo, e liberando le spalle da essa. Sfilò le scarpe senza aiutarsi con le mani, un piede sull'altro, la punta dell'Adidas destra a scalzare via il tallone del piede sinistro, e via anche l'altra reciprocamente allo stesso modo. Il parquet della camera era caldo al tocco del piede nudo di Matt, la loro villa era tutta scaldata a pavimento, e il passaggio dal parquet alla ceramica del bagno si differenziava solo dallo scricchiolio leggerissimo delle tavole di noce a spina francese, che sembravano inseguire come una freccia il percorso tra lui e Anastasija seduta sul letto che scalzava le sue scarpe e si svestiva dall'abito giornaliero per rimanere in sottoveste. Si voltò, per un pò, cercando di concentrarsi sugli abiti da sera che aveva di fronte, dopo aver aperto l'armadio e guardò i pantaloni ripiegati sulle grucce apposite, ordinati per colore e catalogati per tessuto, un ordine su cui chiaramente lui non aveva minimamente messo mai mano. Gli faceva sempre sentire lo stomaco scombussolato guardare Anastasija mentre si svestiva e posava le sue manine sugli abiti per metterli in ordine. Prese il primo dei completi della fila dall'ultimo capo, al lato destro, sui completi completamente neri, e poi capitolò, tristemente per lui, nel prendere uno smoking. Riusciva adesso ad indossare un completo formale in tutte le occasioni, le serate formali come quella però potevano dover richiedere un completo più adatto, il completo da sera per eccellenza degli eventi dell'alta società Besaidiana. Lo tirò via dall'asta dell'armadio e lo poggiò di lato, e tirò via anche il primo dei completi normali scuri che aveva evitato. Avrebbe lasciato scegliere Anastasija. «Anija.» Le disse, chiamandola, pensando che si avvicinasse a lui. Impaziente, preferì tornare da lei e trascinarla a scegliere cosa indossare, ma si fermò, osservando lei con un vestito stretto al petto che si rimirava nell'armadio. Chissà perché aveva immaginato che fosse già vestita. «Ti piace?» La guardò. «Si. Questo ti sta bene.» Mormorò, puntellandosi sui talloni. Era rimasto con solo i jeans indosso, e aveva abbandonato gli abiti che aveva tirato via dall'armadio lasciandoli lì, un pò sul pavimento, un pò sulla sedia insieme ai vestiti smessi. «Anche se mi piaci più così.» Aggiunse, cercando il suo sguardo, la voce gli uscì fuori bassa e roca in un sussurro, quando doveva dir fuori qualcosa di semplice che suonava molto più contorto nella sua testa, e il cuore gli faceva pulsare forte il sangue alle tempie. Lo sapeva anche lui che non era esattamente una persona che ci girava molto intorno alle cose. Si era dimenticato degli abiti smessi e degli abiti che aveva lasciato alla rinfusa, probabilmente lei gli avrebbe detto qualcosa sul fatto che non avrebbero avuto tempo di chiedere di stirarli nuovamente come si deve. «Anija.» La fermò, chiamandola con il suo nomignolo, che in qualche modo aveva proprio deciso di accettare con il tempo e far suo perché fosse solo suo, solo quello di Matt - che ogni tanto la chiamasse così anche la sorella erano dettagli, l'aveva deciso prima lui. «Lo vogliamo fare un figlio?» Non seppe perché disse lo vogliamo. Improvvisamente era come se avesse capito tutto di etica matrimoniale e sapesse anche che chiedere le cose per due fosse meglio che rivolgerle una domanda che fosse solo sua. O magari l'etica non centrava niente e lui lo stava chiedendo perché se lo chiedeva anche lui, io lo voglio un figlio? Mi piacerebbe? Saprei come gestirlo? Era un essere umano, talvolta se lo dimenticava davvero, però quella domanda buttata lì innocentemente da una tipa qualunque di cui lui si scordava puntualmente l'esistenza, almeno fino a quel momento, era diventata improvvisamente una cosa grossa. Grossa come la villa che abitavano. Si avvicinò ad Anija quanto più lentamente possibile, come se fosse conscio del fatto che quando si muoveva sapeva essere veloce, repentino e difficile da star dietro, e le sfiorò una tempia sotto ai capelli chiari, passandoglieli tra le dita per portare il mento in sù verso di lui.
    Aveva evitato finora il suo sguardo, o se l'era immaginato soltanto, lui che non ci capiva proprio niente delle relazioni comuni?




    Edited by wanderer. - 2/11/2022, 12:24
     
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    Aveva avuto sogni romantici, aveva immaginato una vita perfetta, da fiaba principesca in cui ci sarebbe stato solo amore, tantissimo amore, così tanto da straripare, da bearsene con gli occhi, le labbra, le dita. Aveva immaginato giorni infiniti, dove il sole splende senza mai tramontare, si abbassa poco e tocca l’orizzonte per far spazio alle stelle, punti di luce quasi invisibile che appare e scompare senza lasciare alcuna traccia. Aveva sognato in grande, Anastasija, col naso all’insù e i piedi che scivolavano su lastre di ghiaccio liscissime, ben definite, solide come aveva pensato fossero le basi di quei sogni cuciti su misura per lei, sotto le suole delle scarpe come l’ombra di Peter Pan, che a perderla di vista non resta niente, ci si sente spezzati a metà, una costante ricerca senza mai alcun ritrovamento. E in due era stata fatta Anastasija: tranciato violentemente sul più bello, il sogno si era infranto e di quel sole splendente e i giorni felici davvero poco era rimasto, una polverina fluorescente che al primo vento era volata via. E poi era arrivato lui con i suoi occhi azzurri eppure così scuri, impossibile specchiarcisi dentro, Matt aveva sostituito il sogno di una ragazzina troppo prepotente e viziata e le si era cucito addosso come un’ombra, la sua ombra, per guidarla là dove lei non avrebbe potuto avanzar da sola. Senza guardarlo una sola volta l’aveva sempre visto, ne conosceva i lineamenti come fossero i propri, la pelle ruvida delle dita, un neo sotto pelle di cui nessun altro conosceva l’esistenza, la linea appuntita dei denti, il calore dei suoi piedi sotto le coperte. E a guardare il suo riflesso nello specchio in quell’istante, Anastasija lo vedeva completamente.
    Matt era capace di assorbire qualsiasi rumore e far proprio ogni silenzio così come le fratture di ogni suono di cui esso si riempiva, facendo proprio ogni spazio anche senza muovere un solo muscolo. «Si, dammi una mano.» le rispose, forse solo in attesa che lei avanzasse quella richiesta che poi tanto inattesa non lo era neanche stata. Un mezzo sorriso a labbra strette si distese sul viso chiaro di lei un attimo prima di richiudere il portagioie e sollevarsi dalla sedia per svestirsi e lasciar cadere gli abiti sul letto, pur sempre con estrema attenzione e ordine. Tutto quello che faceva godeva di una certa perseveranza e cura, come con ogni movimento delle dita Anastasija lasciasse scivolar via un po’ di dolcezza, si disperdeva nella stanza con eleganza. Un movimento leggero del collo e i capelli le scivolarono lungo la spalla, là dove ci passò il dito indice per spostarla nuovamente dietro le orecchie e bloccarla lì, nel punto fermo da cui per un po’ non si sarebbe mossa. Si mosse con genuina abitudine fra letto e cabina armadio, passi piccoli e leggeri che si amalgamavano a quelli appena più pesanti ma silenziosi del marito, l’uomo che ormai da otto anni aveva imparato a sua volta tutto di lei, anche i più piccoli ed insignificanti particolari. Quando si posizionò dinanzi lo specchio per guardarsi riflessa in esso con indosso l’abito nero, il sorriso di Anastasija prese nuovamente vita sulle sue labbra rosee, un filo di rossetto chiaro a coprirle e definirne la forma già ben accentuata: era difatti su di esse che ritrovava ciò che invece da Aleksandra la separava. La sorella aveva forme più rotonde, un viso meno spigoloso del suo e con dei lineamenti decisamente più sensibili e addolciti, incredibile trovarci un’evidente somiglianza nonostante quelle differenze. A legarle, però, c’era sempre stato qualcosa che andava oltre la genetica e il sangue: un senso di protezione che niente aveva mai davvero potuto scalfire o far vacillare. Erano così, le due Zakharova, si proteggevano senza mai dirselo, si amavano senza dirselo, si tenevano vicine senza pretenderlo; Aleksandra era ciò che delle loro vecchia vita le restava, era lei che custodiva quella parte di Anastasija che nessun altro aveva mai davvero potuto conoscere e forse, lo pensava, senza di lei nessun ricordo avrebbe avuto più la parvenza d’essere stato reale. «Anija.» a riportarla al presente fu nuovamente la voce di Matt che, dopo solo qualche secondo, apparve alle sue spalle, indosso ancora solo lo stesso paio di jeans con cui si era presentato all’orfanotrofio per prelevarla. Quando si voltò nella sua direzione, il volto aveva perso l’ombra dei pensieri che l’avevano catturata fino a quel momento e le labbra si aprirono in un sorriso compiaciuto, un po’ complice. «Si. Questo ti sta bene.» rispose lui alla domanda un po’ banale di lei, non tanto perché si aspettasse una risposta positiva in ogni caso, ma perché aveva afferrato la strana consapevolezza del fatto che, dopotutto, dal modo in cui Matt la guardava, diveniva difficile deludere le sue aspettative. Forse, quel sogno romantico che da bambina si era cucita addosso aveva fatto di sé realtà, in modo diverso e certamente non così come lei lo aveva immaginato, certo, eppure sapeva con certezza quanto tenessero l’uno all’altra, quanto di quel matrimonio combinato ora era divenuto affetto, amore. Eppure non bastava per un figlio? E se non per un figlio, per il pensiero che esso avrebbe potuto portare? Ondeggiò dolcemente su sé stessa con la stoffa dell'abito stretta fra le dita e spinta contro il busto caldo, un po' per ridarsi energia e presunzione, un po' per scacciare via la pressione cadutale addosso nel momento stesso in cui la direttrice dell'orfanotrofio aveva voluto infilarsi fra di loro. L’idea tornava a vacillare nella mente di Anastasija che, alla domanda di Matt, si ritrovò quasi inchiodata. «Anija. Lo vogliamo fare un figlio?» si dispersero nell’aria quelle parole, Anastasija se le sentì cadere addosso come pioggia di spine, impossibile trovare un posto al riparo, un tetto sotto al quale nascondersi per attendere che smettesse di volar giù anche il mondo intero. Per un istante quel sogno cucito sotto i talloni prese vita, volle ricordare che dopotutto c’era ancora tanto da fare, tantissimo spazio in quella casa per un paio di piedini bianchissimi, mani piccole da stringere con due sole dita. C’era ancora tantissimo amore che avrebbe potuto donare, se lo sentiva dentro scalpitare, ingabbiato dentro al torace da così tanto tempo che sembrava essersene andato in letargo per troppo tempo. E se lo chiese anche Anastasija, allora, lo facciamo un figlio, Matt? Dategli nuovamente le spalle dopo aver essersi voltata come una mini trottola di nuovo in direzione dello specchio a muro, Anastasija si fermò all'improvviso: strinse piano le dita dei piedi, quasi a volerle nascondere contro il parquet caldo mentre inconsciamente allungava la schiena e drizzava le spalle. Chiuse e riaprì più volte e piano le palpebre mentre iniziava a sollevare lo sguardo dal proprio riflesso fino a portarlo sul viso di Matt che, dietro di lei, si avvicinava alla sua figura più minuta. Lentamente si voltò nella sua direzione per accoglierlo all'interno del proprio campo visivo, gli occhi di lei ora già piantati in quelli di lui, sopracciglia sottili increspate sotto la ciocca di capelli che, sbarazzina, le era ricaduta sul viso, la stessa che solo qualche minuto prima aveva voluto incatenare dietro l'orecchio. Chinò il capo da un lato e le mani allentarono la presa sull'abito ancora inconsciamente stretto contro, lasciando che questo scivolasse via in piccole onde di seta che finirono per terra. Quando il dito di Matt le sfiorò il viso, passando dalla tempia alle guance, fino al mento per sollevarlo verso di lui, Anastasija si sentì quasi inerme, il cucciolo di un piccolo cervo che cerca una via di fuga e non trova riparo da nessuna parte. Durò un brevissimo istante, quella sensazione di paura, eppure le smosse il cuore e i polmoni e tutta la pelle, ogni fibra viva di cui Anastasija era composta. Non aveva alcun timore di lui, non in quel momento; era più una sensazione di inadeguatezza ad un posto che forse non le sembrava poi così adatto in quel frangente, o forse non lo sarebbe stato mai. Chinò il capo seguendo le curve del palmo della mano che Matt le fece scivolare contro con dolcezza, un’intimità che al di fuori di quelle mura diveniva quasi sconosciuta poiché era in quella casa che con lui tutto era cominciato, un mattone e del cemento per lei, uno sguardo e una carezza per Matt e Anastasija. «Un figlio.» si ritrovò a ripetere, un sussurrò che le arricciò appena l’increspatura di pelle liscissima fra le sopracciglia, quasi volesse trattenere tutti i pensieri che avrebbero potuto scivolarle lungo la ripidezza del naso appuntito. «Mio e tuo.» continuò, e quasi il suono di quelle parole non le piacque come avrebbe dovuto. C’era poco che ad Anastasija piacesse condividere, poca importanza aveva quanto amasse coloro i quali facevano parte della sua vita e per quanto ci facessero parte. Condividere avrebbe potuto significare al contempo anche perdere, nel suo immaginario un tempo ricolmo di sogni ora vi troneggiavano spesso incubi, la perdita ne era la regina, una sottrazione matematica che non riusciva mai a riportare i conti in valore positivo. «Nostro.» aggiunse, specificando ancora una volta mentre, abbassando le iridi chiare sulle labbra di Matt, si avvicinava a lui per posarvi un bacio leggero, un modo come un altro per prendere ancora tempo, per nascondersi a quello sguardo che di lei aveva sempre capito troppo, ma per fortuna mai tutto. Quando si allontanò da lui, restò ancorata alla sua schiena con le mani, le dita sottili di Anastasija che si premevano sulla pelle calda di Matt e lasciavano che i polpastrelli si strofinassero contro di essa in un gesto affettuoso e forse un po’ ingannevole, esprimevano desideri che si contraddicevano da dentro a fuori. Una parte di lei lo voleva, sapeva di esser pronta a riprovarci e credere che fosse la cosa giusta, dopotutto immaginarlo era altrettanto facile e il pensiero che Matt vedesse le stesse possibilità dinanzi a loro era quasi rincuorante. La sua ombra cucita sotto i talloni voleva dar vita ad altro, fare un passo avanti e forse un po’ azzardato, modellare quei sogni di cui Anastasija da piccola tanto si era beata, ridare voce ad una storia che per tantissimo tempo non aveva avuto alcun suono. D’altro lato, invece, non vi era alcuna chance, neanche una. Quella vita se l’era costruita a fatica, frutto di una scelta in parte forzata, era riuscita a crearsi un angolo di mondo lontano da tutto quello di cui lei non avrebbe avuto il controllo e per farlo aveva dovuto abbandonare molte idee, molti sogni, forse tutti. Madre lo era stata, lo era ancora in molti modi, forse un po’ strambi, eppure c’era ed era intorno a suo figlio in modi in cui altri neanche avrebbero potuto immaginare mai. Ma era sola, non aveva mai dovuto condividere niente di quella parte della sua vita. Si era data a Matt completamente senza aspettarsi mai troppo in cambio, l’aveva amato e si era fatta amare, l’aveva reso faro nella notte, sole del mattino, aveva preso il suo nome, avevano progettato una vita intera insieme, una casa insieme, si erano legati indissolubilmente anche nel buio e, di lui, lei aveva fatto la propria ancora. Accettare, annuire a Matt e dare alla luce un bambino avrebbe significato non avere alcun controllo, non del tutto almeno, e lasciare che suo marito condividesse anche quello con lei non era inconsciamente poi davvero un’opzione.«E’ un atto d’amore da cui non si torna indietro, Matt… Mi ami così tanto da volermi amare anche più di così?» lo chiese con un sorriso dolce sulle labbra e il tono di voce basso e sinuoso, intimo come tutte quelle volte in cui gli aveva sussurrato anche solo un “grazie” all’orecchio dopo aver afferrato la sua spalla, una cantilena che non si aspetta poi chissà quale risposta, un po’ presuntuosa e viziata, un po’ ricolma di sincero affetto e forse gratitudine, tutto, eppure non così sincera. «Da voler amare qualcuno più di quanto ami me?» aggiunse ancora, capo inclinato verso un lato e occhi ben piantati ora in quelli di lui, ammaliatori, svegli, mentre con le braccia Anastasija andava ad aggrapparsi al suo collo in una presa salda, la punta delle unghie ben definite e ricoperte da uno smalto dai toni chiari che andavano a solleticargli il collo proprio sotto l'attaccatura dei capelli e fra di essi, risalendo gentili sulla nuca. «Lo vuoi fare un figlio, Matt?» domandò allora, mento sollevato nella sua direzione ora, sguardo che non si perdeva neanche un battito di ciglia di lui. Così vicini, così intimi, tutto moltiplicato per mille, erano davvero pronti per costruire anche quello? Se lo sentiva dentro, Anastasija, e non era il desiderio di metter su famiglia; aveva paura che tutto quello che aveva costruito finisse in mille pezzi, la sua sottrazione che aggiungeva solo valore negativo all'equazione.
     
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    Sapeva tante cose di Anija. Lui le sentiva dentro le cose che conosceva di lei, spesso non aveva bisogno di pensarle perché gli bastava essere e comportarsi come quello che era, l'uomo che agiva preda dell'istinto e ricacciava via tutti i dubbi e le sensazioni che trascinava dentro di sé. Le sensazioni di irrequietezza e di estrema solitudine. Perché per le tante cose che sapeva di Anija c'erano anche tante cose che ignorava, pensieri che sapeva esistessero ma a cui non sapeva dare una connotazione. Per tutto quello che di lei aveva imparato a conoscere c'era una corrispettiva parte dell'ignoto, e lei, che era umana come lui, era anche allo stesso modo posta a sapere tante cose ma a non conoscerne altre. Quante cose sapeva lei di lui e quante lui di lei? Perché non avrebbe saputo dire Matt se quelle cose potevano sopperire a legare due persone, se le cose che loro avevano tra loro potevano completarli senza far rendere loro conto di dover colmare uno spazio, come se fossero davvero l'uno l'ombra dell'altro nei tempi felici e in quelli avversi, come avevano giurato nel loro matrimonio, di esserci sempre dall'inizio alla fine, finché non avessero lasciato lo spazio che condividevano in quel preciso tempo della loro vita. Come se non si fossero mai accorti di essere diventati inconsapevolmente l'uno il seguito dell'altro, per sempre, senza neppure una pausa, un momento per pensare di essere soli, un muro pronto a dividerli fisicamente. Allora, perché quello sguardo pesava su di lui, sembrando un riflesso di qualcosa che aveva immaginato non dovesse mai accadere?
    Anastasija deviò il suo sguardo, piroettò con la sua eleganza innata, o quel qualcosa che aveva dentro lei, che tornava della sua vita passata, degli anni passati a danzare sul ghiaccio, che le avevano forse donato la particolarità di rendere ogni cosa perfetta, ogni angolo un posto migliore. Vide, senza accorgersene di farlo, finché non fu troppo tardi per lui, il suo riflesso allo specchio, la donna girare su se stessa per poi drizzare le spalle e tornare a guardarlo. Matt sentì il calore del parquet ricordargli che fosse scalzo, il freddo non era mai stato un vero problema per lui, ma il peso di quegli occhi chiari che sviavano dai suoi gli sembrò sussurrare che dentro se stesso non potesse sentire più gelo di così, e il cuore si sentì di nuovo, nel silenzio, pulsare e rimbombare nelle sue orecchie in attesa di sentire una qualsiasi cosa da parte sua, almeno una parola a smentire quello che i suoi occhi sembravano rendere chiaro. Guardò il vestito che aveva stretto al suo corpo ricadere giù, e lasciare la sua macchia di colore sul legno, e a rendere visibile il corpo di Anija a lui, nella sua sottoveste color panna. Ed era tornato da lei, a colmare quello spazio vuoto della camera da letto enorme, così grande e improvvisamente così vacua, e lui veloce era corso a riempire quel confine creatosi da parole pronunciate perché non aveva saputo contenerle. Sfiorarla non significava per lui trattenerla, inchiodarla ad una realtà di una domanda complessa, ma serviva inconsciamente a se stesso a ricordargli che fosse sua. La sua Anastasija aveva vissuto una vita bellissima e difficile, e in molti dei suoi momenti era stata tragica ed intricata, e in molti altri era stata oscura. La stessa luce che poteva illuminarla le era stata strappata via, e i meccanismi della casualità complessa l'avevano portata a lui. Nessuno dubitava che non fosse perfetto, lui ovviamente non si sentiva tale. Lui aveva sempre camminato nella luce e aveva coscientemente deviato il suo tracciato per andare lontana da essa, via verso un sentiero che potesse fare per lui. Quando era toccata a lui, con la facilità con cui un bambino viziato riceveva l'ennesimo aspettato dono al giorno del compleanno, ecco che aveva pensato che avrebbe potuto camminare nella luce per lei, nascondendole il suo lato oscuro perché non fosse visibile, ma sempre presente, perché indissolubilmente dannato. Matthew non aveva avuto mai nulla che fosse davvero suo, e che fosse speciale, se non la sua odiata particolarità che l'aveva reso quello che era. Matt aveva stretto le sue mani grandi su una cosa bellissima e delicata, e sapeva che avrebbe dovuto averne cura. Ma lui era pur sempre lui. Le bestie non si trasformavano in principi nella vita reale. Probabilmente lo sapeva anche lei. «Un figlio.» Gli disse. E poi silenzio. Nessuno dei due, tra bestia e principessa, era un genio, e su questo avrebbero avuto nulla da discutere entrambi. Ma per tanti e ovvi motivi nessuno aveva mai pensato ad insinuarsi nella loro intimità, e forse, neanche loro avevano mai pensato - piuttosto che mai dire ad alta voce - di pensare di volere un figlio. Un figlio significava tante cose. Per Anija significava affrontare Roman, il vuoto che aveva lasciato. Per Matt, l'idea di un figlio da quando era stato pronunciato come suggerimento dalla direttrice dell'orfanotrofio, semplicemente, significava non essere solo. Per Matt sembrava andare avanti.
    Con un figlio nel grembo di Anija avrebbe costruito una culla con le sue mani, montato pezzo per pezzo. Avrebbe organizzato l'officina perché potesse avere un ufficio al riparo dal rumore. Avrebbe chiesto a Naavke una benedizione, per lasciarlo ad occuparsi di lavori meno pericolosi. Avrebbe imparato a giocare con lui, forse a non insegnargli molto che non fosse sensato, ma a quello ci avrebbe pensato Anija, più giudiziosa dei due. «Mio e tuo.» Divenne un sussurro. Tornò il silenzio, la guardò guardare le sue mani, seguendo la linea che aveva lasciato sulla sua pelle, sulle tempie, sul suo mento sfuggente.
    Guardò gli occhi scuriti dal mascara, le iridi che si lasciavano mangiare dal nero delle pupille che mettevano a fuoco tutto quello che di lui non potesse leggere i suoi pensieri di rimando. Strinse i denti Matt, come era solito fare quando faceva scattare la mascella e non sapeva cosa dire. Nessun suono in lontananza che potesse richiamarlo a pensieri diversi, che potesse imporsi sulla sua mente, sul presentimento di non aver sbagliato. Quel dubbio restò lì, ad echeggiare da solo, finché non fu Anija a pronunciare ancora una piccola parola che ebbe il potere di farglielo visionare. «Nostro.» «Nostro figlio.» Disse Matt. Glielo disse, e così le due parole messe in fila gli sembrarono qualcosa di incredibile. Nonostante tutto quello che Matt sapesse, non riuscì a frenarsi. L'idea di un figlio, loro, divenne nella sua testa l'idea di un corpicino perfetto, come quello di Anija, ma che fosse anche suo. E l'idea di qualcosa che venisse da lui, che avesse un pezzettino di sé e che fosse invece perfetto, e privo per natura del suo vuoto, dei suoi sbagli, del suo essere oscuro, era solo la redenzione ultima. Anija lo baciò, non ebbe il tempo di proseguire. Era un bacio leggero, ma gli fece chiudere gli occhi. Abbracciò il corpo di sua moglie facendo scorrere le mani sulle spalle, e di nuovo, sul collo, sulle clavicole esposte che lo facevano impazzire. Lui lo sapeva bene che non la meritava. Ma da quando quel sentimento si era impossessato di lui, così la sensazione che fosse sua lo inebriava da sempre, dal primo momento in cui aveva chiesto di poterla toccare, come non aveva mai fatto con nessuna. «E’ un atto d’amore da cui non si torna indietro, Matt… Mi ami così tanto da volermi amare anche più di così?» Matt non sapeva insomma tantissime cose, non soltanto di Anija, forse anche di se stesso. Non sapeva certamente tantissime cose che avrebbe voluto sapere, forse non aveva mai desiderato ardentemente una conoscenza speciale come quella che agognava suo fratello, ma sentiva che dove non sapeva significava che una persona diversa da lui avrebbe potuto colmare quella mancanza. Lui non aveva mai immaginato di affrontare un discorso come quello con Anastasija, ma pur premesso che non sapeva cosa avrebbe dovuto aspettarsi si sentì smarrito.
    Raddrizzò la testa, il collo, guardò Anija distaccandosi dai suoi baci, sentì le mani sulla sua schiena nuda e le cercò, portandole dietro la sua per riportargliele nelle sue. Strinse le mani di Anija con entrambe le sue mani, e se le portò sul petto, pelle contro pelle, come se potesse provare a farle almeno sentire il battito del suo cuore impazzito. Matt era più bravo con le mani che con le parole. Forse in quel momento, e succedeva davvero di rado, avrebbe voluto scambiare se stesso con suo fratello, perché potesse rispondere al suo posto. «Perché?» Le disse. Tudum. Tudum. Tudum. Il suo cuore martellò nel petto. Le dita di Anija si liberarono percorrendo quel poco spazio che aveva lasciato a disposizione, sentì formicolare il petto dove le aveva poste. Risalirono su per il suo collo, dietro la nuca, sui capelli corti di Matt. «Da voler amare qualcuno più di quanto ami me?» «Pensi che potrei non esserne capace?» Le disse a voce bassissima, come se stesse pronunciando una frase blasfema sulle sue labbra. E quando tornò a guardarlo, lei con le mani su di lui, si sentì in trappola. Ai poli opposti, i ruoli invertiti. Aveva funzionato sempre così quel loro rapporto, ma lo sapevano solo loro due. «Lo vuoi fare un figlio, Matt?» Schioccò la mascella, di nuovo. Abbassò il viso a cercare il suo, contro le sue labbra, irruento, dischiudendole con forza con un bacio, stringendo il corpo esile di Anija contro il suo. Non voleva che sentisse o che vedesse neanche lui quanto quella domanda stesse incrinando qualcosa, ma voleva che sentisse che seppure il suo amore per lei era stato fuori dalle righe, sempre amore fosse.
    Amare Anija per lui era stato come vedere rosso dal primo giorno, senza chiedersi dove lo stesse portando, alla pazzia o in paradiso. Amare il figlio di Anija sarebbe stato naturale come respirare, una conseguenza di qualcosa che nessuno avrebbe potuto immaginare potesse prendere altra forma. Sentì un moto di rabbia risalirgli su, correre dal suo stomaco ad impadronirsi dei suoi polmoni, bloccandogli il respiro. «Cosa vuoi che ti risponda?» Disse, un filo di voce e i nervi scoperti, con le mani a stringere quello che poteva di lei, i suoi fianchi, senza darle spazio, senza che potesse andare via da lui. Sì, lui sapeva davvero poche cose, ma quello che sapeva era che non era il tono di voce che aveva sperato di sentire, che non erano quelle le domande che sua moglie avrebbe dovuto fargli. Respirò, riprendendo aria, e si mosse con lei in quella stretta difficile portandola al bordo del loro letto al centro della stanza, fino a che entrambi non erano arrivati a toccarlo con le gambe, sfiorando il copriletto immacolato.
    Si chiese, e si insinuò in lui, una domanda più pericolosa di quella che aveva posto la direttrice quel pomeriggio a loro, e lui a lei quella sera.
    Possibile che avesse cominciato a supporre cose senza un fondamento, a chiedersi tutte le domande sbagliate e a porle a lei, e a non sapere cosa risponderle?

    Edited by wanderer. - 2/11/2022, 12:23
     
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    Che ne sarebbe stato di lei, se non ci fosse stato lui? Che ne sarebbe stato della sua calma, della sua serra al lato della grande casa? Che ne sarebbe stato di quelle notti trascorse a scrivere e scrivere, flussi di lettere che nere su bianco si trasformavano in parole, le stesse che avrebbero viaggiato oltre confini invisibili per giungere altrove, là dove lei altrimenti non sarebbe potuta arrivare? Che ne sarebbe stato di Anastasija Zakharova, senza Morgenstern? Questo Anastasija non poteva di certo saperlo con certezza, eppure conosceva tutti gli scenari che da sempre accompagnavano i suoi pensieri, tutte quelle possibili vite che avrebbe vissuto se, anni prima, il destino non l'avesse condotta da Matt. Allora sospirava e, silenziosamente, continuava ad apprezzare tutto quello che aveva, tutto quello che insieme a lui aveva costruito, le barriere fitte ed alte che attorno al proprio passato era riuscita ad innalzare. E dunque, da dove arrivava ora la necessità di continuare a costruire? La domanda sorse dentro di lei, andò ad impattarsi contro tutto il resto che fino a quel momento c’era stato e diede a quella vita, ora, un altro sapore. Forse -e nella sua mente quel pensiero era nato tanto tempo prima- alla fine Matt non era poi così diverso dalla donna che aveva sposato. Aveva avuto modo di lasciarsi guidare da lui per tutti quelli anni, si era fidata del suo passo e dell’autorità che aveva mostrato nel saperla condurre, fare spazio per lei tra ceneri sul pavimento: anche Matt adorava il controllo, la sensazione di potere sotto le dita. Era per quello che erano riusciti ad equilibrarsi alla perfezione, allora? Perché da sempre erano stati solo in due e, come due pezzi di un puzzle che si incastrano alla perfezione perché unici, avevano funzionato maestosamente. Cosa sarebbe accaduto, quindi, se ne fosse giunto un terzo, di pezzo?
    «Nostro figlio.» udì la sua voce ripetere quella parole, guardò gli occhi di lui vagare su onde immaginarie che lei aveva giù visto e che aveva saputo si sarebbero prima o poi schiantate su di loro, bagnandoli. E dunque fingere che la tempesta non esistesse non era neanche più un’opzione: era lì, era giunta, ed eccola riversarsi esattamente su di loro spingendo via con forza l’asciutto che aveva reso tranquilla quella camera da letto per anni. Posò le proprie labbra su quelle di Matt e si lasciò avvolgere dalle sue braccia, il tocco dei polpastrelli ora più indulgente, sentiva le dita di Matt aderire contro la sua schiena e seppe, a quel modo, che non sarebbe stato facile tornare indietro. Si era sempre saputa sua, di lui, quasi un trofeo e le era stato anche bene così, era quello che aveva cercato per anni, allontanandosi da casa, perché essere di Matt aveva significato non appartenere più alla sua famiglia e, di conseguenza, era stato estremamente facile pensare di appartenere a sé stessa. Eppure, in quel breve frangente condito dagli occhi di Matt che la scrutavano alla ricerca di una trappola che per anni non si sentiva d’essere stato in grado di vedere, ecco che anche Anastasija si accorgeva di quanto fosse facile perdersi per un attimo nell’illusione di qualcosa di sfacciatamente perfetto. Forse un inganno? L’ennesimo?
    Le domande che pose furono ben calibrate, lo colpirono in pieno petto, stomaco, busto, gli lesse nello sguardo la perdita d’equilibrio cui lei, per anni, era stata abituata quando aveva camminato nel buio più fitto che le si fosse riversato addosso. Avvertì il corpo di suo marito staccarsi piano dal suo, afferrarle le mani per riportarle fra di loro, lì dove lui avrebbe potuto vederle, una precauzione quasi incosciente. Le strinse piano le dita, portandosele al petto e premendole su di esso, Anastasija potè avvertire il battito del cuore di Matt sotto i polpastrelli, lei che era divenuta bravissima a leggere quello che poteva attraverso le dita, chiuse istintivamente gli occhi per qualche istante, si lasciò trasportare da quel contatto cui credeva di essersi abituata ormai, invece fu l’ennesima sorpresa, incredibile quanto, anche dopo tutti quegli anni trascorsi l’uno accanto all’altra, lui fosse ancora in grado di stupirla nel modo più banale possibile. «Perché?» chiese ancora lui, il tono della voce basso, roco come al solito, come quando, distesi sul letto prima di addormentarsi, si parlavano del più e del meno, si raccontavano di cosa avrebbero fatto il giorno successivo o di quello appena trascorso. Innalzò piano le braccia, le mani andarono a chiudersi dietro il collo caldo di Matt e lì si aggrapparono, lievi, mentre lo sguardo di Anastasija tornava a cercare quello di suo marito, a pochi centimetri di distanza, eppure ora lo vedeva allontanarsi. «Pensi che potrei non esserne capace?» chiese lui, ma lei non rispose, sganciò un’altra domanda, un modo per proteggersi forse dal dover dire qualcosa che avrebbe incrinato tutto, sembravano giocare la stessa partita: nessuna risposta, solo domande, entrambi si passavano l’arma bollente e nessuno dei due sembrava effettivamente volerla tenere troppo a lungo fra le mani. Lo accolse quando si avvicinò di scatto per baciarla e non fu niente di quello che avevano avuto fino a quel momento. Fu irruente, Matt, nel prendere possesso delle sue labbra, nel tirarsela contro il petto per chiarificare ciò che credeva fosse stato ovvio per tutto quel tempo: erano in due, certo, da sempre fianco a fianco, ma alla fine Anastasija Zakharova era divenuta Morgenstern, e quello avrebbe sempre detto tutto sul destino di entrambi. Non si oppose a quel gesto, lei, che invece strinse appena la nuca di Matt contro la propria, conscia di non voler compiere alcun passo falso, non in quel momento, non in quelle condizioni in cui ogni virgola della propria vita avrebbe potuto prendere tutta un’altra piega. E nel mentre, il flusso di pensieri sembrava velocizzarsi dentro la sua nuca, dietro le palpebre degli occhi ora chiuse su di essi. Vedeva tutti gli scenari possibili Anastasija, il modo in cui forse, dopotutto, non sarebbe dovuta andare nel verso sbagliato, se solo avessero provato. Si erano compresi e sostenuti senza dirselo mai, avevano funzionato alla perfezione fino a quel momento, perché mai allora l’idea di un figlio avrebbe potuto distruggere quell’intesa che, salda, si era venuta a creare nel loro matrimonio? Si chiedeva, Anastasija, se un figlio avesse potuto farlo davvero felice; se un figlio fosse divenuto l’ennesimo punto di saldatura per loro e non un magnete che, altrimenti, avrebbe potuto buttare tutto all’aria per posizionarsi esattamente nel mezzo. E poi c’era ancora quella questione, quel tipo di amore che continuava a muoverla e spingerla a fare tutto ciò che fosse in proprio potere per tenerlo ancora vivo: dov’era Roman non le era dato saperlo, eppure anche dopo tutti quegli anni, Anastasija lo vedeva ancora, non era mai davvero cresciuto, profumava ancora di pesche e legno, o forse lo immaginava soltanto, eppure era il ricordo che mai nella vita avrebbe potuto sostituire con altro. Che ne sarebbe stato delle impronte di lui che lei ancora aveva sotto i polpastrelli, dopo che lo aveva toccato per la prima e, ahimè, l’ultima volta? Non avrebbe davvero voluto vederla in quel modo, ma per Anastasija era, quello, un atto di tradimento, si accalcava a quella sensazione di impotenza da cui era stata sopraffatta quando glielo avevano portato via. Cosa sarebbe accaduto, se avesse fatto di più per riaverlo? E cosa sarebbe accaduto se non fosse stata così stupida da credere che qualcosa di così tremendo non sarebbe potuto di certo accadere ad una come lei? Ma la lezione, Anastasija, l’aveva imparata e ora era marchiata a fuoco sulla sua pelle, non avrebbe mai più potuto dimenticarla.
    Quando Matt si allontanò di poco da lei, Anastasija riprese aria ma senza distaccare il proprio sguardo di ghiaccio da quello di lui, ancora così pericolosamente vicino da inglobarsela dentro per farla sparire sorto quelle palpebre che, dietro di esse, sembravano nascondere un mondo di cui Anastasija, in quel momento, pensò di conoscere in piccolissima parte. Non aveva mai davvero avuto paura di lui, Anastasija: la paura aveva sempre avuto altri volti e toni di voce che, ancora in quelle notti, tornavano a volte a tormentarla. Eppure, la donna era anche consapevole di quanto oscuro fosse il passato -e non solo- di Matt, quanto pericoloso fosse ciò che lei non vedeva di lui ma che sapeva con certezza esistesse, nascosto nel luogo di cui lui a lei non raccontava, forse un accenno di protezione, forse vergogna, questo ad Anastasija non era dato saperlo. Si lasciò quindi guidare da lui verso il bordo del letto, le proprie mani ancora strette nelle sue, il corpo contro quello caldo di Matt. «Cosa vuoi che ti risponda?» le aveva domandato, l’espressione del volto confusa, un tentativo maldestro di mascherare, probabilmente, tutti quei nervi scoperti che Anastasija gli vedeva accendersi addosso, sopra o sotto la pelle, dentro le pupille contornate da iridi chiarissime, aveva imparato a conoscerle alla perfezione a furia di guardarle e comunicare con esse senza neanche aver bisogno di usare parole. E allora, anche in quel momento, quei due sembravano comunicare senza dire ciò che avrebbe potuto esser chiaro ad entrambi. «Matt.» chiamò il suo nome, Anastasija, chinando appena il capo da un lato mentre le iridi di lei, ora, accarezzavano il volto di lui: capelli, occhi, naso, fin giù alle labbra e poi di nuovo su, a cercare il suo sguardo. Sospirò, avvicinando di nuovo il proprio viso a quello di lui per sfiorare la punta del suo naso con la propria. Si sentiva messa in un angolo o di fronte ad un bivio e la scelta doveva ricadere su qualcosa, su una di quelle strade da percorrere, anche se non avrebbe davvero saputo dove avrebbe potuto portarla, ed era proprio l’incognita che avrebbe dovuto metterle paura, eppure la donna sembrava concentrata solo ed esclusivamente su un’opzione: il tempo. Tempo per pensare, tempo per decidere, tempo per accettare che, forse, avrebbero potuto funzionare anche in tre? Che, forse, era giunto il momento di guardare avanti e che tutto quell’amore che aveva contenuto dentro per Roman, sarebbe stato il regalo perfetto per il figlio dell’uomo che, da anni, era stata la sua spalla? Tempo. L’unica vera opzione in quel momento, l’unica valida scorciatoia. «Cosa vuoi rispondermi?» l’ennesima domanda. Le mani di lei andarono a premersi contro le sue spalle, spingendo così il busto di Matt in direzione del letto, conducendolo piano verso il basso e, una volta seduto, si protese verso di lui, ancora in piedi. Gli afferrò il viso per chiuderlo fra i suoi palmi caldi e sollevarne il mento verso di sé. Posò le proprie labbra sulla fronte dell’uomo e vi lasciò un bacio caldo, affettuoso, dopodiché sollevò una gamba e posò il ginocchio sul materasso, di fianco a Matt, avvicinandosi a lui e, sedendosi sulle sue gambe, circondò le sue spalle con le proprie braccia prima di posare nuovamente le proprie labbra su quelle di lui in un altro bacio, ora più irruente. Lo desiderava, Anastasija, eppure inconsciamente a volte compiva mille passi indietro e si domandava, ancora, se quella fosse l’unica versione di una vita che avrebbe mai potuto avere e, di conseguenza, come ogni scrittore e sognatore, la sua mente volava oltre, tanto oltre da immaginare scenari che non includevano Matt. Il pensiero flebile di un ragazzino dai capelli rosa che in modo affettuoso cercava la sua vicinanza s’insinuava come il pezzo di un puzzle a lungo cercato, quello che rende il quadro più completo, e invece di mettere ordine, rendeva tutto molto più+ caotico di quanto già non fosse. Quale fosse il senso, non lo sapeva e si domandava come potesse, l’altro, farle desiderare il caos invece del solito grandioso controllo che, da sempre, aveva amato e preferito a tutto il resto. «Proviamo, ci vorrà del tempo, lo sai.» sussurrò quindi piano, all’orecchio di Matt. Non avrebbe detto molto altro, nella testa tutte le opzioni si erano assemblate in una sola, l’unica idea che illuminava la via, ora, e non era niente di cui avrebbe mai potuto parlare a voce alta poiché, a dirsela, avrebbe compromesso ogni cosa. Un inganno che avrebbe potuto frantumare le mura della casa. Erano anni che aveva il proprio corpo sotto controllo, anni che prendeva la stessa pillola ogni giorno senza mai dimenticarsene neanche una, senza mai sforare con gli orari e così avrebbe continuato a fare, senza che lui lo avesse saputo, per ricavare ancora del tempo per decidere, fu quella la scusa che si diede per alleviare i sensi di colpa per ciò che gli stava omettendo.
    Era quello, quindi, l’inizio della fine?
     
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    Cosa ne sarebbe stato di lui, se non ci fosse stata lei? Matt si era perso, tanti anni prima, quando la sua vita gli era sembrata senza controllo, e lui preda solo del suo potere, del tiro che aveva deciso il suo destino per lui, e tutto era andato distrutto al culmine di quell'ascesa al dolore quando aveva perso Kirilla. Aveva perso lei e aveva perso se stesso. Non c'erano state altre vie di fuga che avrebbe potuto preferire, se non cadere nel baratro di quella sensazione, che lo opprimeva eppure anche consumandolo lo rinvigoriva, lo nutriva di quel male, e lo teneva vivo. Tutte quelle emozioni terribili si erano andate a sommare una sull'altra, costruendo insieme una storia che passo dopo passo l'aveva portato al ciclo di eventi che alla fine avevano portato lui da Anastasija, che era diventata senza che lui volesse la sua Anija. Nessuno poteva sapere cosa succedeva dietro le loro mura, e tra echi di persone che immaginavano si consumasse un amore possessivo o un amore romantico, o un non amore affatto e il loro fosse appunto un matrimonio solo su carta, ecco che la storia diventava molto più complessa, ed era difficile addentrarsi in quel territorio senza considerare tutto quello di cui era fatto.
    Conoscere Anija e imparare a fidarsi di lei o soprattutto ad affidarsi alla sua persona era diventato improvvisamente tutto quello che non aveva mai avuto, tutto quello di cui aveva bisogno. Una reinvenzione, una nuova rinascita, che lo aveva portato lontanissimo da tutto quello che aveva mai provato. Semplicemente non si era mai saputo riconoscere così come allora.
    Un figlio non era qualcosa che aveva immaginato così come nel suo percorso non aveva neanche immaginato di diventare un marito, aggiungerci il titolo di padre di famiglia l'avrebbe portato a sentirsi diverso, o forse più completo?
    Guardò le espressioni di Anija, il passaggio dalla comprensione delle sue parole ad una consapevolezza più profonda. A lui sembrava solo che in quel momento non volesse nulla di quel futuro che lui le stava offrendo. L'aveva stretta più forte, cercando con la fisicità di sopperire quello che lui non voleva raccontare, quello a cui doveva far fronte abbracciandola era molto più facile che usare le parole, almeno per uno come lui che non era mai convinto di cosa dicesse quando non affrontava un argomento di cui si riteneva consapevole, cosciente, o pratico. La cercò con le labbra, la avvicinò per sentirla di nuovo sua, come se dovesse ricordarselo, come se stesse scivolando e scappando via da lui. Voleva dirle, e glielo disse solo nella mente, senza più proferire parola, perché non mi rispondi? Perché non parli con me? Dispettoso e capriccioso, Matt sapeva di voler esigere una risposta dalla moglie, ma era anche convinto di meritarla. Era pronto a dirsi, se gli avesse detto di no, che quel giorno qualcosa si era rotto e non sarebbe più tornato al suo posto. Se avesse dovuto maledire la dannata donna che aveva tirato in mezzo quel discorso tra loro l'avrebbe fatto, eppure, perché doveva pensare che prima o poi non ci avrebbe pensato, lui stesso, e che sarebbe stato tutto quello di cui avrebbe avuto bisogno? Diventare padre, insegnare quello che aveva imparato, rompendo la catena di sbagli che si era susseguita nella sua famiglia, o almeno così lui credeva, e che l'avrebbe reso più conscio, invecchiando, e finalmente poter dire di diventare saggio, aggiungendo acume a quegli anni spesi e diluiti nel suo tempo. Lui lo desiderava, un figlio suo e un figlio loro, un figlio di Anija che fosse esattamente come lei, con il naso piccolo e all'insù, e gli occhi grandi per osservare il mondo con una consapevolezza tutta sua. Poteva sentirsi fremere ad immaginare qualcosa di quel tipo: una vita diversa, che l'avrebbe reinventato come la vita di Anija vicino alla sua aveva cambiato tutto. Era come se l'avesse sempre saputo dentro di sé ma non avesse mai avuto il coraggio di immaginarlo.
    Dopo il momento dell'irruenza, il bacio, il muoversi di quei corpi prima di aderire al letto, e sedersi sopra, si lasciò abbracciare da lei, posando la testa sull'incavo della sua spalla, stanco di guardarla negli occhi senza sentirle proferire parola. Sconfitto, quasi. L'aveva inondata di domande, e a nessuna di queste gli aveva risposto. Cosa poteva dire altrimenti se non che non fosse più il caso di parlare di quell'argomento? Avrebbe potuto anche mentire a se stesso, ma di menzogna si trattava, non poteva dire altro che non che sarebbe stata una bugia. Un figlio loro non poteva che essere una bella cosa, ai suoi occhi, adesso lo vedeva, ma se Anija non era d'accordo allora non se ne poteva parlare.
    Li richiuse, l'aveva guardata e fissata, e si era reso conto che forse le cose belle non erano destinate a durare davvero per lui. Tutto quello che toccavano le persone che lo circondavano diventava splendido, ma lui come sempre non aveva accesso alla bellezza più pura, e così si sentì sconfitto dal silenzio. Smise di sentire il battito del proprio cuore. Tutto era concentrato in quel silenzio, nelle parole che non si erano detti.
    Si fermò, rialzò la testa e la guardò negli occhi. Lo aveva chiamato.
    Quando la guardò pensò che non aveva voglia più di nulla. Che stupido che era stato solo a pensarlo. Un figlio non poteva sostituirsi comunque al loro rapporto, un figlio non poteva buttare via tutto quello che c'era stato tra loro fino a quel momento, e se non avesse potuto accrescere quel loro legame tanto valeva pensare che sarebbe stato meglio ignorare tutto, far finta di niente. Era pronto a pronunciare quelle parole per dirle che poteva bastare benissimo quello che avevano, tralasciando tutto quello che c'era stato, quella discussione intrapresa per volere di qualcun altro. Le voci sapevano ignorarle, l'avevano fatto anni prima, non serviva inventare una scoperta inesistente. «Uhm.» Le disse, in risposta, biascicando un verso di assenso. Ti ascolto. Ti sento. Sono qua. Erano tutte frasi sommerse, eppure per quanto gli sarebbe piaciuto poterle dire davvero, si era anche reso conto che non avrebbe potuto farlo per orgoglio. Ma c'era anche una grossa parte di lui che pensava che lei lo avrebbe capito, che avrebbe capito qualsiasi cosa fosse nascosta dietro ai suoi mugugni.
    Aveva pensato di dirle che l'aveva capita, che lui non poteva ignorare il fatto che sapesse tante cose di lei. Anche il figlio di cui lei non parlava mai doveva essere qualcosa di difficile per lui da comprendere, lui che non sapeva che sensazioni potesse provare di fronte a tutta quella novità, ma le aveva immaginate nell'arco di una sera meravigliose. Si appoggiò al suo naso, quando lei gli toccò con il suo la punta. Sospesi in un attimo di tempo infinito. La guardò di nuovo, sentendo venir meno quella solidità, il rigore nella sua conferma, la voglia di dirle qualcosa di più fece capolino in lui e schiuse le labbra, per rispondere all'ennesima domanda che le aveva fatto, e poi scosse la testa. Non lo sapeva. Si arrendeva di fronte a quella domanda anche lui. Guardò di lato, convinto che la discussione stesse volgendo al termine. Qualche volta tra loro succedeva esattamente quello. Si parlava e si discuteva, e qualche volta gli argomenti venivano solo messi in pausa, ma poi ripresi dopo. Qualche volta, testardi come erano entrambi era difficile arrivare ad una conclusione in un momento solo, ci voleva davvero del tempo per ripensarci.
    In un gesto molto spontaneo e stranamente distorto da quel contesto, Matt si avvicinò a lei per un attimo e le posò un bacio sulla fronte. Voleva dirle che aveva vinto lei, per quella volta. «Forse ti sto facendo perdere tempo, devi prepararti.» Sussurrò, con un tono di voce che gli suonò gravissimo, ma con cui invece voleva sembrare teneramente preoccupato. Quasi come dirle che non doveva curarsi di nulla, il loro discorso poteva concludersi così. Invece fu lei a tornare da lui, abbracciandolo, cingendo il suo busto con le gambe, come se non si curasse più del tempo, e della loro cena, e degli eventi che avevano di fronte. Un passo in avanti in un discorso difficilissimo. Si incuriosì, aggrottò lo sguardo sorpreso e poi rilassò la ruga sulla fronte, lasciandosi baciare da lei con la passione che condividevano tra loro. E poi accadde qualcosa di incredibile, e Matt tornò a respirare. Sentì le sue parole, e la sua voglia di ricominciare tornò a ricordargli quanto avesse perso e recuperato lungo la via senza saperlo. Potevano ancora recuperare tutto se l'avessero deciso insieme.
    La strinse forte, si sentì un pò impacciato, confuso nella sua sensazione, si sentì felice. Si abbracciarono, lui le sussurrò tra i capelli una cosa di cui si vergognò subito dopo, e nascose il viso maturo di nuovo nell'incavo della sua spalla, e poi il restò scivolò come doveva andare, cercandosi in quella sensazione di appartenenza, con la possibilità che quella stessa notte cominciasse qualcosa di meraviglioso. «Grazie.»
    Si sarebbero recati in vergognoso ritardo alla cena designata, ma era stata per una giusta causa. Il futuro gli sembrò per la prima volta qualcosa a cui guardare con l'incanto dimenticato di un uomo che osa di nuovo sperare.


    Vabbé la gif con Alicia Vikander la dobbiamo mettere per dovere di cronaca perché qui lui ;_;
     
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5 replies since 16/6/2021, 11:20   260 views
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