So look me in the eyes and tell me what you see

Kai & Fì

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    Guardò l’orologio al suo polso cercando di calcolare quanto tempo avesse prima di doversi recare necessariamente in ufficio. Le ultime settimane erano state molto impegnative e non era stata solo la multinazionale a prosciugare il suo tempo. Matthew gli aveva chiesto di occuparsi di alcune questioni per la setta e organizzare arrivi e partenze per loro lo aveva tenuto impegnato a lungo. Non poteva occuparsene in qualunque istante, doveva mantenere una certa discrezione ma allo stesso tempo essere estremamente efficiente. Ci teneva a fare una buona impressione. Anche se ormai era nei ranghi da qualche anno sentiva sempre come se avesse qualcosa da dimostrare, come se ancora non li avesse ripagati a pieno dell’aiuto che loro gli avevano dato in uno dei momenti più bui della sua vita. Sapeva che se non fosse stato per Coco e per il sostegno di alcuni psicologi e tutori del Centro Icaro forse non sarebbe stato più lì a raccontare della sua vita e dei suoi successi. Quel gruppo era stato la sua scialuppa di salvataggio, l’ancora che gli aveva permesso di non affondare. Era stato suo padre ad avvicinarlo per primo a quel mondo, negli ultimi mesi della sua vita, ma solo dopo la sua morte ne aveva compreso a pieno le finalità e l’importanza. Certo, a volte Libra non portava avanti le sue campagne in modi del tutto legali, ma nessuna rivoluzione era mai stata compiuta rispettando le regole fino in fondo. Per avere un cambiamento c’era bisogno di essere disposti a fare anche la cosa sbagliata per i giusti motivi e questo lui sapeva accettarlo. Neppure la Göransson Corporation poteva vantare di non avere scheletri nell’armadio, dopotutto. Non tutti potevano però capire il loro modo di pensare, gli ideali con cui Naavke avrebbe voluto prendere in mano le redini della città e aiutarla a divenire un luogo diverso, una meta controllata di viaggi. I cittadini e chi li governava avevano paura che le notizie su di loro si diffondessero, forse preoccupati di poter divenire fenomeni da baraccone, di essere etichettati come strani, da abbattere. Quello che non comprendevano era che quella notizia, se ben diffusa, sfruttando i giusti canali e dando soltanto le informazioni necessarie, avrebbe potuto portare grandi introiti a Besaid e cambiare completamente il modo di vivere dei suoi abitanti.
    Si guardò allo specchio, rimettendo al suo posto una ciocca di capelli biondi che era sfuggita alla sua solita acconciatura e sospirò. Erano diversi mesi ormai che lui e Sofie avevano iniziato a vivere insieme ma lui ancora non aveva voluto accennarle a quelle questioni importanti che gli capitava di dover compiere, a quelle donazioni che ormai da anni mandava al Centro Icaro. Non le aveva neppure parlato dei mesi che aveva trascorso in quel luogo, recandosi giorno dopo giorno nelle sue strutture per rimanere a galla. Era parte di una vita in cui lei era stata altrove, a vivere la sua vita e lui non aveva trovato molte parole per raccontarlo. Le aveva detto della morte di suo padre, di come fosse finito a capo della multinazionale, di quanto quella perdita lo avesse ridotto in pezzi, ma non era riuscito a scendere nei dettagli, o forse semplicemente si era convinto che non ce ne fosse bisogno, che i suoi mali e i problemi con la sua particolarità potevano rimanere lì dove erano sempre stati, nascosti sotto il tappeto, come se non esistessero affatto. Si illudeva di poter continuare a rimandare, come se la faccenda non avesse alcuna importanza, come se non fosse un macigno invisibile che gravava su di loro, rischiando di separarli di nuovo, forse in maniera radicale.
    Sbuffò, scacciando velocemente quei pensieri mentre raggiungeva il piano di sotto e lasciava che un sorriso felice gli inarcasse le labbra alla vista del quadro che Fì aveva fatto preparare per lui, in occasione del suo compleanno. All’inizio era stato strano vedere i loro occhi tutti i giorni dalla parete del soggiorno, ma con il passare dei giorni anche quella era divenuta una piacevole abitudine. Quasi gli sembrava incredibile ora immaginare quella stessa parete spoglia. Aveva avuto paura di chiedere a Sofie di stare da lui, preoccupato che tutto potesse prendere una brutta piega o di commettere troppi errori, ma ora capiva che era stata forse una delle idee migliori che gli fosse mai venuta. Si guardò intorno, alla ricerca della figura esile della ragazza che sicuramente doveva essere già sveglia, senza però riuscire a individuarla. Aprì le labbra, intento a chiamarla, ma il suono del campanello lo interruppe prima che potesse emettere alcun suono. Si mosse verso l’ingresso con la fronte corrucciata. Chi mai poteva essere a quell’ora? Rimase di stucco quando, spalancando la porta, si ritrovò davanti uno dei ragazzi della Setta, che si guardava attorno preoccupato, come se temesse che qualcuno lo stesse seguendo. -Jordan? - chiese, come se non fosse neppure convinto che quel ragazzo fosse davvero lì, alla sua porta. -Che cosa ci fai qui? - chiese, il tono della voce che si faceva più serio, preoccupato. Si voltò velocemente all’indietro, sperando di essere ancora da solo, poi si chiuse velocemente la porta alle spalle, come se metaforicamente volesse continuare a tenere Sofie fuori da tutta quella faccenda. -Io.. io non ce la faccio. - iniziò a mugugnare l’altro, mentre muoveva il busto avanti e indietro, in preda a una crisi di nervi. Jordan si portò le mani al volto, stringendolo così forte da lasciare i segni delle dita sulle tempie. -Cos’è che non riesci a fare Jordan? - domandò, guardandolo con un’aria un po’ sospettosa, mentre si guardava attorno, sperando che nessuno dei vicini si fosse affacciato alla finestra per osservare quello che stava succedendo. -Le voci. Non smettono, io.. - continuò, alzando un po’ il tono della voce, facendolo diventare quasi un urlo. -Perché non sei andato al Centro? Gli psicologi, loro..-No. No, loro non capiscono. - gridò, portandosi a pochi centimetri dal volto del biondo, che rimase fermo, quasi impassibile. Sapeva che in occasioni come quelle mostrarsi spaventato sarebbe stato soltanto un errore. Jordan non era lì per fargli del male, lo sapeva.
    -Tu.. tu invece puoi capirmi. - mugugnò, dopo qualche istante, tirando su con il naso due o tre volte per ricacciare indietro la voglia di piangere. -Noi due, insieme, ci siamo già passati. - continuò, lanciandosi in un abbraccio che lasciò Malakai piuttosto di stucco. Il contatto fisico non era mai stato il suo forte e anche in quell’occasione riuscì soltanto a battere due o tre volte con la mano sulla schiena dell’altro, nel vano tentativo di trasmettergli un po’ di conforto. Come facevano certe persone a sapere sempre cosa dire e che cosa fare per far stare meglio gli altri? -Sono certo che anche loro capiscano… - provò a dire, ma l’altro si allontanò di scatto, rivolgendogli un’occhiata torva. -NO! - ribattè, ora visibilmente agitato. Kai alzò le mani in aria, rivolgendogli un sorriso sghembo. -Va bene Jordan, perché non facciamo così… - iniziò, muovendo un passo nella sua direzione e allungando una mano per andare a posarla sulla spalla dell’altro. -Io ora devo andare in ufficio, tu vai a fare una bella camminata, cerca di schiarirti un po’ le idee e stasera ci vediamo al Centro, insieme. Che ne pensi? - domandò, tirando fuori il miglior sorriso che possedesse, cercando di risultare il più convincente possibile. <u>-Verrai davvero? - chiese il ragazzo, puntando il suo sguardo scuro in quello chiarissimo del biondo. -Ma certo. - ribadì, e quelle parole sembrano bastare per riportare il sereno sul volto del bruno che dopo aver borbottato qualcos’altro di sommesso e aver compiuto due o tre saltelli sul posto, si allontanò molto più allegramente di come era arrivato.
    Malakai si appoggiò alla porta, lasciandosi andare ad un lungo sospiro, poi la riaprì, tornando all’interno dell’abitazione. Prese il telefono dalla sua tasca e scrisse a una delle psicologhe del Centro Icaro per informarla di quanto accaduto. Certe particolarità, se del tutto fuori controllo, avrebbero potuto causare problemi e lui non era certo di aver fatto la cosa giusta dicendogli quelle parole. Sospirò di nuovo, posandosi alla parete accanto alla porta. Non sapeva quanto a lungo sarebbe riuscito a mantenere quei ritmi, per quanto ancora potesse fingere di non avere alcuna preoccupazione.
     
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    Quel giorno Sofie si era alzata dal letto di buon mattino: Kai le stava accanto sopito, perso fra le braccia di Morfeo. Le sembrava ancora strana quella situazione, quell'intimità che per anni aveva voluto senza nemmeno saperlo: da quando si erano ritrovati a convivere, tante cose nella loro relazione erano cambiate e maturate, in bene per fortuna. Sarebbe dovuta essere una soluzione temporanea ma alla fine, per qualche ragione, si era finita col farsi sempre più stabile e questo, doveva ammetterlo, non le dispiaceva. Non aveva mai avuto paura di fare un passo come quello, anzi, era fermamente convinta che fossero proprio quei comportamenti a mettere a dura prova le relazioni, rendendole più forti o rompendole per sempre. Delle prove insomma, che andavano sostenute al momento debito per testare quanto effettivamente due persone fossero adatte a stare insieme. Sofie, dal canto suo, aveva capito già da tempo che stare con Kai era ciò che la faceva stare bene e che le permetteva di raggiungere il tanto agognato equilibrio che non aveva mai trovato con nessun altro prima di lui. Forse, si era detta, la spiegazione stava nel fatto che prima che una coppia, loro due erano stati due cari amici: erano riusciti a resistere alla magia di Besaid, alla perdita di memoria, persino ai tanti anni passati. C'erano state tante persone nelle loro rispettive vite ma nessuna, per quanto importante, era stata capace di lasciare un segno in loro profondo quanto quello di due adolescenti che si erano lasciati poco dopo il diciottesimo compleanno dei gemelli Mordersønn.
    Quella mattina, attenta a non svegliarlo, era uscita dalla stanza in punta di piedi, portando con sé gli abiti che intendeva indossare per andare a lezione: era alle 10, motivo per il quale la sveglia - la vibrazione del cellulare - era suonata ben prima del solito. Tra i suoi compiti di quella giornata vi era l'occuparsi delle slide dai mostrare ai suoi studenti: non era ancora una professoressa ordinaria ma le toccava comunque gestire quanto normalmente concerneva quest'altra figura, occupandosi per l'appunto delle presentazioni e delle lezioni che avrebbe dovuto tenere il vero possessore della cattedra. Una volta in cucina, luogo deputato al lavoro quando era da sola, accese il computer, il bollitore ed infine si occupò del tè, che tendeva a preferire quando aveva più tempo e le giornate erano fredde come quella: il caffè, che pur le piaceva, lo beveva troppo in fretta, non le lasciava la stessa sensazione di tepore. Ne scelse uno nero, dal sapore deciso, probabilmente portato da Kai in uno dei suoi tanti viaggi di lavoro.
    Approfittò dei pochi minuti che il bollitore impiegava per scaldare l'acqua per darsi una bella rinfrescata e per vestirsi: rimandò il trucco ad un fantomatico "dopo", convinta che sarebbe finita col toccarsi la faccia più e più volte a causa del sonno, cosa che in effetti cominciò a fare di lì a pochi minuti. La lezione su cui doveva lavorare era sul Sehnsucht, un concetto che l'aveva per fortuna sempre affascinata: sarebbe stato molto più difficile altrimenti tenere gli occhi aperti nonostante la teina.
    Tutto quel lavoro comunque finì col "volare": si poteva dire infatti che Sofie avesse dalla sua la passione che sapeva essere un motore più grande dell'impegno. Si era trovata in quel lavoro completamente per caso, eppure si sentiva al posto giusto e le piaceva, tanto da volerlo fare al meglio delle sue possibilità. Ho ancora il tempo di mangiare qualcosa. pensò. Magari mi trucco al volo e poi preparo del caffè e dei toast dolci per me e Kai. Non aveva pensato ad una vera e propria colazione a letto, quanto di un piccolo viziarsi mattutino prima che entrambi dovessero allontanarsi per i rispettivi lavori: durante la settimana era più il tempo che passavano separati che quello che passavano insieme, per questo Fì amava riservargli, di tanto in tanto, qualche piccola attenzione, sempre con non poco imbarazzo ovviamente, perché a certe cose non si sarebbe mai abituata probabilmente.
    Facendo il pari e il dispari fra la Nutella e la marmellata, la ragazza si diresse in bagno per dare una ravvivata ai capelli e al viso, che appariva ancora un po' stanco dal lavoro e dalla levataccia. Devo svegliarmi. si disse ancora, gettando un po' d'acqua in pieno volto prima di procedere con correttore, mascara e quant'alto: era una persona piuttosto semplice, "acqua e sapone", ed era raro infatti che sul suo vi fossero tanti prodotti. Probabilmente l'ultima volta che Kai l'aveva vista con un make up più elaborato era stata in occasione del matrimonio di Jørgen ed Helen, un evento che aveva segnato un bel passo nella loro intimità: sentiva le guance avvampare ogni volta che ripensava a quanto candore c'era stato nel suo "ti amo" detto prima di andare a dormire, l'esempio più lampante del "In vino veritas" che ci fosse al mondo. Comunque, restauri a parte, le piaceva esser sempre più o meno in ordine, almeno per i suoi standard, e ciò significava non omettere mai il mascara.
    Aveva gli occhi completamente spalancati nel tentativo di passare lo scovolino fra le ciglia scure senza fare casini ed era così concentrata - perché erano operazioni complesse da fare a quell'ora, con il cuscino ancora stampato sulle guance - che quando suonò il campanello di casa si ritrovò col trasalire e chiuderli bruscamente, macchiandosi appena il viso con quel pigmento nero. «Ahia.» biascicò, lacrimando appena. «Jordan? Che cosa ci fai qui?» E chi era Jordan? Con un dischetto struccante appena umido sotto l'occhi incriminato, Sofie uscì dal bagno per dare un'occhiata a cosa stesse succedendo: non aveva mai sentito parlare di nessun Jordan né tantomeno aspettavano visite a quell'ora. Quel che però era davvero strano era la porta già chiusa, dopo nemmeno qualche secondo da quel breve scambio di parole: di solito, quando avevano ospiti, com'era d'altra parte normale, li invitavano ad entrare. Quel giorno le sembrò che fosse stato Kai ad andare fuori e non solo le sembrò strano, ma persino sospetto visto che, se era sveglio, doveva essersi accorto della sua mancanza sul letto.
    Sebbene dunque sapesse che non fosse proprio la cosa più giusta da fare, Sofie aprì appena la finestra della cucina, la quale si affacciava proprio sul giardino dove i due stavano parlando: il ragazzo sembrava in piena crisi, parlava di voci, cercava da Kai un aiuto che probabilmente non avrebbe potuto dargli per quanto ne sapeva la giovane. -Noi due, insieme, ci siamo già passati. - Cosa? Si sentiva confusa. Che cosa le aveva tenuto nascosto? Chi era quel ragazzo? Ma soprattutto perché non gli aveva parlato di quella storia, qualunque cosa fosse? Più che confusa, Sofie si sentiva tradita. Disse a se stessa di star esagerando, che avrebbe dovuto lasciargli il tempo di spiegarle cosa stesse succedendo prima di saltare alle conclusioni, eppure quel sentire se ne stava lì, come un piccolo tarlo, ben più forte di qualunque raziocinio.
    Quando la porte si chiuse Sofie rimase immobile per un attimo, bloccata nel silenzio di quella mattina, come se stesse riorganizzando le idee. Furono giusto una mancata di secondi prima che percorresse i pochi passi che la separavano da Kai, che se ne stava poggiato contro la parete adiacente all'ingresso: «Ma che sta succedendo?» chiese, diretta. «Ho sentito quello che vi stavate dicendo tu e quel ragazzo, Jordan Un nome che aveva involontariamente sottolineato, a suggerire - inconsciamente - di non averlo mai nemmeno sentito. «E so che non avrei dovuto origliare, però mi è sembrato strana una visita così all'improvviso, di prima mattina poi quando entrambi dobbiamo andare a lavoro per giunta.» E qualcosa di strano c'era davvero visto il volto di lui che si faceva sempre più scuro man mano che Sofie lasciava fluire i suoi pensieri. «Non mi è sembrato stesse bene, anzi, mi è sembrato tremendamente provato. Perché non l'hai fatto entrare?» Sarebbe stata la cosa più giusta da fare, non certo lasciarlo biascicare sull'uscio della porta. «Io mi fido di te, ciecamente, e lo sai, però Kai sembra davvero che tu mi stia nascondendo qualcosa e sinceramente non capisco.» Si stava sforzando di dargli il beneficio del dubbio, anche se in parte, forse a causa di quanto le era accaduto in passato, faticava davvero a credere a quelle parole: per Fì le persone degne di fiducia erano sempre state poche, le uniche che effettivamente avevano meritato il suo affetto. Persino i suoi genitori, con i quali aveva ormai definitivamente tagliato i ponti, erano stati in grado di tradirla, facendole compiere una delle scelte più dolorose di sempre. «Ma poi, che significa che "ci siete passati"? Cosa non mi stai dicendo?» E soprattutto, perché lo stava facendo? Probabilmente quest'ultima domanda era quella di cui, più di tutte, voleva conoscere la risposta ma che più di tutte aveva paura di porgli. Non si fidava abbastanza di lei? Erano cose che non poteva conoscere? C'era dell'altro? Per quanto si mostrasse calma, Sofie non si sentiva per nulla tranquilla e probabilmente, minuto dopo minuto, quello stato d'animo si faceva largo nel suo sguardo, sempre stato fin troppo eloquente per quello di Kai, abituato a conoscerlo come le sue tasche.
     
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    La mattinata non era iniziata nel migliore dei modi. Le riunioni di quella giornata incombevano su di lui e, come se non bastasse, prima ancora di poter bere il suo primo caffè, si era ritrovato ad affrontare una scomoda conversazione proprio sulla porta di casa. Aveva osservato Jordan a lungo, cercando di accertarsi di averlo tranquillizzato, almeno un minimo e aspettando di vederlo allontanarsi prima di pensare di rientrare in casa. La sua presenza lo aveva fatto agitare e si trattenne quindi per qualche altro momento all’esterno. La rabbia non era un’emozione che gli si addiceva, nessuna emozione forte era adatta a lui, a dire il vero. Risvegliavano la sua particolarità e con essa il freddo che iniziava a propagarsi dal suo corpo. Si appoggiò per un momento contro la parete esterna dell’edificio, chiudendo gli occhi e prendendo un bel respiro. Doveva mantenere la calma. Aveva avvisato la psicologa del Centro e sperava che lei fosse in grado di rimettere tutto a posto, ma il fatto che qualcun altro potesse piombargli in casa senza preavviso non lo faceva sentire al sicuro. Che cosa sarebbe successo se qualcuno fosse venuto durante la sua assenza e fosse stata Sofie ad aprire la porta? No, non voleva neppure pensarci. Doveva trovare una soluzione e doveva farlo alla svelta, visto che di lì a un mese sarebbe stato costretto a partire per qualche giorno insieme a Matt e non poteva lasciare una cosa come quella in sospeso. Un verso seccato lasciò le sue labbra mentre si allontanava dalla parete e muoveva qualche passo verso l’ingresso. Quella nuova preoccupazione era arrivata proprio nel momento peggiore. Aveva tante cose per la testa, forse persino troppe per poter riuscire a gestirle tutte al meglio. Avrebbe voluto poter cancellare almeno quella con un colpo di spugna, fingere che non fosse mai accaduto. Prese un lungo respiro e cercò di ridarsi un tono, sperando di poterlo dimenticare almeno per il resto della giornata. Ci avrebbe pensato in un altro momento, magari a tarda serata, una volta risolte almeno le questioni che lo attendevano nell’immediato.
    Purtroppo però le sue speranze vennero cancellate piuttosto in fretta. Quando varcò di nuovo la soglia di casa, richiudendosi la porta alle spalle, ebbe giusto qualche momento di tregua prima che Sofie lo raggiungesse di gran carriera, parandosi di fronte a lui con una valanga di domande. Gli chiese che cosa era accaduto ammettendo, molto candidamente, di aver origliato la sua conversazione con quello sconosciuto. Un sospiro seccato lasciò le sue labbra mentre chiudeva gli occhi per un istante, cercando una maniera per uscire da quella situazione il prima possibile. -No, non avresti dovuto origliare. Io non ascolto le tue conversazioni. - furono le prime parole che riuscì a dire, come un animale messo all’angolo che attaccava non sapendo come altro difendersi, vedendosi precluse le possibilità di fuga. Un altro brivido di freddo gli percorse la schiena, aumentando il suo fastidio e la sua voglia di cambiare argomento. -Dobbiamo davvero parlarne adesso? - domandò poi, sperando che lei facesse un passo indietro e che desse la priorità al lavoro, rimandando a dopo quella discussione spinosa. Invece Sofie continuò a parlare, chiedendogli perché non lo avesse fatto entrare, visto che quel ragazzo non sembrava stare affatto bene. Sospirò, cercando di mettersi per un momento nei panni di lei. -No, non stava affatto bene. - disse, inizialmente, cercando di interrompere il fiume di parole di lei, con scarsi risultati. Era spaventata, da cosa esattamente non riusciva però a capirlo. Se era vero che si fidava di lui allora perché gli stava dicendo tutte quelle cose? Perché non lasciava correre e basta? Fu l’ultima domanda, tagliente e diretta, a fargli abbassare lo sguardo per un momento.
    -Perché non andiamo a sederci un momento? - domandò, risollevando lo sguardo su di lei, con un’espressione seria, per poi indicare con un cenno del capo il soggiorno. -Non è una discorso che voglio affrontare di fronte alla porta di casa. - aggiunse, mentre iniziava a muoversi verso il divano, sperando che lei lo seguisse. Aveva sbagliato a reagire in maniera ostile, ma non si era aspettato che lei avesse ascoltato tutto. Si sedette per primo, aspettando di vederla poco distante prima di prendere parola. -Scusami se mi sono arrabbiato prima. - disse, per prima cosa. Anche imparare a chiedere scusa era stato complicato, ma in alcune occasioni trovava che fosse necessario. -E’ vero, ci sono cose di cui non ti ho parlato. - ammise, senza troppi giri di parole, preferendo andare direttamente al dunque in quel caso. Provare a inventare qualche sciocca scusa non lo avrebbe salvato, poteva soltanto dire la verità, o per lo meno una parte di essa. -Non perché non mi fido di te, ma perché si tratta di cose di cui non mi piace parlare. - continuò, cercando di darle delle spiegazioni prima che lei potesse farsi delle idee sbagliate. Non aveva neppure pensato che fosse necessario parlarne, che fosse un argomento da condividere con lei al suo ritorno. Era successo tutto così in fretta, erano successe così tante cose e le cose tra di loro erano cambiate prima ancora che lui riuscisse a processarlo. Ti ho parlato del brutto periodo che ho affrontato dopo la morte di mio padre ma non sono sceso proprio nei dettagli a riguardo. - confessò, rivelandole per prima cosa in quale periodo quegli avvenimenti erano accaduti. Era successo durante la sua assenza, quando non avrebbe avuto alcun moto di parlarne con lei. -E’ stato un duro colpo e.. la mia particolarità era diventata incrollabile. - disse ancora e si ritrovò ad abbassare lo sguardo nell’iniziare quella parte del discorso. Era stato sincero quando le aveva detto che erano cose che gli pesavano ancora, che non era facile dire ad alta voce. -Ho persino rischiato di morire, in più di un’occasione. - mormorò, con la voce che si faceva appena più bassa e un sorriso mesto sul volto. Quella, più di tutte, era una cosa che aveva cercato di tenere per sé. Prese un profondo respiro prima di risollevare lo sguardo su di lei. Si sentiva in colpa nel saperlo? Pensava che, se lei fosse stata presente, le cose sarebbero andate diversamente?
    Cercò di scacciare quei pensieri e di proseguire. -E’ così alla fine mi sono avvicinato a un gruppo di sostegno, il Centro Icarus. Mi hanno aiutato a riprendere il controllo, a imparare a gestire almeno alcune delle mie emozioni.- spiegò, senza però entrare troppo nel dettaglio riguardo al Centro, non ancora per lo meno. Sentiva di aver già parlato anche troppo per quelli che erano i suoi standard e ancora non aveva concluso. -E’ lì che ho conosciuto Jordan, ed era a questo che mi riferivo con “ci siamo già passati”. - aggiunse, cercando di dare una spiegazione anche a quella frase che le era rimasta particolarmente impressa e che l’aveva turbata non poco. -Abbiamo avuto modo di ritrovarci al Centro insieme in più occasioni. Jordan ha una particolarità molto instabile e pericolosa. E’ per questo che non gli ho chiesto di entrare, avevo paura che potesse ferirti. - ammise, facendosi via via sempre più serio, puntando lo sguardo dritto su di lei. Se c’era una cosa che non avrebbe mai potuto accettare era che qualcuno potesse farle del male. Sarebbe stato disposto a fare carte false pur di proteggerla. -Non è molto stabile neppure a livello mentale. Non gli piacciono gli sconosciuti, vedendoti avrebbe probabilmente dato di matto. - spiegò, annuendo appena, tra sé e sé. Jordan non sapeva di Sofie e preferiva che la notizia non arrivasse mai a lui. Bastava poco per farlo esplodere e non voleva che un’incomprensione potesse rischiare di farla finire nell’occhio di un ciclone. -E’ una persona pericolosa, Sofie, quindi, per favore.. promettimi che se dovesse tornare qui quando io non ci sono, tu non aprirai la porta. - si era fatto serissimo a quel punto, mentre si spostava appena con il busto per poterla guardare meglio in volto, prendendo le mani di lei nelle sue. Potevano anche essere nel bel mezzo di una crisi, avrebbero potuto litigare ancora per ore, sbattere porte, prendere le distanze, ma voleva che lei gli promettesse che si sarebbe tenuta lontana da quel ragazzo. -Mi dispiace di non avertene parlato ma.. non è un discorso che mi piace riaprire. - terminò, con un altro sorriso appena abbozzato, cercando di rendere così meno pesanti le cose che aveva appena raccontato. Non era certo che lei potesse capire, che quello bastasse a calmare le acque, almeno per un po’, ma era arrivato il momento di parlare ormai e non era più riuscito a frenarsi.
     
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    Non erano molti i ricordi di Sofie: la sua infanzia, le sua adolescenza, le sue prime cotte. La maggior parte di quei pensieri e di quei sentimenti erano finiti in qualche pagina di diari, che a poco a poco avevano iniziato a prender polvere all'interno di un vecchio armadio ad Oslo. Le prime pagine che aveva scritto, tuttavia, riguardavano un avvenimento così importante che nemmeno la magia di Besaid era riuscita ad ottenebrarlo: "Vogliamo dividerci". Le parole di Jakob e Niko le risuonavano nella testa più volte, quando si fermava a pensare a ciò che aveva perso varcando il confine di quel piccolo paese nel quale era cresciuta e che aveva abbandonato in un attimo a 18 anni. Tutto era partito da una conversazione che non avrebbe mai dovuto udire: era stato il seme che aveva gettato le fondamenta degli anni successivi, delle scelte che avrebbe compiuto e degli errori che avrebbe fatto, uno dopo l'altro. Si erano susseguiti senza che lei potesse nemmeno controllarli, ed ora, nonostante avesse creduto d'aver imparato la lezione, aveva fatto la stessa identica cosa: aveva origliato, aveva sentito quanto non doveva.
    Sofie si pietrificò, il mare di parole per un attimo si interruppe di fronte alla serietà di Kai che non era mai stato così serio e così arrabbiato con lei: aveva sbagliato, lo sapeva, eppure non era riuscita a feermarsi, perché c'era stato qualcosa di strano in quel susseguirsi di eventi, proprio come tanto tempo prima, quando i suoi fratelli avevano deciso di frantumare il suo piccolo universo imperfetto. Stava per succedere la stessa cosa? Per quanto fosse assurdo e per quanto in cuor suo sapesse che quella paura fosse del tutto irrazionale, Sofie non riusciva a scacciarla, non del tutto.
    Il vomito di parole era ormai cessato, c'era solo un silenzio agghiacciante che raramente cadeva fra i due. Si sedette di fianco al ragazzo, portandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, più come antistress che per effettivo bisogno di scostarsela dal volto. Si era scusato con lei Kai, ovviamente: era sempre lui il più posato ed il più calmo fra i due, quello che meglio riusciva a gestire ogni emozione. Forse era per quella ragione che vedere della rabbia in lui, sebbene per un attimo, l'aveva sconvolta così tanto. «Non volevo origliare.» disse in seguito, chinando lo sguardo verso le sue mani, che se ne stavano intrecciate sulle sue gambe. Non riusciva a tenerle ferme, si accarezzava nervosamente il pollice della mano destra con quello della sinistra e viceversa, quasi come se volesse pulirsele da qualcosa di intangibile. Aveva paura di quanto stava per dirle, della risposta alla domanda che aveva posto senza pensare a quanto in realtà potesse esser spaventoso: aveva costruito il loro rapporto, ormai da ben più di qualche mese, sulla base della reciproca fiducia. Gli diceva ogni cosa e si fidava ciecamente di lui: dopotutto, era sempre stato così, a tal punto che non era riuscita a guardarlo in faccia quando aveva preso la decisione di fuggire da Besaid. Sapeva che l'avrebbe scoperto con una sola occhiata e per questo aveva preferito evitare il suo sguardo così attento e premuroso.
    -E’ vero, ci sono cose di cui non ti ho parlato. Non perché non mi fido di te, ma perché si tratta di cose di cui non mi piace parlare. - Avrebbe forse dovuto sentirsi sollevata, ma non era così. Si stava soffermando di più sul fatto che le avesse mentito - o omesso la verità, dopotutto era la stessa cosa - rispetto a cosa avesse deciso di nasconderle di per sé. Era assurdo. -Ti ho parlato del brutto periodo che ho affrontato dopo la morte di mio padre ma non sono sceso proprio nei dettagli a riguardo. - E lei non aveva chiesto, perché sapeva quanto fosse complesso parlare di certe cose e quanto lui fosse sempre stato molto riservato: voleva dargli il proprio tempo, cercare di non forzarlo a convididere tutto e subito con lei. Forse, però, desiderava anche proteggere se stessa dal senso di colpa che ne sarebbe scaturito. Era così ormai per lei: viveva di "E se ci fossi stata...?" da quando aveva rimesso piede a Besaid. Era stato così con Niko, era stato così con Kai, con Eva, con chiunque la circondasse. Si era sempre chiesta se fosse stata un briciolo più coraggiosa e meno immatura e codarda cosa sarebbe accaduto. -E’ stato un duro colpo e.. la mia particolarità era diventata incontrollabile. Ho persino rischiato di morire, in più di un’occasione. - Non riusciva a parlare, osservava Kai chinare lo sguardo senza riuscire ad aprire bocca a pronunciare quelle che nella sua testa non erano che patetiche scuse. In fondo, non poteva sapere se la sua sola presenza sarebbe riuscita o meno ad aiutarlo, anzi, era piuttosto arrogante da parte sua considerarsi così tanto importante da poter cambiare cose come quella: eppure non riusciva proprio a farne a meno, quel senso di colpa, quel timore che l'aveva portata a a non insistere in precedenza, si era fatto largo dentro di lei, attanagliandole il cuore come delle grosse catene. Mi dispiace. pensò solo, deglutendo a fatica mentre aspettava - e temeva - che il discorso di lui andasse avanti, insieme alle sue spiegazioni su quanto era appena accaduto. Le spiegò del Centro Icarus, di come lì avesse trovato conforto ed un concreto aiuto nella gestione dei suoi problemi con la particolarità: Jordan era "come lui", sotto certi versi, ma pericoloso ed instabile, e Kai, ancora una volta, si era preoccupato per lei più di quanto non stesse facendo per se stesso. Sofie sentiva proprio di non meritare nulla di quanto aveva e stava ricevendo. Tenne lo sguardo sulle sue mani, sulle loro mani, unite mentre Kai le raccomandava di non aprire mai la porta al ragazzo che li aveva appena lasciati e, al contempo, si scusava per non averle parlato di quanto aveva appena finito di raccontarle.
    Cosa avrebbe potuto dire arrivata a quel punto? Definire tutte le sue emozioni era troppo difficile. Era arrabbiata, perché le aveva tenuto nascosto un importante pezzo della sua vita. Frustrata, perché lei non c'era stata quando lui aveva avuto più bisogno di lei. Invidiosa, perché qualcun altro aveva fatto ciò che lei aveva sempre cercato di fare durante la loro infanzia ed adolescenza. Più di tutte però, l'emozione che davvero non riusciva a gestire, era quel maledetto senso di colpa.
    «Ti prometto che non gli aprirò qualora dovesse tornare.» fece, ancora col capo a fissare le loro mani, con un tono di voce piatto, privo dell'enfasi che l'aveva caratterizzato fino a poco prima. «Mi dispiace, Kai, avrei voluto...» si fermò per un attimo, cercando le parole giuste. Quali potevano essere? Aiutarti? Esserci? In fondo, non c'era niente di giusto da poter dire in quel fragente. «Sono contenta ci siano stati loro ad aiutarti.» disse solo, stringendo entrambe le mani, le cui dita erano ancora intrecciate, in una sorta di pugno. Probabilmente non avrebbe mai superato quella fase: per quanto gli anni passassero e le cose sembrassero migliorare, lei era sempre la stessa Sofi che non riusciva ad accettare un errore commesso ben più di dieci anni prima. «Ora sei in grado di controllare la tua particolarità senza problemi?» Oppure era stata così cieca da non accorgersi di altri problemi? Era così ovvio che potesse esser crollato dopo la morte del padre, eppure lei aveva - ingenuamente - creduto che le sue parole corrispondessero a realtà, che era stato "bene, tutto sommato". Che stupida. Si ritrovò a chiedersi se non avesse sbagliato a ritornare in quel modo nella sua vita, a riappropriarsi in maniera illecita di ciò che un tempo le era appartenuto, arrogandosi il diritto di chiedere di più: dopotutto ormai vivevano insieme perché lei gli aveva chiesto una mano e si era letteralmente infilata nel suo letto nel momento del bisogno. Mio dio, come poteva esser stata così egoista? Riusciva a pensare, almeno per una volta, al bene degli altri piuttosto che al suo?
    Deglutì, cercando di riorganizzare il caos nella sua testa. Si alzò in piedi, sfilando le mani dalla presa di quelle di Kai ed allungandole verso la sua testa ed i suoi capelli, unico antistress disponibile in quel momento: fece un respiro profondo, facendo qualche passo prima in una direzione e poi in quella opposta davanti al divano sul quale era seduta fino a poco prima. «Avrei voluto saperlo.» mormorò, con alcune ciocche di capelli intrecciate fra le dita. «Per quanto potesse essere inutile arrivati a questo punto, avrei voluto saperlo.» ripeté, facendo affidamento a tutta la sua forza di volontà per rimanere calma mentre il "Ho persino rischiato di morire, in più di un'occasione." non cessava di risuonarle nella testa. Poi si fermò, lasciando ricadere le mani lungo i fianchi e fissando un punto indefinito nello spazio alla ricerca del coraggio di porre la domanda successiva. Si voltò verso di lui, guardandolo negli occhi per la prima volta da quando aveva iniziato a spiegarle quanto era accaduto: «C'è dell'altro che non so?»
     
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    Avrebbe dovuto immaginare che parlare all’esterno della sua abitazione non fosse abbastanza per impedire a Sofie di sentire o capire che stava succedendo qualcosa. Aveva invece creduto che chiudere la porta bastasse a tenere ben separato il piccolo universo di gioia che stavano a poco a poco creando insieme, dalla vita travagliata che conduceva quando invece si trovava all’esterno. Scoprire quindi che lei aveva avuto modo di sentire qualcosa lo destabilizzò per un primo momento, facendogli assumere un’espressione molto più seria e arrabbiata di quanto avrebbe voluto. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto parlare con Sofie di quella parte della sua vita, di quella organizzazione a cui aveva dedicato tempo e denaro in quegli ultimi anni, ma non aveva mai trovato un buon momento per farlo, né sapeva esattamente come parlargliene. Aveva chiesto consiglio ad alcuni fidati membri di Libra e nessuno aveva saputo dirgli che cosa fare. Nessuno conosceva Sofie in fondo e sapeva che reazione aspettarsi. Si sarebbe spaventata? Gli avrebbe chiesto di fare un passo indietro per lei? Avrebbe dato di matto e minacciato di dire tutto alla polizia? Più si faceva quelle domande e meno trovava il coraggio di parlare, preoccupato di come potesse andare a finire. L’organizzazione, dopotutto, non era costituita solo da brave persone e temeva anche di metterla a rischio raccontandole per filo e per cosa che cosa accadeva e che cosa cercavano di ottenere i membri più alti del consiglio. Tuttavia, sapeva anche che non era buona idea continuare a nasconderle quelle cose ancora a lungo. Più tempo sarebbe passato e più sarebbe divenuto difficile.
    Si sedette sul divano e lei fece lo stesso, accomodandosi a poca distanza da lui, scusandosi tra le righe per aver ascoltato la sua conversazione, per poi lasciar cadere un silenzio pesante. Kai prese un profondo respiro prima di iniziare a parlare, cercando di dare un contesto a quella situazione e di farle capire che era qualcosa che era accaduto prima che loro si ritrovassero e non di recente, sperando che questo potesse attutire almeno in parte. Continuò spiegandole quella che era stata la causa scatenante di tutto, quella perdita subita e mai del tutto superata che aveva mandato completamente in confusione la sua bussola. Aveva creduto che la sua particolarità non sarebbe mai tornata normale, che non ne avrebbe più recuperato il controllo. E invece, con il tempo e la pazienza era riuscito a ricostruire qualcosa, a rimettere insieme almeno alcuni pezzi e a capire come dominare le sue emozioni. Era lì che stava l’innesco della sua particolarità. Faticava ad ammettere di avere quel genere di problemi, persino con lei. Non voleva che si preoccupasse, che temesse che, da un momento all’altro, potesse capitargli di nuovo. Preferiva vederla tranquilla, ignara di quello che si agitava dentro di lui. Andò avanti comunque, raccontale almeno quello che era strettamente necessario per comprendere quello che gli era capitato e come aveva cercato con fatica di superarlo. Se si fosse ripreso del tutto o meno non avrebbe saputo dirlo. A volte gli capitava ancora di sentire le mani tremare e di avere paura che quello stesso freddo si risvegliasse, andando a lambire tutto il suo corpo, senza che lui potesse fare nulla per impedirlo. La mise anche in guardia da Jordan, chiedendole di stare attenta e di non aprire la porta se lui si fosse presentato di nuovo in sua assenza. Era passato qualche volta, anni prima, per chiedergli dei soldi, un posto dove dormire e qualche altro genere di aiuto. In rare occasioni aveva anche cercato di dargli una mano in maniera autonoma, poi aveva capito che era meglio cercare di riportarlo al Centro, lì dove avrebbero saputo cosa fare, piuttosto che mettersi a rischio. E aveva fatto bene, perché se non avesse già rifiutato in passato di farlo entrare ora sarebbe stato senza dubbio più difficile tenerlo lontano da Sofie.
    Annuì piano, tirando un sospiro di sollievo, quando lei gli promise che non lo avrebbe fatto entrare. Poteva sembrare una sciocchezza, ma con tutto il tempo che trascorreva fuori casa voleva essere sicuro di non dover assumere una guardia del corpo per Sofie e che lei sarebbe stata in guardia. Allungò la mano andando ad avvolgere quelle di Sofie strette a pugno mentre lei gli diceva che le dispiaceva di non esserci stata, ma che era felice che ci fosse stato almeno qualcuno ad aiutarlo. Non disse nulla, limitandosi a farle sentire la sua presenza con quel tocco, senza aggiungere altro sull’argomento. Non gli piaceva ripensarci, rievocare quei momenti e il modo in cui si era sentito. Serrò appena la mascella, riabbassando lo sguardo verso il pavimento quando lei gli chiese se ora era tutto passato e riusciva a gestire la sua particolarità senza problemi. -Il più delle volte. - disse, lentamente, soppesando le parole mentre le pronunciava. -Se non ci sono eventi sconvolgenti ho imparato a concentrare l’attenzione su qualcosa di diverso quando le emozioni sembrano volermi travolgere e recuperare il controllo. - aggiunse, cercando di essere più chiaro. Anche i sentimenti per Sofie potevano essere un problema in alcune occasioni, era sicuro che avesse notato le sue mani e il suo corpo farsi più freddi, ma senza che questo divenisse un problema. -Ma non so se, prima o poi, una crisi come quella potrebbe presentarsi nuovo. - terminò, risollevando lo sguardo e cercando quello di lei. Se fino a quel momento aveva preferito tenere quell’ombra per sé, ora aveva capito che era il momento che lei sapesse, così che potesse prepararsi se mai fosse giunto il peggio. -Voglio che tu stia tranquilla però, non voglio che la mia particolarità divenga qualcosa di cui devi avere paura. - aggiunse, lasciandosi andare a un leggero sospiro. Sapeva che non era facile, non lo era neppure per lui, ma non voleva che quel pensiero si aggiungesse a quelli che già aveva, rendendo più complicata la possibilità di mantenere il controllo.
    La lasciò andare quando lei sfuggì alla sua presa per alzarsi in piedi. Lui rimase seduto a osservarla mentre si teneva il capo con le mani, come se fosse troppo sconvolta per riuscire a mantenere la testa dritta senza quell’aiuto. -Lo so. Mi dispiace. - rispose soltanto, quando lei disse che avrebbe voluto sapere prima quelle cose, anche se queste non avrebbero comunque cambiato nulla. Non aggiunse altro, cercando di mantenere la calma e di non farsi prendere dal panico. Respiri lunghi e ben calcolati, uno dopo l’altro, senza pensare davvero a quello che stava accadendo. Non voleva chiedersi che cosa stava per succedere, se lei stesse per andare via, se si fosse appena rovinato tutto. Sapeva che se lei fosse uscita in quel momento, lasciandolo solo, sarebbe stato difficile tenere il freddo lontano da sé, ma non voleva che questa fosse l’unica ragione che l’avrebbe convinta a restare. La fissò per un lungo istante quando lei gli chiese se c’era dell’altro. Sì, c’era così tanto altro che non avrebbe saputo da dove cominciare, ma Libra imponeva anche alcuni segreti ai suoi affiliati e sapeva che certe cose non poteva rivelargliele, a meno che lei non decidesse di seguirlo in quella missione. -Mi capita ancora di andarci ogni tanto, per mantenere i legami e per assicurarmi di poter avere di nuovo il loro aiuto, se dovessi avere qualche altra crisi. - ammise, iniziando a rivelare almeno qualcosa di quella vita. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto farlo, tanto valeva iniziare in quel momento. -E faccio loro delle donazioni, tutti gli anni da quell’anno, per aiutarli a mantenere i giusti spazi e un personale ben formato. - aggiunse quell’altro dettaglio continuando a guardarla. Erano i suoi soldi e sapeva di avere il diritto di farne quello che voleva, anche investirli tutti su un progetto fallimentare se lo avesse ritenuto opportuno, ma credeva comunque che fosse giusto che lei lo sapesse, anche se non le avrebbe chiesto il permesso per quello. -E ti ricordi il viaggio di cui ti ho parlato qualche giorno fa? Quello che mi vedrà fuori dalla Norvegia per quattro o cinque giorni? - chiese, aspettando una sua risposta affermativa prima di andare avanti. Sarebbe partito dopo due settimane e stava ancora cercando di definire alcune cose, ma glielo aveva accennato non appena aveva preso quella decisione con Matt. -Accompagnerò un amico del Centro in quel viaggio, che mi ha chiesto un favore. - spiegò anche quello, visto che le aveva accennato a una persona che lei non conosceva. Probabilmente doveva aver pensato che fosse un collega di lavoro, non un amico di vecchia data che lui non le aveva ancora presentato. -Sai.. - iniziò poi, alzandosi in piedi a sua volta e avvicinandosi a lei, allungando una mano nella sua direzione nella speranza che lei la prendesse. -Mi piacerebbe portarti al Centro, farti vedere dove si trova, come lavorano, farti conoscere un po’ delle persone al suo interno. - le propose, sperando a quel punto che le interessasse conoscere quel mondo e farsi anche una sua idea su quel luogo. -Possiamo cercare di organizzare una visita quando torno dal viaggio? - chiese, restando in attesa. Visto che l’argomento che era saltato fuori forse era il caso di giocare a carte scoperto, farle conoscere quella parte della sua vita e sperare che lei ne restasse affascinata tanto quanto lo era stato lui.
     
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