Introduction to destruction

Kris&James

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    Kris 'Nihil' Nyberg /

    Era una meravigliosa, soleggiata e piacevole mattinata, in quel di Besaid. Gli uccellini cinguettavano sui rami degli alberi, qualche artista-skater da qualche parte stava imbrattando il muro di qualche palazzina con i suoi graffiti-opere d'arte contemporanee, qualche coppietta passeggiava lungo gli ameni sentierini del parco cittadino lanciando occhiate allucinate poco lontano, un bambino fece cadere il gelato dallo spavento, una madre preoccupata allontanò velocemente la sua pargoletta prima che la piccina potesse essere traumatizzata ad una vista così strana, redarguendola sul non diventare mai come quella persona.
    Mi raccomando, principessina mia, devi studiare, seguire le regole e diventare una signorina per bene, altrimenti finirai per diventare come quella persona là.
    Quella persona, in particolare, era una ragazza dall'aria di chi non era riuscito a sfuggire ad un’Apocalisse zombie diventando egli stesso un non-morto, stravaccata su una panchina di legno in una posizione improponibile, supina con una gamba mezza fuori dalla panchina e un braccio abbandonato sul bordo dello schienale. Cappellino da baseball calato per metà sulla faccia, capelli biondi e lisci sparsi attorno alla testa in un intrico spettinato simile alle alghe morte che fluttuano nel mare dopo una tempesta, ed un colorito variabile dal pallido cadaverino al verdino, a seconda di come i raggi del sole estivo cadevano sulla sua pelle.
    Già un paio di volte un ignaro quanto preoccupato passante si era avvicinato incerto, quasi impaurito, a controllare che quell’oscura figura distesa su una panchina nel mezzo del parco fosse ancora viva e non comportasse dunque una chiamata angosciata alla polizia, una scena del crimine e svariate ore di interrogatori dei testimoni in centrale, ma fortunatamente qualche respiro appena accennato e qualche grugnito avevano rassicurato tutti sul fatto che non fosse necessario iniziare a trovare il nastro giallo con la scritta ‘Vietato oltrepassare’ e un sacco nero con cerniera.
    Ad un certo punto, pian piano, la gamba già per metà fuori dalla panchina iniziò ad inclinarsi sempre di più oltre il bordo, fino a che la forza di gravità non fece il resto del lavoro e la fece planare verso il terreno. Con un sobbalzo ed un grugnito appena più pronunciato, l’oscura figura tornò improvvisamente alla vita. -…rcaputtana.-
    E buongiorno anche a te, raggio di sole.
    Dopo essersi tolta il cappellino da davanti alla faccia, Kris si alzò a sedere con una goffa lentezza da arzilla novantenne con l’artrosi, e strizzò gli occhi chiari alla luce del giorno, guardandosi attorno ancora mezza stranita. La matita ed il mascara completamente sbavati, le occhiaie pesanti ed i vestiti stropicciati completavano il quadro non esattamente edificante di quell’anima persa in pieno tentativo di ripresa da una colossale sbronza – e chissà che altro. Continuando a bofonchiare mischiando parole in norvegese e in americano, si alzò a fatica e barcollò con non troppo entusiasmo né equilibrio verso la vicina fontanella, sotto cui ficcò praticamente l’intera testa nel tentativo di ripristinare un po’ di scorte idriche, dare un filo di sollievo al suo povero fegato maltrattato, e schiarirsi un po’ le idee. Si asciugò le labbra con l’orlo di quella t-shirt troppo grande per lei, comprata apposta di tre taglie più grande del dovuto e con la stampa di una bandiera americana in fiamme, e con la stessa vitalità di prima se ne tornò caracollando alla panchina da cui era risorta. Ci si lasciò cadere sopra, sedendosi in maniera sgraziata, e cacciò uno sbadiglio degno di un ippopotamo, ovviamene senza curarsi minimamente di mettere una mano davanti alla bocca.
    Un totale buco nero occupava la sua mente più o meno dalle due della notte precedente fino a quel momento. Un classico della sua miserabile vita, svegliarsi da qualche parte senza sapere come, dove e perché fosse finita in quel luogo. Oggi era toccato il parco. Cosa fosse successo fino al momento in cui era crollata priva di sensi su quella panchina, era totalmente oscuro: si ricordava ancora di star correndo senza scarpe lungo una delle strade del centro, con una birra in mano e un peluche gigante a forma di panda sotto l’altro braccio, ma per il resto zero totale.
    -E dov’è finito il panda?- Domandò improvvisamente, a nessuno in generale. Il suddetto peluche sembrava svanito nel nulla: pur girandosi in tutte le direzioni, controllando sotto la panchina, e andando a disturbare persino la coppietta seduta sulla panchina accanto per vedere se fosse finito lì, non riusciva a vederlo da nessuna parte.
    Sconsolata, tornò mestamente al suo posto e si lasciò cadere a sacco di patate per la seconda volta, frugando svogliatamente nelle tasche dei jeans sdruciti e scoloriti alla ricerca del pacchetto di sigarette. Niente di meglio che un po’ di tabacco per iniziare alla grande la giornata.
    Azzannò un filtro che spuntava appena più degli altri e lo tirò fuori dal pacchetto. Un gesto ammantato di una rabbia quasi intrinseca, il suo: come se, in fondo, fosse sempre, da sempre e per sempre arrabbiata col mondo, come se ci fosse una violenza sopita ma sempre presente dietro quegli occhi dello stesso azzurro torbido del mare appena prima di una tempesta. Con quella stessa rabbia, fece girare la rotellina dell’accendino da due soldi per accendersi la prima di una lunga sfilza di sigarette della giornata. Una volta, due. Tre. Lo schiocco secco accompagnato da una scintilla e nient’altro le strappò uno sbuffo irritato. –Eddai…- Agitò il povero accendino con forza, ci riprovò un paio di volte, e assaporò ancora una volta il retrogusto amaro della sconfitta. –Che palle.- Lasciò cadere la schiena all’indietro sullo schienale e buttò indietro la testa, rischiando di perdere il cappellino e dimostrando al mondo ancora una volta la stessa finezza di uno scaricatore di porto ubriaco.
    Una frase, uno stile di vita.
     
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    Inspira. Espira. Inspira. Espira.
    Erano quelli gli unici pensieri che aveva lasciato fluire all’interno della sua mente in quelle due ore che aveva trascorso a correre all’interno del Vennelyst Park. Il giorno precedente aveva avuto il turno al ristorante all’ora di pranzo e, stanco dalle lunghe settimane che si era lasciato alle spalle, aveva finito con il mettersi a letto molto prima del dovuto. Così quella mattina si era svegliato di buon’ora, incapace di rimanere a letto anche solo un minuto di più, si era fatto una doccia, aveva fatto un’abbondante colazione, aveva indossato un paio di pantaloncini per fare attività fisica, una canottiera, un paio di scarpe da ginnastica ed era uscito, portando con sé soltanto una borraccia con dell’acqua, le chiavi, il suo telefono e il portafogli. Correre gli piaceva, lo faceva spesso quando aveva dei momenti liberi. Lo aiutava a pensare, a schiarirsi le idee, a recuperare una sorta di equilibrio con se stesso. Stava molto meglio da quando aveva smesso di utilizzare la sua particolarità in maniera frequente, non c’erano più stati strani episodi di intorpidimento delle mani, delle braccia, o delle gambe, né di mancanza del senso del tatto. Si sentiva più sereno nel sapere che il suo corpo aveva recuperato tutte le sue funzioni di base e non aveva nessuna voglia di tirare di nuovo la corda, rischiando di perdere la sensibilità una volta per tutte. Era stato incredibilmente spaventoso per lui rendersi conto di non essere più in grado di percepire nulla, di non riconoscere un tessuto da un altro, di non sentire il caldo o il freddo. Aveva temuto che quella condizione sarebbe rimasta per sempre, invece con un po’ di pazienza era riuscito a recuperare. Aveva vissuto più di vent’anni della sua vita senza avere alcuna abilità paranormale, non aveva quindi bisogno di rendere quella stranezza una parte integrante della sua vita per andare avanti. Sapeva che c’era, nascosta sotto la sua pelle, pronta a mettersi in moto se lui ci avesse provato, ma fortunatamente poteva rimanere sopita e lui fingere che non ci fosse. Era molto più facile e le riunioni al centro Aerial lo aiutavano a convivere con quel pensiero. Max e i suoi lo avevano aiutato molto in quegli anni a trovare un equilibrio in quella gabbia di matti che era Besaid.
    C’erano dei giorni in cui gli mancava la sua Irlanda, le strade di Dublino, gli amici, le piane verdeggianti in cui aveva trascorso tante vacanze della sua infanzia, le notti in campeggio. Altri giorni invece stava bene esattamente lì dove si trovava, in una cittadina che non aveva neppure un punto preciso nella mappa, disperso tra coordinate che nessuno riusciva a definire con assoluta certezza. Provava spesso il desiderio di partire, senza neppure il bisogno di una meta precisa, ma lo spettro della perdita della memoria gli aveva impedito di stare via troppo a lungo, finendo con il tornare a casa solo in rare occasioni e solo per pochi giorni, giusto il tempo necessario a riabbracciare sua madre, la cugina che si era sposata qualche mese prima e gli amici di una vita. Ogni volta che tornava a casa era come se nulla fosse cambiato, a parte la sua vita. Dell’uomo che era stato a Dublino era rimasto solo il carattere e nulla più.
    Continuò a correre ancora per qualche minuto, cercando di regolarizzare il respiro e il battito del suo cuore. Iniziava a sentirsi stanco, eppure non aveva ancora voglia di fermarsi. Non era il genere di persona a cui piaceva restare fermo in un punto, sentiva sempre il bisogno di scuotersi, di avere qualcosa da fare, che si trattasse di lavoro o di un passatempo non faceva molta differenza. Stare fermo lo metteva di pessimo umore, lo rendeva nervoso. Si voltò di lato, alla ricerca della fontanella dove andava sempre a bere qualche sorso d’acqua verso la fine della sua corsa, notando proprio davanti a essa una figura che gli parve familiare. Rallentò, prendendosi qualche momento per osservare meglio la ragazza dai capelli biondi che nel frattempo era andata ad accomodarsi su una panchina poco lontana. Raggiunse la fontanella, mandò giù qualche sorso e continuò a osservare quella figura dall’aria stanca. Ci mise qualche altro secondo, aiutato anche dal suono della sua voce, a riconoscere Kris, la biondina con cui aveva condiviso diverse giornate di lavori ormai più di un anno prima. Sorrise tra sé e sé, scuotendo appena il capo, mentre si avviava con passo lento ma tranquillo nella sua direzione. Durante il suo cammino la vide rimettersi in piedi e aggirarsi con aria più attenta nei paraggi, come se fosse alla ricerca di qualcosa, per poi tornare alla sua postazione. -Ehi Kris! - la salutò lui, sollevando il tono di voce perché potesse sentirlo anche a qualche metro di distanza, alzando appena in aria una mano per farsi intercettare più velocemente. Sorrise nella sua direzione, continuando ad avanzare, fermandosi solo quando era ormai a pochi passi da lei. Da quella distanza ravvicinata era molto più semplice scorgere il suo volto stanco, il trucco sbavato di chi non aveva dormito a casa sua quella notte. -Cavolo raggio di sole, che ti è successo? - domandò, un po’ preoccupato, dimenticando l’idea iniziale di chiederle che cosa stesse cercando. In effetti forse arrivare dal nulla e chiederle perché si guardasse attorno con aria circospetta non doveva essere un ottimo approccio, anche se lei ormai lo conosceva e sapeva che era una persona estroversa e che non si faceva troppi problemi a dire quello che gli passava per la testa. -Hai la faccia di una che si è appena svegliata e che non ha neppure dormito un granchè bene. - borbottò, lasciandosi andare ad una leggera risatina, senza tuttavia l’intenzione di suonare canzonatorio. Stava semplicemente constatando la realtà dei fatti. -E di una che non ha ancora preso il primo caffè della sua giornata. - aggiunse, cercando di assumere un’aria più seria e pensierosa, come se la stesse analizzando con cura anche se non era affatto così. -Ho visto un chioschetto poco lontano mentre correvo, ti va di prendere qualcosa insieme? - chiese, offrendole una mano per aiutarla ad alzarsi, sperando che le andasse di seguirlo. Era abbastanza convinto che fosse in grado di alzarsi da sola, ma vista l’aria stanca era meglio non rischiare.
     
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