We can't run from who we are

Beatrice & Vega

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    -Signor Thoresen come si sente oggi? - domandò, mentre si spostava da un angolo all’altro di quella piccola stanza di ospedale che ospitava due anziani signori e due uomini più giovani, uno sulla quarantina e uno sulla cinquantina. Era da poco più di un mese che aveva iniziato a svolgere attività di volontariato presso l’Ospedale di Besaid, spinta dalla necessità di trovare qualcosa per riempire le sue giornate e dalla voglia di essere utile alle altre persone. Aveva iniziato a comprendere le stranezze di quella cittadina, le particolari abilità che dava a chiunque si stanziasse abbastanza a lungo in quel luogo. Era stato complesso accettare l’idea della perdita della memoria, così come quella di poter iniziare sviluppare una particolarità che non aveva mai posseduto. Si era illusa di esserne immune nelle prime settimane, quando nulla di strano si era verificato dentro o attorno a lei, poi all’improvviso era arrivato quello strano brivido, la sensazione di malessere e paura che provava quando stava vicina a determinate persone, anche se non ne comprendeva il motivo. Grazie ad alcune visite consigliate dal medico che l’aveva presa in carico in quella città, visto il suo trasferimento per motivi di lavoro almeno per un anno, aveva capito di poter stringere una sorta di legame con le persone prossime alla dipartita. Non lo aveva accettato subito, trovando strano e quasi raccapricciante il pensiero di poter percepire una cosa come quella, ma alla fine si era arresa all’evidenza: se quella città le aveva donato quella sorte forse c’era un motivo che lei ancora non riusciva a comprendere. Era così che aveva iniziato a documentarsi per svolgere volontariato in ospedale, nei reparti dove le persone avevano più bisogno di gioia e di affetto, lì dove alcuni si spegnevano senza che qualcuno gli avesse donato un ultimo sorriso e allora aveva fatto di quel pensiero la sua missione. Non contenta di doversi già dividere tra il lavoro come editor e quello di insegnante della scuola primaria, aveva anche accettato alcuni turni serali in ospedale, attraverso un’associazione che si occupava soprattutto di anziani e di bambini. I più piccoli trovavano divertente quel suo strano accento e i suoi racconti sugli Stati Uniti, mentre i più vecchi alcune volte storcevano il naso, rivangando i vecchi tempi e gli anni trascorsi in guerra.
    -Starei meglio se quella maledetta infermiera mi lasciasse andare a vedere la televisione. - rispose, con il suo solito tono burbero, mettendo su un broncio simile a quello di un bambino. Beatrice era convinta che esistesse un filo molto sottile tra l’infanzia e la vecchiaia e che l’età adulta non fosse che una fase di passaggio, qualcosa di necessario tra l’una e l’altra. Sorrise, sedendosi su una sedia che stava a pochi metri dal letto dell’uomo, serrando le labbra per un istante quando percepì quello strano formicolio all’altezza della pancia. No, per favore, non lui. si ritrovò a pensare nella sua mente, mentre la sua espressione diveniva improvvisamente più seria. L’uomo la vide e notò lo sguardo velato di lui farsi più corrucciato, come a chiedersi che cosa fosse accaduto, senza tuttavia avere il coraggio di chiedere. Bea cercò di sorridere di nuovo, anche se questa volta l’espressione risultò un po’ più tirata, preoccupata. Deglutì lentamente, cercando di recuperare la calma di pochi momenti prima, la stessa tranquillità, anche se era difficile per lei sapere di avere davanti qualcuno che di lì a non sapeva quanti giorni non ci sarebbe stato più. -Proverò a parlare con le infermiere per capire se domani posso accompagnarla alla sala tv, va bene? - domandò, sperando in quel modo di ricatturare tutta la sua attenzione e far sparire ogni dubbio dal volto di quell’uomo burbero dall’animo gentile. Forse lui già sapeva che stava per giungere la sua ora? Riusciva a capirlo? Sperava di no, con tutto il cuore. -Va bene. - borbottò l’altro, di rimando, soddisfatto di quel tentativo di realizzare il suo tanto agognato desiderio. Si chiedeva per quale motivo una cosa così sciocca gli fosse stata impedita, ma aveva come il sospetto che il Signor Thoresen non avesse neppure provato a chiedere. Faceva sempre così, si lamentava di cose che non erano davvero successe, come se sperasse così di ottenere delle attenzioni. Rivedeva i suoi nonni in quel volto, nell’aria burbera di chi aveva dovuto sopportare tante cose nella vita e per questo ne era uscito più ruvido, reso forte dalle sue esperienze ma anche più duro.
    Iniziò a fargli domande, chiacchierando del più e del meno, curiosa di sapere che cosa fosse accaduto negli ultimi due giorni, se qualcuno fosse passato a trovarlo, magari i suoi figli. Non lo avevano fatto. Non fu neppure necessario chiedere per comprenderlo, visto il tono con cui aveva velocemente parlato delle giornate piatte e prive di particolari euforie a cui era condannato. Ancora faceva fatica a comprendere ogni parola di quella lingua che non era la sua e che stava imparando, giorno dopo giorno, per integrarsi al meglio e avere meno difficoltà nel comunicare. Le era sempre piaciuto conoscere nuove persone, fare esperienze, immergersi in mondi non suoi, che si trattasse di mondi di carta o di parole non faceva molta importanza. -Domani le porto un libro, è uno dei miei preferiti. - si offrì, dopo un po’, rizzando appena la schiena nel dirlo e rendendo ancora più radioso il sorriso sul suo volto. -Non so leggere. - protestò l’uomo, abbassando appena la voce, come se si vergognasse di ammettere una cosa come quella. -Leggerò io per lei allora, ogni volta che verrò. - propose e quell’idea sembrò piacergli, gli assicurava che lei sarebbe tornata, per portare a termine la lettura, era un impegno definito, che di certo non avrebbe perso. Sì, quello poteva accettarlo.
    Erano circa le ventidue quando lasciò quella stanza, senza che il magone che le aveva stretto lo stomaco si fosse mai allentato. Sarebbero davvero riusciti a terminare quel libro? O non avevano abbastanza tempo a disposizione? Era a questo che pensava mentre avanzava con aria assorta, senza neppure badare bene a dove stava andando. Confidava nel fatto che i suoi piedi avessero ormai memorizzato la strada e che l’avrebbero condotta dove doveva andare. Non aveva fretta, anche se iniziava a sentire un certo languorino, alimentato dai profumi che invadevano le strade su cui sorgevano tanti piccoli ristoranti. si guardò attorno, meditando sull’idea di trattenersi in giro ancora per un po’, magari scegliere uno di quei locali e mangiare qualcosa. Non aveva tanta voglia di cucinare. Iniziò a camminare più vicina alle facciate degli edifici, guardando distrattamente i vari menù appesi oppure scritti a mano su qualche lavagna, alla ricerca di uno più interessante dell’altro, qualcosa che la colpisse. Si sentiva ancora frastornata per quello che era accaduto poco prima e non riusciva a togliersi dalla testa il pensiero che il Signor Thoresen presto o tardi non ci sarebbe stato più e che i figli e i nipoti che non andavano a trovarlo non potevano saperlo. Avrebbe avuto senso cercare di contattarli? Fare in modo che li vedesse prima che fosse troppo tardi? E che spiegazione avrebbe dato a quella telefonata? Non poteva certo dirgli “Ehi, posso percepire quando le persone stanno per morire, andate a trovare il vostro caro prima che sia troppo tardi!” No, decisamente non era una buona idea. Mosse qualche altro passo, superando una stradina velocemente, ma si fermò, tornando indietro. C’erano due persone verso la metà della strada, erano entrambe piegate verso il pavimento. -Va tutto bene? - chiese, incapace di farsi gli affari suoi, imboccando lentamente il vicolo e avvicinando a quelle due persone che non poteva ancora scorgere. -State bene? - domandò, pronta a cercare il suo telefono per chiamare un’ambulanza, in caso uno dei due fosse stato colto da un malore. Un altro passo avanti e poi quella stessa stretta all’addome la lasciò senza fiato. Si fermò, portando una mano alla pancia, come se sperasse che toccarla bastasse a spegnere tutto, ma non era mai così. Risollevò lo sguardo verso le due figure, cercando di capire che cosa stesse accadendo, senza più riuscire ad avanzare.
     
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    Vega Eileen Doyle
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    L’aria fredda della sera, la travolse in pieno appena mise piede all’esterno. Il vento gelido accarezzava la sua pelle diafana provocando un leggero arrossamento sulla zona delle guance. Si era lasciata alle spalle la compagnia della sorella, che era dovuta scappare a casa per via di un importante incontro di lavoro che avrebbe avuto l’indomani, mentre lei non era ancora pronta ad incontrare l’abbraccio di Morfeo. Il Signore della barba scura brizzolata che aveva incontrato all’esterno del bar/ristorante, l’aveva anche fin troppo fatta agitare.
    Lascia perdere Vega. E’ ubriaco intinto e non vale la pena perdere le staffe con uno come lui, le aveva detto Bellatrix. Eppure, la giovane non riusciva a farsi scivolare l’accaduto, raramente accadeva con lei. Non vi era giorno in cui si lasciasse scivolare le cose di dosso, sopratutto quando vedeva i connotati del volto cambiare in delusione o amarezza delle persone a cui teneva, affondandole una lama dentro al cuore. Vi erano persone per Vega, che erano intoccabili. Parti della sua anima che non dovevano essere mai sfiorate, neanche per sbaglio, perché quando succedeva il suo autocontrollo finiva completamente in tilt. I suoi fratelli, erano l’elevazione più alta di quelle persone e quell’uomo, aveva mancato di rispetto a sua sorella, abbassandosi i pantaloni per farle vedere l’apparato genitale – anche poco dotato, doveva dire. Vi è una differenza sostanziale tra me e te, Bella. Tu devi mantenere un profilo pubblico pacato e affabile, rispettare per quanto possibile le leggi vigenti ma io, io invece posso liberare anche la parte più temibile del mio caos ammise lei, salutando la sorella soffiandole un leggero bacio sulla guancia lunare come la sua. Gli occhi azzurri chiaro, una goccia d’acqua dei suoi, si incatenarono a questi come a volerle dire che doveva smetterla di essere così rancorosa. Bella però, aveva imparato che era inutile parlare con sua sorella, che avrebbe fatto sempre come avrebbe preferito senza ascoltare voce alcuna, se non in rari casi. Ti voglio bene la salutò lei, mentre con il gesto della mano fermava un taxi per lasciarsi il locale in cui avevano cenato alle spalle Fà attenzione la incitò infine. Di canto suo, Vega rimase appoggiato sul muro del locale a fumarsi una sigaretta, in attesa che il simpatico omuncolo uscisse fuori dal supermercatino posto davanti, aperto h24, per dargli una lezione.
    L’inverno era la sua stagione preferita, forse quella in cui si sentiva più a suo agio, così simile al suo cuore cristallino. I colori freddi, il bianco a contrasto con il blu notte o il nero pece, illuminati dalla flebile luce del sole o della luna. Un raggio lunare le accarezzava la faccia, mentre si stringeva nel suo montone ecologico nero e bianco (click), tirando in su il colletto così da parare il collo altrimenti nudo. Il rumore della porta automatica, la fece voltare in direzione dell’ingresso del pub/ristorante, dove una coppia uscì stringendosi in un abbraccio, forse eccitati per la serata, forse bisognosi di proteggersi dal freddo. Li osservò qualche secondo, pensando a quanto potesse essere assurdo il cuore umano, sempre così bisognoso di calore e affetto, sempre pronto a lasciarsi ferire a morte da questo. Lanciò la sigaretta ormai alla fine in terra, spegnendola con la punta del tronchetto nero con un tacco medio e pratico.
    E’ rimasta sola, bella Signorina? riconobbe senza bisogno di voltarsi, la voce del signore dalla barba brizzolata, che lasciava intuire un tono arzillo nelle sua voce. In mano, teneva una bottiglia di vino rosso scadente, di quello in grado di forarti il fegato. Si chiese perché ancora non fosse morto, perché una persona schifosa come lui fosse ancora viva per la grazie del creato. Dov’è andata quella bella biondina? chiese ancora, non intuendo che Vega fosse rimasta lì soltanto per aspettare lui. Prese a camminare sornione, verso un vicolo stretto, umido e poco illuminato da un lampione mal funzionante che emetteva una luce ad intermittenza. Decisamente creepy, come la scena che si sarebbe aperta di lì a poco alla visuale di una donna ignara che passava da quella parte. Nessuno le ha detto, che è meglio non bere quando non si regge l’alcol? domandò lei, osservandolo barcollare, mentre portava la bottiglia di vetro alla bocca. Stupida ragazzina, vuoi dare una lezione a me? rispose, ridendo e tossendo insieme, mentre cercava tra i vestiti – immaginava lei – una sigaretta a completare quel quadretto già abbastanza triste. La persona che hai molestato era mia sorella ed io, non permetto a nessuno di sfiorarle anche solo un capello lo minacciò lei, con un tono piuttosto pacato. Vega non era una che passava da mezzi termini, non riusciva ad affidarsi alla legge ma preferiva farsi giustizia da sola, fidandosi soltanto di sé stessa. Sapeva che come lo aveva fatto con Bellatrix, quell’uomo lo avrebbe fatto con altre ragazze come lei ed era certa che, sarebbe stato capace di fare molto peggio. Sei gelosa, ragazzina? Vuoi che lo faccia con te? Che mi masturbi guardandoti? sentirlo provocala, ripetere con quel tono di sfida la parola ragazzina, sentirlo nuovamente parlare di masturbazione davanti ad una persona non consenziente, le fece andare ulteriormente il sangue al cervello. Il calore iniziò a pervaderla, mentre poteva sentire il cuore dell’uomo accelerare nel battito ed il suo, fare altrettanto. Doveva controllarsi, prendere in mano l’entità della sua particolarità ma vi erano volte in cui, l’adrenalina prendeva il sopravvento e la voglia di ferire andava sopra alla paura della sua stessa morte. Era arrabbiata Vega, per sua sorella e per sé stessa, e vedere l’uomo cadere in ginocchio la eccitava scatenando l’euforia del suo stesso caos. Stava esagerando e poteva sentirlo, mentre le sue ginocchia si facevano più deboli. Doveva smettere subito, prima di superare il limite che si era prefissata, insieme ai dottori del Mordersonn. La prossima volta, non ti lascerò vivere sibilò lui, prima di lasciarsi cadere sulle ginocchia, bisognosa di recuperare un po' di energie. Espirò ed inspirò, lasciando entrare l’aria gelida nei suoi polmoni, consapevole che quel gesto avrebbe riportato il suo cuore a battere normalmente.
    Va tutto bene? chiese una voce femminile, che si fece più vicina quando domandò nuovamente il loro stato. Credo che il Signore abbia bevuto troppo ammise Vega, chiudendo gli occhi per concentrarsi al tornare alla normalità, prima che la ragazza si avvicinasse troppo a loro. L’odore di vino acido, si profuse nell’aria intorno a loro, a causa della macchia che si era aperta sul pavimento al momento della caduta e rottura della bottiglia. Forse è meglio chiamare i soccorsi disse ancora, cercando di prendere ancora un po' di tempo per sé. Sentì la giovane, digitare i tasti sul cellulare e poi prendere la linea, mentre con alcuni passi si avvicinò a lei. Era adesso a suo fianco, Vega poteva vedere una figura abbastanza longilinea e dei capelli scuri come i suoi. Le sfiorò la mano, facendo cenno di non parlare di lei, cercando poi di mettersi in piedi con molta calma. Aveva paura di possibili cedimenti delle ginocchia o di cali di pressione, cosa che voleva evitare. Si mise in piedi, barcollando appena prima di trovare la sua stabilità anche grazie all’aiuto della donna. Era alta poco meno di lei, ed aveva gli occhi verde chiaro sottolineati da ciglia scure come le sue. La pelle chiara, era macchiata di rosso a causa del freddo, proprio come quella di Vega che adesso era rosea anche a causa dello sforzo per l'utilizzo della sua particolarità. Credo di dover bere qualcosa.. ammise sorridendo flebile, incrociando per la prima volta i suoi occhi in quelli della donna.

    Edited by liriel - 11/1/2022, 11:01
     
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    Era strano vivere in un posto così diverso da casa sua. Ancora faceva fatica ad abituarsi al clima della Norvegia, a quell’inverno così fretto. Chissà quanto a lungo sarebbe rimasta, se si sarebbe mai abituata a tutto quello o se alla fine avrebbe scelto di andare via. Evitava di farsi troppe domande per il momento, lasciava che le cose facessero il loro corso, senza forzature, senza premeditazione. In fondo era così che era giunta sino a lì, che aveva trovato il suo lavoro come insegnante. Forse a volte era importante staccare la spina, evitare di pensare troppo. Era in un momento della sua vita in cui si sentiva persa, incapace di comprendere persino se stessa e aveva quindi bisogno di prendere una boccata d’aria, in senso figurato, e trovare il modo di ripartire. Cambiare città le aveva fatto bene. Si sentiva meglio lontana da casa, dalla sua famiglia, da tutti quei problemi che le erano sembrati troppo grande. Invece a Besaid era come se potesse ricominciare, senza il peso del passato e di ciò che gli altri si aspettavano da lei. L’unica persona che era rimasta del suo passato era Xavier, ma sapeva anche di avere un conto in sospeso con lui, in un certo senso, di dovergli delle spiegazioni. Il loro matrimonio non era mai davvero salpato. Aveva preso la loro relazione come un modo per nascondersi da se stessa, da ciò che provava davvero e aveva sbagliato. Solo con il tempo se ne era resa conto. Non era lei ad essere sbagliata quanto i pregiudizi della gente, la convinzione della sua famiglia di poter decidere per lei, di sapere che cosa era meglio per lei. Nei mesi aveva compreso che c’erano delle cose che non aveva mai voluto vedere, segnali che si era rifiutata di cogliere. E ora, mentre passeggiava per le strade di quella tranquilla cittadina, poteva dire di sentirsi meglio, più serena, più libera.
    C’era tuttavia anche qualcosa di strano in quella città, le strane abilità che questa donava alle persone. Era convinta, dato il suo animo romantico e poetico, che ci fosse un motivo per cui ognuno di loro ne riceveva una e una soltanto. Lei non era molto felice di ciò che aveva ricevuto, del modo in cui a volte la faceva stare male. Era triste sapere di avere a che fare con qualcuno che presto si sarebbe spento, ma le permetteva anche di cercare di cogliere il meglio da quei momenti, imprimerli nella sua memoria e cercare di ricordare tutti loro, come meglio poteva. Sotto certi punti di vista, quindi, avrebbe anche potuto considerarlo come un dono: la possibilità di non sprecare gli ultimi attimi che aveva a disposizione con qualcuno, scegliere il modo di dire loro addio. Chissà quante persone avrebbero voluto avere un’occasione come quella: la possibilità di prevedere un evento spiacevole, di dire qualcosa prima che fosse troppo tardi. Era così quindi che cercava di utilizzarla, portando conforto a chi non sapeva di avere ormai poche occasioni dire addio. Certe volte era difficile, ma forse anche quello sarebbe diventato un’abitudine, prima o poi. Cercava di coglierne i lati positivi, di trovarvi un senso. Altre volte le sembrava addirittura di vivere dentro un libro, visto tutte le bizzarrie a cui aveva avuto modo di assistere.
    Passeggiava tranquilla, immersa nei suoi pensieri più vari, quando proprio il risveglio della sua particolarità la portò a cambiare strada, attratta dalla fonte di quel suo fastidio. Non capì a cosa esattamente aveva assistito. Da quella distanza era difficile capire che cosa fosse avvenuto tra le due figure che aveva davanti e forse avrebbe fatto meglio a tenere le distanze, farsi gli affari suoi, ma le veniva difficile stare a guardare quando sentiva che qualcuno aveva bisogno di aiuto. Si avvicinò quindi piano, cercando di far notare ai due la sua presenza mentre si informava sulle loro condizioni. Magari avevano bisogno di aiuto, o era necessario chiamare la polizia. La donna rispose solo che l’uomo aveva bevuto troppo e la bottiglia rotta accanto a loro era un indizio abbastanza chiaro a riguardo. Annuì, cercando velocemente il suo telefono, cercando di ricordare il numero del soccorso in Norvegia. -Mi ricorda il numero? Non sono di qui. - ammise, con un sorriso un po’ imbarazzato, attendendo il numero prima di digitarlo e rimanere in attesa di una risposta. Le mani le tremavano appena mentre restava in linea, preoccupata di non fare in tempo. -Salve, sì… io.. chiamo da… - si fermò, cercando di leggere il nome del vicolo, per poi leggerlo con il suo norvegese ancora incerto, attendendo una risposta affermativa prima di andare avanti. -Un uomo ha avuto un malore, probabilmente è ubriaco e… - continuò, cercando di dare indicazioni sulla donna, che sembrava altrettanto provata. Lei, tuttavia, le fece cenno di non dire nulla sul suo conto, mettendosi poi lentamente in piede. -Oh, ehm.. è privo di senso, non so cosa sia successo, era già a terra. - sviò, riportando l’attenzione sull’uomo che, svenuto, non avrebbe potuto confermare né smentire quello che stava dicendo. Rivolse un’occhiata incerto in direzione della donna però, osservando ogni suo movimento, preoccupata dal modo instabile con cui si reggeva in piedi. -Sì, sì, fate presto, per favore. - terminò, per poi riagganciare. Si mosse quindi in fretta per offrire un sostegno alla donna, evitandole una possibile seconda caduta a terra. -E’ sicura di stare bene? - domandò, poco convinta di quell’affermazione.
    Voleva chiederle che cosa fosse accaduto, ma si morse la lingua. Era evidente che la donna non fosse molto intenzionata a parlarne, o lo avrebbe già fatto. Frugò velocemente dentro la sua borsa, estraendo una bottiglietta di succo di frutta che teneva sempre per le emergenze, offrendolo a donna. Forse aveva bisogno di un po’ di zuccheri. Attese qualche altro momento, poi si guardò alle spalle, cercando di capire se i soccorsi fossero già in arrivo. Le era parso di comprendere che la donna non volesse farsi visitare, quindi, con un sorriso gentile sul volto, la guardò di nuovo. -La accompagno a fare due passi? Magari un po’ d’aria potrebbe fare bene. - propose quindi, offrendole, senza essere troppo diretta, una scusa per allontanarsi da lì. L’uomo, probabilmente, si sarebbe presto ucciso da solo con l’alcol a cui sembrava tanto affezionato. La donna, invece, sembrava avere bisogno di aiuto. Iniziarono quindi a muoversi, lentamente. Lasciò che fosse l’altra a guidarla, indicandole quali strade prendere per trovare un posto tranquillo. Aveva ammesso giusto poco prima di non essere della zona e di non sapere quindi bene dove andare. Quando furono poi abbastanza lontane, nei pressi di una panchina su cui sedersi almeno per pochi istanti per prendere fiato, tese una mano nella sua direzione. -Io sono Beatrice. - si presentò, sperando così di scoprire almeno il nome dell’altra ragazza. Un nome non diceva poi tanto su qualcuno, ma almeno avrebbe saputo come chiamarla. -Ha bisogno di mangiare qualcosa? Posso accompagnarla da qualche parte? - si offrì, gentilmente, sperando che l’altra non si sarebbe allontanata troppo in fretta. Era ancora scossa, non era il caso di lasciarla andare in giro da sola.
     
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    Vega Eileen Doyle
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    L’aria gelida della sera si era acuita con la stanchezza dovuta all’utilizzo della sua particolarità. Le gambe pesanti, tramavano appena sotto il peso del suo corpo che ancora si trovava rivolto verso il terreno altrettanto freddo. Era il via vai delle automobili, della vita che rendeva le strade tiepide ma in quel vicolo, tutto sembrava essere buio e freddo come l’uomo che ancora era riverso a terra. Sorrise, mentre con il volto osservava il vetro affianco a lui brillare sotto la luce flebile del lampione. Funzionava ad intermittenza, come il cuore della ragazza che li aveva raggiunti qualche minuto prima e che ancora stava esitando sul da farsi. Poi fortunatamente, la sentì tirare fuori il telefono e cercare aiuto, per riuscire a chiamare i soccorsi e rispettare la richiesta che Vega le aveva fatto.
    Ormai al suo fianco, osservava il volto lunare della giovane riflettere i raggi della luna, mentre questa le passava una piccola boccetta piena di succo. Ne prese un sorso, sentendone immediatamente il beneficio e fù sollevata che quella giovane fosse così previdente. Non era molto avvezza ai ringraziamenti Vega, era burbera come l’abitudine che l’aveva cresciuta ma aveva i suoi modi per comunicare con gli altri. Indicò il telefono con un colpo secco del volto Dovresti salvarli suggerì lei i numeri utili, intendo si spiegò meglio è una città abbastanza tranquilla, ma non sai mai quando potrebbero tornarti utili continuò, prendendo a camminare verso un punto più illuminato della strada e meno centrale. Porse la sua mano verso quella della ragazza, per digitare sul cellulare quelli che per lei erano i numeri da tenere sempre dietro: soccorsi, vigili del fuoco, polizia ecco fatto esclamò, guardandola negli occhi più verdi dei suoi, mentre in lontananza il rumore di una sirena si faceva spazio nel silenzio della notte. Mancanza di soccorso, avrebbero dovuto aspettare l’arrivo dell’ambulanza prima di andarsene, altrimenti avrebbero potuto rintracciare il telefono della ragazza finalmente stanno arrivando, così potremmo andarcene da questo vicolo buio e freddo.. commentò lei, guardando l’inizio del vicolo dove iniziava a riflettersi la luce blu della sirena. Chiesero chi avesse chiamato i soccorsi e cosa fosse successo, confermando entrambe la versione che la donna aveva dato a telefono. Vi ringraziamo per averci chiamati. Adesso potete andare. Le congedarono, mentre Vega si voltava nuovamente verso la sua nuova amica, per ringraziarla di aver tenuto ancora il gioco. Si, meglio andare via da questa zona.. non è tra le migliore e ci sono posti sicuramente più carini dove andare a camminare sorrise, alzando lo sguardo in quello di lei e lasciandosi indietro quel vicolo oscuro. Raggiunsero una zona più luminosa, dove il via vai delle persone era aumentato e si potevano trovare delle panchine. Ne osservò una, fermandosi qualche secondo a riprendere fiato, ancora poco avvezza ad accettare quel senso di inadeguatezza e indebolimento che l’utilizzo eccessivo del suo potere le lasciava. Odiava sentirsi in quel modo Vega, non le era mai piaciuto sentirsi debole ed aveva passato la sua intera infanzia ad oltrepassare i suoi limiti per diventare sempre più forte. Io sono Beatrice. Vide tendersi la mano davanti, curiosa di ancora come la donna fosse al suo fianco. Si chiese se fosse una buona, o semplicemente una stolta. Vega si presentò a sua volta, stringendo con delicatezza la mano della giovane che sembrava essere affusolata e delicata, a differenza della sua piena di calli a causa del lavoro e della moto. Mi hai salvata e trovata a terra, direi che potresti darmi del tu la prese dolcemente in giro, mentre si alzava in piedi decisa ad andare in qualche posto più piacevole se me lo permetti, vorrei offrirti qualcosa da bere per ringraziarti e con l’occasione, mangio qualcosa che potrebbe farmi bene spiegò lei c’è un posto carino a pochi minuti da qui, l’Egon Pub.. ci sei mai stata? chiese lei, aspettando una risposta positiva da parte della donna che non tardò ad arrivare. Sembrava una giovane con un forte senso del dovere e si chiedeva Vega, se non l’avesse scortata fino alla porta di casa pur di assicurarsi che non si fosse sentita nuovamente male. Sembrava dolce, una caratteristica che non era solita notare nelle persone che solitamente la circondavano anzi, quasi tutte le persone a lei vicine erano particolari e facilmente predisposte all’accidia e all’ira. Quantomeno, si rendeva conto che erano tutti più simili a demoni dell’inferno mentre quelle donna, aveva quella delicatezza nella voce e quella luce negli occhi che la rendevano più simile ad un angelo del paradiso. Chissà se fosse stata pura apparenza oppure, se veramente Beatrice era una brava donna.
    Quindi mi è chiaro che tu non sia di Besaid e dall’accento ancora incerto direi che è da poco che ti trovi in Norvegia.. Io sono Irlandese, originaria di una città a poche ore da Dublino ma ormai vivo qua da molti anni raccontò lei, non appena presero posto a sedere in uno dei pochi tavolini liberi all’interno del locale. Cercò di essere gentile, come le diceva sempre Astrid durante le loro sedute e di non fare un interrogatorio all’altro. Non sei sempre sul lavoro Vega, se vuoi provare a conversare con una persona, non puoi fare sempre un interrogatorio e devi anche raccontare qualcosa di te. Crea fiducia. Si ricordò, cercando di aggiustare il tiro ed aggiungendo qualche informazione anche sulla sua vita. Sapeva già cosa prendere Vega, il suo solito gin tonic che era per lei una certezza e qualche stuzzichino salato, ma non voleva mettere fretta a Beatrice così, aprì la lista dei cocktail a sua volta fingendo di leggere in qua ed in là.
     
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    Sorrise appena, rendendosi conto di essere stata un po’ sbadata in quegli ultimi tempi. La donna aveva ragione, certi numeri era sempre meglio averli salvati in rubrica, per qualunque evenienza, soprattutto per qualcuno come lei, che non era affatto pratico di quel posto e che ancora faticava a comprendere alcune parole di quella lingua che non era la sua. Le chiese il suo telefono e le salvò alcuni numeri importanti mentre si spostavano di qualche passo rispetto all’uomo accasciato al suolo. -Ti ringrazio. - le disse, con un leggero sorriso. Trovava strano e gentile al tempo stesso il suo gesto quindi cercò di non farsi troppe domande. Forse era lei a essere un po’ troppo timida, a non essere in grado di aprirsi e fare il primo passo con le persone. Attesero l’arrivo dei soccorsi, per evitare di destare sospetti e dare qualche breve indicazione su ciò che era accaduto, senza tuttavia entrare troppo nei dettagli. Bea non aveva visto molto e si limitò quindi a ripetere ciò che aveva detto al telefono, aspettando che i paramedici mettessero l’uomo su una barella prima di seguire l’altra verso un luogo più tranquillo. La morsa allo stomaco se ne andò insieme all’uomo e all’ambulanza e ne fu subito sollevata. Detestava quella sensazione e ancor di più era difficile da sopportare il fatto di sapere che qualcuno, di lì a qualche giorno, sarebbe morto per circostanze che non le era dato sapere. Avrebbe voluto che sapere quelle cose potesse permetterle di aiutare quelle persone, di rallentare la loro dipartita o magari evitarla. Invece certe cose erano purtroppo inevitabili e lei ne era semplicemente una testimone.
    Si mossero verso una panchina, posta strategicamente al di sotto di un lampione che la illuminava quasi completamente. Si presentò, offrendole almeno un nome con cui chiamarla e l’altra fece lo stesso, dicendo di chiamarsi Vega. Era un nome singolare, che aveva a che fare con le stelle, non le sembrava di averlo mai sentito addosso a nessuno. Non lo disse, preferì tenere quel pensiero per sé per evitare di suonare un po’ strana. Dopotutto neppure si conoscevano. -In realtà non ho fatto molto, ma sì, il tu va bene. - mormorò, con una leggera risata, quando l’altra la invitò a cancellare il tono formale, visto quello che era appena accaduto. -No, non ci sono mai stata. - ammise, senza preoccuparsi però di dare quella notizia. Era in quella città da pochi mesi e ancora non aveva avuto modo di conoscere ogni angolo di quelle stradine. Non era sicura che ci sarebbe riuscita, neppure in un altro anno, anche se la coinquilina aveva iniziato a mostrarle alcuni luoghi caratteristici e imperdibili. -Mi piacerebbe provare un posto nuovo. - aggiunse poi, rialzandosi dalla panchina con una leggera spinta delle braccia, aspettando che l’altra facesse lo stesso e la guidasse verso la loro meta successiva. Non riteneva necessario che Vega le offrisse qualcosa, visto che si era limitata a fare ciò che, secondo lei, chiunque avrebbe fatto, ma preferiva poterla tenere d’occhio ancora per un po’ e accertarsi che stesse davvero bene.
    Camminarono per pochi minuti prima di giungere al Pub. Gli odori al suo interno sembravano invitanti, anche se c’erano così tante persone al suo interno da rendere più complicato riuscire a chiacchierare. Era bello però, la riportò indietro di qualche tempo, alla sua vita negli Stati Uniti. -Ouch, beccata!- disse, con aria piuttosto divertita, quando Vega notò, senza molti problemi, che il suo strano accento indicava in maniera piuttosto chiara che lei non fosse norvegese. Trovò molto curioso che, tra tutte le persone che vivevano in quella città, lei si fosse imbattuta proprio in una che proveniva da un diverso Paese. -Irlandese? Adoro l’Irlanda, ci sono stata una volta, diversi anni fa, per un viaggio. - iniziò, continuando a sorridere con aria felice. Beatrice amava viaggiare, lo aveva sempre fatto, fin da bambina, quando con la sua famiglia si recava in Italia almeno una volta all’anno per andare a trovare i suoi parenti rimasti in patria. -Io invece sono nata e cresciuta a New York. - aggiunse quindi, rivelando la sua provenienza senza tanti giri di parole. -Sono qui da pochi mesi in effetti. Avevo delle questioni personali da risolvere e sarei dovuta stare solo per poco tempo, invece ho ricevuto un’offerta di lavoro, quindi probabilmente mi tratterrò più del previsto. - disse, raccontando forse un po’ troppe cose sul suo conto. Non era stata troppo esplicita, non aveva parlato di Xavier, del divorzio e neppure del lavoro che avrebbe iniziato, ma aveva comunque messo in fila tantissime parole. Probabilmente Vega non era interessata alle motivazioni che l’avevano spinta lì, ma le era venuto spontaneo raccontalo, non aveva neppure dovuto pensarci. -Tu invece? Che cosa ti ha portato qui? - domandò curiosa. Sebbene fosse passato tanto tempo, a suo dire, dal suo arrivo, doveva comunque esserci stato un motivo scatenante, almeno all’inizio e poi qualcosa che l’aveva trattenuta lì, sempre che le due cose non coincidessero.
    Prese il menù tra le mani, cercando di tradurre almeno alcune delle cose, anche se altre le rimasero comunque abbastanza oscure. -Penso che opterò semplicemente per una birra. - disse poi, con un sorriso. Meglio andare sul classico ed evitare drink che contenevano ingredienti che non riusciva a comprendere. -Prendiamo anche qualcosa da mangiare? - domandò poi, sperando in un consiglio da parte sua a riguardo. Dopotutto sembrava anche conoscere bene il locale e quindi sapere che cosa poteva essere più o meno gradevole al palato. -Faccio ancora fatica a comprendere e tradurre tutte le parole, quindi un consiglio sarebbe gradito. - aggiunse, chiedendo quindi in maniera un po’ più aperta un aiuto da parte dell’altra, che invece dopo tutto quel tempo si era ormai ambientata in Norvegia. Una volta deciso attirò l’attenzione di uno dei camerieri con un gesto della mano, cercando di effettuare l’ordine con un norvegese ancora un po’ stentato. Era importante mettersi alla prova però e cercare di usarlo il più possibile, altrimenti non sarebbe mai riuscita a memorizzarlo. -Quanto tempo ci hai messo a imparare la lingua? - domandò curiosa, cercando di usare quel piccolo punto in comune per portare avanti la conversazione. Aveva sempre amato le storie delle persone e conoscere quindi il suo percorso in un mondo completamente nuovo avrebbe forse potuto aiutarla ad ambientarsi più in fretta.
     
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