Being genetically related doesn’t make you family

Elise & Gabriel

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    Correva veloce, come se qualcuno alle sue spalle la braccasse. Sentiva il suo respiro affannoso fare da eco al cuore che batteva veloce nel suo petto, anche lui in fuga da chissà cosa o chissà chi. Si guardò velocemente all’indietro, notando una figura scura, dalla forma animalesca, correre nell’ombra dietro di lei. Accelerò il passo, rischiando quasi di inciampare sui suoi stessi piedi. Un passo, un altro passo. Qualcosa ostruì il suo percorso senza che lo vedesse e si ritrovò a terra, il volto schiacciato contro l’addome di qualcuno riverso a terra. Posò le mani sul pavimento, incontrando una strana sostanza appiccicosa. Quasi scivolò, di nuovo, nel tentativo di tirarsi su per poter osservare la figura. Della bestia dietro di lei non vi era più traccia, il luogo si era fatto silenzioso. Scostò il corpo di lato e un urlo cercò di uscire dalle sue labbra senza che tuttavia fuoriuscisse alcun rumore. Ogni suono sembrava essere stato assorbito da quello spazio illuminato a malapena, solo il ritmo martellante del suo cuore a scandire gli istanti. Si portò una mano alle labbra, spaventata, finendo così con l’imbrattarsi il viso del sangue che aveva tra le mani. Conosceva quella figura, sapeva bene chi fosse, non era la prima volta che tormentava i suoi incubi. La bestia ruggì di nuovo alle spalle, improvvisamente vicina. -Sei stata tu. - un ringhio sommesso che le fece chiudere gli occhi e scuotere la testa. Non voleva essere lì, voleva svegliarsi. Le dita posate sul volto iniziarono a creare disegni rossastri sul suo viso senza un preciso schema. Era stata lei, lo sapeva, eppure avrebbe voluto dimenticare.

    Si svegliò di soprassalto, sollevando il busto dal letto con velocità e portando le mani in avanti, al di fuori del lenzuolo, per verificare che non ci fosse alcuna traccia di sangue su di esse. Il cuore continuava a battere veloce, l’incubo era stato così vivido da sembrarle reale. Erano anni ormai che non lo sognava più, quell’uomo che aveva reso un inferno la sua adolescenza e che lei aveva fatto sparire senza volerlo. Era stato un incidente, una semplice difesa, eppure aveva avuto così paura di quel gesto da compierne uno ancora peggiore, aiutata dal suo migliore amico, che non si era mai tirato indietro davanti a nulla. Spostò il lenzuolo e si mise in piedi, i piedi scalzi si ritrassero appena al contatto con il pavimento gelido. Doveva essere stata l’idea di incontrare quel Gabriel a riportare alla luce quel malessere, il pensiero della vita che avrebbe potuto vivere se soltanto l’uomo con cui sua madre era stata l’avesse voluta. Guardò l’orologio, l’ora del pranzo era passata da parecchio ma lei non riusciva a sentire la fame. Era tornata tardi, intorno alle otto del mattino e dopo una doccia veloce si era messa subito a letto, per evitare di pensare. Si aggirò per la cucina, versandosi un bicchiere di succo di frutta e prendendo un pezzo di pizza avanzata che scaldò al microonde. Non proprio il mix perfetto per una colazione e neppure per un pranzo, ma aveva bisogno di mettere qualcosa nello stomaco per spegnere la nausea dovuta all’incubo e alla sua particolarità, che assorbiva persino le sue stesse emozioni negative, facendola stare ancora peggio. Mancavano poco meno di tre ore all’incontro con lo strano tizio e lei si era già pentita di averlo contattato, di avergli dato quell’occasione di trovarla e conoscerla. Ne aveva parlato con i suoi amici, per avere il loro punto di vista dopo quello di An. Eld aveva supposto che se lavorava alla Radio poteva essere un riccone a cui avrebbe potuto scroccare qualche soldo e magari per quello poteva dargli un’occasione. Eyr invece era stato molto più restio, lui più di tutti aveva cercato di convincerla a cambiare idea, facendo presente che era una pessima idea e che lui non meritava affatto di incontrarla. L’avevano lasciata indietro, non avevano il diritto ora di cercare di riprendersela. Era stata la gelosia forse a parlare ma Elise sapeva che lui aveva ragione, la pensava esattamente allo stesso modo.
    Aveva cercato di mostrarsi sicura, tranquilla, eppure la verità era che aveva paura. Era per questo che si era presentata a casa di Arden, con il suo atto di nascita e i pochi altri documenti che aveva trovato, nella speranza che l’amica potesse rasserenarla. Tra tutti lei era quella che si intendeva di più di questioni legali, anche se quello non era strettamente il suo campo. Arden era quella sveglia, Elise lo aveva sempre pensato, lei avrebbe saputo cosa fare se quello strano tizio si fosse presentato alla ricerca di denaro o chissà cos’altro, l’amica l’avrebbe indirizzata sulla giusta strada ed era per questo che gliene aveva parlato, ammettendo tutte le sue paure d’un fiato, alla ricerca di un po’ di conforto. Era raro che Elise lo chiedesse, preferiva sempre fingere di stare bene, scappare dai problemi, evitarli, ma quella volta sapeva che, se non si fosse mossa lei per prevenirli, avrebbero potuto sommergerla, soprattutto ora che Karen sembrava stare così male, non sapeva se sarebbe durata ancora a lungo. E allora lei come avrebbe risolto da sola i problemi che sua madre aveva seminato lungo il cammino? Non sapeva cosa aspettarsi da quell’uomo se non guai. Si aggirò per la casa come un’ombra, andando avanti e indietro, cercando di calmarsi. Non voleva mostrarsi nervosa, lo strano tizio non si meritava neppure quello.
    Non mise molta cura nel vestirsi per quell’appuntamento, non voleva fare una buona impressione, voleva solo che le dicesse che cosa voleva e che poi sparisse dallo stesso posto da cui era spuntato, lasciandole vivere la sua vita in pace, ora che lei sembrava essere riuscita a trovare un po’ di equilibrio. Indossò un paio di shorts di jeans e una canottiera rosa antico con delle sottili righine bianche, catturò i capelli in uno chignon e arraffò la sua borsa, buttandoci dentro un po’ di cose a caso: il telefono, le chiavi di casa, un pacchetto di patatine, le cuffiette per ascoltare un po’ di musica e altre cianfrusaglie che c’erano sparse sul tavolo. Prese anche una copia dei famosi documenti, in caso fosse servita e poi chiamò un taxi. Non aveva voglia di camminare fino al parco, quella sera voleva soltanto chiudere gli occhi e risvegliarsi dopo l’appuntamento, senza saperne nulla. Ma stava crescendo, non poteva più comportarsi così. Una volta giunta davanti all’ingresso del parco, alle 18.40, prese il telefono dalla borsa, cercando nella rubrica il nome di Eyr. Aveva bisogno di compagnia e lui era quello di cui sentiva di avere più bisogno in quel momento. Avanzò mentre il telefono squillava e lei contava gli squilli che la dividevano dalla sua voce. Passò di fronte a una panchina con delle scritte bianche e sorrise appena. Ricordava ancora il giorno in cui lei le aveva fatte mentre si trovava lì con la sua migliore amica. Era incredibile che nessuno l’avesse pulita da allora. Aveva tanti bei ricordi di quel parco, così come altri brutti, come quelli in cui si recava lì da sola per isolarsi dal mondo, sotto la pioggia battente. Quelli che ricordava con più piacere però erano i gelati a metà, quelli che divideva con Arden perché i soldi a disposizione per due gelati non bastavano mai, non a due bimbe come loro. Allora si accontentavano della metà di uno, che a chiunque sarebbe sembrato davvero poco, ma per loro due insieme era molto più di quanto potesse sembrare. -Cazzo ce ne hai messo di tempo! - protestò, quando finalmente l’amico rispose, riscuotendola dai suoi ricordi d’infanzia. In realtà probabilmente doveva averci messo solo qualche secondo, ma l’ansia glieli aveva fatti sembrare un’eternità. -Secondo me non verrà. - disse, ad un tratto, come colta da un’illuminazione di particolare importanza. Sperava che non venisse, con tutte le sue forze, avrebbe reso tutto sicuramente più semplice.
    Si accomodò su una panchina, la spalla tirata in su, verso il suo orecchio., affinchè la voce di Eyr continuasse ad accompagnarla per tutto il tempo. Posò la borsa sul metallo freddo, scavando all’interno alla ricerca di un pacchetto di sigarette. Ne prese una e la accesa, aspirando una profonda boccata. -Avevi ragione tu, non dovevo venire. Non avrei neppure dovuto scrivergli. - borbottò, lasciando intravedere nel tono di voce la paura e l’agitazione che le stavano facendo tremare le mani. Un sorriso divertito le colorò le labbra quando l’altro le rispose una cosa come Io ho sempre ragione. Parlare con Eyr la calmava perché lui in fondo non cambiava mai, era un punto fisso, certo, all’interno della sua esistenza, qualcuno senza il quale non avrebbe saputo come sopravvivere. Una boccata, un’altra ancora, accompagnate dal silenzio dove entrambi potevano sentire solo i loro respiri. Non avevano sempre bisogno di riempire lo spazio, a volte a lei bastava sapere che era lì, anche se non le era vicino. Aprì le labbra per mormorare qualcosa, ma una figura in lontananza catturò la sua attenzione. -E’ arrivato. Devo andare. - mormorò, a bassa voce, senza tuttavia ancora interrompere la chiamata. -Lo so che sei arrabbiato, ma le cose non cambieranno. Siete voi la mia famiglia. - aggiunse e solo allora premette sul tasto rosso, prima che l’altro potesse rispondere. Quando diceva quelle cose, quando riusciva ad aprire il suo cuore, non voleva mai una risposta, spaventata che fosse diversa da quella che lei avrebbe voluto. Ripose il telefono nella borsa, buttando a terra la sigaretta ormai quasi finita per poi schiacciarla con la scarpa. Prese un profondo respiro, mentre ragionava sul da farsi, visto che lui non poteva certo conoscere il suo volto. Si alzò in piedi con poca voglia, sollevando in aria un braccio, per attirare la sua attenzione, per poi risedersi sulla stessa panchina e cercare un’altra sigaretta. La accese di nuovo, osservando il piccolo cerchio rosso alla sua estremità. -Pensavo non saresti venuto. - ammise, semplicemente, puntando lo sguardo scuro su quello dell’altro, sforzandosi di convincersi che, no, non si somigliavano affatto.
     
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    Sakura Blossom

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    Gabriel Asier Mikkelsen

    On Air.
    La luce rossa era accesa, voleva dire che nella sala era in corso il programma radiofonico. Gabriel si affacciò dal vetro dell’acquario facendo un cenno di saluto al conduttore, poi proseguì lungo il corridoio dalle pareti grigie tappezzate di foto dei membri di Radio Besaid 1 con gli ospiti più prestigiosi che avevano messo piede lì dentro. Si soffermò ad osservare la sua foto accanto a una giovane cantante norvegese dai capelli biondi di cui gli sfuggiva il nome, accarezzò il vetro della cornice sfiorando piano il viso di lei. Gli ricordava una persona che aveva cercato di dimenticare negli ultimi anni annegando il dispiacere in un numero incalcolabile di bottiglie di vino, il tipo e la qualità erano di scarsa importanza, l’unico obiettivo era smettere di sentire. Per un lungo periodo il suo cervello era stato irrorato dall’alcool, Gabriel non aveva voluto saperne di tornare sobrio e di affrontare la realtà come l’adulto che avrebbe dovuto essere, si era crogiolato in un angusto angolo oscuro della sua anima. Era rimasto seduto lì per tanto tempo, circondato da bottiglie vuote di ogni forma e dimensione, le aveva osservate per mesi con un buffo senso di affetto, come se fossero compagni di bevute crollati dopo una serata intensa. Sorrideva nel buio, i suoi denti bianchi illuminavano quel antro minuscolo, erano l’unica fonte di luce lì dove lo spazio non aveva consistenza. Ogni tanto gli pareva di scorgere un paio di piedi scalzi e poi quel viso così simile a quello della ragazza nella foto, quelle fugaci apparizioni amplificavano il senso di solitudine nel suo petto, e allora giù un’altra bottiglia di vino e un’altra ancora fino a crollare senza sensi. Solo per un istante a Gabriel parve che il volto della cantante si deformasse in quello di lei, così scosse la testa per riscuotersi da quei pensieri che infestavano la sua mente.
    ’Smettila, non è Aleksandra.’
    Si scrollò di dosso i ricordi come un granello di polvere sulla spallina della sua giacca griffata, allontanò la mano dalla foto e proseguì verso la sala riunioni come se quell’interruzione non fosse mai avvenuta. Si fermò davanti alla porta chiusa sui toni del grigio scuro e dell’argento, si accertò che non ci fosse nessuno attorno a lui, poi schioccò le dita e attese.
    ”E’ in ritardo come sempre, a quel Mikkelsen piace farsi aspettare.” riconobbe subito la voce aspra del direttore di Besaid News, il telegiornale trasmesso sul canale principale della città.
    ”Avrà le sue buone ragioni.” lo difese Sander, il suo fedele e zelante vice direttore, lo aveva scelto proprio per quelle qualità, gli parava le spalle ogni volta senza mai esitare.
    ”E’ talmente sexy che può fare come gli pare per me…” solo un sussurro, talmente flebile da risultare di difficile comprensione. Doveva trattarsi della segretaria del direttore di Besaid News, ma Gabriel non ci avrebbe messo la mano sul fuoco, aveva davvero faticato a decifrare le sue parole. Un sorriso divertito gli attraversò le labbra sottili, con quel ghigno paraculo, come lo avrebbero definito molti, aprì la porta senza annunciarsi per poi richiudersela alle spalle. Attraversò la sala in silenzio e prese posto a capotavola come faceva sempre, appoggiò al bracciolo della sedia la sua ventiquattrore in vera pelle, poi dopo aver tirato fuori alcune cartelline sottilissime al punto da sembrare vuote, sollevò lo sguardo sui presenti.
    ”Buon pomeriggio a tutti voi, benvenuti a Radio Besaid 1.” i suoi occhi scannerizzarono tutti i presenti, soffermandosi un istante in più sull’unica donna nella sala, aveva azzeccato era proprio quella segretaria un po’ troppo giovane per Herman di Besaid News, ma lui non era nessuno per giudicare. Col suo lavoro aveva visto e sentito davvero di tutto, dalle accoppiate più strane alle situazioni più bizzarre e impensabili. Ancora ricordava quella volta che nello spazio riservato all’attualità nel suo canale radio avevano parlato di un ragazzo che faceva esperimenti su se stesso, tutti i giorni diceva di ingerire delle compresse invisibili che lo avrebbero reso immortale, aveva nella sua camera da letto una serie di ingredienti (ovviamente invisibili) con cui fabbricava da solo il suo elisir di lunga vita. La notizia era uscita allo scoperto perché il ragazzo aveva iniziato a vendere le sue compresse online, inviando pacchi con contenitori vuoti a coloro che pagavano cifre assurde per stringere tra le dita solo dei pezzi di polistirolo che servivano a non far rompere la merce preziosissima. Un pazzo o un furbo? Ad oggi ancora non avevano sciolto il mistero visto che il suo processo e i controlli psichiatrici erano ancora in corso. Secondo Gabriel quelli che dovevano essere esaminati veramente erano i clienti, per quale motivo comprare delle compresse dichiarate invisibili anche sul sito web dell’inventore? Cosa si aspettavano un miracolo? Una conversione di materia? Oppure la combo peggiore curiosità e soldi da sprecare? Tutte le opzioni erano senza senso per lui, ma quello non poteva di certo trasmetterlo alla radio.
    ”Signori e signore, prima di iniziare la riunione vorrei fare un riassunto degli argomenti che affronteremo e offrirvi una tazza di caffè per restare svegli fino alla fine.” l’ultima parola la disse con una particolare sfumatura di enfasi, sollevò lo sguardo verso l’orologio dalla forma triangolare sulla parete opposta alla sua posizione, erano le 16.00, c’era ancora tempo. Aveva un appuntamento quella sera a cui non poteva mancare, non era riuscito a togliersi quel pensiero da quando gli era arrivato quel SMS da un numero sconosciuto. Un tassello della sua vita che aveva evitato per anni aveva bussato alla sua porta, anche se doveva ammettere che era stato lui a presentarsi nella sua città e nel suo territorio, raccontando a chiunque potesse sembrargli una pedina utile per contattarla che aveva una sorellastra. L’altra Mikkelsen aveva colto il suo messaggio e lo aveva contatto inaspettatamente, pensava che l’effetto sorpresa fosse dalla sua parte, invece lei aveva fatto la prima mossa. Chissà se si somigliavano o se l’unica cosa che avevano in comune era il DNA. Avrebbe preferito indugiare ancora qualche istante tra i suoi pensieri carichi di curiosità, ma il lavoro e la voce di Herman lo richiamavano insistentemente alla realtà.
    ”Cominciamo.”

    Quanto diamine era durata quella riunione? Gli ultimi minuti avevano ticchettato nella sua testa come una lancetta che colpiva in continuazione i suoi pensieri facendoli oscillare da una parte all’altra senza controllo. Gabriel aveva odiato ogni singolo secondo di quella sensazione irritante, non gli piaceva quel senso di agitazione immotivato, stava per incontrare una ragazzina a quanto ne sapeva. Assunse un’espressione composta e professionale quando arrivò davanti all’ingresso del parco, come se stesse per fare un colloquio di lavoro. Avanzò con andatura lenta, come se non gli importasse di arrivare presto al punto dell’appuntamento, anzi quando notò la ragazza con la canotta rosata che lo salutava rallentò ulteriormente. Si fermò davanti a lei sfoderando il suo sorriso più carismatico, ”si possono dire tante cose di me, ma non che sia uno che non rispetta i propri impegni. E’ un piacere conoscerla finalmente, se per lei va bene potremmo darci del tu… tra fratelli…” la sua voleva essere una battuta sagace per rompere il ghiaccio, ma dopo averla pronunciata si rese conto di quanto suonasse inquietante e stupida allo stesso tempo. Si accomodò accanto alla giovane notando a tratti i dettagli del suo abbigliamento, come se ad ogni battito di ciglia scattasse una polaroid. E così quella era l’altra Mikkelsen, non gli sembrava così simile alla propria immagine riflessa allo specchio ogni mattina, forse il naso era appena simile a quello di suo padre, per il resto gli sembrava solo una scappata di casa. Non aveva scelto un outfit consono a un incontro come quello, si trattava pur sempre di fare bella figura agli occhi degli altri, le apparenze erano importanti per Gabriel, secondo lui la prima impressione sopravviveva anche troppo a lungo nella memoria delle persone per non essere sempre presentabile. Notò il mozzicone di sigaretta a terra e, come se le due cose fossero strettamente collegate, percepì l’odore di fumo sulla sua pelle, nessun retrogusto di menta come le sue che teneva ben strette in un piccolo astuccio d’argento che aveva comprato in un negozio di antiquariato. Ogni volta ne accarezzava piano la superficie pensando a chi avesse posseduto quel piccolo oggetto in passato e che tipo di sigarette o sigari ci tenesse dentro, quella fissazione per le cose usate gli era rimasta incollata sin da quando era bambino e viveva in una casa di seconda mano a Oslo. Un brevissimo lampo della sua attuale abitazione full optional in stile moderno gli attraversò la mente, oscurando la sua vecchia cameretta da rottamare a casa dei genitori. Un mezzo ghigno gli attraversò le labbra, ma sparì con la stessa velocità con cui apparve. Si schiarì appena la gola, come a voler riportare il suo corpo alla realtà, appoggiò la sua ventiquattrore tra lui e la ragazza, mettendo un divisorio simbolico.
    ”Per messaggi non ci siamo presentati, anche se suppongo che tramite i nostri contatti remoti entrambi sapremmo già come chiamarci. Giusto per formalità, io sono Gabriel Mikkelsen.” allungò una mano verso di lei senza distendere completamente il braccio, come aveva detto era solo una formalità, la parte più complicata e assurda di quella situazione ancora doveva arrivare. Aveva provato il suo discorso un paio di volte davanti allo specchio e dire ”Ciao, sono Gabriel Mikkelsen, tuo fratello” suonava davvero orribile e poco veritiero, in realtà faceva molta difficoltà a rendere concreto dentro di se’ il tradimento di suo padre. Finché non si era ritrovato davanti a Rose, questo era il nome che gli era stato riportato, era riuscito a fingere che fosse tutta una sua invenzione, che il suo mondo fosse intoccabile da certe verità. Invece guardare quegli occhi indagatori lo faceva sentire scomodo più di quanto potesse immaginare, ma non glielo avrebbe detto di certo.
    ”Direi di non girarci troppo in torno, sarebbe solo nocivo per entrambi, i voli pindarici mi bastano quando lavoro. Mio padre ha raccontato a me e mia madre del suo tradimento con una donna di nome Karen. Ora, tu dovresti essere il frutto dei suoi lombi a quanto pare. Il naso sembra il suo, volendo anche i capelli mi ricordano quelli di Karl, per il resto un test del DNA farà al caso nostro se per te va bene. Ovviamente lo farò anche io.” parlava mantenendo la posizione eretta e composta, non un accenno di esitazione nelle sue parole, come se non ci fosse nulla di sconvolgente nel chiedere un esame del genere a una persona che aveva incontrato da pochi secondi. Era fatto così, il mondo non era altro che un insieme di fatti empirici secondo lui, tutto il resto era una perdita di tempo. ”Suppongo che tu abbia delle domande, delle perplessità, aperto ad ogni domanda.” le aveva appena detto la stessa frase che propinava ai suoi ospiti ancora in dubbio su una eventuale collaborazione con Radio Besaid 1, "per spezzare l’atmosfera strana di questa situazione che ne dici se ti offrissi un hot dog? Io non tocco cibo da stamattina, quindi ne prendo sicuramente uno per me. L’offerta è valida a tempo limitato perché ho davvero un certo languore da soddisfare.” si alzò in piedi prendendo la sua ventiquattrore per abitudine, diceva sempre che temeva che prima o poi sarebbe diventata a tutti gli effetti un’estensione naturale del suo braccio. Rimase fermo in attesa di una sua risposta sfoderando ancora una volta uno dei suoi sorrisi carismatici, sperando che servisse a qualcosa in quella situazione che lo faceva sentire come se fosse seduto su una panchina ricoperta di tanti piccoli sassi. La osservò un po’ meglio ora che aveva sganciato la bomba del test del DNA, aveva dei bei lineamenti ed una corporatura minuta che la rendevano aggraziata apparentemente, anche se il suo abbigliamento lasciava a desiderare. ”Quindi? Hot dog per uno o per due?” aveva fretta, fretta di respirare per una manciata di secondi lontano da lei.
    ’L’altra Mikkelsen…’

    Edited by Aruna Divya - 7/2/2022, 14:42
     
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    Era agitata. Per tutto il tempo in cui aveva atteso, seduta su quella scomoda panchina, le sue dita non avevano smesso per un istante di tamburellare contro le sue gambe. Stare al telefono con Eyr, parlare, esprimere a qualcuno la sua frustrazione, aveva aiutato un po’, ma quando lo strano tizio si era trovato a pochi metri da lei, quella strana sensazione di fastidio era tornata di nuovo a galla. Si sentiva in bilico, ancora una volta, tra tante Elise diverse. Era stata una vita di emozioni contrastanti la sua, di desideri che raramente si erano realizzati. Ricordava ancora quando, da bambina, restava ferma davanti alla finestra, con i gomiti appoggiati sul davanzale e il mento sulle mani, a sperare che qualcuno arrivasse e la portasse via. Tante volte aveva provato a chiedere a Karen di suo padre, ma lei non aveva mai voluto parlarne. Si era convinta che fosse morto, sparito chissà dove. Aveva persino creduto di non averlo mai avuto davvero un padre. I tanti uomini della vita di sua madre avevano provato a prendersi quel ruolo, a offrirle una figura paterna, ma nessuna aveva funzionato davvero. Anzi, qualcuno si era spinto ben oltre ciò che sarebbe stato consentito a un padre. Eppure era sopravvissuta, se ne era fatta una ragione, si era costruita la sua personale rete di affetti che lei considerava la sua famiglia. Una famiglia diversa da quelle normali, in cui ogni membro era costituita da un esponente di linee di sangue diverse. Era però una bella famiglia, funzionava a modo suo e lei ne era stata felice, aveva trovato la sua forma di equilibrio, un po’ di tranquillità in mezzo a tutto quel trambusto. Poi, all’improvviso, ecco arrivare quel tizio, e scombinare di nuovo tutte le carte in tavola, costringendola a riportare a galla pensieri e avvenimenti che credeva di aver ormai sepolto per sempre. Non si illudeva però. Sapeva che lui non era lì per restare, che doveva esserci qualcosa sotto. Tutti volevano sempre qualcosa, lo aveva imparato a sue spese quando non era altro che una ragazzina e da allora quell’insegnamento le era rimasto impresso, impossibile da dimenticare. Le cose belle capitavano sempre e solo a chi non ne aveva bisogno e lei al lieto fine aveva rinunciato da molto tempo. Lo strano tizio doveva essere lì in cerca di qualcosa, magari degli oggetti che sua madre si era portata via, magari della promessa che lei non lo avrebbe mai cercato, che non avrebbe mai tentato di avere dei contatti, di conoscere quel padre che non aveva mai avuto. Uno spreco di tempo, visto che lei non si era mai preoccupata della sua esistenza.
    Inarcò un sopracciglio nell’osservarlo. L’abito elegante che indossava lo faceva apparire ancora più ridicolo, con quel sorriso smagliante di chi sembrava sempre aver avuto tutto dalla vita. Una leggera scossa le percorse il corpo, mentre una sottile rabbia iniziava a farsi largo dentro di lei. Deglutì, ricacciandola indietro. Non era il momento di perdere il controllo, non con lui. Non si meritava neppure quello, di vederla crollare, arrabbiarsi, mostrargli qualcosa di vero. Osservò ogni suo passo con le mani dentro le tasche di quei pantaloncini un po’ sbiaditi. Aveva scelto il suo vestiario con una certa attenzione, prendendo tutto ciò che di meno idoneo a un’occasione come quella poteva avere nell’armadio. Non voleva conoscerlo, non voleva che lui conoscesse lei e voleva che fosse evidente. Loro non erano una famiglia e non lo sarebbero mai stati. Inutile girarci attorno. Continuò a squadrarlo, inarcando il sopracciglio con aria indispettita alla sua prima battuta. Sembrava uscito da un film scadente, uno di quelli dove il tizio crede di mostrarsi terribilmente affascinante con delle frasi che nessuno, in nessuna circostanza, avrebbe mai detto davvero. Quella sua eccessiva formalità, poi, iniziava già a darle i nervi. -Non avrei fatto diversamente, in ogni caso. - rispose soltanto, quando lui le chiese di poterle dare del tu. Lei non si era neppure preoccupata di chiedergli se la cosa gli andasse bene o meno. La formalità non le interessava in un momento come quello. Voleva solo che si sbrigasse a chiarire le sue questioni e che la lasciasse tornare alla sua vita, il prima possibile. Quell’incontro era solo una perdita di tempo, un puntino nero da eliminare il prima possibile, per evitare che potesse farle del male. Non gli disse che anche lei era felice di vederlo, non sarebbe stata la verità. Si sedette accanto a lei, osservandola con attenzione e lei puntò lo sguardo dritto su di lui, per niente a disagio. Era stata in situazioni ben peggiori e decisamente più spaventose, un damerino da nulla non l’avrebbe messa in crisi. O almeno questo era ciò che si sforzava di pensare.
    Rimase in silenzio, in attesa della sua mossa successiva. Le braccia incrociate davanti all’addome in una posizione di chiusura ben definita. Si era pentita di essere lì. Desiderava alzarsi da quella panchina, dargli le spalle e andare via, tornare alla sua vita e fingere di non averlo mai incontrato. -Elise. - disse soltanto, osservando la mano dell’altro, tesa verso di lei. Non gli disse il suo cognome, o meglio, quello di sua madre. Dubitava che potesse avere davvero un’utilità. Se sapeva di lei, dopotutto, doveva sapere anche di sua madre. Arricciò appena le labbra, tuttavia nell’allungare la sua mano, sfiorando appena quella dell’altro, senza tuttavia stringerla davvero. Non sapeva a che gioco stesse giocando, ma non le piaceva. Voli pindarici, diamine, ma come parlava? -Cavolo, sei sempre così noioso? O è un trattamento di favore? - domandò, lasciandosi andare a uno sbuffo contrariato, prima di ascoltare il resto del suo discorso e tutti gli elaborati paroloni che aveva cercato per esprimere un concetto in realtà molto semplice. La sua mente si ancorò però a due pensieri: test del DNA, Karl. Quindi era quello il nome di suo padre? Non aveva letto con cura il foglio del suo certificato di nascita quando glielo avevano consegnato, aveva fatto leggere ad Arden solo le cose importanti, tralasciando il resto. E poi, che diavolo centrava il test del DNA? Davvero si era spinto sin lì solo per quello? Che cosa voleva dimostrare? Rimuginò su quei pensieri, mentre lui continuava a parlare, chiedendole se avesse delle domande da fargli, delle perplessità. Parlò ancora, offrendosi di comprare un hot dog per entrambi, per smorzare la tensione di quella situazione, visto che aveva una certa fame. Assottigliò gli occhi a due fessure poco convinte: che cosa stava cercando di fare esattamente? Faceva delle sparate assurde e poi provava persino a fare il simpatico?
    -Non posso mangiare, a breve devo lavorare. - disse quindi, rifiutando la sua offerta di cibo e di pace. Non era da lei rifiutare del cibo spazzatura, Eld si sarebbe messo le mani nei capelli se lo avesse saputo, ma quel tizio non gliela raccontava giusta e non voleva quindi niente da lui. Non le piaceva avere debiti, neppure se si trattava di un semplice panino. -E, ad ogni modo.. non mi interessa del tuo stupido test del DNA. Qualunque sia il risultato non cambierebbe le cose per me. - aggiunse quindi, mettendo subito in chiaro la situazione, mentre se ne stava seduta ancora per un po’ su quella panchina, guardando la figura slanciata di lui di nuovo in piedi, davanti a lei. Sembrava un uomo affascinante visto da quella prospettiva, qualcuno che, forse, in un passato molto remoto, le sarebbe piaciuto conoscere. Ma quel treno era ormai partito e lei non aveva intenzione di rincorrerlo. -Ho controllato il mio certificato di nascita e il tuo, e purtroppo sì, il nome e i dati del padre risultano in comune. - disse ancora, svelando solo in quel momento di aver già fatto le sue ricerche, prima di contattarlo. Non lo avrebbe fatto se non fosse stata certa che lui poteva avere qualcosa da chiederle. - La verità è che non mi importa di te, né di tuo padre o di nient’altro. - continuò, stando ben attenta a dire quel tuo padre, visto che di certo non avrebbe potuto considerare padre uno sconosciuto. -Non ho mai avuto una famiglia eppure sono cresciuta comunque. Quindi di certo non mi interessa iniziare ora ad averne una. - asserì diretta, forse persino un po’ troppo scontrosa nei confronti di qualcuno non aveva ancora mostrato di avere cattive intenzioni. Ci teneva però a chiarire il suo punto di vista. -Ho avuto i miei problemi e me la sono cavata da sola, senza di voi. Quindi non interessate granchè ora che me la cavo abbastanza bene. - spiegò ancora, mettendosi finalmente in piedi anche lei, le mani sui fianchi con una posa visibilmente irritata. Aveva iniziato a parlare senza quasi rendersene conto. Avrebbe voluto rovesciargli addosso tutta la sua rabbia, tutto ciò che avrebbe sempre voluto dire a quel padre che non c’era mai stato, ma non avrebbe cambiato le cose. - Quindi, l’unica cosa che mi interessa è: perché sei qui? - domandò, cercando di essere il più diretta possibile. -A parte che per quello stupido hot dog, si intende. - continuò, citando in maniera sarcastica la sua proposta di poco prima. - Che cosa vuoi? Karen ti deve dei soldi? Perché in quel caso, sono problemi suoi, non miei. I miei soldi me li guadagno da sola da tempo, senza il suo aiuto. - terminò, per poi tirare fuori il pacchetto di sigarette dalla sua tasca, accendendone velocemente un’altra. La portò alle labbra e la accese, aspirando una prima liberatoria boccata. Puntò di nuovo lo sguardo in direzione del tizio, Gabriel. Non aveva idea di come avrebbe preso quel discorso e neppure le importava. L’unica cosa che voleva era eliminare quel problema prima ancora che diventasse reale.
     
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    Gabriel Asier Mikkelsen

    Nella sua testa aveva immaginato quell’incontro più e più volte, in alcuni scenari aveva preso uno schiaffo in faccia, in altri invece un tenero abbraccio. Da come stava andando la situazione in quel momento non era certo di come sarebbe andata a finire, Elise sembrava molto diffidente, non che avesse completamente torto, ma non potevano scappare dagli errori dei loro genitori. Gabriel ci aveva provato per molto tempo a non affrontare il fatto che esistesse una ragazza che condivideva con lui il DNA paterno da qualche parte in Norvegia, poi aveva scoperto dove viveva e aveva scelto la sua città natale per trasferirsi e trovare la pace che ad Oslo aveva perso. Osservò con la coda dell’occhio le braccia ben incrociate al petto di Elise, gli stava palesemente dicendo che non voleva avere nulla a che fare con lui, ma lui era dell’idea che dovevano darsi un’occasione prima di sbattersi la porta in faccia, certo se si fosse vestita in maniera più appropriata Gabriel avrebbe fatto meno fatica a restare seduto al suo fianco, ma per un primo incontro non poteva pretendere molto. ”Elise, Rose, quanti nomi hai? Chi mi ha raccontato di te non aveva detto che avessi due nomi, touché.” ritirò indietro la mano che la ragazza aveva a malapena sfiorato, come se avesse avuto la forma di peste più contagiosa esistente al mondo. Gabriel aggrottò appena la fronte pensando che avrebbe rimproverato quel barista incompetente di un Lars Olsen che non gli aveva dato le informazioni complete sulla sua sorellastra, lui non era uno che andava impreparato agli incontri, di solito si ritrovava ad avere sempre l’asso vincente nella manica, invece in quel momento era stato colto di sorpresa, cosa che non gli piaceva affatto. Ragguagliò Elise sul suo desiderio di effettuare un test del DNA per essere sicuri di non aver preso un abbaglio, anche se i suoi poteri non sbagliavano mai, aveva origliano decine di abitanti di Besaid prima di esporsi in maniera programmata per far spargere la voce sulla loro parentela. Gabriel era diventato piuttosto bravo ad intessere ragnatele di chiacchiere nel corso degli anni, soprattutto da quando aveva acquisito la particolarità che quella bizzarra cittadina aveva deciso di donargli, non avrebbe potuto chiedere di meglio, qualsiasi altra dote sarebbe stata inutile e fuori luogo. Si riteneva estremamente fortunato, aveva notato che molte persone avevano dei poteri che si allontanavano completamente dalla loro personalità e dalle loro necessità, si era chiesto con quale criterio nascessero le particolarità, ma finché poteva padroneggiare la propria non gli interessava davvero. Perché immischiarsi in affari che non lo riguardavano? C’era già quel grattacielo di 47 piani che pensava a sciogliere certi misteri, aveva avuto occasione di incontrarne il padrone durante un evento pubblico, non gli aveva fatto una buona impressione, era certo che dietro quell’espressione sin troppo seria si nascondessero decine o centinaia di segreti. Quel Nikolaj non gliela raccontava giusta, per ora ancora non aveva avuto bisogno di schioccare le dita alla ricerca del suo nome sulle bocche degli altri, ma il futuro era tutto ancora da scoprire.
    ”Scusa, forse non ho sentito bene. Noioso?” arricciò le labbra in un’espressione di perplessità, difficilmente in quella cittadina l’avevano etichettato così, bizzarro, originale, estroso, divertente, estroverso, ma noioso? Nessuno aveva usato un aggettivo così blando nei suoi confronti, un altro punto in meno per Elise dopo l’abbigliamento da scappata di casa, ma lui era un signore e non si sarebbe permesso di dirglielo, magari al prossimo insulto una leggera vena di sarcasmo poteva permettersela. ”Mi riservo il diritto di non commentare, è il nostro primo incontro di famiglia, non vorrei rovinare subito l’atmosfera che mi pare già sufficientemente tesa. E poi perché non puoi mangiare? Che lavoro fai, l’assaggiatrice di qualche pietanza particolare?” quella era un’altra informazione che mancava tra le frecce da incoccare al suo arco, non era riuscito a trovare nessuno che sapesse davvero di cosa si occupasse Elise. In effetti non era da molto tempo che aveva iniziato ad indagare su di lei, aveva avuto paura delle conseguenze se si fossero incontrati prima, soprattutto perché da poco tempo aveva riacquisito il proprio equilibrio personale dopo alcuni eventi che evitava di nominare di proposito e che non avrebbe rispolverato per l’occasione. Il passato era chiuso a chiave da qualche parte, aveva dimenticato di proposito dove avesse messo le chiavi e quale fosse di preciso il cassetto dove aveva riposto i suoi ricordi più bui, non erano più affari suoi ora che aveva l’occasione di vivere come voleva e di stare a chilometri di distanza dalla sofferenza. Se lo ripeteva spesso quando il viso di Aleksandra riaffiorava nella sua mente, scoppiava il ricordo come una bolla di sapone e andava avanti senza turbamenti, come in quel momento. ”Il mio stupido test del DNA ci permetterebbe di essere certi di essere parenti, mi piacerebbe conoscerti Elise in veste di… di sorella.” alzò leggermente le spalle dissimulando una non curanza che non gli apparteneva davvero in quel momento, aveva provato e riprovato nella sua testa discorsi su discorsi da fare, anche difese da possibili attacchi in caso di estrema diffidenza, cosa non troppo lontana dalla realtà. Si accostò appena a lei poggiando entrambe le mani sulla sua ventiquattrore, le rivolse un sorriso accondiscendente comprendendo il suo timore di trovarsi da sola con un estraneo, se era di quello che si trattava. Da un lato sospettava di non piacerle, ma era solo un pensiero remoto. ”Il mondo è pieno di omonimie, in Norvegia potrebbero esserci decine di Karl Mikkelsen, per questo proponevo di utilizzare un metodo vecchissimo, ma pur sempre efficiente.” era testarda quella ragazza, anche un po’ troppo schietta per i suoi gusti, gli ricordava un po’ suo padre con quei modi scontrosi per nascondere le proprie debolezze. La osservò in silenzio mentre scattava in piedi dicendo che non voleva una famiglia e che non le importava nulla di lui, tanto meno di Karl. Lasciò che il silenzio li accarezzasse entrambi per qualche istante, nonostante fosse un uomo adulto certe parole lo toccavano lo stesso, anche se pronunciate da una ragazzina che ancora non poteva chiamare sorella ufficialmente. Non fece trasparire nulla sul viso, l’unica smorfia che si concesse fu un ghigno divertito, come se avesse appena sentito la barzelletta più esilarante di tutte. Si alzò a sua volta raggiungendola e le fece cenno di seguirlo mentre si dirigeva verso il chiosco degli hot dog, anche se aveva rifiutato la sua cortese offerta, il suo stomaco chiedeva di essere riempito.
    ”Devo essere onesto, non ho osato chiedere in giro qualcosa di più oltre le informazioni base su di te. Ora che mi dici che non hai avuto una famiglia mi lasci senza parole, i tuoi sono morti o è come se lo fossero?” lo chiese con la stessa naturalezza con cui si parla del tempo o del cibo, senza abbassare lo sguardo quando i suoi occhi incrociarono quelli di Elise, aveva fame, ma di saperne di più. Non aveva mai avuto problemi ad affrontare gli argomenti più scomodi, non era mai stato come quelli che oltre a “condoglianze” non sapevano cosa dire davanti al dolore degli altri, anzi cercava sempre il modo di far aprire il prossimo, a volte invadendo il loro spazio personale in maniera inopportuna. Ovviamente solo se era qualcosa che davvero desiderava sapere o approfondire, per tutto il resto faceva spallucce e proseguiva lungo la sua strada senza sprecare una sola parola. In quel caso non si sentiva ancora di esprimerlo a voce alta, ma gli importava di quella ragazzina dalla lingua tagliente. La scrutava attentamente di sottecchi mentre camminavano, erano quasi arrivati al chiosco che si trovava a pochi metri dalla panchina alle loro spalle. La vide tirare fuori una sigaretta e tirare una boccata, ancora quella marca poco conosciuta e senza sapore. Sospirò, ma non commentò il fatto che fumasse cose senza personalità, prima o poi le avrebbe fatto provare le sue con quel delicato sentore di menta che levava di dosso l’odore invadente del tabacco misto a nicotina. ”Quante domande tutte assieme. Innanzitutto ti sembro uno che ha bisogno di soldi?” sollevò in aria la sua ventiquattrore di Louis Vuitton con le proprie iniziali in oro incise sopra, come se quella bastasse a rispondere alle sue perplessità. Per chi lo aveva preso? Per una specie di strozzino o per un poveraccio in cerca di qualcuno per mantenerlo? Al massimo lui avrebbe potuto sostentare economicamente entrambi, non il contrario a giudicare dalle apparenze. Fece fatica a non dire quelle cose a voce alta, per evitare di rispondere senza filtri si rivolse all’uomo del chiosco degli hot dog, fissando la macchia di senape sulla sua camicia bianca e rossa come se fosse sangue. ”Salve, vorremmo prendere due hot dog, il mio con molta maionese, grazie. Ah, tenga anche il resto.” lasciò una banconota da 200 corone sul ripiano vuoto a destra e sfoderò un sorriso compiaciuto. Tornò a guardare Elise al suo fianco, stavolta era pronto a parlare senza frecciatine dettate solo dall’irritazione per la lingua tagliente dell’altra Mikkelsen. ”Sono qui per conoscerti, nonostante non mi sembri incline a farlo a tua volta. Non mi servono i tuoi soldi, ho un buon lavoro, ottimo direi. Ci ho pensato a lungo negli ultimi anni, a te e a quello che ha fatto mio padre. Avrebbe dovuto includerti, includervi in qualche modo, invece si è vergognato di ciò che aveva fatto a mia madre. In parte comprendo, in parte non so con che coraggio si sia ripresentato in casa nostra. Fatto sta che ho accettato il tuo invito davvero poco grazioso perché volevo vedere in viso mia sorella, scappare come Karl non è l’esempio che voglio seguire da oggi in poi.” prese i panini e ne allungò uno alla ragazza anche se gli aveva detto che non poteva mangiare prima di lavoro. Addentò il suo stando bene attento a non sporcarsi con la maionese, indossava un completo scuro di Prada, non voleva mandarlo in tintoria dopo due solo giorni di vita nel suo armadio. ”Se poi non lo mangi per davvero, lo mangio io.” sorrise a labbra strette per non far vedere eventuali residui di cibo tra i denti, avrebbe fatto una pessima figura. ”Comunque quella roba che fumi puzza, dovresti provare le mie.” mise sottobraccio la ventiquattrore per prendere dal taschino il suo astuccio d’argento colmo di sigarette alla menta, se le faceva inviare dalla Francia in grandi quantità così da non rimanere senza al momento meno opportuno. Aprì con il pulsantino laterale l’astuccio e lo sospinse verso Elise, non era sempre stato così coordinato e aggraziato Gabriel, se avesse provato a fare tutte quelle cose assieme nell’età adolescenziale si sarebbe ritrovato coperto di maionese sui capelli e con la ventiquattrore spalancata a terra. Sorrise ad Elise mostrandole la fila di denti perfetti, attese la sua mossa, poi ripose il tutto nel taschino per finire in pace il suo hot dog. ”Allora? Lo mangi o no?” terminò il proprio con un ultimo morso e buttò la cartaccia nel secchio più vicino. Gabriel fece un passo verso Elise e poggiò la mano destra sulla sua spalla ossuta, era davvero magra quella ragazza, anche per quello aveva preso lo stesso un panino per lei. ”Magari non è opportuno visto che è solo il nostro primo incontro, ma ho una cosa per te.” lasciò la presa delicata su di lei per cercare una cosa nella ventiquattrore, estrasse quello che sembrava un pezzo di carta, invece si trattava di una vecchia fotografia. Era quella che teneva in camera sua da ragazzino quando viveva coi suoi genitori a Oslo, tutta la famiglia Mikkelsen al completo, Maria, Karl e Gabriel. Strinse le labbra sottili tra di loro, poi allungò la foto ad Elise fingendo non curanza. ”Puoi tenerla, magari sapere che faccia ha tuo padre può farti piacere.” in quel momento l’aria da uomo in carriera era sparita da qualche parte nella sua ventiquattrore mentre cercava quel ricordo cartaceo. ”L’abbiamo scattata quando andavo al liceo, era l’ultimo giorno del secondo anno prima delle vacanze estive. E comunque…” s’interruppe non sapendo bene come esprimere ciò che voleva dire, ”pensaci alla storia del test del DNA. Fammi sapere, sai come trovarmi ormai.” avevano entrambi il numero dell’altro, ma lui era ancora indeciso se modificare il nome da “l’altra Mikkelsen" a Elise, la percepiva ancora come una cosa troppo intima, forse più avanti lo avrebbe fatto. Chissà più avanti quanto tempo era…
     
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    Gli scoccò un’occhiataccia quando lo sentì utilizzare lo pseudonimo che adottava sul lavoro. Non le piaceva che la vita di Rose e di Elise si toccassero e che le due rischiassero di divenire una cosa sola. Si era impegnata molto perché fossero due entità molto diverse. -Quello dipende. Vuoi conoscermi nella mia vita personale o in quella professionale? - domandò, come a fargli capire che, no, non erano affatto la stessa cosa e che anche il suo atteggiamento sarebbe cambiato se avesse deciso di avere con lei un rapporto solo sul piano professionale. Rose era molto più simpatica di Elise e senza dubbio più avvicinabile, ma non altrettanto vera. Forse però sarebbe stato meglio non conoscerlo davvero e allo stesso tempo non mostrarsi a lui per come era davvero. Solo quando lui si mostrò perplesso o forse seccato per essere stato definito noioso un sorrisetto beffardo comparve sul volto di lei. Se c’era una cosa che sapeva di volere era farlo indispettire. Raddrizzò la schiena, fiera anche solo di quel piccolo risultato che aveva ottenuto. -Se tu la chiami atmosfera.. - mormorò, scuotendo appena la testa, per poi rivolgergli un sorriso più largo quando gli chiese le motivazioni del suo rifiuto relativo al cibo. Attese un istante, con il sorrisetto sulle labbra, mentre pregustava l’espressione he avrebbe fatto nello scoprire che, no, non faceva affatto l’assaggiatrice. -No, a dire il vero sono un’accompagnatrice. - mormorò, in tutta tranquillità, come se da un certo punto di vista fosse piuttosto seria della sua professione. -E i miei clienti di solito non sono felici quando mi offrono la cena in un lussuoso ristorante e io non ho appetito. - continuò, mantenendo lo sguardo fisso su di lui, per non perdersi neppure un minuscolo dettaglio dei suoi cambi di espressione. Immaginava che, impettito e abbottonato com’era, non avrebbe accettato di buon grado di avere una sorella he svolgeva un simile lavoro e sperava così di essersene liberata, una volta per tutte. -E poi.. chissà che tipo di acrobazie potrebbe essermi richiesto stasera, meglio non avere lo stomaco sottosopra. - aggiunse, ancora più decisa, nell’evidente tentativo di metterlo a disagio o comunque di dargli il massimo fastidio possibile.
    Lui continuò piuttosto deciso sulla faccenda del test e sulla voglia di conoscerla, ma solo dopo essere stato certo del loro legame. -Oh, sì, certo. Vuoi conoscermi solo se ti sentirai obbligato a farlo perché un test ti dirà che abbiamo lo stesso sangue. - disse quindi, mettendo in chiaro come la vicenda appariva a lei, un legame privo di un vero fondamento, dato solo da fattori esterni di cui a lei non importava affatto. -Questa sì che è proprio un’idea allettante. Un tipo di famiglia che chiunque sognerebbe di avere. - continuò, lasciandosi andare a una leggera risatina, per poi scuotere la testa. Era buffo come le persone volessero sempre qualcosa in cambio per mostrarle un briciolo di affetto. -Sai come la penso io invece? - domandò, lasciandogli qualche momento di tempo per elaborare una risposta, prima di andare avanti. -Test o non test, io e te siamo due estranei e questo non cambierà. - continuò, portando alla luce un punto di vista molto diverso da quello dell’uomo, che comunque fino a quel momento aveva sempre parlato come se, una volta scoperta la verità, dovessero per forza imparare a conoscersi. Si alzò anche lui, dopo lo sproloquio che gli riversò addosso, cercando di mettere in chiaro che loro non erano e non sarebbero mai stati una famiglia. Arricciò il naso, indecisa se opporsi o seguirlo, decidendo alla fine di non lamentarsi ulteriormente, almeno per il momento. Ridusse gli occhi a due fessure quando l’altro gli chiese di più sulla sua famiglia. -Sul serio? Falla un po’ meno teatrale la prossima volta. - si lamentò, prima di sospirare appena, indecisa su cosa dire. -Karen è ancora viva, per ora. E di uomini che volevano essere mio padre ce ne sono stati anche troppi. - disse, come se non le importasse, ma una leggera ombra le oscurò il volto mentre parlava di quegli uomini e ripensava a uno nello specifico, quello che più di tutti si era impegnato, ma nel modo sbagliato. C’erano delle persone che lei chiamava famiglia, ma non avevano nulla a che fare con il tipo di famiglia che cercava lui.
    -Nessuno ti ha spiegato che chi ha soldi non si accontenta mai di quelli che ha? E ne vuole sempre di più? - disse, rispondendo alla sua domanda con un’altra domanda, fatta solo per punzecchiarlo. -Se tu prestassi tutti i suoi soldi e nessuno te li restituisse, non saresti più così ricco. - aggiunse poi, rendendo più esplicito quello che voleva dire. Un debito, dopotutto, era pur sempre un debito. Lo seguì verso il piccolo chiosco dei panini, dove ordinò due hot dog. Mise le mani nelle tasche, osservando i fili d’erba sotto i suoi piedi per qualche momento. Perché continuava a restare lì? Perché non lo aveva ancora mandato definitivamente al diavolo? Solo quando lui si mosse di nuovo sembrò ridestarsi, seguendolo con la coda dell’occhio in un primo momento, per poi iniziare a camminare a sua volta. Le disse che voleva davvero conoscerla, che aveva un buon lavoro e che non gli interessava dei soldi, che aveva pensato molto a lei e a suo padre in quegli anni, prima di decidere di volerla conoscere. Inarcò il sopracciglio sinistro verso l’alto quando lo sentì dire che Karl avrebbe dovuto includerle, lei e sua madre, all’interno della loro vita. Una cosa strana da sentire da parte di uno come lui, una cosa che lei non avrebbe mai potuto pensare. -Bene, ora mi hai vista. Contento? - domandò, trascurando volutamente quel “da oggi in poi” che si era lasciato scappare poco prima. Scosse di nuovo la testa, quando lui le allungò un panino. -Ho un appuntamento tra meno di due ore, non stavo scherzando. E devo ancora tornare a casa per prepararmi. - mormorò, per rendere chiaro che, il lavoro che aveva affermato di svolgere poco prima, era davvero quello con cui si guadagnava da vivere. Osservò l’astuccetto d’argento che sfoderò dalla sua ventiquattrore, per poi offrirle una delle sue bizzarre sigarette. Ne prese una, studiandola con attenzione e cercando di capire che cosa avessero di particolare, riuscendo a sentire un aroma diverso, qualcosa che faceva trapelare il lusso a cui lui doveva essere abituato. -Rose le adorerebbe. - disse, prima di rimettere a posto la sigaretta, parlando del suo alter ego come se si trattasse davvero di un’altra persona. -Lei probabilmente ti piacerebbe. Ma lei non è reale. E’ soltanto ciò che gli altri vogliano che sia. - disse, facendogli intendere che, qualunque cosa i suoi conoscenti gli avessero rivelato sul conto di quella ragazza, non erano che le menzogne che raccontava per svolgere al meglio il suo lavoro. Quasi quasi le dispiaceva per quell’uomo e per la sua voglia di conoscere sua sorella.
    Si irrigidì quando lo sentì posare una mano sulla sua spalla, senza averle chiesto se le stava bene o meno. Lo guardò in tralice prima di muovere qualche passo indietro, allontanandosi da lui. A Elise non piaceva essere toccata dagli estranei. Lo guardò con aria poco convinta, mentre cercava nella borsa ciò che aveva portato per lei, per poi estrarre una foto. Se la rigirò tra le mani, osservando i volti di quelle tre persone. Un ragazzino che somigliava all’uomo che aveva davanti, una donna bella e molto distinta, completamente diversa da come Karen invece appariva e poi un uomo che per certi tratti ricordava il ragazzino e che doveva quindi essere suo padre, quello vero. La osservò per un lungo istante, poi la porse di nuovo nella sua direzione. -No, non mi interessa. - disse, per poi lasciarsi andare a un lungo sospiro, prima di guardare l’uomo di nuovo in volto. -C’è stato un periodo nella mia vita in cui ho sognato questo momento. - mormorò, riportando alla mente i suoi sogni di bambina, i momenti in cui avrebbe voluto essere come tutti gli altri. -Non questo nello specifico, non pensavo che tu esistessi. Speravo che lui sarebbe venuto, che mi avrebbe portato via da quella casa sgangherata, che avrebbe spiegato a Karen come essere la mia mamma. - aggiunse, con lo sguardo perso in un punto non ben definito, come se non stesse neppure parlato di se stessa e del suo passato. -Ma quel sogno di è infranto molto tempo fa, quando ho imparato a cavarmela da sola e ho deciso che la mia famiglia non era fatta da legami di sangue ma da qualcosa di molto più profondo. - spiegò, aspettando che lui si riprendesse la foto. -Ci sono delle persone che mi vogliono bene per come sono, nonostante tutto e sono loro la mia famiglia. - disse, guardandolo di nuovo in volto, trasmettendo tutta la sincerità di cui era capace.
    -Il momento in cui avevo bisogno di voi è ormai molto lontano, sepolto da una vita completamente diversa che tu non potresti mai capire. - aggiunse ancora, con un tono piatto e quasi assente. Non era colpa sua se era nato nella giusta famiglia, dalla giusta parte del mondo. -E’ abbastanza evidente che tu non abbia la minima idea di cosa voglia dire non avere altro che te stesso, non sapere se ci sarà qualcuno ad aspettarti a casa, se l’acqua inonderà ancora la tua stanza quando la pioggia è troppo forte. Non sai cosa vuol dire dover raccogliere gli spiccioli con la tua amica di sempre per poter sapere che sapore ha un gelato. - continuò, rivelando forse troppo tutto insieme, senza neppure volerlo. -Tu conosci un mondo che non è il mio. Quindi torna nel tuo mondo Gabriel. Dimentica di avermi visto, dimentica che io esisto. Perché è quello che farò io quando mi rimetterò sulla strada di casa. - aggiunse, forse un po’ troppo diretta, senza preoccuparsi di suonare insensibile. -La famiglia non è ciò che dice un test, la famiglia è quella che ti sta vicino, quando ne hai davvero bisogno.
    Non c’era neanche più rabbia nelle sue parole, non sentiva quello strano fastidio agitarsi dentro di lei ogni volta che provava risentimento o altri sentimenti negativi. Non le importava. O almeno era questo che lei continuava a ripetersi.
     
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