Please don't leave me here, I don't know myself when you're not around

Eden x Mia || 2.30 del mattino

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    Il tempo non si era fermato ma aveva accelerato, e tre mesi erano passati con una velocità fulminea, spericolata. Gli abitanti di Besaid si erano svegliati, erano andati a lavoro, avevano baciato mogli e mariti, avevano stretto la ungo i figli ai loro corpi, avevano cenato fuori e a casa, erano andati a teatro, al cinema, erano partiti per una vacanza improvvisata, avevano detto di voler bene e l'avevano a loro volta ricevuto. Insomma, la vita era andata avanti in una normalità fatta di scambi interpersonali ma non quella di Eden. La sua stava precipitando a caduta libera.
    Da novanta giorni l'uomo viveva come se all'improvviso avesse perso un braccio o una mano e la sentisse ancora ma, quando la cercava con gli occhi, lì non c'era niente. Aveva ritrovato una parte che credeva ormai irrecuperabile, Beth e sopratutto Timmy avevano bisogno di lui e non poteva tirarsi indietro un'altra volta, non voleva. Ma tenerli nella sua vita costituiva un rischio enorme, indescrivibilmente grande per un uomo coinvolto nei giri più loschi di Besaid, una minaccia da cui aveva passato gli ultimi mesi a difenderli a loro insaputa. La sua vita negli ultimi novanta giorni era diventata ancora più complicata, precaria, e Eden ormai non chiudeva quasi più occhio ma passava le notti a creare orribili scenari nella propria mentre, incubi a occhi aperti nei quali perdeva il figlio ancora ancora e ancora senza che finisse più. In preda alla paranoia, aveva pregato Debbie di far appostare un agente in borghese dovunque Elizabeth e Timmy andassero, ma la cosa era andata avanti per un paio di settimana e poi non era stato più possibile perché gli agenti erano già esigui, quei pochi che c'erano servivano di pattuglia e per coprire i diversi casi. E allora Eden aveva continuato a camminare, a respirare e a parlare - sempre poco, solo quando necessario - ma aveva continuato, sempre con quell'arto, il piede o un pezzo qualsiasi del corpo che a turno scomparivano lasciando un vuoto sempre in posti diversi, ma perpetuo. Quello spazio vagante era l'assenza di Mia, che da semplice interstizio poteva allargarsi fino a dilagare nell'estensione libera tra due organi e, nelle ultime dodici ore ore, a occupare tutto l'apparato scheletrico di Eden.
    La sera prima, all'incirca a quell'ora, Eden stava per oltrepassare quella linea che aveva giurato di non scavalcare mai.
    Una promessa, quella, fin troppo ottimista per uno che viveva come lui. Dodici ore e cinquanta minuti fa, Eden sparava alla gamba di un poveraccio e ora beveva da solo al bancone di una bettola in periferia; dodici ore, cinquanta minuti e trentadue secondi fa le mani che ora stringevano il bicchiere avevano premuto di nuovo il grilletto, la canna della pistola spinta forte sulla fronte dell'altro. E infine, una manciata d'ore prima, Eden si arrogava il diritto di togliergli la vita. Deglutì, i gomiti puntati su bancone e il collo piegato, il mento talmente basso da sfiorare il bordo scheggiato del bicchiere, negli occhi un tripudio di sottili venature rosse, più fitte intorno all'iride lì dove si addensavano. Aveva tenuto duro, Eden, aveva continuato come faceva sempre: a fare il suo dovere. Le tenebre della malattia l'avevano aiutato a non vedere, proteggendolo dal peso di quello che aveva fatto. Ma ora le tenebre battevano lentamente in ritirata e Eden si ritrovava solo a fronteggiarsi. Come poteva sopportarsi senza impazzire? Dopo aver lasciato Frida, l'uomo si era rifugiato a casa per sciacquare via il sangue dal suo corpo, ma dopo un'ora sotto il getto bollente dell'acqua continuava a vederlo ovunque. Imbrattava tutto. Era uscito di nuovo e di corsa, non sopportando l'idea di soffocare fra quelle mura. Forse non sopportandosi e basta. Si era diretto il più lontano possibile, aveva vagato, camminato molto e mangiato pochissimo fino a sera, fino trovare quel bar. Un postaccio per una brutta persona, aveva pensato mentre varcava la soglia e iniziava la caduta libera che l'avrebbe portato a creare più danni che soluzioni.
    Dopo questo basta, ci diamo un taglio. Molte ore e ancora più bicchierini dopo quella voce giunse a infrangere il bozzolo di schifo e dolore in cui si era rintanato e in cui voleva essere lasciato in pace. Non guardò neanche il barista, non sollevò lo sguardo che rimase sulle sue mani, per gli altri pulite e per Eden grondanti sangue. Fece però per afferrare la bottiglia ma il barista oppose resistenza. Bastò quello a farlo scattare. Si alzò afferrandolo per il bavero della maglietta e sferrandogli un pugno sul viso, sentendo le ossa scricchiolare sotto le nocche. Fece un passo indietro sotto shock, rendendosi conto solo in quel momento che quello per terra era solo un ragazzino, non avrà avuto nemmeno vent'anni. Sulla faccia sembrava essergli esplosa una piccola bomba di sangue. Un altro passo, altri due e con il cuore a mille Eden si voltò per uscire di corsa, salire sulla moto e sparire da quel posto. Per andare dove? Corse sull'autostrada senza badare al limite di velocità, la moto come un proiettile impazzito, come la sua mente che stava perdendo contatto con la realtà e lui c'era sopra, non poteva scendere. Si mise anche a piovere ma lui quasi non se ne accorse e percorse a fari spenti chilometri e chilometri di strada con il vento gelido che lo intontiva ancora di più poi. Quando finalmente le ruote si arrestarono, Eden tremava come un arbusto esposto per anni alle intemperie. Quasi cadde nel tentativo di scavalcare con la gamba il veicolo, e rimane per qualche secondo con gli occhi vero l'alto, puntati sulla casa di fronte a lui. L'unico posto in cui forse sarebbe riuscito a ritrovarsi, se non era troppo tardi; lì dentro, l'unica persona in grado di restituirgli la parte migliore di sé. L'uomo salì i tre gradini che davano allo studio e vi bussò contro col palmo aperto, forte per tre o quattro volte nella speranza che in tutto quel buio si accendesse una luce. Anche piccola, piccola come Mia e in grado di illuminare il buio che non gli lasciava respiro. Ma rimase tutto così com'era, sia nello studio sia nella finestra in alto, quella della sua camera da letto, la stessa nella quale tanto tempo prima gli era capitato di addormentarsi. Non aveva idea di che ore fossero, forse le due e mezza del mattino, e quando nessuno risposte scese per andarsi a sedere sui gradini. Piegò le gambe incurvando la schiena e osservandosi le mani, finalmente macchiate. Le passò sui jeans velocemente, quelle mani di mostro, piegando poi gomiti e braccia per poggiarli sulle ginocchia e, subito dopo, riposare la fronte sull'avambraccio. Non avrebbe saputo dire quanto tempo passò, forse pochi secondi che a lui parvero scivolargli sopra come un centinaio d'anni, ma alla fine una luce si accese e lo illuminò da dietro proiettando una silhouette ricurva sull'asfalto. Alzò prima la testa, girando il collo per guardarsi alle spalle e mettersi poi in piedi. Si voltò allora, il buio mangiava l'azzurro dei suoi occhi rendendoli due punti scuri e immobili mentre Eden muoveva qualche passo stanco verso l'uscio.
    Mia era stagliata controluce sulla porta, Eden abbassò lo sguardo per guardare la linea di confine su cui i piedi di lei sostavano. Calzini di spugna spessissimi. La punta di un calore famigliare sfidò il freddo dentro di lui, ma era troppo spesso e lo scalfì appena. Provò ad aprire la bocca, voleva dire qualcosa ma non uscì niente. Fece una mezza smorfia e nascose le mani l'una nell'altra per non far vedere le nocche e il sangue, lo schifo di cui erano ricoperte e che d'improvviso sentì di nuovo insudiciarlo tutto. Ora più che mai ne era certo: aveva fatto bene a cancellare ogni messaggio, a sostare per interi minuti col pollice senza però mai cliccare sul suo nome. Aveva fatto bene a lasciarla andare. Sollevò di nuovo lo sguardo, un groviglio di tantissime cose imbottigliate dentro che volevano venire fuori ed erano a tanto così dallo scoppiare.
    Deglutì forte, rumorosamente, le mani che alla fine si rifugiarono nelle tasche e lì si nascosero, vergognandosi come lui che, al contrario, non aveva più luogo in cui rifugiarsi se non lì, in Mia, pur non avendone alcun diritto.
    Ma gli era mancata come può mancare il fiato, come può mancare sbattere le ciglia. Era strano, inspiegabile, da impazzire. Non era successo niente eppure fra loro sembrava essere già successo tutto; non erano niente ed erano insieme ogni cosa. Come era possibile? Lo fece passare aprendogli un varco nella luce del soggiorno, nella luminosità che Mia era per lui, forse aveva capito che qualcosa non andava, aveva un buon intuito. Eden superò la soglia con la schiena rigidissima, negli occhi cerchiati un vuoto e una paura che lei non gli aveva mai visto. Non l'aveva mai visto così, Mia, quella era una versione più brutta di lui ma forse più onesta, quasi senza veli. Avvertiva il fiato di Ruèn contro la nuca lì dove la peluria leggera era dritta da diverse ore, sempre all'erta, in guardia come a doversi costantemente difendere. Sentiva la morsa chiudersi attorno a lui e quel soggiorno era l'unico posto dove gli fosse venuto in mente di nascondersi, lei l'unica con cui pensava di essere al sicuro. Ma come si scappa da se stessi? Sarebbe stato troppo accollarle il compito di salvarlo? Scostò con le dita una sedia prendendola dallo schienale e tirandola indietro, allora le gambe strusciarono sul pavimento producendo un rumore accappona pelle.

    Si sedette a gambe larghe, un gomito puntellato sul bordo del tavolo e l'altro braccio inerme lungo il fianco, come morto. Si guardava la punta delle scarpe vedendole rosse di sangue, quindi alzò piano gli occhi per puntarli sulla ragazza a pochi metri da lui, l'unica superficie sulla quale le allucinazioni da shock e la sua mente non sembravano avere effetto. Infatti Mia se ne stava lì ferma nei suoi calzettoni morbidi e in un pigiama assemblato da lei, maglietta larga, lunga, e quelli che forse erano leggings in un accostamento un po' selvaggio che in una circostanza diverso l'avrebbe fatto sorridere. Lo fissava con uno sguardo che Eden non riuscì a decifrare ma non si sgretolò in una pozza rosso acceso, il sangue non le sporcò a macchia i vestiti e il viso rimase quello di sempre, pallido pulito e serissimo sotto la frangetta nera come la notte, una di quelle belle di cui non si ha paura. «Kidd--» Uscì pianissimo dalle labbra ma la voce si incrinò con forza, bloccandosi. Se non riusciva neanche a pronunciare quella piccola parola, come avrebbe potuto Eden spiegarle ogni cosa? Serrò mascella e dita delle mani, strettissime come per non cadere in mille pezzi, ma ogni forza cedette quando Mia si avvicinò e lui tese il braccio come per provare a raggiungerla. Allora non ce la fece proprio più. Raddrizzò la schiena mentre si protendeva tutto verso di lei, busto, petto testa e braccia come se stesse per buttarsi da un ponte e la sensazione fu proprio quella. Sperò che Mia lo prendesse per tenerlo stretto. Fu un gesto all'inizio quasi a rallentatore, titubante e insicuro, una vignetta che dall'esterno sarebbe apparsa straziante e necessaria. Uno due tre quattro fotogrammi e la fronte di Eden premette sul petto magro della ragazza, il profumo e il calore di lei lo avvolsero immediatamente facendolo crollare. Finalmente.
    Era incredibile pensare che quella fosse la stessa persona che appena poche ore prima aveva sparato a un uomo nel centro esatto della fronte, irriconoscibile aggrappato a quel modo a Mia, appeso come ci si tiene stretti alla vita. Facendosi piccolissimo, perdendo pezzi di sé che cadevano al suolo insieme al rumore del suo respiro affrettato. Con la tempia e quel lato del viso contro la maglia del suo pigiama Eden sollevò le braccia per stringerle dietro la schiena di Mia, tirandola contro di sé nell'abbraccio disperato di chi si è perso e non riesce più a trovarsi. Mosse il viso spingendolo contro l'addome di lei, il naso piegato in un angolo strano, gli occhi chiusi, palpebre contro tessuto, il respiro spezzato. Le larghe spalle dell'uomo sussultano appena sotto la spinta di un fiato troppo forte, il corpo tremante, le parole incastrate, sigillate dentro di sé. Alcune lacrime silenziose inumidirono le sue guance e il pigiama dell'altra ma forse non se ne accorse nessuno, visto che dai capelli la pioggia aveva già conquistato parte di Mia. «Non so più chi sono.» La voce uscì attutita e lontana, come se non fosse sua. Si sentiva a pezzi, ma finalmente lo spazio tra gli organi tornava a riempirsi mentre lei riaffollava il vuoto di quei tre mesi con lentezza.
    Riaprì gli occhi allora, Eden, ritrovandosi a guardare una porzione di Mia che non aveva mai visto da quell'angolo. Non si erano mai toccati a quel modo prima. Eden l'aveva voluto per così tanto tempo da dimenticarsi quanto, ma l'aveva immaginato accadere in maniera diversa, più felice. Magari dopo un film, forse nel buio del patio dietro casa sua. Non così. Fissò quell'angolo di Mia finché non diventò un unico groviglio che non pretendeva più nulla da lui, nemmeno il gesto elementare di essere riempito di parole sensate. La sua testa era in cerca di altre parole che trovassero senso ma non le intravedeva nemmeno, erano tutte scorrette, tutte parziali. Suonano sempre, in qualche modo, spaventose.
    Le stava contro aggrappandosi a lei con la foga dei disperati, corpo di un uomo che si era accartocciato su di sé, come imploso, senza che lei avesse il tempo di accorgersene.

    Non ho riletto. Luv iu.


    Edited by Dead poets society - 30/8/2021, 22:39
     
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    Una porta che veniva sprangata con forza e attraverso la quale la carica di un'ondata fiammeggiante di rabbia si spinge dentro con ferocia e occupa tutto lo spazio, accecante toglie luce al resto e lascia tutto al buio, senza ossigeno. Così si era sentita lei, Mia, che silenziosamente aveva pensato spesso di non appartenersi poi più così tanto, Mia separata da sé stessa in così tante piccole isole proprio come i ricordi dei singoli momenti trascorsi assieme ad Eden. Alla fine di Mia non era rimasto altro che qualcosa di suo, lontano ora giorni di attesa e notti a guardare il riflesso dei lampioni sulla finestra di una camera sospesa nel silenzio.
    Nel dormiveglia le udiva a distanza ravvicinata, le gocce d'acqua che dal rubinetto scivolavano giù sulla superficie di metallo del lavandino in cucina. Una, due, tre volte, poi di nuovo tornava il sereno. Ad occhi chiusi, quelli erano i rumori che la facevano sentire al sicuro quasi sempre, anche quando nel bel mezzo della notte il suo sonno si stagliava tormentato contro le palpebre serrate sulle iridi chiarissime. Sognava cose normali, immaginava di camminare senza sfiorare le lunghe staffe beige del parquet ormai vecchio di una casa, altre volte invece ripercorreva con fretta le scale che un tempo separavano l'enorme ingresso di casa Bryne dal corridoio che al piano superiore accoglieva stretto le innumerevoli porte della sua stanza e quelle dei fratelli acquisiti. Nei sogni non era mai trascorso tempo né intorno a lei, né sulla sua pelle ancora chiara e morbida, la frangetta come allora ricopriva una fronte troppo spesso un po' corrucciata, seguiva le rette di pensieri che da sempre l'avevano turbata e che per sempre avrebbero continuato a farlo. Fuggire da quelle catene, però, sembrava essere più semplice quando ad uno o due passi di distanza bastava forzare una maniglia per ritrovarsi un volto amato davanti: fratelli che non aveva scelto, sguardi che all'inizio avevano faticato a riconoscerla e poi, invece, neanche aveva potuto evitarlo ed ecco che erano diventati parte di lei, così Mia era stata un tutt'uno anche dopo la consapevolezza di tempeste in arrivo e nonostante la paura di potersi sgretolare al vento o sotto la pressione di mani che non avrebbe voluto sentirsi addosso. Eppure le fiamme c'erano sempre state, in ogni casa, in ogni stanza, in ogni Mia e a volte si innalzavano così tanto da bruciare tutto quanto.
    Quando il suono delle gocce d'acqua venne coperto da altro, Mia continuava a salire le scale di casa Bryne, affaticata, talmente appesantita da credere di far crollare l'intero tetto sulla propria testa. Uno, due, quando riaprì gli occhi la grande casa con i quadri appesi nel corridoio svanì per lasciar spazio ad una stanza buia, il riflesso delle luci fuori la finestra si accingeva a strappare quel buio a piccoli graffi per arrivare ai suoi piedi ricoperti da calzettoni di spugna che sbucavano fuori dalla grande coperta bianca adagiata sul letto. Per qualche istante rimase distesa sul letto, le mani chiuse in due pugni attorno ai bordi delle lenzuola che si teneva premute contro, oltre le mura l'unica protezione che nell'incoscienza di un sonno avrebbe potuto proteggerla dal mondo che fuori si ricaricava per quando sarebbe sorto il sole. Attese di comprendere quanto fosse parte del sogno e quanto invece fosse reale e, poco dopo esser riuscita ad esalare un sospiro di sollievo nel ritrovarsi sola, ecco che l'ennesimo tonfo la spinse a sollevarsi con la schiena per mettersi seduta sul letto, viso rivolto in direzione dalla finestra, ora incuriosita e al contempo impaurita di quello che avrebbe trovato oltre il vetro se solo si fosse sporta. Posò i piedi sul pavimento freddo mentre la sua sagoma ancora avvolta dal buio si sollevava dal materasso per avvicinarsi alla finestra, dito indice e medio che con cautela spostavano piano il bordo della tenda da un lato. Quando lo vide seduto -o quasi rannicchiato- sulle tre scale di fronte all'entrata dello studio, Mia pensò e provò un'infinità di cose diverse: paura che quello potesse essere un inganno; sollievo nel ritrovare lungo i contorni di quella figura gli stessi che aveva scorto su Eden ogni volta in cui lui non aveva guardato; vergogna per tutte le volte in cui aveva creduto che potesse significare qualcosa, quel loro modo di starsi vicini; rabbia per essere stata tutta la vita così forte e poi così debole. Ad ondate, tutte quelle sensazioni le attraversarono il corpo partendo dai piedi e finendo alle radici di ogni singolo capello tanto scuro quanto l'ombra all'interno del quale, guardandolo da dietro quel vetro, Mia persisteva per nascondersi, come incatenata ad essa da giorni interi, forse mesi, così a lungo da essersi mimetizzata ad essa senza riuscire più a riconoscersi davvero. E fu in un'impeto di coraggio e rabbia che lasciò andare il bordo della tenda stretto maldestramente fra le dita per fare retro front e dirigersi al piano di sotto, un passo dopo l'altro come nella grande casa dei Bryne, eppure questa volta brutalmente silenziosa. Nessun tetto sembrò crollare sopra di lei, nessun quadro sembrò tremare contro le pareti andando incontro al rischio di cadere e frantumarsi contro il terreno. Eppure Mia lo avvertita tutto, quel caos che si sentiva dentro e, se solo aprendo la porta Eden non avesse avuto quello sguardo colpevole e perso, lei avrebbe urlato. Gli avrebbe urlato tutto quello che per giorni interi aveva cotto dentro al petto, che le aveva soffocato i respiri nel silenzio e corroso qualsiasi tessuto vivo al riparo sotto strati di pelle, si era domandata quanti ne avesse per non essere andata a fuoco davvero. Si era chiesta come avesse potuto permettergli di vanificare tutto quello che avevano avuto, mentire senza dire nulla, farle credere che, dopotutto, non era colui che lei aveva conosciuto. Incandescente ogni ricordo con Eden, ogni volta che Mia ci pensava si vedeva avvampare sotto la convinzione d'esser stata ingenua nonostante si fosse ripromessa che mai sarebbe accaduto. Liquido infiammabile alla ricerca di una miccia, e ora tutta quella benzina sparsa dentro di lei rischiava di essere inondata da fiamme con la forza di un solo sguardo, di un solo tocco e, forse, avrebbe finalmente compreso quanto la sua pelle potesse essere fragile come per gli altri mortali.
    Invece, non appena Mia si ritrovò ad allacciare le proprie mani alla maniglia della porta per aprirla, la fiamma si spense ed Eden la guardò. Schiuse le labbra per dire qualcosa ma la figura di Eden le strappò via anche quelle, così si costrinse a serrarle di nuovo, questa volta però senza distogliere lo sguardo da lui. Non erano mai stati bravi a parlarsi a voce alte, la maggior parte delle volte era bastata una fetta di divano a separarli pure sapendoli vicini, altre volte invece uno sguardo che timido si sposta in fretta per mettersi al riparo, avrebbe detto "ci tengo a te, tu tieni a me? E se non tieni a me allora mentiresti per me?" Dov'era quella paura, dunque? Perché le fiamme non si erano accese dentro di Mia, eppure la carica di una miccia che sarebbe potuta esplodere continuava a navigarle dentro al torace. Cercò con le iridi segni, qualsiasi cosa che potesse spingerla a richiudere la porta e lasciarlo fuori, ma davanti a lei c'era qualcosa di così intimamente suo che Mia non volle sottrarsi nuovamente di un pezzo di sé, neanche quando catturò le macchie scure che, controluce, riconobbe sulle nocche delle sue mani anche dopo il misero tentativo di nasconderle. Inspirò lievemente e, dopo aver intercettato i suoi movimenti, si allontanò da lui per farsi di lato e lasciargli la possibilità di entrare. Schiena dritta, sopracciglia piatte, labbra serrate, Mia continuava a sentirsi la tempesta dentro, acquietata da una sensazione che, l'avvertiva sottotono, sotto pelle e più silenziosa ma più forte delle altre, si aggrappava al cuore per arrampicarsi su di esso e cercare un nuovo foro d'ingresso attraverso il quale farsi nuovamente spazio e, sopraffatta da quelle sensazioni, neanche si accorse immediatamente del buio che, sparito dalla stanza dopo aver acceso la luce, si era completamente immerso dentro gli occhi di Eden. Così, mentre lui si sedeva alla sedia di fianco al tavolo, Mia si voltò a guardarlo giusto in tempo per accorgersi anche delle proprie parole che ripresero a scivolarle nuovamente dalle labbra schiuse. Corrucciò la fronte, confusa, standosene impalata lì in piedi davanti a lui domandandosi da dove cominciare, chiedendosi dove fosse la voce che tantissime volte le era esplosa nella testa, nell'infinità di situazioni che aveva immaginato li avrebbero riportati insieme prima o poi, uno di fronte all'altra. E dov'era Mia che gli diceva di sparire di nuovo? E dov'era Eden che la chiudeva di nuovo fuori per aprirsi dentro a qualcun altro? A qualcun'altra?
    «Kidd--» la voce di Eden venne fuori flebile, rotta, forse spaventata. Chinò il capo da un lato, sospirando altrettanto piano, quasi lei non volesse distruggere quello che le pareva fosse un precario equilibrio al quale Eden si teneva aggrappato in maniera esausta. Si avvicinò a lui, due passi che le costarono uno sforzo enorme e che aiutarono quella piccola porzione di speranza a stringersi meglio attorno al cuore, braccia e gambe che si incastravano alle sottilissime filature di muscoli che, ad ogni battito, si allungavano per poi stringersi di nuovo, un movimento involontario che sembrava far ripartire tutto il suo corpo e riscaldarlo come non avevano fatto da troppo tempo. Quando gli fu abbastanza vicino, Eden sollevò una mano nella sua direzione per afferrarle la mano e, per un momento, Mia ebbe l'inconsapevole intenzione di tirar via la mano: dopo le promesse fatte a sé stessa, dopo la rabbia che avrebbe voluto svuotargli addosso, dopo le notti insonni in cui aveva tentato di prendersi cura di sé stessa... Mia strinse le dita attorno al polso di Eden e si aggrappò a lui spingendosi inevitabilmente col busto nella sua direzione per accogliere la nuca bionda di Eden. Restò rigida qualche istante ancora, incredula nel ritrovare sotto quella solita giacca due spalle che, per la prima volta, abbandonavano la posizione retta che da sempre lo aveva protetto da tutto, o così si era ritrovata spesso a pensare. Imbattibile da fuori, in guerra dentro, questo lo aveva saputo, e allora chi era riuscito a ridurlo a quel modo? Per un brevissimo lasso di tempo la risposta le parve chiara come mai lo era stata prima: Eden. Non si combatte mai quello che punge dall'esterno, su quello non si ha alcuna influenza. Il buio sorge sempre da dentro, laddove riceve nutrizione se non addomesticato, e questo Mia lo sapeva bene dopo anni ed anni di lotta contro i propri incubi. Si lasciò avvolgere dalle braccia di Eden mentre con lo sguardo non perdeva di vista i lineamenti della sua nuca, il profilo del viso che da quell'angolatura Mia non aveva ancora mai guardato. Il calore del viso di Eden contro la pancia sciolse via l'infinità di nodi che lui stesso aveva creato tre mesi prima e di cui Mia effettivamente mai ancora si era accorta, scivolarono sulla benzina gettata sopra per disinfettare le ferite che lui aveva inflitto, risalendole lungo il petto e fino alla gola, raggiungendo le iridi che ora, inumidite, lottavano contro il caldo per non sciogliersi in un paio di lacrime rappresentanti una mancanza cui aveva testardamente voluto voltare le spalle. Sollevò quindi le braccia per posare i palmi delle mani sulle spalle ricurve di Eden, premendo le dita contro il tessuto della giacca mentre gliela tirava per qualche secondo e poi la lasciava andare di nuovo, spingendo le dita sulla pelle del collo e raggiungere l'attaccatura dei capelli, la dove le dita affondarono fra i capelli spettinati di chi cerca riparo dal vento per giorni. «Non so più chi sono.» sussurrò lui, e Mia strinse appena più forte la presa attorno alla nuca di Eden per tenerselo stretto contro, ogni arma ora posata, ogni guerra silenziata.
    Quando sollevò lo sguardo su di lei, Mia non disse nulla, ma allentò la presa su di lui e si lasciò osservare per la prima volta senza sottrarsi alle sue iridi, anzi accogliendole dentro di sé e ritrovandosi un po' in piccole parti dentro quel riflesso. Sollevò poi il mento e, distaccando con lentezza prima una mano e poi l'altra da Eden, si sporse appena con il busto per distaccarsi dalla sua presa. Si avvicinò al piano della cucina per afferrare uno degli strofinacci piegati in un cassetto e passarlo così sotto il getto dell'acqua calda. Tornò quindi alla sedia sul quale lo aveva lasciato qualche istante prima e, chinandosi piano sulle ginocchia di fronte alla sua sagoma cupa, Mia gli porse la mano libera. «Dammi la mano.» indicò col mento nella sua direzione, lo sguardo che con difficoltà ora si distaccava dal viso di lui per posarsi sulle nocche sporche di sangue. Con il palmo della mano libera a sostenere quello caldo di Eden, Mia posò con cautela lo strofinaccio umido e caldo sul dorso della mano di Eden, alla ricerca di possibili ferite e forzandosi nel non domandare cosa fosse accaduto, non ancora almeno. Dentro, di nuovo quella sensazione che da sempre aveva provato nelle sue vicinanze, quell'inspiegabile fiducia che nonostante tutto la spingeva a credere che, qualsiasi cosa fosse accaduta, non gli avrebbe mai voltato le spalle, non era Eden quello cattivo, ma il mondo intorno a lui e Mia questo lo sapeva anche senza aver bisogno di sentirlo parlare. Quando sollevò nuovamente il viso e per incrociare il suo sguardo, ne ebbe la certezza per l'ennesima volta. Lasciò andare la prima mano e porse il proprio palmo verso di lui per dargli modo di posare su la seconda. Con la frangetta che come una tenda scurissima andò a nasconderle lo sguardo, Mia abbassò appena la nuca e le iridi sulle nocche sporche finché non furono nuovamente libere da quello che Eden forse aveva paura di guardare. Per un momento restò con lo sguardo basso e la fronte appena corrucciata, incapace di compiere un qualsiasi movimento e nuovamente sopraffatta dalla realtà che per giorni aveva atteso prendesse forma davanti a sé, e ora era lì a centimetri di distanza, odorava di alcool ed emanava un calore vivido al quale le sembrò di non potersi sottrarre, una vicinanza a separarli che così ridotta non era mai stata, le sarebbe bastato sollevare il viso ed allungarsi con la schiena per raggiungerlo, eppure l'idea di rischiare un suo ennesimo rifiuto le gelò i muscoli e, così, Mia restò ferma rannicchiata davanti a lui per qualche secondo ancora. «Non si resta mai la stessa persona per sempre.» sussurrò lieve nella sua direzione tornando a guardarlo in viso. Non era mai stata brava con le parole, Mia, che come una pentola a pressione a furia di tenersele dentro lasciava che sgorgassero fuori senza dar loro un ordine preciso. Eppure, alcune volte, era perfettamente consapevole di cose dovesse dire, si guardava dentro e guardava al proprio passato alla ricerca di quello che aveva vissuto e dei segni che le avevano lasciato addosso e, sebbene ci fossero state cose che l'avessero spaventata fino allo scheletro in tutta la sua vita, aveva abbracciato ogni più piccolo cambiamento costruendosi una casa intorno e facendo di quella uno scudo che l'avrebbe protetta da ciò che, con l'intenzione di distruggerla, avrebbe potuto solo levigarla.
    Sollevò un braccio per posare lo strofinaccio ora sporco sulla superficie del tavolo di fianco a loro e poi serrò le labbra, puntando le iridi sul viso di Eden per tracciarne i lineamenti, su quelli di lei la forma di un'espressione triste, la stessa di chi fatica a voler ammettere quanto qualcosa, qualcuno, le sia in realtà mancato. «Eden...» - perché mi hai abbandonata? e perché mi lasci fuori? perché ti sei portato via una parte di me? perché hai del sangue sulle mani? perché non posso bastarti? e chi era la donna dentro casa tua? hai un figlio? e perché non mi parli mai di quello che ti succede? perché ci hai messo così tanto a tornare? Perché?
    Con uno scatto si sollevò nella sua direzione per posare i palmi delle mani sulle sue guance e spingersi con il viso oltre la sua spalla per nascondersi di nuovo al suo sguardo, un abbraccio strettissimo di chi preferisce impedire ad una cosa preziosissima di fuggire via di nuovo. Ad occhi chiusi e labbra strette, Mia si aggrappò ad Eden voltando le spalle alla rabbia che, dentro, le suggeriva di tagliarlo fuori per proteggersi dalla sua carica distruttiva e concedergli, al massimo, di levigare solo la sua superficie e nient'altro. Pensò però, alla fine, che quel passo lo aveva ormai superato diverso tempo prima ormai e non sarebbe mai più potuta tornare indietro.
    Quando ritirò la nuca e si ritrovò col viso vicinissima a quello di Eden, Mia lo pregò con lo sguardo di restare e, ora sopraffatta da tutto quello che lui fra le sue braccia rappresentava, si lasciò andare a quel pericolo che per mesi interi avevano evitato standosi vicini senza mai neanche sfiorarsi. Premette la fronte contro quella di Eden, il blu delle iridi che si mischiava in un'esplosione di qualcosa che mai aveva visto e, per un attimo, rivide un percorso che ancora non era stato calpestato ma che sapeva fosse scritto, lo aveva rimirato la prima volta in cui, dentro quella cucina, lui le aveva afferrato la mano per ballare, un tempo che sembrava lontano ma ancora violentemente vivido dentro di lei. Spinse piano con la punta del naso contro quello di Eden e, per un momento, Mia credette che se lui l'avesse lasciata andare un'altra volta non ci sarebbe stata nemmeno più rabbia, solo il buio di una stanza che un tempo aveva conosciuto colori e musica latina. «Se non sei tornato per restare, non rimarrà niente neanche della Mia che conosci.» sussurrò allora sottovoce, speranzosa e impaurita.
     
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    Per un tempo lunghissimo il triangolo di maglietta fu tutto quello che riuscì a vedere di Mia e andava bene così, era tutto quello di cui aveva bisogno. Non la vedeva eppure la sentiva ovunque, sopratutto sotto le dita che aggrappate alla sua schiena scivolavano lentamente come se non riuscissero a fare presa, la avvertiva nel naso, dove il suo profumo di sonno interrotto misto a sapone vanigliato evocava in un Eden distrutto momenti lontani, perle felici di cui non riusciva a ricordare i dettagli. La riconosceva nel respiro che dalla pancia attraversava la pelle e la maglietta per sbattere contro la guancia di Eden premuta proprio lì, nel triangolo sterno - polmoni - costole dove risiedevano cuore e respiro di Mia, più calmi dei singhiozzi di Eden silenziati dalle labbra strette e dal tessuto dei vestiti di lei. Non sarebbe riuscito ancora a guardarla negli occhi ma sentirla, sentirsi circondato da lei riuscì con il passare dei minuti a rallentargli il respiro, a diradare il buio che aveva inondato gli angoli dei suoi occhi fino a essere a un passo così dalle pupille a minacciare l'ultimo filo sottilissimo che lo legava alla realtà, a sé stesso, al bene. Lo sapeva, Mia, che se Eden si fosse addormentato quella volta l'oscurità avrebbe vinto del tutto? Era per questo che gli accarezzava i capelli alla base del collo, ch gli parlava, che tornava a prendergli la mano sciacquandone via il sangue? Per tenerlo sveglio, per tenerlo nella luce? L'aveva capito? Non l'avrebbe sorpreso, era una ragazza sveglia che aveva vissuto qualunque cosa le fosse dovuta succedere da spingerla a trincerarsi dietro la frangetta nera che, in un'altra circostanza, a Eden sarebbe piaciuto moltissimo spostare. Alla fine ognuno ha i propri muri dietro i quali nascondersi, alcuni sono fatti di silenzi e auto-punizioni e altri di sguardi che deviano e di capelli fittissimi. Le obbedì senza fiatare, si lasciò prendere la mano senza opporsi e, nella sua, sembrò smettere di tremare almeno un po'. Non sobbalzò neanche quando il panno bagnato venne a contatto con le nocche screpolate, gli impulsi nervosi faticarono ad arrivare al cervello senza venire distorti da quell'altro tipo di dolore, dal male di un'anima spezzata in così tanti punti da non sapere da quale ricominciare per costruirsi. P er un tempo interminabile Eden tenne gli occhi bassi fissi sulle punte delle dita di Mia che lavoravano per tenerlo insieme, per non farlo disperdere al suolo. Non riusciva a guardarla, non sapeva se per la vergogna di farsi vedere con gli occhi rossi iniettati di vene sottili o se timore che bastasse un'occhiata lì dentro per tradirsi, perché lei avesse la conferma di che razza di uomo aveva lasciato entrare in casa e nella sua vita. Non si sarebbe augurato a nessuno, Eden, men che meno a qualcuno di speciale come Mia, che andava solo amata profondamente e senza freni, senza segreti. Amata e basta. Poteva farlo, lui? Scosse leggermente il capo proprio quando Mia parlò, e forse con quel gesto riuscì a rispondere ad entrambi i quesiti senza che lei se ne accorgesse. Poi Mia pronunciò il suo nome. C'era qualcosa nel modo in cui lo disse che fece capire all'uomo di doverla guardare, di dover farsi forza e alzare gli occhi e rilevarle quello che era, il vero Eden, quello che poco più di dodici ore prima aveva ucciso una persona perché glie l'avevano ordinato, per proteggere la sua copertura. Si era spesso chiesto fino a che punto sarebbe stato in grado di spingersi e finalmente aveva ottenuta la sua risposta, una risposta tremenda e terrificante che gli sarebbe rimasta incollata al corpo come una seconda e marcia pelle. Gli sembrò durare una vita intera ma quando ci riuscì, quando le iridi rosse e azzurre incrociarono quelle tristi di Mia Eden si sentì completamente nudo, svuotato, privo di qualsiasi barriera avesse mai eretto nel corso dei suoi anni.
    È difficile smettere di guardarsi quando ti è mancato qualcuno come a Eden era mancata Mia, che dopo i primi intimiditi tentennamenti le iridi azzurro cielo non smettevano più di fissare. Sembravano nuvole arrossate bagnate di pioggia sottile, sotto i bordi. Era come essere stato a occhi bassi da giorni e tornare finalmente a sollevare le palpebre, vedersi riflesso negli occhi di Mia lo colpì come una spada di luce in una stanza buia e, per un attimo appena, si intravide dal sui punto di vista, come lo vedeva lei. Tormentato, forse, ma indubbiamente buono. La cosa lo costrinse ad abbassare lievemente le sopracciglia in un'espressione ancora più vinta, perché triste non basta per descrivere come si sentiva Eden. Era lo stesso sguardo che aveva Timmy quando lo guardava, un paio di occhi che volevano credere di vedere in Eden qualcosa che lui stesso non aveva fiducia di avere o di essere. Facevano male, gli occhi di Mia, male e insieme di un bene di cui sentiva di avere un disperato bisogno perché forse, in fondo in fondo, avrebbe voluto rispecchiare davvero l'idea che lei aveva di lui. Accoglierla tra le braccia fu una risposta che il suo corpo azionò automaticamente come se l'avesse svolta centinaia e migliaia di volte e invece non era mai successo prima. Non succedeva da anni, non era mai capitato con Mia. L'incertezza durò uno o due secondi appena e poi la strinse meglio, la strinse contro il suo petto e contro le braccia, affondò con il naso nei suoi capelli, chiuse gli occhi e respirò.

    Si immaginò in un tempo e in un luogo diversi, la luce inondava tutto e lui non vedeva niente a parte Mia e i suoi capelli, Mia e i suoi occhi così azzurri da farsi trasparenti, Mia e un sorriso che non le aveva mai visto prima. Sorrideva a lui mentre lo stringeva, braccia calde contro la pelle del collo, capelli al profumo di salsedine strusciavano sulle labbra di Eden lasciandovi contro il sapore del mare.

    Non aveva idea del perché quell'abbraccio evocò proprio quell'immagine, una situazione che a quanto ricordava non aveva vissuto mai, neanche con qualcun altro. Forse era per via del calore che da lei passava a lui attraverso la vicinanza fra i loro corpi e del sapore delle sue stesse lacrime che sentiva sulla labbra, fatto sta che pensò di poter fare a meno di tutto tranne che di quello, ed era un pensiero assurdo per uno che da sempre si privava di qualsiasi cosa fosse abbastanza bella da riuscire a farlo sorridere. Aveva deciso così anche con Mia, aveva fatto come faceva sempre, l'aveva lasciata in pace per proteggerla. Eppure non aveva funzionato, nessuno dei suoi "trucchi" erano riusciti ad attenuare il senso di profonda mancanza che in quei mesi, invece di diminuire gradualmente, era aumentata a dismisura. Che fosse diversa dal resto l'aveva capito sin dal loro primo incontro, ma solo in quel momento riusciva forse a comprendere fino a che punto Mia gli fosse indispensabile. Si lasciò toccare le guance mentre ricambiava la spinta contro la fronte, i nasi che si sfioravano lo costrinsero a socchiudere gli occhi, inspirare e buttare fuori l'aria pianissimo, cose se tremasse. Strusciò la fronte contro la sua, un sopracciglio contro la tempia. Sembrava stesse combattendo una battaglia interiore. Resistere o cedere. «Ci sono cose che devi sapere...» Sussurrò pianissimo, fiato contro labbra di Mia mentre continuavano ad accarezzarsi, bloccati in bilico su un filo che, una volta superato, non sarebbe più stato possibile scavalcare. Dalla schiena le mani presero a salire fino ai fianchi e al suo bacino che aiutò a spingere in alto e su di lui, una gamba al di qua e una al di là della sedia su cui era seduto. Riusciva a malapena a stare fermo, erano talmente vicini che era diventato quasi doloroso per le loro labbra non toccarsi. Ma continuavano a girarci intorno, a spingersi contro la fronte, contro le guance, contro il bacino per paura di fare quel passo. Il respiro di Eden si era fatto affrettato, non era successo niente ma quel stava per bastava. «Mia...» Le mani salirono fino al suo collo che strinsero accarezzando con le dita la linea della mandibola. «...non sei al sicuro con me.» Era quasi una preghiera, una richiesta di aiuto ma non poteva più bloccarsi, non voleva, aveva bisogno di lei. La strinse di più e le labbra colmarono la distanza da quelle di Mia facendola finalmente nulla, mentre tutto quello che da mesi aveva immaginato diventava realtà ma amplificata, uguale e al contempo lontana da qualsiasi fantasia o pensiero. Il sapore di Mia era così dolce che sarebbe stato impossibile sognarne l'esatto gusto, ed era inimmaginabile il modo che i loro corpi avevano di rispondersi, come se si volessero da così tanto che quasi già si conoscevano. Sul nero dietro le palpebre forse Eden avrebbe avvertito una vibrazione, il segnale che Mia aveva paura. Bloccò una mano che si era andata a infilare sotto la maglietta lunga e ora sostava a dita spiegate contro la sua schiena. Avevano smesso di baciarsi e ora erano di nuovo fronte contro fronte, e Eden sollevò le palpebre per guardarla da lì come ad essere sicuro che andasse bene.

    Edited by scarecrow! - 29/1/2023, 11:37
     
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    Si era resa conto d'aver bisogno di lui sin da subito, ed è strano quando inconsapevolmente sai che: sono proprio un paio di occhi blu e due labbra sottilissime, pelle chiara che copri d'inchiostro tu stessa, spalle avvolte dal freddo calore di una giacca di tessuto in pelle, un'andatura semplice, un corpo caldissimo anche quando la sua gamba resta a pochissimi centimetri di distanza dalla tua mentre siete seduti sul divano, guardare la tv pur senza vederla davvero perché tutti gli altri sensi sono concentrati su di lui, su Eden.

    Inconsapevolmente sai.

    Inconsapevolmente sapeva, Mia.
    Che non sarebbe mai potuto essere alcun altro uomo, donna, essere umano. Che pure desiderando ardentemente la sua vicinanza così come la sua lontananza, ogni volta che andava via, non si sarebbe mai potuta opporre a quella verità, al sentimento che come un seme piccolissimo aveva visto crescersi dentro, piano piano, silenzioso, aveva preso la forma di un fiore bellissimo che nessuno avrebbe potuto distruggere, che sembrava avere superpoteri come lei, come chiunque: era indistruttibile. Che dopo aver aperto la porta, era chiaro le sarebbero rimaste intrappolate nella gola, le parole che avrebbe voluto urlargli addosso, ma non era una madre, non era un'educatrice e, sebbene il modo in cui permetteva agli altri di trattarla si rivelasse poi parabola d'insegnamento, questa volta Mia volle smetterla di infliggersi lealtà e correttezza e lasciarlo solamente rientrare: dentro casa, al sicuro dove c'era lei, dentro di sé così come Eden aveva sempre saputo fare senza neanche sfiorarla con un dito, senza neanche perder d'occhio i due centimetri di spazio fra le loro ginocchia. Che, alla fine, pur girandosi intorno evitando di toccarsi, era chiaro si sarebbero attratti come mai prima, con la carica di chi cerca con tutte le proprie forze di non cadere e, poi, per inerzia si lascia quasi andare.
    Così si erano ritrovati. Dopo essersi dati le spalle per mesi, Mia stringeva le proprie braccia attorno al busto di Eden, sollevando piano le mani mentre faceva scorrere la punta delle dita sulla pelle del collo, raggiungendo l'attaccatura dei capelli e lasciando che la propria pelle affondasse dentro quella sensazione che, pur avendola immaginata un milione di volte, non rispecchiava i sogni, ma li moltiplicava innumerevoli volte e le lasciava addosso un'elettricità che non provava da tempo, forse provata mai. Più della sconosciuta sensazione di libertà che provava in quel momento però, nel sapersi capace di toccarlo, accarezzarne i lineamenti che per troppo tempo aveva solo osservato, imparato a percorrere con le pupille irradiate d'azzurro fuori e dentro, Mia sapeva che qualcos'altro si stava aggrappando a lei come mai era avvenuto prima: era le sue, di mani. Avvertiva la pressione delle dita di Eden sulle proprie ossa, quasi volesse modellarle e, seppur istintivamente avrebbe probabilmente dovuto averne paura, Mia non ne aveva. Non in quella circostanza, non fra le sue braccia, non dopo averlo lasciato entrare con le nocche insanguinate e il viso tormentato da un pensiero, un ricordo, una paura che dimostrava a lei quanto lui, nonostante tutto il male del mondo, fosse umano. Più umano di chi le aveva messo le mani addosso senza chiederglielo.
    Fu intimo il momento, l'abbraccio, quello sfiorarsi il naso con la punta dell'altro, la ricerca forsennata eppure semplice e lineare della pelle per la pelle, il contatto di due corpi che avevano avuto tanta voglia d'incontrarsi per così tanto tempo da trasformare il desiderio in secondi, minuti, attimi come quello, appeso in cucina dentro un vortice che solo verso il centro sembrava condurre, là dove Eden era seduto e a labbra semi schiuse cercava quelle di Mia senza però ancora toccarle, ci soffiava sopra forse inconsapevolmente, forse a cercare di tirarsela contro, forse ad offrirle un pezzo di quello che potrebbero avere, se solo lei si avvicinasse di poco. E allora lei, Mia, fronte su quella di lui, si lasciò andare ancora qualche istante alla ricerca di un permesso la cui provenienza continuava ad esserle incerta ed insicura: lo voleva lei o lo voleva lui? lo volevano forse entrambi?
    Tirò piano le mani dal collo di Eden verso la mascella, fermando i polpastrelli delle dita sulla ruvidezza della barba incolta, cercò di catturare il viso di Eden fra le dita per sollevarlo piano, mai troppo, mentre con la propria nuca si chinava ancora di più su di lui, quasi quella vicinanza neanche bastasse ancora, come se ci fossero altri metri di distanza che volevano dividerli e, pur non vedendoli, Mia li avvertiva tutti. «Ci sono cose che devi sapere...» sussurrò Eden, fronte contro quella di Mia, labbra ancora schiuse su quelle di lei. Chinò piano il capo, Mia, sbattendo piano le palpebre mentre le iridi azzurre lo cercavano e cercavano le sue, dello stesso colore, per ritrovarle sotto un paio di palpebre che al contrario volevano nasconderlo. Inconsapevolmente, ecco che Mia sapeva anche altro: era facile credergli, aveva accettato già da tantissimo tempo il fatto che Eden facesse tanto e dicesse pochissimo. E lei desiderava sapere qualsiasi cosa lui avesse da dirgli, che lui si aprisse a lei per raccontarsi, mostrarle i lati di luce così come quelli di buio, in quel momento glieli vedeva soggiornare sul volto e nella postura stanca, nell'alito che ancora sapeva di alcool ma che al contempo sapeva di Eden e del modo in cui, quella notte, era giunto distrutto sugli scalini dello studio per cercare in lei forse un po' di aiuto, forse le istruzioni per rimettere a posto tutti i pezzi. Lo fece rimettendo insieme lei, facendo scivolare i palmi delle mani lungo il profilo del fianco di Mia per aggrapparsi alle sue gambe e, una dopo l'altra, tirarsele contro così da cingere il proprio corpo fra di esse mentre lei si adagiava su di lui, bacino contro busto, braccia ad incastro le une sul corpo dell'altra e viceversa, in quello che prese la forma di due alberi che sorgono dalla terra separati per intrecciarsi sotto al cielo e crescere a quel modo.
    Il cuore di Mia le sobbalzava nel petto ad un ritmo che aveva conosciuto quando lo aveva incontrato. tum tum tum. «Mia...» la chiamò a labbra schiuse per la prima volta dopo mesi di silenzio, dopo mesi di labbra cucite e dita ferme sui tasti di uno smartphone. Aveva voluto udirgli pronunciare quel nome un milione di volte dopo la prima, si ritrovò nel significato di quelle tre lettere pur chiedendosi se anche lui fosse a conoscenza di cosa dicesse veramente. Mia, tua. Niente era stato mai più logico e forse quella donna dal viso scavato di cui conservava da sempre una foto, la stessa che l'aveva messa al mondo e che mai aveva conosciuto, forse lei lo aveva saputo che Mia sarebbe stata di nessuno e al contempo anche sua di Eden, aveva scelto quel nome per lei perché aveva saputo che, prima o poi, sarebbe giunto lui? E in quel momento lì era addirittura facile pensare fosse così, Mia voleva credere che, dopotutto, il tempo trascorso a chiedersi se quel mondo fosse fatto per lei o, al contrario, se lei avesse un posto su quegli infiniti spazi della terra e dell'universo, era servito a giungere lì, nell'unico luogo che s'incrociava al tempo fino ad allora atteso. Chiuse brevemente gli occhi lasciando che le palpebre coprissero il blu acceso delle iridi, labbra serrate e naso che si spingeva dalla punta di quello di Eden fino alla sua guancia, quasi volesse affondarsi con tutto il viso dentro la sua pelle, le mani ancora strette al suo collo ora tornarono a premersi con i palmi sulle guance caldissime di Eden. «...non sei al sicuro con me.» aggiunse ancora Eden, il tono della voce preoccupato, forse implorante, Mia schiuse appena gli occhi solo per un secondo, il tempo di rendersi conto di quanto anche di quello fosse consapevole e di quanto, però, da separati sembrassero farsi altrettanto male. Fece scivolare il pollice della mano destra dalla sua guancia alle labbra di Eden, premendo piano su quello inferiore, quasi volesse fermare qualsiasi parola lui desiderasse ancora gettare fuori per provare, invano, a fermarla, fermarsi, eppure Mia l'aveva già visto, lo sapeva e non voleva impedire al destino di compiersi, non poteva.
    Sollevò appena il mento per lasciare che le proprie labbra s'incontrassero con quelle calde di Eden in un bacio che troppe volte aveva provato ad immaginare, che spesso aveva visto.
    Inconsapevolmente forse, Mia sapeva che sarebbe stata felice con lui persino nei momenti d'infelicità. Mia sapeva che quel bacio sarebbe giunto, prima o poi, e che l'adrenalina e la pelle d'oca che ora attraversavano il suo corpo non erano solo frutto di un sogno o di una premonizione. Mia sapeva che laddove Eden posava le proprie dita, le mani, i palmi, le labbra, lì Mia si ritrovava e ritrovava lui e allora poco importavano tutte le cose brutte, tutto il sangue che gli aveva lavato via dalle nocche, tutte le porte sbattute e le promesse a sé stessa che si sarebbe trattata meglio di così, meglio della vergogna che aveva provato quando mesi prima quella donna e quel bambino avevano messo inaspettatamente piede in casa di Eden. No, non aveva dimenticato nulla, lei, Mia non dimenticava mai, eppure il sorriso che prese timidamente forma sulle proprie labbra, quando si staccò piano da Eden, gridava vittoria nell'aver nascosto la polvere di qualcosa che ancora non era stato risolto ma solo messo da parte.
    Sospirò piano sotto il tocco delle dita di Eden, la mano che sollevava lentamente il bordo della maglietta e cercava la pelle di lei. «Ci sono posti che non sono sicuri anche quando non ci sei.» sussurrò pianissimo, quasi all'orecchio di Eden, forse un po' incerta nel volere che lui la sentisse, forse un po' incerta nel volere che lei stessa si udisse. Ammettere di esser stata spezzata, ferita, derisa, il senso di vergogna che per molto tempo si era portata addosso come un macigno e, a volte, ancora si appesantiva su di lei anche se non più come prima. Sì, c'era stato chi le aveva fatto male in modi peggiori, meno sottili, più evidenti a lei e meno agli altri, ma gli occhi di Eden non avevano neanche in piccola parte lo stesso riflesso di chi le aveva posato le mani addosso per farla sua senza neanche conoscere il suo nome. «C'è chi mi ha fatto molto più male di così.» continuò ancora a voce bassa, riavvicinandosi poi piano al viso di Eden, respiro contro respiro mentre lasciava che le labbra, ora meno timide, si soffermassero di nuovo su quelle di lui per schiudersi una seconda volta e lasciare che finalmente fosse lei ad assaporare Eden. Gli stringeva il viso fra le mani come se avesse il terrore che potesse fuggire via di nuovo o che d'un tratto si sarebbe svegliata dall'ennesimo sogno astratto per chiedersi, poi, quando davvero tutto sarebbe avvenuto. Eppure lui era lì e lei lo vedeva, lo sentiva sotto i polpastrelli delle dita mentre lasciava che queste scorressero lungo il suo collo, fin dietro le spalle e sotto il tessuto della maglietta. Aveva un tocco incerto, quasi maldestro, eppure al contempo quasi fluido perché sapeva quanto desiderasse che quella vicinanza con Eden mai si dissolvesse. Con il cuore che sembrava volerle esplodere nel petto e le guance arrossate dall'agitazione, felicità ed incertezza nel ritrovarsi proprio in quell'istante, Mia si distaccò di nuovo e piano da lui per guardarlo nuovamente negli occhi e lasciarsi guardare, avvertiva la mano di Eden ancora schiusa sulla schiena, un tocco caldo e gentile che sembrava essersi fermato nel centro della spina dorsale per lasciare che fosse questa a comandarle movimento. «E' ok...» sussurrò piano, annuendo con il viso verso di lui mentre il respiro le si mozzava nei polmoni dall'agitazione. Non sapeva come facesse o perché, ma Eden sapeva leggerla. Aveva compreso sin dal primo momento quanto Mia detestasse esser toccata o sfiorata anche solo per sbaglio e che tutta quella rabbia che aveva dentro era una silenziosa protesta contro le ferite che le erano state inflitte ma che nessun altro poteva vedere. Lui aveva guardato e sembrava aver intercettato quasi ogni cicatrice, anche quelle che nessuno ad occhio nudo vedeva, anche quelle la cui esistenza neanche Mia conosceva. E allora, come ogni volta, anche in quell'istante così intimo ed esplicito, Eden era riuscito a trovare il confine e lì si era fermato, non intenzionato ad oltrepassarlo finché lei non glielo avesse permesso. «...non ho paura di te, Eden.» aggiunse piano, ancora, puntando i propri occhi in quelli di lui alla ricerca di quella parte di lui che conosceva, quella che spaventata forse si era rannicchiata dentro un involucro di tremori e lacrime e che, almeno, lo aveva fatto tornare da lei per arrendersi. «Non ho paura di te.» disse ancora, il volto di Eden fra le mani e gli occhi tristi puntati nei suoi, desiderosa che lui vedesse quello che lei vedeva. Si avvicinò di nuovo lasciandosi stringere a lui mentre, lentamente, lasciava scivolare le mani sul petto di Eden e poi lungo i lati, così da afferrare i bordi della giacca per farla scivolare giù dalle sue spalle e lungo le braccia, facendola ricadere poi sul pavimento. «So chi sei, quando sei con me.» continuò sottovoce, scuotendo appena il capo mentre la frangetta le andava a coprire di nuovo gli occhi, ora bassi e alla ricerca di ogni più piccolo particolare che di lui ancora non credeva di conoscere, la forma della maglietta aderente al busto, la muscolatura poco accennata delle braccia, a Mia di Eden piaceva proprio tutto. «Del sangue sulle tue mani non m'importa...» aggiunse in un sussurro e non perché avesse paura di una sua reazione o perché qualcuno potesse sentirla, ma perché sapeva perfettamente che, alla fine, si trattava forse di morale e un po' di egoismo, eppure non se ne faceva alcuna colpa, non se si trattava di qualcosa a cui teneva ormai ciecamente. Pensò a quanto fosse pericoloso amare qualcuno, forse un po' come autosabotarsi: Mia avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggere Eden. Qualsiasi, e senza neanche udir ragioni.
    Quando tornò a sollevare lo sguardo nel suo, Mia andò ad afferrare entrambe le mani di Eden per portarle sui propri fianchi e, premendo appena, fece in modo che Eden si agganciasse con le dita ai bordi della maglia che anche poco prima aveva sollevato, quasi a volergli far capire che lei era lì, era d'accordo, gli stava permettendo di avvicinarsi e non avrebbe avuto paura. Non con lui.
     
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    Mia non era una di quelle tempeste che arrivano e travolgono tutto senza lasciare più nulla, non era un incendio che divampa senza darti una via di fuga, Mia era più o meno come l'acqua che si infiltra un po' ovunque, ti lambisce le caviglie e calma; era un respiro e non aveva fretta, era una casa silenziosa, un abbraccio a rallentatore che quando finalmente si chiude intorno a te ti lascia con il fiato spezzato. Lontana dall'essere esplosione, Mia era rumore bianco; un ventilatore che fruscia, le onde del mare, il ticchettio della pioggia, due calzini di spugna sul pavimento, l'attrito leggerissimo di un paio di ginocchia che si sfiorano, lo scorrere di un fiume o il fruscio di una brezza estiva tra le fronde degli alberi e proprio di questo c'era bisogno nella sua vita, di più Mia e meno il resto dei rumori. Meno grilletti detonati, meno calci di pistola su tempie bluastre, meno segreti che se non li sussurri poi ci rimetti la pelle, meno ricordi che urlano dietro un quadro di fiori appeso in soggiorno. Tra i momenti, la notte era il peggiore. Veniva tutto a galla. Aveva avuto così tante notti per rivivere i proprio sbagli da essere arrivato a conoscere a memoria il rumore che fa la pelle di un uomo quando si spezza contro il metallo, contro le tue dita, sotto le sue dita. Di notte, lontano dal rumore di Pedro e delle sue giornate, il chiasso si faceva così intenso e le grida così forti da tenerlo a lungo sveglio, incapace di dormire, impossibilitato a rilassarsi anche perché, e ci credeva fermamente, glie lo doveva alle voci, dopo tutte le sue azioni, d'essere ascoltate. Era la sua forma personale di punizione. Se da sveglio riusciva a un certo punto a tornare in sé con il sonno, poi, era anche peggio. Quando dormiva, la sua vita passata spingeva dietro il quadro del soggiorno così forte da distorcerne forme e colori, e la voce di Timmy vibrava dall'unica foto che di lui gli era rimasta passando attraverso la tela e i colori per riempire tutte le pareti di casa fino al suo letto, alla testa di Eden con un grido straziante.
    Ma qualcosa era successo, a un certo punto, qualcosa che Eden non aveva previsto. Aveva messo piede in uno studio di tatuaggi ed era calato il silenzio, intorno perché a Mia le parole glie le dovevi scucire dalle labbra, e dentro di lui per qualche ragione che ancora non capiva ma che presto più che al luogo avrebbe associato a lei. Con Mia nei paraggi, la mente e le ombre si acquietavano e Eden riusciva persino a dormire sotto le note di quel rumore bianco. Gli bastava guardarla fare le cose più semplici come infilarsi i calzini di spugna o spostarsi la frangetta dagli occhi quando tatuava per stare meglio.
    Quel sottofondo che per interi mesi aveva fatto da audio alle sue giornate e che poi era cessato di botto, come se stando lontani il mondo di Eden si fosse ammutolito perdendo la guida di quel flusso sonoro a basso volume che era Mia. A quel punto, nelle orecchie non c'erano rimaste altro che grida. Erano stati mesi scombussolati popolati di molte azioni a cui ora non avrebbe saputo dare un senso, Eden, come se a nulla fossero serviti i giorni appena passati se non a mandarlo in frantumi. D'altronde era quello che forse segretamente aveva sempre voluto, spezzarsi a tal punto da non poter più andare avanti. Forse solo così sarebbe riuscito a fermarsi, a bloccare la colpa, la tristezza, la paura e la nostalgia che provava; forse così aveva pensato di pagare il suo debito ed espiare le sue colpe.
    Da quando aveva deciso di darci un taglio con lei, da quando invece di cercarla, di spiegarle ciò a cui aveva assistito nel suo soggiorno, di dirle che non c'era da aver paura di loro, di Timmy e Elizabeth, da quando invece di approfittarne e svelarsi Eden aveva fatto un passo indietro preferendo privarsi ancora una volta di una cosa bella e sparire, il suo mondo non era mai stato più rumoroso. Così fragoroso da non riuscire a sentire la propria voce, a sentirsi pensare. Così lui, che sempre rifletteva prima di agire o di parlare, aveva completamente perso la bussola andando alla deriva. Dall'ultima volta che si erano visti, niente era andato per il verso giusto. Niente. A partire dalla sua famiglia che, a parte una o due volte, non era riuscito a prendersi la responsabilità di esserci per loro. A partire dal lavoro, culminato con un omicidio quella notte stessa. Come era arrivato a quel punto? Le cose, lui, stava talmente male che i rumori non erano finiti dentro quel salotto ma avevano impiegato un bel po' prima ridursi di intensità, come se il potere di Mia su di loro faticasse a zittirle del tutto. O forse aveva solo bisogno di alcuni minuti in più per rifarsi del tempo perduto. Ma ora che le labbra assonnate di Mia si risvegliavano contro quelle al liquore di lui e le mani la sfioravano in triangoli di pelle che mai avrebbe pensato di esplorare, ora nella sua testa il rumore era quasi pari a zero. La ascoltò con quanta più attenzione riusciva ad avere, l'alcool gli annebbiava la vista e triplicava i sensi, mai così consapevoli come in quel momento dell'averla vicino. Mentre alludeva al suo passato, la cosa che l'aveva spezzata riempì gli angoli del suo campo visivo ingigantendo il petto di mostro nero, di paura indicibile, senza fondo. L'uomo cercò di non guardarla crescere dietro le spalle di Mia concentrandosi invece sui suoi occhi di un azzurro pulito, disarmante, evitando di prestarle attenzione e impedirle di prendere il sopravvento. Ma c'era anche una sorta di riserbo nella volontà caparbia di non guardare troppo a lungo o troppo in profondità, sopratutto con lei. Guardare nelle paure degli altri gli era sempre sembrato un atto di estrema violenza. Irrompeva nella sfera più intima senza chiedere il permesso e ciò lo nauseava, quindi con lei aveva sempre cercato di tenersene il più possibile alla larga finché non fosse stata lei a volersi aprire.
    Comunque, anche impegnandosi a non farlo l'aveva sempre sentito, quel buco nero che la seguiva come un avvoltoio sulla spalla e che le faceva alzare gli occhi di scatto a ogni suono della campanella sopra la porta che si apriva lasciando entrare una possibile minaccia; lo vedeva, Eden, il mostro nero di Mia perché dopo tanto tempo ancora abitava i suoi stessi luoghi, la sua casa, il suo studio, la parte di letto libera la sera.
    Un lieve respiro, l'aggrottare leggero delle sopracciglia. No, non gli era mai piaciuto il mostro di Mia. Il pollice continuava ad accarezzarla sulla schiena come a rassicurarla o a ringraziarla di quella confidenza celata, della fiducia che gli stava riservando nonostante tutto. Avvertì il gorgoglio della rabbia che da qualche parte in lui si risvegliava al pensiero del modo in cui l'avevano spezzata. Avrebbe voluto strappare quel qualcuno in mille pezzi, l'avrebbe fatto se fosse servito anche solo un pochino a farla stare meglio.
    Avrebbe voluto dirle che, se solo fosse arrivato prima in quello studio, non avrebbe mai lasciato che quell'orrore accadesse proprio a lei ma non riuscì ad aprire bocca perché, lo sapevano entrambi, non avrebbe mai potuto prometterlo. Non aveva una vita normale, non poteva giurarle di esserci ogni istante, di proteggerla da ogni bruttezza del mondo nonostante lo desiderasse terribilmente. Questa era la grande paura di Eden, questo il motivo per cui aveva cercato di allontanarla, per salvarla da lui. Scosse impercettibilmente la testa, Eden, gli occhi che si abbassavano fra di loro colpevoli, per rialzarsi poco dopo sotto la stretta dolce delle mani sul proprio viso.
    «Non è quel genere di male, con me. Non potrei mai, Mia. Mai.» Ritrovò la voce che uscì impastata, senza fiato, colpa delle mani, colpa del bacino contro il busto, colpa degli occhi puliti che lo guardavano forse, se possibile, più tristi dei suoi. Era tantissime cose, Eden, ora anche un killer, ma non avrebbe mai potuto essere quella persona che l'avrebbe ferita, non in quel modo. Non ce l'aveva dentro, per fortuna, il gene malato che spingeva certi uomini a erogarsi il diritto di sopprimere le donne, di privarle della libertà, di godere nel sopraffarle fino a tentare di distruggerle dentro. Ci teneva che lo sapesse, anche per questo era sempre stato così attento nel muoversi intorno a lei, nel chiedere il permesso ogni volta. Però non significava che non avrebbe dovuto avere paura di lui.
    Eppure lo ripetè due volte, Mia, che non era spaventata da lui. Sarebbe stato così bello accettarlo. Avrebbe potuto, per una volta, lasciar perdere e lasciarsi andare? Non smise di guardarla, gli occhi azzurri quasi neri di piano e rimorso, le sclere iniettate di venuzze rosse a raggiera intorno alle pupille. Sentì un groppo in gola, quei gesti, quelle parole lo colpivano nei punti giusti di quell'anima tormentata dai sensi di colpa. «So chi sei, quando sei con me.» Abbassò le palpebre, Eden, per non venire sopraffatto o forse per non mostrare quanto bene e quanto male gli facevano. Il petto si alzò a incanalare aria mentre lasciava che Mia gli sfilasse la giacca che sentì cadere a terra con un tonfo. «Del sangue sulle tue mani non m'importa...» Strinse automaticamente le dita lì dove lei le aveva guidate, sui fianchi, sui bordi della maglia lunga. Immaginò le mani insanguinate imbrattarle la pelle bianca come la più atroci delle ingiustizie. «Dovrebbe, però.» Riaprì gli occhi solo in quel momento con le mani che lasciavano la presa sulla maglia, lentamente e dolorosamente cercando quelle di lei e stringendone una. La portò in alto verso il proprio viso fino a che il piccolo palmo di lei non si riempì della propria guancia, ruvida di una barba di qualche giorno. Sostò lì qualche secondo respirando superficialmente, veloce, sollevò il capo per baciarle l'interno del palmo, la guardò con la colpa e la tristezza negli occhi mentre la spinse con delicatezza ad alzarsi da lui.
    La raggiunse, instabile sui piedi, dal dorso la mano si unì ancora di più alla sua intrecciandone le dita mentre insieme colavano a picco fra i loro corpi e Eden si muoveva piano passando dalla luce soffusa alla penombra della camera da letto.
    Fu un cambio graduale, dal soggiorno al corridoio alla stanza di lui Mia avrebbe visto i dettagli sparire fino a che solo i contorni della sua figura sarebbero rimasti, dondolanti davanti a lei. Aveva sempre amato quel luogo, Eden, era lo spazio in cui sentiva più silenzio in assoluto, tanto da essercisi addormentato un paio di volte senza neanche rendersene conto. Di fronte al letto, Eden si voltò di nuovo verso di lei, chinandosi quel tanto che bastava per cercarle di nuovo le labbra. Una scarica elettrica gli fece venire la pelle d'oca sulle braccia, le cercò il collo con la mano libera stringendole leggermente la parte posteriore come a volercisi aggrappare per non cadere. Doveva aver paura di lui, era essenziale che ne avesse. Eppure una parte di lui voleva così tanto credere che un mondo privo del resto fosse possibile da arrivare a ingannare sé stesso. In fondo bastava chiudere gli occhi e lasciarsi andare. Arrivarono seduti e sdraiati sul fianco senza separarsi mai, e quando le loro teste affondarono nei cuscini non erano più le labbra le sole a toccarsi ma tutto il corpo, ormai senza alcuno spazio se non lo strato morbido dei vestiti. «Hai un pessimo istinto di sopravvivenza. » sussurrò piano Eden, riprendendo il discorso come se l'avessero lasciato in sospeso e non fossero che rimasti nel soggiorno, dove lei aveva detto che il sangue non le interessava e dove aveva giurato di non aver paura di lui. Non cercò neanche di sorridere perché non era divertente, lo pensava davvero e gli recava un dolore così grande da essere visibile su ogni lineamento e ruga del viso. Intanto però, a un millimetro dalle sue labbra mentre i loro nasi sfregavano l'un l'altro. Si sollevò togliendosi la maglietta dalla testa, buttandola da una parte per poi girare il collo e guardare Mia. Nonostante il cuore gli battesse nel petto all'impazzata e l'alcool lo spingesse a sbrigarsi, Eden voleva invece prendersi e darle tutto il tempo possibile. Sulle ginocchia, le sollevò piano la maglietta baciandola lì dove la pelle si scopriva sempre di più, arrivando piano a farla sollevare leggermente per sfilarle la maglia. Affondarono entrambi di nuovo sul letto stesi sul fianco, Eden stavolta più in alto con il gomito puntato sul materasso. Sollevò gli occhi nei suoi, deviando negli angoli della stanza come ad accertarsi che la paura di Mia non fosse troppo vicina. L'indice e il medio presero ad accarezzarla sui fianchi lungo le curve leggere e le labbra, che non riuscirono a starle lontano troppo a lungo, la incontrarono di nuovo a metà strada. Con il mento sollevato verso di lui, Mia sembrava pregarlo di non smettere mai. «Mia...se...se ti dicessi che queste mani hanno...» Riuscì a fatica a spillare quelle parole senza senso in un frammento di tempo tra i respiri. Le suddette mani, intanto, erano arrivate su ogni fazzoletto di pelle a disposizione. La voce minacciava di cedergli e invece lo fece il proprio corpo, il gomito perse sotto il peso della colpa e Eden tornò a sdraiarsi completamente vicino a lei, fronteggiando quegli occhi che lo tranquillizzavano facendolo sentire in qualche modo giusto. «non sono una bella persona, per niente, mi dispiace.» Disse come a rispondere al modo in cui il suo sguardo lo faceva sentire. Non lo era, davvero, niente di quello che faceva era giusto. Per questo allora si riavvicinò a lei, mano tremante contro guancia, baciandola quasi con disperazione. Se non era una bella persona avrebbe forse solo dovuto smettere di combattere, fingere di esserlo e prendersi quello che voleva. Quello di cui aveva bisogno da così tanto tempo da sembrare impossibile, ora, essersene privato così a lungo. Il tocco si fece più sicuro, più voluto, mentre le dita imprigionavano i capelli. Scalciò le scarpe giù dal letto, le dita incastrate sotto l'elastico dei leggins che prese ad abbassare. Lo sentiva ovunque, ora, l’insieme di tutti quei suoni bianchi costanti che con il loro flusso e a basso volume riescono a nascondere tutti gli altri disturbanti.
    Mia, il suo rumore bianco personale, un rumore che conteneva tutte le frequenze dello spettro del suono udibile in egual misura. Una sorta di scudo invisibile.

    Edited by scarecrow! - 29/1/2023, 15:16
     
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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [Descrizioni dettagliate o discussione estesa di contenuti espliciti e non adatti ai minori di diciott'anni: attività sessuali consensuali;].
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.


    So close your eyes and feel the wind
    Warm your heart and graze your skin
    Take my hand and just believe
    In time, in fate and all those things

    La speranza che quella persona arrivasse l'aveva avuta per diverso tempo. Quando da bambina la vita le si era messa contro, anche la piccola Mia aveva riuscito a ritagliarsi un piccolo pugno di tempo per pensare a come sarebbe stato quando sarebbe giunto. Era accaduto qualche volta prima di trovare Theresia sulla poltrona del salotto, gli occhi serrati; era riaccaduto qualche tempo dopo quando, camminando a passo svelto lungo il corridoio di casa Bryne, aveva gettato lo sguardo su una vecchia foto dei suoi genitori adottivi e si era domandata come funzionasse: come ci si innamorava? Come si capiva? Come ci si lasciava andare a qualcuno completamente? E se non avesse dovuto essere "completamente", come ci si lasciava andare nella giusta quantità per non perdersi completamente? Se l'era chiesto molte volte, certo mai troppe, ma quel quesito troppo particolare e fantasioso per una mente rigida come la sua aveva comunque fatto capolino lì dove vi aveva trovato spazio, una frattura fra i blocchi di cemento che Mia aveva sempre creduto fungessero da recinto alla propria personalità, così differente da tutte le altre, la notte di mille giorni che aveva intorno a scuola, chiome biondissime che, al contrario suo, di tingersi la frangia di nero proprio non volevano saperne. E allora s'era detta che, forse, per una come lei non c'era alcuna possibilità, il cuore di ghiaccio che le palpitava nel petto lo faceva a fatica, era assolutamente da escludere che un giorno avrebbe potuto sciogliersi, spargere dentro al petto un mare d'acqua costellato di iceberg che, ad ogni più sentito battito, avrebbero scatenato una tempesta per poi sciogliersi definitivamente. Ci sarebbe poi annegata, in mezzo a tutta quell'acqua?
    C'era stato qualcuno che le aveva fatto tremare la voce per l'emozione, qualcun altro le aveva fatto venire la pelle d'oca per l'euforia, qualcun altro ancora aveva completamente cancellato ogni ricettore attivo sulla sua pelle e dentro al petto per la paura, e da quel momento in poi degli iceberg non c'era stata più alcuna traccia: una distesa immensa di ghiaccio aveva avvolto qualsiasi muscolo cardiaco e, se solo non avesse poggiato per sbaglio il palmo della mano aperta sul costato, probabilmente Mia non avrebbe avuto mai la certezza d'esser viva e funzionante, un essere umano e non solo un misero cartoccio di pelle bianchissima, l'involucro magro intorno ad un paio d'ossa cresciute male. Ad ogni battito, quel cuore aveva generato un rumore assordante, un crack deludente. Lo aveva potuto udire anche Eden quando, quella mattina di una vita prima, aveva messo piede dentro allo studio? O aveva sentito solo il fruscio dell'acqua che le si riversava dentro mentre, posati gli occhi su di lei, lui aveva fatto in modo che tutto quel ghiaccio divenisse tale da scorrerle dentro? Una cascata invisibile, il contrario dei fili nero pece dietro il quale si era subito nascosta ricadendole sugli occhi quando aveva abbassato la nuca.

    Con il corpo di Eden così vicino, Mia si ritrovò a chiedersi se la pelle d'oca che avvertiva lungo le braccia e tutta la schiena, se quella fosse la speranza che a volte da bambina aveva rincorso. Il pensiero di un futuro che non aveva cercato lei ma, al contrario, che Mia aveva provato a scovare con la forza del pensiero, con il ragionamento fantasioso di chi ancora della vita non comprende niente, tantomeno di sé stessa. «Non è quel genere di male, con me. Non potrei mai, Mia. Mai.» le parole di lui risuonarono chiassose ma calme contro la sua pelle, l'attaccatura dei capelli alla base della nuca si arricciò come se, per la prima volta, qualcuno le avesse messo gli occhi addosso per davvero, per guardare cosa si celasse dietro le iridi bluastre che distoglieva dal viso di chiunque per non essere impertinente e per non lasciarsi frugare dentro. Non voleva esser vista, non voleva esser studiata, non voleva che la gente, anche solo osservandola, adocchiasse quella vergogna che da anni cercava di nascondere sotto strati e strati di vestiti, di una pelle bianchissima che, come il latte, voleva scivolasse via sul pavimento, una cosa di poca importanza, da mettere subito da parte perché, alla fine, così commercializzata e poco preziosa da non destare mai più alcuna attenzione. Eppure Eden la vedeva, la sentiva, ne cercava la vicinanza e lei, per qualche assurda ragione, non avvertiva più quel crack provenire dal cuore, il ghiaccio non era più ghiaccio, quando Eden la guardava. Il calore che avvertiva attorno, sotto i polpastrelli, sotto la lunga chioma di capelli che le riscaldava le spalle, dentro le ossa e in mezzo ai muscoli; Eden, senza pronunciare neanche una parola, parlava con parti di lei che Mia credeva avesse sepolto da un pezzo tanto da aver dimenticato esistessero. Strinse la presa sul viso di Eden, quasi impercettibilmente, e senza neanche rendersene davvero conto, come se il corpo volesse rafforzare la presa su di lui per non lasciarsi sfuggire neanche un momento, neanche una di quelle onde di brividi che ad ogni parola, sua o di lui, riprendevano a viaggiarle lungo il corpo dalla testa fino ai piedi. Ricordò un momento del passato, un riflesso nello specchio appeso al muro nella sua cameretta in casa Bryne, quando osservando la forma delle propria sopracciglia aveva accettato, inconsapevolmente, ciò che era, ciò che sarebbe stata, quello che provava e quello che sarebbe stata capace di provare. Ricordò quel momento con la nuova consapevolezza dei propri errori, dei ragionamenti che avevano perso fondamenta con il tempo, delle speranze che, affievolitesi ad ogni suo passo e ad ogni passaggio dal giorno alla notte fino a quel momento, ora tornavano in auge e la spingevano a chiedersi, dopotutto, quante altre volte avesse messo da parte la fantasia per tenersi allacciata alla realtà, piedi piantati per terra così che, alla fine, cadere non sarebbe stato neanche possibile. Attutire i danni, per quanto possibile. Cosa sarebbe davvero accaduto se, dopo aver avuto l'ennesima visione mentre stava pitturando le pareti dello studio di quel rosso acceso con Dylan, si fosse fermata e avesse optato per un blu chiarissimo? E se attutire i colpi significava perdere Eden, allora, forse era giunto il momento di staccarsi da terra. «Dovrebbe, però.» aggiunse lui rispondendo alle parole di Mia, che di tutto in vita sua aveva sempre avuto paura, tranne che dello sguardo di Eden il quale, al contrario, la tirava dentro un mondo in cui mai si sarebbe sentita più sicura. Scosse appena il capo, la nuca vicinissima a quella di Eden, gli occhi che da sotto la frangetta nera cercavano le pupille arrossate di lui per aggrapparvisi. Si lasciò afferrare la mano per portarla sulla guancia ruvida del viso di Eden, un territorio distrutto da immagini di un passato che a lei restavano ancora nascoste, poteva leggerne solo le conseguenze, quelle che si trasformavano in occhi lucidi e labbra secche, lingua asciutta. Posò di nuovo la fronte su quella di lui, la punta del naso si strofinò un'ultima volta contro quella di lui mentre le labbra si avvicinavano alle gemelle di fronte, questa volta senza sfiorarle per davvero.

    Ogni piccolo passo di Mia seguiva quello di Eden e viceversa, si ritrovarono quindi al buio della camera da letto entro le cui mura troppo spesso si erano ritrovati, eppure mai così vicini. Le sembrava d’esser un corpo solo con lui, la vicinanza più sentita, avvertita, da quella che le sembrava una vita, forse quella di qualcun altro, forse quella del riflesso nello specchio che, anni prima, aveva guardato con sospetto. A socchiudere le palpebre le veniva difficile ora che, per la prima volta, non aveva paura di guardare. Si lasciava sfiorare da Eden, toccare in posti che neanche aveva creduto più d’avere, dove per anni non aveva sentito la pelle rinascere infuocata al passaggio di un polpastrello. Si chiese, nel silenzio di quella stanza, di quella casa, di quel mondo: sarebbe stata in grado di non cadere a picco? «Hai un pessimo istinto di sopravvivenza.» sussurrò Eden nella sua direzione e Mia chinò appena il capo da un lato mentre, a labbra schiuse, cercava di acchiappare le parole che sentiva frullarle nella gola per salire e venir fuori. Invece si lasciò trasportare da lui sul materasso, il cuore scalpitava nel petto, sembrava andasse di pari passo ad ogni tocco, ad ogni centimetro di pelle che le mani di Eden ora stavano esplorando: se le si fosse fermato quel muscolo ora gigantesco nel petto, avrebbe smesso anche lui di affondare le dita nella sua pelle? Sarebbe scomparso tutto quanto e lei si sarebbe ritrovata davanti a quello specchio, mille vite prima, risvegliandosi da un sogno che ì, invece, avrebbe cancellato tutte le domande e le risposte?
    Quasi surreale, quel momento, Mia stentava a credere di trovarsi proprio lì, il pericolo chiuso fuori dalla porta di casa, i pensieri intrusivi aggrappati alla ringhiera del balcone, la finestra chiusa così che non avrebbero potuto intrufolarsi nel loro buio, l'oscurità che in nessun caso comunque riusciva a cancellare il profilo di Eden che si muoveva piano nella stanza, sollevava le braccia per afferrare la maglietta dal collo e sfilarla via. Ferma sul materasso, Mia avvertiva il proprio corpo sprofondare dentro le molle senza però mai affondare perché ogni volta lui tornava, la guardava, allungava le mani per cercare il contatto con la sua pelle, andava ad afferrare i bordi della t-shirt per sollevarli piano, movimenti che andavano ad intrecciarsi con quelli di lei che, sollevatasi appena con il busto, accettava di restare a pelle scoperta davanti a lui per la prima volta. Avvertiva il rossore esploderle sulle guance e fu timidamente grata che fossero avvolti nel buio, poiché la sua mente razione ora prendeva a porsi domande che mai s'era posta, soprattutto in presenza di un uomo. C'era qualcosa di tremendamente umano dentro di lei in quel momento che la spinse ad abbassare la nuca per qualche secondo così che la frangetta ricadesse nuovamente sulla sua fronte, le punte le pizzicarono le palpebre scontrandosi contro la morbidezza curva delle ciglia lunghe. Quando si ritirò con la schiena verso il materasso, Eden fece lo stesso, raggiungendola per tornarle vicino. Lo accolse con le labbra mentre le mani andarono ad afferrare le sue spalle, i polpastrelli delle dita timide ora cercarono l'appiglio nella pelle liscia di Eden spingendoselo appena contro, il mento sollevato verso il suo, le labbra schiuse alla ricerca di ogni singolo respiro d'emergenza, quasi avesse la sensazione che i polmoni le stessero stretti dentro al torace. Avrebbe voluto descrivergli tutte quelle sensazioni che le stavano attraversando mente e corpo, avrebbe voluto spiegargli il mondo che si sentiva dentro e l'idea che un corto circuito le stesse facendo tremare persino i piedi, eppure Mia non riusciva a trovare un senso materiale alle sensazioni che, invece di farla prigioniera, aveva la sensazione le stessero togliendo via un peso enorme dal petto, un masso di roccia fredda che si era trascinata dietro per un tempo indefinibilmente lungo. Sembrava scivolarle via come la t-shirt che, tolta, era finita per terra accanto a quella di Eden. «Mia...se...se ti dicessi che queste mani hanno...» riprese a parlare Eden, ma Mia sollevò una mano verso il suo viso per posare il proprio dito indice sulle labbra schiuse di Eden finché non si fu steso di fianco a lei di nuovo. Ritirò la mano per posargliela sul fianco e stringere piano, le dita che tornavano ad affondare dolcemente nella sua pelle quasi desiderasse capirne la consistenza, come se volesse accertarsi che lui fosse lì e non fosse fatto della stessa sostanza di cui era stata fatta la Mia riflessa nello specchio di tanti anni prima, quella che aveva creduto di non voler esser guardata o sfiorata. Eden c'era, la sua pelle era morbida e profumava di foresta, come il bagnoschiuma che aveva visto sulle mensole del bagno nella sua mini casa piena di cartoni. «non sono una bella persona, per niente, mi dispiace.» si scusò ancora, Eden, per mali che a lei non aveva mai arrecato. Spinse piano con la mano sul fianco di lui per tirarlo a sé e accoglierlo di nuovo mentre, labbra contro labbra, avvertiva il tocco di Eden farsi appena più sicuro, le dita vagavano dalla schiena ora scoperta di Mia verso il basso, allacciandosi all'elastico dei leggings per tirarli piano verso il basso. Lasciò che fosse lui a guidare, per un momento credette di aver dimenticato come funzionasse, quella cosa che si faceva quando ossa e muscoli dell'una si univano a quelli dell'altro. «Eden, io...» disse piano, la voce assottigliata dal fiato corto mentre una delle mani di Mia si staccava dalla pelle di lui per raggiungere il dorso della mano di Eden che ora si premeva contro il collo di lei nascosto da una coperta di capelli neri. Sollevò piano le ginocchia per aiutarlo a sfilarle via i leggings mentre li faceva scivolare via dalle caviglie e i piedi per poi sentirli atterrare sul pavimento. Avrebbe voluto dire altro, dirgli che per lei era come qualcosa di nuovo, come se stesse riscoprendo se stessa di nuovo tramite lui, eppure le parole continuavano a scivolarle giù, tornavano indietro per impastarsi di nuovo le une alle altre in un tentativo più semplice. Così posò una mano sul braccio di Eden per tirarlo verso di lei, senza dire nulla e cercando di fargli capire che avrebbe dovuto sollevarsi, in qualche modo insicura di ciò che stava facendo o che avrebbe dovuto fare, nel profondo quasi divertita del modo in cui si stavano riscoprendo. Quando Eden fu su di lei, fra di lei, Mia allungò le mani verso la cintura dei pantaloni e, con le dita, ne spinse il bordo verso il basso, il mento che cercava quello di Eden per lasciare che le labbra si unissero di nuovo, gli occhi nascosti non solo dalla frangetta, ma dalle palpebre stesse che scivolarono sulle iridi blu. Quando si staccò da lui, restò per qualche istante con gli occhi serrati mentre le mani si aggrappavano al corpo caldo di Eden. «Sei la persona più bella che si sia mai infilata nella mia vita.» sussurrò nel silenzio, il tono di voce così basso che per qualche secondo pensò di non averlo neanche detto, la scelta stramba delle parole diedero alla frase un suono quasi sbagliato, come se un bambino alle prime armi provasse a dare un senso "da grandi" ai propri pensieri, il frutto di immagini da tradurre a parole. Con le palpebre ancora serrate, Mia si prese qualche secondo per regolare il respiro ancora una volta prima di avvicinarsi con i fianchi a quelli di lui, le mani si sollevarono per stringersi sulla nuca di Eden, le dita che premevano leggere e ai lati del suo volto per tenerlo vicino mentre, lo avrebbe giurato, si sentiva attraversare da sensazioni che avrebbe definito come sconosciute, se non fosse stato per l'eco di ricordi lontani, qualcosa che il tatto, sì, conosceva, ma non a quel profondissimo punto d'intimità che Mia non aveva mai davvero conosciuto. Assecondò piano i movimenti di Eden, avvertendo il respiro di lui mischiarsi al rumore che le veniva da dentro al petto, quel tum tum incessante che sembrava volerle far esplodere la cassa toracica e frantumarla in mille pezzi per poi darle solo il tempo di ricomporla e tornare ad esploderle dentro ancora e ancora. E ad ogni movimento un pezzo di Mia si staccava da lei per cadere sul pavimento sul quale stagliavano ora non solo magliette, leggings e rocce, ma anche paure e il ricordo di alcuni riflessi. «Mi sa che ti amo?» giunse quasi sordo l'ennesimo sussurro, una domanda che le scivolò dalle labbra senza alcun preavviso, ebbe solo la certezza che fosse il frutto di tutte quelle parole masticate prima e mai pronte per uscire, le aveva rimandate giù per dare loro nuova forma, forse qualcosa di più comprensibile, forse qualcosa di più sensato, ed ecco che se ne usciva con la cosa meno sensata di tutte, e la disse all'unica persona che, altrettanto senza senso, le era apparso nella vita da un giorno all'altro e lì era rimasto, a debita distanza eppure così vicino, un passo ad ogni visita in studio, mezzo metro ad ogni scalino che portava al rifugio di Mia sopra lo studio. Insensato come lo spazio che aveva separato le loro ginocchia tutte le volte in cui, seduti sul divano, avevano guardato un film senza davvero farlo.
    Forse era quello il senso, non trovarlo. Forse, come tutte le cose che aveva vissuto e non aveva potuto evitare, Eden era l'unica per cui fosse felice d'esser stata lì dov'era quando lui, finalmente, aveva aperto la porta di vetro e la campanellina sopra d'essa aveva suonato.
    Un tintinnio leggero, forse tanto lieve quanto quel sussurro scivolatole via dalle labbra.
     
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