That falling in love is a strange work of art

Anastasija&Jonas | Libreria Löfgren | primo pomeriggio

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    I’m falling apart, I’m barely breathing. With a broken heart.

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    I wanna tear down these walls that can't hold you inside
    And rip out the cords and uncover your eyes
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    C'erano alcuni luoghi che la invitavano a nascondersi. Non si trattava di angoli bui e polverosi, neanche di spazi spogli dove ci si sarebbe potuti mimetizzare con le pareti, se solo lo si fosse voluto. Ad Anastasija piaceva rintanarsi fra gli steli delle alte piante che curava con amore dentro una serra che aveva ormai assorbite le impronte dei suoi piedi sottili, accogliendone ogni singolo passo, anche quelli un po' incerti. E allora spesso quel nascondiglio profumava di rose, di lavanda, un po' di terra bagnata dopo una giornata di pioggia, le pungeva le narici come a volersi infilare dentro di lei, quell'odore agrodolce. Altre volte, invece, il nascondiglio prendeva la forma di scaffali di cui non riusciva a vederne la superficie, così alti che neanche a mettersi sulle punte dei piedi riusciva a toccare i volumi sistemati più in alto. Perché anche avvolta dalla luce che a lei non giungeva, ora, i polpastrelli delle dita sottili si strofinavano ancora su ogni superficie liscia e ruvida, sulle copertine di libri un po' più vecchi, poi su quelli nuovi, con cautela vi sollevava la copertina e li avvicinava al viso, ne annusava il profumo delle pagine stampate e, ad occhi chiusi, ricordava ancora il profumo dei suoi nascondigli, che al buio diventavan più che altro punti di ritrovo. Ci era cascata di nuovo, lì nella sua calma piatta e nera: già due settimane e le mani avevano cominciato a diventare curiose, tanto quanto nel prima, mentre si aggrappavano a tutto ciò che le restava nelle vicinanze, punti di riferimento che le suggerivano dove andare, di un semplice oggetto riusciva a farne una guida, un'indicazione che di fronte ad altri occhi sarebbe stato forse tanto inutile quanto invisibile. In quel momento, con le dita premute contro il legno ruvido dello scaffale di fronte al quale si era fermata, Anastasija si celava avvolta nel profumo delle pagine bianche dei libri, immaginando cosa le capitasse fra le mani mentre avanzava fra gli alti scaffali della libreria. Era entrata così tante volte lì dentro che anche ad occhi spenti riusciva a guardare dove andasse. Tre passi dopo aver superato l'uscio della libreria Löfgren, quattro piccoli passi sulla destra, mano all'altezza del busto, primo, secondo, terzo scaffale e così via, guide turistiche e viaggi no, scienze geografia e ambiente no, arte, poesia, linguistica, narrativa . Non aveva idea di che libro tenesse aperto nel palmo della mano, dito indice e medio aderenti al bordo laterale, pollice saldo fra le pagine aperte, nel centro esatto, lì dove se solo avesse potuto guardare, avrebbe fatto scorrere le iridi per controllare che le pagine fossero perfettamente collegate le une alle altre, lì nelle onde di carta che si abbassavano in una discesa morbida tornando ad unirsi nel centro. Quando chiuse il libro sospirò pacatamente, poi tornò a cercare lo spazio fra gli altri dal quale lei lo aveva tirato fuori, così lo ripose al proprio posto. Erano giorni un po' stanchi, quelli. La discussione con Matt si era trasformata in un gigantesco punto interrogativo e Anastasija cominciava a temere che tutto il loro mondo, il suo mondo, si sarebbe sgretolato piano fra le proprie mani e lei non avrebbe potuto far niente per acciuffarne la polvere che, in piccolissimi granelli, prendeva a scivolarle via fra gli spazi tra le dita. C'erano cose che sarebbero dovute restare esattamente com'erano; forse, sotto sotto, per Anastasija doveva restare poi invece tutto così come lei era riuscita a costruirlo. Il ricordo delle parole della direttrice d'orfanotrofio rimbombavano ancora dentro di lei come percussioni impossibili da zittire, ne udiva l'eco anche laddove le sarebbe stato impossibile sentire suoni, gli occhi azzurrini di Matt ne erano un palese esempio, l'unico luogo dal quale, quando era giunto di nuovo il buio, era stata sollevata di non poter più abitare con il proprio. Restò qualche istante ancora con i palmi delle mani aperte sulle copertine rigide dei volumi, strofinando appena il polpastrello del pollice su di essi quando, soprappensiero, tutti gli altri sensi captarono altro. Drizzò istintivamente la schiena, con lentezza, mentre voltava pianissimo il capo di lato lasciando che il mento si indirizzasse verso la propria spalla destra, palpebre aperte ma sguardo opaco, Anastasija restò in silenzio per qualche secondo, in attesa. L'odore forte del caffè lo registrò solo in quel momento per davvero, nonostante inconsciamente ne avesse catturato il profumo già qualche istante prima, quando i passi che aveva udito solo di sottofondo si erano poi improvvisamente fermati lì nelle sue vicinanze, trascinando con loro una serenità ovattata che solo ora pareva esser divenuta insistente. «Chi c'è?» sibilò, un mezzo sussurro attorcigliato ad un tono di voce un po' aggressivo, un po' sconcertato e impaurito, eccola che tornava a staccare una mano dai libri e, girandosi con il busto verso la propria destra, desiderava acchiappare immagini che, purtroppo, in quel momento non si presenteranno ai suoi occhi inibiti. Sbattè più volte le palpebre, veloce, le ciglia si scontrarono contro la pelle degli zigomi più e più volte finché tutto non si calmò e lei, a petto gonfio, sollevò le iridi su un volto, di chi ancora non poteva saperlo. Per qualche istante si maledì, nella testa il ricordo di ciò che le era stato dato indietro solo qualche tempo prima e che, puntualmente, continuava a perdere con costanza. Non era mai stata una soluzione duratura, questo lo aveva saputo, ma quanto poteva farle bene riprendersi ciò che le era stato tolto, se poi tutto continuava a ripetersi dall'inizio come dentro un loop? La prima volta che aveva ripreso la vista era stata fulminata da un lampo di emozioni che neanche a parole avrebbe saputo descrivere, lei che qualsiasi cosa avrebbe potuto spiegare, raccontare, trasformare in ninna nanna o culla di parole. Come lo si spiega al mondo, quando si torna ad aver a che fare con qualcosa che sembra essersi perso per sempre, e invece non lo è? Come lo si spiega al mondo che, quando si è abituati a perdere tutto, non si lascia mai più niente al caso?
    Con la schiena ancora dritta e le spalle ben salde ai lati del collo lungo e magro coperto dai capelli biondi lasciati sciolti ed ondulanti ai lati delle guance, Anastasija compì un passo indietro, un po' lateralmente, per prendere distanza e al contempo darsi tempo, chissà poi per cosa. «Non te l'hanno insegnato che non è carino arrivare silenziosamente alle spalle di qualcuno?» si ritrovò quindi a chiedere subito dopo, le sopracciglia ora due sottilissimi archi ricurvi verso il basso, nel centro esatto, pronti a guidare la pelle liscia e perlacea verso la perfetta retta del naso a punta. Il pensiero di lui giunse solo dopo, solo quando la sua mente fu in grado di collegare i punti, la libreria, il nome, il ricordo del ragazzo fra quegli scaffali più e più volte, per quasi tutte le occasioni in cui ci si era ritrovata insieme. Kos, che da settimane non faceva altro che provare a cercare un contatto con lei, magari davanti ad un paio d tazze di caffè che lei aveva accuratamente evitato di bere in sua compagnia. Lo aveva conosciuto tramite suo cognato e le cene che adorava indire invitando i suoi studenti preferiti per discutere di letteratura e scrittura accompagnati da un bicchiere di vino rosso. Il suo sguardo se l’era sentito addosso sin dal primo momento, proprio come in quel frangente, un intruso nel suo nascondiglio personale mentre provava a scacciare via il profumo dei libri e della carta sostituendolo con quello del caffè che, ora ne era davvero sicura, Kos teneva fra le mani all’interno di due tazze ancora bollenti. Sciolse piano la propria postura, tornando a muovere le spalle lasciando che le braccia scivolassero piano intorno al busto mentre si stringeva fra sé per allacciare le dita sottili attorno alle braccia avvolte nella maglietta a righe dalle spalline un po’ rigonfie. Anche l’espressione del volto si addolcì, giusto un po’, mai troppo esageratamente per una che restava costantemente sull’attenti con chiunque. Qualcosa, in lui, riusciva sempre a strapparle un sorriso e, contro la sua volontà, Anastasija a stento era disposta a piegarsi, così le labbra assumevano la forma obliqua di chi proprio non vuole lasciarsi andare e prova a trattenersi senza poi riuscirci davvero. Labbra che si allargano da un lato più che dall'altro, un angolo che si solleva in direzione della guancia colpita e l'altro che resta ben sigillato, giusto il tempo di abbassare nuovamente lo sguardo e voltare il viso lateralmente. Un'incognita, tutto quell'interesse da parte sua per lei, Anastasija cercava di non girarci mai troppo intorno con i pensieri, non era qualcosa per cui avrebbe dovuto preoccuparsi, certamente, eppure... perché Kos continuava a scriverle nonostante evitasse di rispondere alla maggior parte di quei messaggi? A volte tormentata dall'idea di essere il centro di attenzioni che non avrebbe voluto ricevere, altre volte invece affogava nei ragionamenti che quei comportamenti la portavano ad elaborare. Un ragazzino, che potrà mai volere? «Jonas, non prenderò quel caffè con te. Non succederà.» sentenziò, questa volta il tono di voce decisamente più pacato e smosso da una sensazione di divertimento che, incontrollabile, sentiva crescerle dentro, laddove seppe di dover soffocare il suono dolciastro di una risata. Buffo, il modo in cui lui insisteva. Ancor più ilare la sensazione stranissima, sconosciuta, incomprensibile, che le faceva arrossare appena le guance al sol pensiero d'esser corteggiata dal ragazzo.
    Un gioco da niente, un paio di giorni e Jonas avrebbe perso la testa per qualcun'altra.
     
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    Sedeva a gambe conserte per terra, gli occhi verdognoli abbassati sul mattone che teneva in grembo, ah no, era un libro; le iridi sul libro , le righe scorrevano veloci come fossero su un'autostrada, le ciglia sfioravano le guance come rami fitti, ciglia da femmina, così l'avevano canzonato i primi tempi di scuola. Si sentiva al sicuro, lì succedeva ogni volta, nonostante fossero passati anni da quando aveva affrontato i bulli, sconfiggendoli. Ora sapeva che i capelli tenuti a cinque millimetri appena piacevano, che le ciglia lunghe attiravano le ragazze, hai lo sguardo dolce, che con la sensibilità aveva conquistato più cuori di quanto tutti avrebbero scommesso. Era sereno in quel periodo ma non immune ai dispiaceri, e lì dentro continuava a sentirsi protetto. Frequentava altri posti ora, Kos, ma tornava sempre nella libreria di famiglia perché, a parte aiutare i genitori, lì conosceva il rumore delle cose, le corsie tra gli scaffali, la costa di ogni libro, i nomi delle sezioni scritti ancora a mano in un'epoca in cui tutto si digitalizzava. Portavano la sua grafia da anni, stretta e addossata sin da bambino, come se avesse tante di quelle cose dentro e si ammassassero tutte per uscire fuori. Tirò su il beanie azzurro cielo che gli scivolava sulla fronte, una distrazione che non riuscì comunque a distoglierlo dalla lettura. Sapeva perdercisi lì dentro, era così da sempre. L'assuefazione da parola scritta era poi peggiorata da quella volta, dal giorno più brutto della sua vita, quando aveva permesso all'egoismo e alla gelosia di prendere il sopravvento. Era ancora un bambino all'epoca, era dolce, ma serio. Non c’era bisogno di dirgli di fare i compiti, lavarsi i denti, apparecchiare la tavola o mettere a posto, lo faceva da solo. Rideva spesso, una risata limpida, ma ricadeva sempre sui propri piedi, piedi da adulto che portava il 34. La campanella sopra la porta d'ingresso tintinnò, Kos assimilò il suono senza tuttavia avere una reazione, quello un rumore assimilato ormai da tempo. Ciò che riuscì a strapparlo alla sua tana mentale fu piuttosto l'odore, un profumo raffinato, un profumo che colpiva. Si alzò con il vento intrufolatosi dalla porta raggiungendolo in pochi secondi. Alzò la testa, la vide, chiuse piano il libro con i palmi delle mani.

    Anastasija era una stupida scommessa. Neanche a chiederlo, l'dea era stata di Isak. Aveva visto come l'amico la guardava, non ti si filerà mai, aveva detto con serietà. Non pensarci neanche. Ma Kos ci aveva pensato, tanto, sempre, poi la scommessa che non c'entrava molto con la sua insistenza. Restava il fatto che Anastasija lo incuriosiva, sopra l'aspetto fisico invidiabile Kos si trovava a voler voglia di sapere di lei, cosa pensasse, cosa le piacesse fare la domenica pomeriggio, se piegava i bordi delle pagine, inseriva la copertina o si muniva di segnalibro per tenere il segno delle sue letture. Le due tazze scottavano i palmi pallidi delle sue mani, non aveva pensato che potesse sentirlo già dietro e scambiarlo per un'ombra in assalto. Non si era mai scontrato la cecità, non sapeva cosa volesse dire dover vedere con gli altri sensi. Si arrestò a qualche passo da lei, l'odore del caffè mischiato al profumo raffinato di Anastasija lo catapultò in una situazione quasi di sogno. Sperava glie ne rimanesse un po' addosso, sui vestiti. «Non volevo spaventarti: vengo in pace.» Si affrettò a dire, un passo mosso in avanti, lo sguardo che le accarezzava il viso. Poteva sentirlo? Si perse negli occhi di lei e per un attimo gli sembrò di nuotare nel cielo. Era strano pensare che non potessero vederlo, che non sapesse minimamente com'era fatto, che non lo vedesse sorridere alla testardaggine che impiegava nel rifiutare ogni suo tentativo. «Guarda, mi faccio più distante così non lo prendi con me. Però prendi questo caffè dai, è fatto con il cuore, non puoi sprecarlo.» Si era avvicinato di pochissimo, lasciò una delle due tazzine di ceramica sullo scaffale di fianco. Nel suo profumo ora gli sembrava di averlo attraversato. «Sto per toccarti le mani, non prendermi a borsettate in testa ok? Ti lascio il caffè.» Sorrise mostrando i denti che lei non poteva vedere. Non aveva idea se fosse apprezzabile avvertirla, non sapeva come ci si sentiva ma, se fosse stato lui, gli avrebbe fatto piacere. Sfiorare le dita di Anastasija fu meglio di quanto avesse immaginato, lisce e sottili fremettero piano quando lui le strinse per sollevarle, la tazzina intanto ne veniva timidamente esplorata. «Scotta un po', sta' attenta lillemor.» Piccola mamma, donna adulta, avanti con l'età. Gli era uscito spontaneo, era la prima volta che la chiamava così. Con la tazza al sicuro tra le sua mani, Kos si allontanò mantenendo la promessa. Adagiato con la spalla contro uno scaffale, la osservò dalla fine del corridoietto mentre immergeva le labbra in un sorso di caffè. «Ti piace questo non caffè non insieme?» Pur non vedendoci, sicuramente avrebbe colto il riso nella sua voce. Nella libreria Löfgren non si serviva un caffè qualunque, nessuna macchinetta rumorosa, nessuna cialda metallica. Una vera e propria macchinetta svettava in un angolo circondata da tazze e tazzine di ceramica o porcellana, un vecchio stile che stonava in un mondo ormai usa e getta. In quel luogo si respirava la storia e il passato impregnava le pareti, attraverso ogni scaffale sembrava di entrare in un'altra dimensione. «Posso farti una domanda strana?» Schioccò fra loro le labbra sottili, gli occhi non la lasciavano un minuto. «Come sono nella tua immaginazione?» Prima di conoscere Isak, Henry e Gree, Kos aveva come la sensazione di non lasciare tracce su un foglio di carta, tipo cartuccia d’inchiostro vuota, pensava di essere spoglio di colori, trasparente. Per quanto provasse a premere tutti i bottoni, fino a quei tre la carta rimaneva bianca. Immaginarsi nella mente di Anastasija lo faceva sentire come il primo incontro con loro: con tutti i cinque sensi agitati, anche il respiro.

    Edited by Dead poets society - 10/1/2022, 18:21
     
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1 replies since 13/9/2021, 16:58   87 views
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