All happy families resemble one another; every unhappy family is unhappy in its own way

Ethan x Kos

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    Erano anni ormai che non riusciva più ad apprezzare le festività. Osservava le altre persone lasciarsi invadere dalla gioia mentre lui non poteva fare a meno di ricordare ciò che aveva perso. Era in quei giorni infatti che il peso dell’assenza si faceva sentire di più. Ancora ricordava i pochi giorni di Natale trascorsi con tutta la famiglia riunita, quando Peg saltava sul suo letto e lo costringeva ad alzarsi all’alba per andare a vedere che cosa Babbo Natale le avesse portato. Non apriva mai i regali se non erano tutti in soggiorno, accanto a lei. Quella piccola scheggia impazzita era stata il collante della famiglia ed era quindi naturale che, senza di lei, tutto fosse caduto in pezzi e che loro non fossero in grado di rimetterli a posto. Erano passati tantissimi anni eppure il senso di colpa non se ne era mai andato. Se soltanto non fosse andato a quella stupida festa sulla spiaggia. Se soltanto fosse andato insieme a loro.. Ma lui non era in grado di cambiare il passato, non era quello il dono che Besaid gli aveva dato. Lui doveva convivere con il presente e cercare di renderlo il migliore possibile, se non per lui, almeno per Jake. Certe volte era difficile guardarlo e non pensare a Mina, a quanto gli mancasse e avrebbe voluto che lei fosse lì con loro. Esattamente come era accaduto per la sua sorellina, il grande amore della sua vita gli era stato portato via troppo presto. Conservava ogni momento passato insieme a lei nel profondo del suo cuore, come un gioiello prezioso, da tenere al sicuro. Ogni istante era stato prezioso, attimi meravigliosi che si era goduto fino in fondo. Aveva lottato quella volta, memore del passato, aveva fatto ogni cosa in suo potere per tenerla con sé, per condividere ogni istante che gli restava da vivere con lei, ma non era bastato.
    -Papà? Papà sei pronto? - la voce di suo figlio arrivò dal corridoio facendolo sorridere appena. Lui adorava le feste perché erano i pochi momenti in cui poteva trascorrere del tempo insieme a suo padre e ai nonni. Di solito le due cose coincidevano raramente. Spesso erano i genitori di Ethan a fare da baby sitter al bambino quando lui era costretto a lavorare sino a tardi o aveva delle riunioni. Faceva il possibile per lavorare da casa per la maggior parte del tempo, ma non sempre era possibile. C’erano delle cose che non si potevano gestire al meglio a distanza e in alcuni casi il suo capo preferiva averlo in ufficio, per poter prendere delle decisioni faccia a faccia e non con uno schermo come intermediario. Era difficile riuscire a gestire tutto e sembrare tranquillo per tutto il tempo. In alcune occasioni aveva creduto di non farcela, di essere sul punto di crollare. Aveva pensato di lasciare il lavoro, cercare qualcos’altro, un impiego che gli permettesse di avere più tempo libero da trascorrere con Jake, ma alla fine aveva sempre deciso di continuare a tentare. Sognava prima o poi di riuscire a mettersi in proprio, così da poter gestire il suo tempo come meglio credeva, ma più il tempo passava più gli sembrava che quel giorno non sarebbe mai arrivato. Continuava a provarci però, per suo figlio, perché sperava in quel modo di insegnargli di non arrendersi mai, neanche davanti a difficoltà che sembravano insuperabili. L’unica cosa che lo faceva stare tranquillo era il fatto che il piccolo sembrasse felice, come se non si fosse mai reso conto di quanto era accaduto attorno a lui. Bastava un sorriso da parte di quel piccoletto per dimenticare una brutta giornata, per sentire che tutto sarebbe andato per il meglio. -Daiii, andiamo! O faremo tardi! - lo ammonì, facendo sbucare il suo vicino dalla porta della camera del padre. -Sono pronto, sono pronto! - rispose, alzando le mani in aria, come a mostrare un segno di resa e poi sorrise, avvicinandosi a suo figlio e prendendolo tra le braccia, per dargli un leggero bacio sulla fronte. -Vediamo che cosa ti ha portato Babbo Natale questa volta. - disse, prima di farlo scendere di nuovo e afferrare i cappotti di entrambi.

    Avevano impiegato pochi minuti a raggiungere l’abitazione dove aveva trascorso i primi anni della sua vita, lasciando l’auto poco distante dall’ingresso. Faceva sempre uno strano effetto ritrovarsi lì. Erano anni che viveva in una casa tutta sua eppure ogni volta vedere quella porta così incredibilmente familiare lo faceva sentire al sicuro, come se quello, in fin dei conti, sarebbe sempre stato il suo posto. Jake aveva suonato ripetutamente alla porta, impaziente di entrare e quando la nonna aveva aperto lui era schizzato all’interno, urlando un “Buon Natale” che era sparito come un eco dietro di lui. -Ciao mamma, buon Natale. - aveva detto Ethan, abbracciando sua madre e dandole un bacio sulla guancia, stringendola appena a sé. Non si abbracciavano spesso. Non perché entrambi non lo volessero, ma perché andavano sempre così di fretta da rendere quasi impossibile fermarsi anche solo per qualche istante e cercare di apprezzare di nuovo le piccole cose. A volte capitava che fosse solo Jake a scendere dall’auto per raggiungere casa dei nonni e che lui salutasse i suoi con un semplice colpo di clacson, prima di scappare di nuovo a lavoro. -Tuo padre è in giardino, sta finendo con l’arrosto. Tuo fratello invece è quasi pronto. - lo informò, sperando di fargli cosa gradita e lui annuì appena. Neppure ricordava l’ultima volta in cui lui e Kos avesse parlato davvero. Probabilmente avevano smesso di farlo prima ancora che Peg li lasciasse. Era colpa sua, anche in quel caso. Era stato lui a mettere un muro, a decidere di crescere e di non voler avere più a che fare con loro. Non aveva più avuto il coraggio poi di fare un passo indietro, di dire a suo fratello quanto fosse dispiaciuto, quanto lui gli mancasse. A malapena riusciva a guardarlo, a stare troppo a lungo nella stessa stanza in cui si trovava lui.
    Varcò la soglia e si guardò intorno, facendosi invadere dai profumi delle pietanze che sua madre doveva aver appena tolto dal forno. -Hai cucinato per un esercito come al solito? - domandò, ridacchiando appena. Sentì dei passi provenire dal corridoio, poi Jake urlare. -ZIO KOS! - gridò, euforico e il corpo di Ethan si fece più rigido per un istante. Non aveva mai vietato a suo figlio di passare del tempo con lo zio, né gli aveva mai parlato di lui, ma ogni volta che li sentiva parlare insieme sentiva qualcosa agitarsi nel suo stomaco. Si mosse più velocemente quando gli sembrò di intravedere la figura del ragazzo spuntare nel soggiorno e si diresse verso la porta sul retro. Una parte di lui aveva sperato che suo fratello avesse da fare con gli amici, o magari con una possibile ragazza e invece eccolo lì. Sfuggì al primo saluto, chiudendosi la porta alle spalle e raggiungendo suo padre. -Ti serve una mano? - chiese, dandogli una pacca sulla spalla, sentendo uno strano fastidio nel trovarsi a metà tra una fonte di calore particolarmente elevata e il freddo pungente di quella giornata. -Siete arrivati finalmente! - lo sgridò bonario l’altro, per poi mettere la carne all’interno di un recipiente e sorridere a suo figlio. -No, ho finito. Perché non porti questo a tua madre? - gli chiese, porgendogli il contenitore con la faccia arrossata dal calore. -Portalo tu, sei rosso come un peperone, ci penso io a sistemare. - si offrì, cercando di evitare di tornare dentro casa troppo in fretta. Aveva bisogno di stare un po’ da solo, di godere di qualche attimo di silenzio in cui poter essere se stesso, senza maschere e senza filtri. -Allora grazie, ma fai in fretta! Non credo tua madre attenderà ancora per molto. - scherzò, dandogli una pacca sulla spalla e dirigendosi verso l’interno. Lui sorrise, poi si occupò delle braci, spegnendole velocemente prima di sedersi per qualche istante sullo scalino di ingresso.
    Prese il pacchetto di sigarette dalla tasca del cappotto e se ne accese una. Quella si prospettava una lunghissima giornata, sentiva il bisogno di un po’ di nicotina per poterla affrontare al meglio.
     
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    È difficile spiegare come si sentiva quella mattina, come se una parte più grande si fosse staccata e di Kos non rimanesse più molto. Andava così, certi giorni più di altri, e se di solito riusciva a prendere la vita con un grande sorriso le festività risultavano invece più complicate, come se insieme alla torta di zucca e ai sirupssnipper* della mamma si tirassero fuori anche i ricordi, quelli che bruciavano la pelle tanta era il senso di colpa che li accompagnava. Erano due ore che non riusciva più a chiudere occhio quando finalmente decise di arrendersi, di tirarsi su e mettere in ordine la mente in vista del giorno che, ora solo nella sua alba, si prospettava a ogni evoluzione della terra più duro. Con solo i boxer addosso si alzò, un giovane adulto che fatica a scrollarsi di dosso il ragazzino di prima, avvicinandosi alla scrivania per sedersi di fronte e afferrare una penna insieme alla pila di post-it abbandonata lì sopra. I primi erano un po' arricciati sul davanti, piegati dal peso del suo polso ogni volta che scriveva, ogni volta di più. Stappò la penna e si fermò, la punta contro le labbra, proprio in mezzo, e gli occhi vagarono sulla parete di fronte a lui. La sua stanza era situata nel punto più alto della casa, una mezza roccaforte stortignaccola, e sul tetto spiovente erano appiccicati una miriade di post-it tutti ricolmi dalla sua grafia fittissima ma in qualche modo ancora leggibile a parte su alcuni, quelli con i pensieri più cupi buttati già di getto quando Kos straripava. A loro erano rilegati gli angoli, lontano dalla vista, per il resto si trattava per lo più di frasi che gli venivano in mente, di particolari, lyrics di canzoni, citazioni di film, aggettivi sentiti dai suoi ascoltatori in radio, di idee, di terminologie interessanti, di parole che ricordavano cose belle e parole chiave che, in certi giorni, avevano definito il suo umore. Tipo:
    Effetto gravitazionale gioviano-plutonico; Isak è un coglione, should i stay or should i go? Blu indigo, carpe diem, cogliete l'attimo ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita; i was here; sono zio; l'albero delle scarpe, high school sucks, handplant** e una colonna era dedicata alla rubrica "prima di morire voglio...", sotto cui la parola che spuntava più spesso era:
    scusarmi
    scusarmi
    scusarmi
    Doveva farlo da così tanto tempo e con così tante persone da aver perso totalmente il coraggio. Si costrinse a non pensare a Ethan, suo fratello che avrebbe da lì a poco rivisto e che lo odiava. Deglutì e lo sguardo continuò a scorrere sulla parete fino a quando le pupille scure non trovarono un pensiero in particolare a cui appendersi, solo un semplice nome di una persona che, per quel poco che conosceva, di semplice non aveva proprio niente.

    Il caffè le piace senza zucchero.


    su un post it azzurro proprio davanti ai suoi occhi. Kos non si evitò di sorridere. Sapeva bene a chi si riferivano quelle lettere accostate l'una all'altra un po' di fretta, un po' distratte. Buttò la testa giù a scrivere, il naso a mezzo millimetro dal foglietto. Ci mise pochissimo. Scalciò indietro la sedia per alzarsi e uscire dalla stanza, non prima di aver attaccato l'ennesima nota al muro che, questa volta, diceva:

    oggi.


    Sottolineato tre volte.

    ZIO KOS! Poi l'urto contro le gambe e il sorriso che ne seguì. Adorava quel bambino, l'aveva fatto dal primo istante in cui l'aveva visto, forse perché diventare zio era qualcosa che aveva immaginato molte volte prima, quando già a sette anni andava in giro a dire: voglio essere lo zio più giovane del mondo! Quanti scappellotti dietro il collo aveva ricevuto da Ethan per quella frase? Erano bei tempi, quelli. Ethan, che caracollò fuori dal soggiorno non appena lo sentì arrivare. Neanche il tempo di mettere piede nella stanza che si era già volatilizzato, dandogli solo il tempo di scorgerne il profilo serio e affilato. Un lembo di maglione che spariva dietro l'angolo, questo era il fratello negli ultimi beh, tredici anni. La manica svolazzante di una camicia e un paio di occhi che avrebbe voluto incrociare e che invece scivolavano su tutti, anche sugli oggetti, e a lui non guardavano mai. Avrebbe dovuto farci l'abitudine oramai, non farsi colpire da uno sguardo sfuggevole e andare avanti, in fin dei conti si incolpava già duramente per gli errori commessi. Ma arrendersi per Kos era impensabile, impossibile e in generale insopportabile, figurarsi poi se si trattava della famiglia. «Lite utvalg! Mi sei mancato.» Piccolo campione. Si ritrovò a sciogliere l'abbraccio e a fissare il bambino negli occhi, qualche secondo appena, chiedendosi quanto sarebbe cresciuto da lì alla prossima volta che l'avrebbe visto e cercando di non farsi invadere dalla tristezza che quel pensiero gli schiantava contro. Era Natale, nessuno è triste a Natale. Si tirò su facendo leva sulle ginocchia, schiantò poi la tavola da sante per terra guadagnandosi un'occhiataccia dalla madre. «È tua per oggi, te la affido: prenditene cura. Io vado...» Scompigliò i capelli al nipotino mentre lo sguardo si alzava a incrociare quello del padre che, rientrando con un vassoio in mano, indicò con le iridi la porta dietro di sé. «..fuori, ad aiutare. Torno subito piccoletto.» Camminando a Kos sembrava di avere il cuore un po' ovunque, rimbombava fortissimo nei timpani e da qualche parte in gola. Superandolo, il padre si premurò di stringergli forte la spalla come a infondergli coraggio e il ragazzo sorrise riconoscente a quei genitori che, nonostante tutto, gli volevano ancora bene. Come facevano? Poco prima della porta Kos prese aria. Sembrava sul punto di entrare in un posto in cui sarebbe stato difficile respirare anziché fuori, dove l'ossigeno di certo non mancava.
    All'aperto, Kos notò le sue spalle per prime. Larghe e forti come avrebbe sempre voluto che fossero le sue, solo ora notava come si incurvassero leggermente in avanti, quasi stessero lottando contro un peso che le voleva a terra, piegate. Era sempre stato così e non se ne era mai accorto? «Ciao.» Si fece sentire prima che i suoi passi ricominciarono a suonare sul legno del porticato coperto. Quante estati avevano passato lì sopra?
    Si arrestò alle pendici del primo gradino, di fianco al fratello seduto. La neve scricchiolò sotto le suole delle sue vans. «Posso una?» Accennò alla sigaretta mentre si sedeva e un leggero sospiro sfuggiva dalle labbra appena schiuse. Poggiò i gomiti sulle ginocchia, fissando lo sguardo davanti a sé senza sapere cos'altro dire. Da anni era ormai diventato difficile trovare le parole, come se il tempo, le accuse e i sensi di colpa le avessero congelate in un inverno perpetuo. Rabbrividì, Kos, pensando che forse avrebbe dovuto indossare il cappotto prima di uscire. Ora, con solo la felpa addosso, stava gelando. Prese fiato. «Io...Come va?» Si morse l'interno guancia, fortissimo. Trova le parole, trova le parole. Batté i palmi insieme, strofinandoli. «Jake... lo trovo bene. Sembri in forma anche tu.» Niente, non riusciva proprio a dire quello che avrebbe voluto. «No, non è vero. Hai la faccia di uno che preferirebbe essere al proprio funerale piuttosto che qui.» Abbozzò un sorriso, uno di quelli larghi che illuminavano tutto il viso. «Ma questo è per colpa mia, presumo.» Durò poco, il sorriso. Si spense lentamente, come la fiamma di una candela sotto un bicchiere. Rimase appena vivo, un po' malinconico, appigliato alle ultime gocce di ossigeno. Kos si riscosse lievemente come da un sogno o un ricordo lontano. Solo allora si voltò a guardare il fratello maggiore.
    «Comunque buon Natale, Ethan.» Oggi o mai più, una promessa semplice fatta a se stesso che, era evidente, non sarebbe riuscito a mantenere neanche quella volta.

    * dolce natalizio norvegese;
    ** un trick da fare con lo skate;
     
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    Peg faceva le giravolte su se stessa ridendo a squarciagola. Il volto puntato in direzione del cielo azzurro sopra le loro teste. Era una splendida giornata di sole e i loro genitori avevano gonfiato quella piccola piscinetta da mettere in giardino, in cui potevano starci si e no quindici centimetri d’acqua, ma per lei era come se il mare fosse giunto sino a loro, appena fuori dalla porta di casa. Era stata male nei giorni precedenti, quindi avevano pensato che fosse meglio non portarla sulla spiaggia, non ora che la febbre era appena scena. Ethan se ne stava seduto sul gradino di ingresso, ad osservare i suoi riccioli scuri muoversi al ritmo del vento mentre Kos invece la invitava a darsi una mossa e raggiungerlo dentro la piccola piscina. Anche lui era stato costretto a stare in casa, per Peg. Molte cose in quegli anni erano girate attorno a quei grandi occhioni scuri, a quel sorriso che sembrava non spegnersi mai. Lei continuava a ridere, stregata dal modo in cui i fiocchetti del suo costume si muovevano, seguendo quella sua danza strampalata. Il maggiore dei tre rise, mettendosi in piedi. La acciuffò velocemente, prendendola in braccio mentre la piccola cercava di divincolarsi, senza mai smettere di ridere. In realtà adorava stare le braccia del più grande, le permettevano di vedere il mondo dall’alto, la faceva sentire una principessa. Si infilò dentro la piccola piscina insieme a lei, ben sapendo che fosse uno spazio troppo piccolo per accogliere anche lui. -Sei entrato finalmente! - mormorò la piccoletta, fiera del risultato raggiunto. Lui scosse la testa, divertito dall’idea di non aver compreso quali fossero stati i suoi piani sin dall’inizio. -Oh Peg, come faremmo senza di te? - scherzò, schizzando il suo viso, facendole tirare fuori un urletto. Era una splendida giornata d’estate e tutti e tre credevano che a quella ne sarebbero seguite molte altre.

    Quelle immagini riaffiorarono all’interno della sua mente in mezzo alle volute di fumo. Aspirò un’altra boccata dalla sigaretta, espirandola dritta davanti a sé sperando di cancellarle di nuovo e ricacciarle nei cassetti più remoti della sua mente. A volte gli sembrava di sentire ancora la sua voce, un eco molto distante di quella che era stata un tempo, le uniche tracce che era ancora di trattenere dentro di sé, per non farla sparire per sempre. Il senso di colpa invece non si era mai affievolito. Era sempre lì, appena nascosto sotto la superficie, pronto a risalire prepotentemente ogni volta che rivedeva suo fratello. Come aveva potuto pensare che fosse una cosa sicura che due bambini andassero da soli a una festa senza nessuno che li accompagnasse? Se lo era chiesto molte volte, incapace di darsi una risposta. Avrebbe voluto che fosse possibile rimediare a quell’errore, che ci fosse un modo per riportarla da loro. Si chiedeva che cosa avrebbe pensato una Peg adolescente di Mina, di Jake. Invece Peg non poteva saperne nulla perché non era più parte della loro vita ormai, aveva lasciato che le scivolasse via dalle dita per il suo egoismo.
    La voce di Kos alle sue spalle lo fece trasalire, allontanandolo velocemente da quei pensieri. Non lo aveva neppure sentito arrivare e così non aveva potuto scappare, ancora, come faceva da anni ormai per evitare di trovarsi da solo con lui in una stanza qualunque. -Ciao. - rispose, greve, continuando a guardare dritto davanti a sé. Le spalle si erano chiuse leggermente verso il capo, come a volersi proteggere da qualcosa che non voleva affrontare. Sebbene fosse il più grande dei fratelli in certe cose Kos sembrava molto più maturo e cresciuto di lui. Che cosa pensava il suo fratellino di quello che era accaduto? Lui non aveva mai voluto parlarne, si era chiuso nel suo silenzio, lasciandolo completamente fuori, come se quel dolore non fosse anche il suo, come se fosse una faccenda che Ethan doveva affrontare in completa solitudine, distante dal resto del mondo. Eppure Peg era stata la luce e la spina nel fianco di entrambi, e loro erano stati inseparabili, un tempo.
    Calò il silenzio per qualche altro istante, rotto solo dal rumore dei passi d Kos contro le assi di legno. Strinse gli occhi in un’espressione confusa quando il fratello gli chiese una sigaretta, voltandosi verso di lui giusto in tempo per ritrovarselo faccia a faccia, a pochi centimetri da lui, seduto proprio di fianco. -Da quand’è che tu fumi? - chiese e solo in quel momento gli arrivò addosso, come una secchiata d’acqua fredda, la consapevolezza di non avere idea della persona che Kos era divenuta negli anni. Da quanto tempo era che loro due non avevano una vera conversazione? Ad ogni modo, era tardi per fare il fratello maggiore, per lamentarsi di quella pessima abitudine che era anche sua. Si sfilò quindi il pacchetto dalla tasca, allungandolo in direzione dell’altro senza aggiungere nulla. Calò di nuovo il silenzio, ancora una volta. Ethan sapeva essere un gran chiacchierone, ma quando Kos era vicino a lui quella sua abilità svaniva nel nulla, come se parlare divenisse complicato, come se persino respirare lo fosse. Lo sentì rabbrividire, a pochi centimetri da lui, vestito in maniera troppo leggera per affrontare quel clima, ma si limitò a mordersi il labbro inferiore, continuando in quel suo ostinato silenzio. Non stava a lui dirgli che cosa doveva fare. Kos era cresciuto, non era più il fratellino che saltava sul suo letto la domenica per farlo uscire a giocare.
    Il fratello continuò a parlare, iniziando a formulare una serie di domande e pensieri che suonarono imbarazzate, forse persino sofferte. -Jake sta bene. - disse, rispondendo sull’unica cosa di cui gli riuscisse semplice parlare. Suo figlio era un bambino tranquillo, certo, aveva anche lui i momenti in cui si trasformava in un piccolo terremoto, ma avevano imparato a cavarsela, in qualche modo. Parlare di se stesso invece e di come si sentisse nello stare accanto a lui, era decisamente più complicato. Colpa sua. Chiuse gli occhi per un momento, inspirando a fondo. Nei primi mesi dalla scomparsa lo aveva accusato spesso, urlandogli addosso parole che non pensava davvero, pensieri indirizzati a se stesso a cui dava un altro bersaglio, solo per stare meno male. Ma non era servito. Il dolore non si era affievolito, anzi, aveva soltanto peggiorato le cose. Due fratelli soli contro il mondo, piuttosto che uniti per dargli nuova forma. Era difficile però chiedere scusa, esprimere a voce alto tutto quello che aveva pensato, tutte quelle domande che non lo avevano mai abbandonato. Strinse le labbra quando l’altro formulò i suoi auguri, forse sperando che quelli bastassero a cancellare quello che aveva appena detto, ad alleggerire un po’ la tensione. Non rispose, non a quello.
    -Perché sei qui Kos? - domandò, di getto, voltandosi di nuovo verso il profilo del più piccolo. Una domanda diretta, a cui sarebbero potute seguire una marea di risposte, la maggior parte delle quali particolarmente dolorose. Era difficile, persino in quel momento, fare un passo indietro e ammettere di aver sbagliato. Ma voleva davvero sapere perché suo fratello fosse lì, perché gli ponesse quelle domande. Era come se per Kos nulla fosse cambiato. Lui, in fondo, era ancora lo stesso bimbo sorridente che lo aveva visto come un modello da seguire, prima che lui gli sbattesse la porta in faccia e lo escludesse dalla sua vita. Perché non lo odiava? Perché era lì ad augurargli Buon Natale? La morsa sullo stomaco si fece ancora più serrata. Spense la prima sigaretta, per poi accenderne immediatamente una seconda e aspirare un’altra profonda boccata. I fantasmi del passato del passato ricominciarono a danzare davanti ai suoi occhi, facendogli serrare la mascella. -Fanculo. - borbottò, tra sé e sé, coprendosi il volto con una mano e trattenendo una smorfia di rabbia. -Questo posto me la ricorda troppo. - disse, con uno sbuffo, rimettendosi velocemente in piedi e iniziando a fare qualche passo irritato in giro per il cortile. Come si faceva a far sparire un fantasma? Suo fratello lo sapeva per caso?
     
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    Questa cosa con Ethan lo faceva soffrire, o meglio la non cosa visto che il loro rapporto pareva essersi ridotto all'osso. Guardandone il profilo Kos lo riconosceva e al contempo stentava a farlo, come se l'avesse perso negli angoli di quel silenzio durato anni e ora stentasse a scorgere il fratello nella linea dritta del naso e nelle spalle larghe, un po' affossate. Si chiese come dovesse essere mettersi nei suoi panni, perché Kos era così: gli altri prima, lui per ultimo. Si chiese quanto dolore provasse ogni volta che il più piccolo gli imponeva di ascoltarlo, di guardarlo, di infrangere la coltre che li separava per stringersi la mano forzandolo in quel modo a ricordare quando, era chiaro, Ethan non desiderava altro che dimenticare.
    De mens mentis, uscire di mente, dimenticare. Forse era anche per via di quel potere che faceva sì che i ricordi gli si svelassero solo con il tocco senza che lui lo volesse, ma Kos viveva nel terrore più puro di scordare qualunque cosa, qualunque persona. Per questo scriveva tanto e tutto, ogni dettaglio che gli sembrava importante e che non voleva lasciare alla mercé del tempo. Dimenticare per lui era recare un torto, dire implicitamente non mi interessi più. E così scriveva ancora di Peggy, delle risate tutte finestre tra i denti e delle trecce mezze sfatte che le davano un'aria ancora più selvaggia, scatenata; e scriveva ancora di Ethan, di quello che ricordava di quando erano bambini e delle rare volte in cui ora gli capitava di starci vicino, quasi sempre in silenzio, quasi sempre senza guardarsi. Raccontava con poche e scarne parole chiave di come lo facesse sentire, come se avesse perso una sorella e anche un fratello nonostante lui fosse lì, a dieci centimetri dalla sua spalla ossuta. Come si raggiunge qualcuno così lontano? Sfiorò il pacchetto con i polpastrelli e trasalì leggermente, come se si fosse appena scottato. Aveva percepito il nervosismo di Ethan attraverso il materiale che aveva sfiorato, tracce di rabbia e tristezza che il fratello si era lasciato dietro mentre maneggiava quel contenitore salva-nervi. Attese di sfilare sigaretta prima di rispondergli. «Non fumo, le tengo solo in bocca ma non le accendo mai. Non gli permetto di uccidermi. » Iniziò, incastrando il filtro fra le labbra mordendolo leggermente con gli incisivi. «È una metafora.» Aggiunse, come se tutto quel discorso potesse significare davvero qualcosa per qualcuno che non sapeva come fosse vivere nel suo cervello. Non aveva senso, o forse ce l'aveva ma era inutile accanirsi, molte delle cose che Kos faceva quotidianamente erano considerata strane dagli altri. Come la mansarda coperta per metà da post it, il fatto delle sigarette o quella trasmissione radio che andava in onda soltanto di notte. Per i sonnambuli come lui, spiegava sempre il ragazzino ad ogni inizio puntata, perché trovare gente che gli somigliasse era stata una benedizione scesa dal cielo. Per molto tempo si era sentito davvero solo, sopratutto con l'assenza di Peggy e il senso di colpa che lo schiacciava al suolo, ossa e carne incluse. Sembrava come se la colonna vertebrale stesse sempre sul punt odi spezzarsi sotto quella pressione e Kos viveva così, con la costante paura di venire schiacciato da un momento all'altro e ridotto in poltiglia. Ma non poteva cedere, soccombere al dolore prima di dire alle persone che aveva ferito quanto male si sentisse a riguardo. Da che aveva ricordo non aveva fatto altro che cercare di porre rimedio all'errore commesso da bambino, come se andare a fare la spesa al posto dei genitori o pulire al posto del fratello potesse far tornare la sorella.
    A dodici, tredici, quattordici quindici anni, se avessi chiesto a Kos cos'era la cosa che voleva più di tutte lui avrebbe risposto Ethan, senza esitazione. Ethan e Peggy, riallacciare il tempo e fare tutto diversamente, non andare proprio a quella stupida festa di quello stupido compagno di classe che non era neanche diventato suo amico, poi, perché niente aveva davvero avuto più senso per un po'. Per un bel po', almeno fino a Isak, Henrik e Gree, senza i quali probabilmente non sarebbe mai riuscito a risollevarsi veramente. Sotto il tono stanco di Ethan Kos abbassò lo sguardo, deglutendo per mandare giù l'agitazione e un po' di quel vuoto che si respirava intorno a loro. «Perché non ti ho mai chiesto scusa e...» Lasciò andare l'aria dalla bocca, forte, tanto che la sigaretta tremò rischiando di volare via. «...perché mi manca mio fratello.» L'ossigeno era finito nel freddo della giornata proprio come quelle parole, che per un po' rimasero sospese come fossero difficili da digerire. Il peso sul petto continuava a farlo stare male, ma Kos si sforzò di sollevare lo sguardo per puntare le iridi nere in quelle del fratello pur sapendo che sarebbe stato peggio. Vi avrebbe visto tutta la collera e le accuse? Il disgusto grazie al quale erano anni che Ethan non riusciva a guardarlo negli occhi per più di qualche secondo? A guardarlo così gli venne in mente un giorno qualunque di parecchio tempo prima, era la prima forte nevicata dell'anno e avevano approfittato della chiusura delle scuole per avventurarsi nel boschetto dietro casa, solo Ethan e lui. Avevano camminato in silenzio, la meta era il lago ghiacciato sul quale camminavano rischiando che si spezzasse sotto i loro piedi se non era abbastanza resistente. Era un gioco stupido, da bambini, Kos aveva paura ma cercava di non darlo a vedere per non deluderlo. Tutto quello che voleva era renderlo orgoglioso. Era un pensiero sporadico che gli attraversò la mente mentre immaginava quanto invece l'avesse poi deluso, Kos, con tutto quello che era accaduto dopo. Se solo il tempo si fosse fermato a quel giorno in bilico sul ghiaccio sottile. Lo sentì imprecare e lo vide alzarsi così di scatto da avvertire lo spostamento d'aria sulla guancia. Ingoiò il malloppo fastidioso che sentiva in gola nonostante non avesse mangiato nulla. Abbassò di nuovo gli occhi fissandosi le mani, le dita intrecciate si contorcevano nervose, in difficoltà. «È così terribile? Ricordarla, dico.» Si morsicò forte l'interno della guancia sinistra senza alzare ancora lo sguardo. Pensò al viso della sorella, sforzandosi di ricordare ogni dettaglio, ogni capello, ogni espressione e tutte le lentiggini sul naso ma non ci riuscì. Qualcosa mancava, ogni giorno che passava una minuzia di lei se ne andava via e Kos non riusciva ad accettarlo. «Io ho una paura matta di dimenticarla. Di dimenticare una qualsiasi delle cose che diceva e che faceva, di com'era.» Ammise mentre sentiva gli occhi pizzicare come se qualcuno li solleticasse da dietro, da dentro la testa. «Mi dispiace, Ethan. Vorrei poter tornare indietro e aggiustare tutto.» Sollevò lo sguardo sul maggiore. Il vento tirava più forte e Kos rabbrividì.
     
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    A volte si chiedeva che cosa fosse peggio. Se vivere una vita di ricordi, fatta di sensi di colpa e voglia di urlare, oppure un’esistenza priva del proprio passato, ma libera da tutti quei demoni. Probabilmente nessuna delle due era realmente soddisfacente, ma continuava a preferire di possedere quei ricordi, per quanto dolorosi da strappargli il fiato. Serrò appena la mascella quando Kos gli disse che in realtà non fumava e che gli piaceva semplicemente tenerle in bocca, per non lasciare che lo uccidessero. Annuì appena, riportando lo sguardo dritto davanti a sé. Per un momento aveva sperato che ci fosse almeno un dettaglio a unirli, anche se si trattava di un vizio sciocco che avrebbe dovuto lasciare andare. Invece, con quei suoi commenti da uomo vissuto, il piccolo continuava a dimostrargli di essere cresciuto molto più in fretta di lui. Lui dopo la morte di Mina aveva pensato davvero per un momento di lasciarsi andare, di seguirla ovunque lei fosse andata. Era stato il pensiero di Jake a tenerlo in piedi, a impedirsi di andare fino in fondo. Quelle parole quindi lo toccarono più di quanto avrebbero dovuto. Non rispose, lasciò che cadessero nel silenzio, un po’ come accadeva la maggior parte delle volte che si incontravano. Gli mancavano i tempi in cui era convinto di sapere tutto su suo fratello, tempi in cui Kos, se avesse avuto un problema, si sarebbe sicuramente rivolto a lui per primo. Ora invece se ne stavano seduti uno accanto all’altro, senza conoscersi affatto. Un po’ scocciato quindi da quella solita consapevolezza gli rivolse una domanda un po’ dura, a cui l’altro rispose senza bisogno di pensarci su neppure un momento.
    Inarcò il sopracciglio nel sentire dire che gli doveva delle scuse e che lui gli mancava. La seconda era una cosa che, in effetti, avrebbe potuto tranquillamente intuire se soltanto si fosse mostrato un po’ più aperto al dialogo, ma la prima lo aveva invece stupito parecchio. Provò a dire qualcosa ma il ricordo di Peg fu più forte di tutto e lo costrinse a rimettersi in piedi, a determinare di nuovo una certa distanza tra lui e Kos che lo facesse sentire di nuovo al sicuro. Era così abituato a quello spazio vuoto che pensare ora di riempirlo gli faceva paura. -Qualche volta lo è. - disse, rispondendo alla parte su Peg, ma non a quello che il fratello gli aveva rivelato poco prima. Aveva bisogno di tempo per assimilare ciò che aveva sentito e capire che cosa avrebbe dovuto rispondergli. Chiuse gli occhi per un momento, mentre l’altro andava avanti. Era difficile starlo a sentire. Un respiro rumoroso lasciò le sue labbra un attimo prima di riaprire gli occhi e puntarli sul minore che cercava delle risposte che lui non poteva dargli. -Non sei tu a dover chiedere scusa. - disse, con tono fermo e serio al tempo stesso. Non spostò lo sguardo. Continuò a fumare, piantando bene i piedi per terra come se avesse temuto di poter cadere. -Eri solo un bambino e io avrei dovuto accompagnarvi. - continuò, senza che tuttavia la parola scusa fuoriuscisse dalle sue labbra. Non era pronto per dire una cosa come quella, anche se erano passati troppi anni da quel fatto. Non voleva essere perdonato perché lui continuava a non farlo, a chiedersi che cosa sarebbe successo se lui avesse preso una decisione completamente diversa. -Ricordarla acuisce il senso di colpa e a volte vorrei che fosse possibile spegnerlo, andare avanti. - continuò, con un sospiro, spostando soltanto in quel momento lo sguardo da lui. Sì sentiva in colpa a desiderare una cosa come quella. Pensare di poter superare la perdita di Peg era come dire che la sofferenza prima o poi si sarebbe spenta, ma non era convinto che potesse accadere davvero. -Altre volte invece vorrei solo poter tornare indietro e cambiare tutto quanto. - disse ancora, facendo in parte da eco a quello che suo fratello aveva appena detto. Era curioso come entrambi desiderasse tanto poter tornare indietro e triste che, a nessuno dei due, fosse toccata una particolarità che gli permettesse di farlo. -Ma le cose non si possono cambiare. Non si può tornare indietro e, in un certo senso, neppure andare avanti come si dovrebbe. - borbottò, scuotendo appena il capo con aria affranta. Erano bloccati, sospesi in un tempo di mezzo che non finiva mai. Sì sentiva così da tempo e da quando Mina non c’era più quella sensazione non aveva fatto altro che peggiorare.
    La voce della loro madre li raggiunse dall’interno della casa, segnalando loro che fosse ormai il momento di mettersi a tavola. Il tempo delle confessioni era già finito. -Smetti di rimproverarti Jonas, per quello basta già uno di noi. - disse soltanto, avvicinandosi alla porta e dandogli una leggera pacca sulla spalla, come a dirgli di cercare di passare oltre, di vivere, di non crescere così tanto. Non lo aveva chiamato Kos, quello era il nome dei momenti affettuosi, era il nome per chi gli era vicino. Jonas era invece il nome per le cose serie, per quelle che era importante restassero così. Non disse un’altra parola e non gli lasciò il tempo di rispondere. Aprì la porta e la attraversò velocemente, andando poi a sedersi nel lato del tavolo più lontano da quello che di solito occupava Kos. All’interno della sua mente sarebbe rimasto sempre così, Kos, ma forse dopo tutti quegli anni era il momento che, ad alta voce, tornasse a essere Jonas e che Ethan se lo ricordasse.
     
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