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Darko&Maeve | sera | casa

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    Your echoes are born in a static air,
    And silence suggests you've lost your care.
    These blinding lights emit your sight,
    Whilst burning hopes bind you tight.

    ***

    Aveva imparato a riconoscerne subito il sorriso: due labbra sottili che si allargavano non appena gli occhi si posavano sulla sua sagoma, anche in lontananza, anche quando entrambi erano camuffati e avvolti dentro giacche pesanti per riscaldarsi dal freddo norvegese che, anno dopo anno, sembrava farsi sempre più intenso, sempre più pungente. Neanche se n'era accorto e perfino il tempo aveva osato mutare, perfino il cielo ogni volta che gli capitava di guardarlo; se ne stava lì, in alto e sulle loro teste, ricordando al mondo intero di non esser solo, che anche se alla luce del sole era impossibile guardarle, miliardi di milioni di stelle se ne stavano lì intorno fluttuando in onde di fuoco e luce, ritornando ad apparire solo quando qualcuno alzava nel buio lo sguardo per ripescarle dal mare buissimo che si estendeva all'infinito. Un po' come quelle stelle dalle forme e nomi a lui sconosciuti, Mumù era apparsa per davvero in una notte limpida: non al luna park, non durante quello strano incontro che non avrebbe mai immaginato lo avrebbe portato a tanto. Lì l'aveva vista per la prima volta, ma il momento in cui aveva davvero realizzato che esistesse, che fosse parte di lui, che se aveva la sua stessa voglia c'era un motivo... quello era avvenuto solo dopo. Darko, come tutti lo vedevano, quello che tutti conoscevano, era solo il ritratto di un uomo ben cresciuto che sembrava non potesse esser scalfito da niente, neanche dai suoi stessi errori, soprattutto da quelli. Era stato intenso, il momento in cui aveva realizzato cosa gli stesse accadendo, il modo in cui, anche dopo averla udita solo tre volte, la voce di Malia gli era entrata sotto pelle per piantarsi acutissima nella sua testa, ora impossibile da scacciar via, da sostituire con qualcosa che potesse anche solo essere frutto di una stupida immaginazione. E la portata di quelle sensazioni che lei gli aveva lasciato addosso era quasi del tutto indescrivibile, inafferrabile, a tenersela fra le dita aveva paura di scottarsi o farsi male. Eppure, nonostante il terrore di rimanere incastrato di nuovo dentro il flusso di ciò che non poteva controllare di sé, Darko temeva ancor di più qualcosa altro: ferire lei. Non aveva saputo mai niente di bambini, non aveva mai neanche immaginato di poter avvicinarsi ad essere un qualcosa che fosse anche solo simile alla figura di un padre. E allora si era domandato come avrebbe fatto a comprendere e imparare la tenerezza di una presa o di uno sguardo, il giusto tono della voce da usare per dire "no" o, al contrario, "sì". E poi, con sorpresa, si era reso conto che alla fine avrebbe potuto essere anche un gioco di squadra e che Mumù diventava sempre più complice e sempre meno estranea. A guardare il cielo di notte si riconosce subito la stella polare, quando la si vede. Darko aveva imparato a guardare e ritrovare in Mumù ciò che per anni non aveva saputo vedere.
    D'altro canto, era altrettanto consapevole del fatto che il pacchetto non comprendesse solo il piccolo uragano di energia che, senza alcuna vergogna, gli aveva posto innumerevoli e stranissime domande riguardo i più disparati argomenti, ma anche la figura più fredda di sua madre, Maeve.
    Maeve, che in otto anni non gli aveva mai rivelato l'esistenza delle stelle.
    Maeve, che al liceo non faceva altro che guardarlo.
    Maeve, che quella notte nel bosco si era rivelata essenza, un po' luce, mai polo nord, ma una di quelle stelle che le danzano intorno.
    Maeve, che sembrava provare rancore verso di lui e che restava sempre qualche passo più indietro e al contempo prontissima a sfilargli Malia da sotto al naso, forse per paura che qualcuno potesse portargliela via.
    Maeve, che altre volte invece, quando credeva che lui non guardasse, sollevava timidamente l'angolo destro delle labbra all'insù e, magicamente, sorrideva.
    Maeve che da qualche mese era diventata solo Mae, che chissà per quale assurda ragione aveva accettato di concedergli parte di quella magia che, fino all'incontro al Luna Park, Malia aveva riservato forse solo a lei.
    Mae, che quella sera bussò alla porta di casa sua con lo sguardo di chi ha paura che la sua stella si spenga nella stretta delle proprie dita, se non viene cercata e guardata nel modo giusto.

    Del taglio che aveva sul sopracciglio se ne ricordò solamente quando increspò la fronte dopo aver aperto la porta, iniziò a bruciare tanto quanto lo fu il senso di sorpresa nel ritrovarsi dinnanzi la figura esile di Mae sugli scalini di fronte casa, fra le braccia il corpo addormentato di Malia che sembrava iniziare a pesarle addosso, la vedeva scivolare giù mentre la guancia morbida di lei si strofinava lentamente contro la pelle arrossata della spalla di Mae. Fu istintivo avvicinarsi immediatamente alla figura dell'altra per privarla del peso di Mumù, così andò ad allacciare le mani attorno al corpo della piccola per sollevarla e tirarsela contro, stringerla nella presa salda mentre, un passo indietro, si faceva da parte per far passare Mae. Con il corpo di Mumù sostenuto fra le braccia, Darko non proferì parola e spinse piano la porta con un piede per richiuderla dietro la figura di Maeve che, dandogli le spalle, avanzò di qualche passo nell'ingresso per poi fermarsi di nuovo, piantandosi a poca distanza da lui con lo sguardo che, forse per pura curiosità o forse per vergogna, girovagava ovunque evitando di posarsi immediatamente sul viso di lui. «Che ci fai qui?» sussurrò quindi lui puntando gli occhi chiari sulla schiena di Mae e avanzando verso di lei per superarla, indicando poi col mento la porta in fondo al corridoio per farsi seguire in direzione della camera da letto. Fu solo dopo averla superata a passo silenzioso che Darko captò finalmente il viso dell'altra illuminato dalle luci fioche del corridoio: si stringeva le dita contro le braccia in una presa ferrea, gli occhi e le guance arrossate. Si fermò per un istante di fianco a lei, il corpo di Mumù ancora ben saldo fra le braccia. La guardò con le sopracciglia increspate, le pupille ora sull'attenti cercavano tutto quello che il fisico di Mae, in quel momento, comunicava. Sollevò piano il mento, rilassando poi lo sguardo mentre, un'ultima occhiata in direzione del volto di Maeve, le diede nuovamente le spalle per avanzare verso la stanza da letto all'interno del quale si addentrò per posare Mumù sul letto e avvolgerla fra le coperte prima arruffate sul materasso. Si accinse ad accendere il lume sul comodino, convinto del fatto che, nel caso in cui si fosse svegliata, probabilmente sarebbe stato meglio darle modo di prendere subito familiarità con il posto. Prima di uscire si accertò che fosse ben coperta e, una volta fuori, socchiuse la porta. Nel corridoio Maeve non aveva mosso né un dito, né tantomeno un piede. «Hai cenato? Vuoi che prepari qualcosa?» chiese solamente, avvicinandosi a lei e, con fare del tutto naturale, si offrì di aiutarla a sfilarsi la giacca afferrandone il lembo.
    La condusse nella zona giorno, una grandissima stanza di forma rettangolare dove la cucina era separata tramite un isolotto dal divano sistemato di fronte la tv, le vetrate a muro che davano sulla terrazza e il giardino riflettevano gli interni e lasciavano il buio di fuori a far da pareti. Per quanto fosse una persona caotica, Darko aveva imparato a tenere ordine almeno all'interno dei propri spazi: la casa, di per sé, non era arredata con particolare gusto, ma per quanto fosse strano, riusciva a mantenerla ordinata la maggior parte del tempo. Era facile ritrovare qualche canotta o maglia sparsa sul divano o in giro per il bagno, il frigo che scarseggiava di cibo e abbondava di bibite di ogni genere, eppure mai si sarebbe concesso di lasciare, per esempio, gli attrezzi da palestra in disordine o il telecomando della tv nel posto sbagliato o incastrato fra i cuscini del divano. Aprì quindi il frigorifero e tirò fuori una bottiglia di birra e una di vino, sistemandole sull'isolotto appena prima di afferrare un bicchiere dalla credenza per versarvi dentro un po' di liquido rossastro per Mae e poi aprirsi la birra con le mani facendone saltare via il tappo. Con il bicchiere e la bottiglia di birra fra le mani fece quindi il giro dell'isolotto e si avvicinò all'altra, lo sguardo ora incuriosito, a dirla tutta, anche piuttosto preoccupato. Lo porse a Maeve e, quando lo prese, avvicinò la birra alle labbra per berne un sorso, lo sguardo ancora immobile sul viso di lei alla ricerca di qualsiasi cosa. «Maeve, mi piace da matti l'idea che morissi dalla voglia di vedermi, ma qualcosa mi dice che non è esattamente così.» si pronunciò Darko, il viso serio nonostante l'accenno ironico della voce. «Malia sta bene?» chiese, abbassando il mento verso la sagoma di Maeve. Sospirò, più che altro contrariato da ciò che dentro provava, l'interesse inspiegabile nei confronti della donna che aveva davanti e che avrebbe voluto detestare, piuttosto. E ad ogni passo avanti però si ricordava di tornare indietro, ad ogni più piccola concessione che avesse a che fare con lei, ecco che Darko voleva privarsene di nuovo, perché sì, era la madre di sua figlia e al contempo la donna che gliel'aveva portata via, non solo in maniera fisica, ma anche e soprattutto sentimentale. Era stato un ragazzino e questo lo sapeva ancora benissimo, ma era stato quello un motivo così sensato agli occhi di Maeve da arrivare persino ad omettergli della gravidanza? «Tu stai bene?» domandò quindi dopo qualche istante, restando terribilmente serio. A saperlo, cos'aveva scelto lei cancellandogli la memoria, cos'avrebbe fatto Darko? Quanto si sarebbe pentito di parole che non ricordava di aver mai pronunciato? Ma lei aveva scelto per entrambi e, otto anni dopo, il futuro che li aveva visti separati tornava ad unirli nel presente e, forse, proprio quel percorso intrapreso li avrebbe ricondotti al punto di partenza.
    Chissà se l'avrebbe saputa amare.
    Chissà se l'avrebbe saputa trattenere senza finire per perderla.
    Chissà che non fosse proprio Maeve la sua stella polare e Mumù fosse quel raggio luminoso che gli dava la possibilità di poterla guardare e cercare di notte.
     
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    Stringere Malia era diventata una questione di sopravvivenza da quando l'aveva sollevata e messa di peso sul sedile posteriore dell'auto, ingranando la retromarcia per lasciarsi la villa alle spalle. Erano le dieci di sera. Un gesto, quello, che non aveva e mai avrebbe fatto se non si fosse trattata di un'emergenza, se non pensava che corresse meno rischi in quella macchina senza protezione piuttosto che in casa, con Rikke. Era iniziato tutto come iniziava sempre, con una stupidaggine. Sin dal primo passo sul parquet Mae aveva capito che qualcosa sarebbe successo, ormai lo riconosceva dalla cadenza delle falcate e dal modo in cui il marito si chiudeva la porta d'ingresso alle spalle. Non l'aveva accompagnata dolcemente, l'aveva sbattuta tanto che il riverbero aveva viaggiato attraverso le pareti arrivando fino a lei, fino a farle tremare le ossa. L'aria era tesa mentre cenavano. Rikke a capotavola, Mae da un lato e Malia dall'altro. In silenzio. A Mae andava bene così, meno parlavano e meno rischiavano di sbagliare, di scatenare qualcosa. Lo stridore del coltello sul piatto le ricordava il vociare delle volpi di notte mentre Rikke stracciava la carne di vitello che gli aveva fatto trovare pronta nonostante anche lei fosse reduce da un duro turno all'ospedale. Un grido che somigliava al pianto trattenuto di un bambino.
    Erano al dolce quando il pretesto, qualcosa a che fare col fatto che sarebbe stato Jona, il padre il un'amichetta di Malia, ad accompagnarla a scuola il giorno dopo visto che sia Mae che Rikke dovevano arrivare a lavoro un'ora e mezza prima del solito, innescò la miccia che lo fece esplodere come una bomba che non lascia superstiti. Aveva fatto in tempo a trascinarlo nell'ingresso, scegliendo la paura di farsi male senza poter sopportare che fosse Malia a finire nel mezzo, ad essere testimone di qualcosa di così lontano dall'amore da far credere che lì non ce ne fosse mai stato. Era così? Davvero non era mai esistito affetto in quelle quattro mura? Non era possibile, Mae giurava di averlo vissuto sulla pelle, nelle carezze dei primi anni, nei sorrisi sopra i bicchieri di vino. Cosa era successo, poi?
    Nell'abitacolo la temperatura scendeva a sfiorare lo zero mentre Mae guidava senza meta, gli occhi appannati da lacrime che non scendevano ma se ne stavano intrappolate lì, dietro le folte ciglia e il sorriso largo allo specchietto retrovisore, a Malia. «È tutto ok, è tutto ok, è tutto ok.» Lo ripeteva a Malia ma era come dirselo ad alta voce per non crollare. Si mordicchiava le labbra mentre pioggia mista a neve iniziava a cadere fitta. Azionò l'aria che ci mise un po' a scaldarsi, a sciogliere le articolazioni intorpidite, a riscaldare il corpo infreddolito. Solo la guancia ardeva, lì dove Rikke l'aveva colpita si sarebbe formato un livido. I tergicristalli facevano avanti e indietro come la macchina, come la mente di Mae che frenetica cercava un nome, un appiglio a cui aggrapparsi. Non aveva nessuno che sapesse, nessuno che le avrebbe accolte senza pretendere una spiegazione, senza farsi un'idea di quanto sbagliato fosse che una madre forzasse la figlia fuori casa con quelle temperature a quell'ora di notte. Le cose con Elias avevano finalmente raggiunto un equilibrio, il fratello aveva appena iniziato a riconsiderarla e non poteva deluderlo, così come non voleva irrompere nella vita di Lars, Frida o degli altri amici dichiarando, per la prima volta, di avere un problema. Perché sì, Mae non aveva mai dato segno che qualcosa potesse non andare, che certe parti della sua vita non fossero correttamente impilate come voleva dare l'impressione che fossero. Il lavoro, Rikke, Malia, a sentirla andava sempre tutto benissimo. E perché non avrebbe dovuto? A furia di ripeterlo a sé e agli altri Aveva finito per convincersene. Lanciò uno sguardo nello specchietto e non intercettò più gli occhi grandi che la guardavano confusi. Malia si era addormentata, la testa piegata in avanti sul petto, la cintura di sicurezza a segarle la guancia. Si sentì inondare dal malessere, Mae, e strinse più forte le dita intorno al volante per farle smettere di tremare. Era bloccata, girava in tondo, testa, macchina, cuore, senza sapere come e dove rifugiarsi.
    O da chi.

    Quando lo vide Mae non reagì. Se non fosse stato per i comandi impartiti non sarebbe stata in grado di muovere un passo, figurarsi mettere Malia a letto. Quando fu il momento di lasciarla andare oppose una resistenza debolissima, stringendo per un attimo le dita intorno alla giacca bagnata di neve della figlia per non lasciarla andare. Era colpa dell'istinto primordiale a non volersene separare per proteggerla, salvarla anche da chi era palese non volesse farle alcun male. I riflessi irrigiditi di Mae dovettero arrivare alla stessa conclusione perché lasciarono poco a poco la presa, gli occhi puntati sulla schiena di Darko e sul faccino di Malia addormentato sulla sua spalla. Così sembravano quasi un dipinto, come se si fossero sempre appartenuti. Non capiva come potesse pensare cose così inutili quando non riusciva a fare un passo, a parlare o a articolare altri pensieri che spiegassero a Darko il motivo della sua visita o cosa volesse da mangiare. Riuscì solo a scuotere la testa, Mae, e quel lento movimento sembrò costarle una fatica immensa mentre faceva scivolare le mani tra i gomiti piegati e il corpo, sotto il seno a sorreggersi. Forse era stanca dall'ora passata a girare senza una meta nella neve e nella paura, forse era sotto shock, ma proprio come in auto Mae non riusciva a sbloccarsi.
    Erano quasi due ore che cercava di non tremare più. Solo quando Darko le tirò il lembo della giacca reagì con un sussulto, muovendo gli occhi su di lui e vedendolo davvero per la prima volta. Aprì le braccia indolenzite dall'ansia e si lasciò sfilare la giacca, seguendolo in soggiorno con passi lenti e meccanici. Era approdata davanti le grosse vetrate che davano sul buio, una parete nera in cui Mae riusciva ad intravedere qualche albero e lucina non troppo distanti. Era stata condotta lì e lì rimase per tutto il tempo che l'uomo impiegò a fare quel che stava facendo qualche metro più indietro e che Mae non vide né sentì se non distrattamente, come se il tintinnio di bicchiere e bottiglia provenisse da molto lontano e il tappo che saltava fosse l'abbaiare di un cane nelle vicinanze. Vicino ma non lì. Come Rikke, di cui sentiva comunque il fiato sul collo mentre la afferrava per la gola. Afferrò il bicchiere di vino con entrambe le mani come se avesse paura che una non sarebbe bastata a sorreggerne il peso, quindi lo bevve quasi tutto d'un fiato chiudendo gli occhi. Abbassando testa e bicchiere Mae strinse le labbra per acchiappare eventuali residui rossi lì sopra, poi si costrinse a sollevare lo sguardo in quello di Darko per la prima volta da quando aveva fatto il suo ingresso in casa. Quasi vacillò sotto la spinta di quegli occhi così intensi. La stavano studiando in cerca di qualcosa, li sentiva bruciare sul viso amplificando il dolore della parte colpita dalle dita di Rikke. Avrebbe voluto trovare lo spazio di un abbraccio tra quei gomiti sporgenti come aveva fatto Malia, per cercare un po' di calore e fermare i brividi. Ma lei non era Malia, non era una bambina ed era abbastanza sicura che l'uomo la odiasse. Il sentimento era reciproco, comunque. Allora perché era andata proprio lì? Perché era il padre di sua figlia, non avrebbe mai fatto loro del male. Ne era sicura? «È tutto ok.» Ripeté come se non avesse sentito la battuta o le sue domande, iniziando ad appiattirsi i capelli con le dita della mano libera. Erano uscite di casa con quello che avevano addosso, Malia già in pigiama verde e giallo e Mae con un maglione a righe e i capelli chiusi in una coda sfatta, cadente, con ciuffi penzolanti di qua e di là. Non era da lei e non era in lei, iniziava a rendersene conto e per questo tentò di porvi rimedio sistemando alcune ciocche dietro l'orecchio. Abbassò lo sguardo sulle proprie gambe. Erano fasciate in un paio di leggins neri che usava in casa. La sensazione più bella era disfarsi della divisa da infermiera e infilarsi in quei morbidi vestiti caldi sulla pelle, solo che in quel momento non sentiva più la stessa gioia nell'indossarli, solo un profondo imbarazzo. Quella sensazione bruciò come il segno rosso sul viso e la chiazza sul collo, riscuotendola brevemente dal torpore catatonico in cui era affondata. «Mi dispiace... » Iniziò allora a muoversi evitando accuratamente di guardarlo mentre poggiava il bicchiere sul tavolino basso di fronte al divano, lisciando poi più volte le pieghe del maglione con i palmi delle mani. Sembrava aver capito solo in quel momento dove si trovasse, come se Darko avesse schioccato le dita e l'avesse svegliata. Era agitata. «Mi dispiace moltissimo essere arrivata così senza preavviso, stavamo cenando e no...stavamo facendo un giro e...» Si bloccò di botto. E cosa? Non sapeva cosa dire. Osservava le gambe dell'uomo come se fosse a loro che rivolgeva quelle scuse. «Non volevo disturbarti a quest'ora, mi dispiace.» Ripeté senza riuscire a guardarlo, superandolo poi per dirigersi verso dovunque avesse messo la sua giacca. «Ce ne andiamo subito.» Trovato finalmente il cappotto, Mae iniziò a infilarlo lasciando che penzolasse solo da un braccio mentre avanzava a passi svelti verso la camera da letto. Da quando Darko era entrato di prepotenza nelle loro vite Mae non era riuscita a scacciarselo dalla mente, dove trovava posto sempre più di frequente tra un prelievo e una somministrazione e l'altra. Era qualcosa che non riusciva a spiegare, un pensiero fisso che poteva avere solo a che fare con il fatto che fossero letteralmente legati da Malia. Doveva essere quella la ragione. Però si ritrovava a pensare che avrebbe voluto sentirsi sempre così, al sicuro, e che fosse triste che uno pseudo sconosciuto riuscisse lì dove il marito falliva miseramente. Con la mano sulla maniglia della porta Mae era pronta a spingere per aprila, ma chiuse gli occhi solo per un secondo. Il respiro nelle orecchie era forte come il cuore che pompava, mentre nella mente sentiva di nuovo le mani di Rikke chiudersi su di lei come una tenaglia per animali. Non potevano tornare lì.
     
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    Where the windows are breathing in the light,
    Where the rooms are a collection of our lives,
    This is a place where I don't feel alone.

    ***


    C’erano cose di cui con Mae non si poteva parlare, quindi restavano silenti. Alcune di quelle cose avevano forme umane, nomi ben precisi che Darko non credeva di saper pronunciare: quando lo faceva, però, si stupiva addirittura d’esserci riuscito. Altre cose, invece, erano del tutto astratte: intoccabili con le dita, inguardabili con gli occhi, impronunciabile con labbra, lingua, voce. Far parte della vita di Maeve era come esser chinati ore ed ore sui pezzi di un puzzle per cercare di metterli insieme nel modo corretto così da ammirarne l’opera finale e completa. Darko conosceva però ancora solo quella sensazione di frustrazione all’interno del quale si sentiva perso e si chiedeva se mai avesse raggiunto quel traguardo, se avesse mai potuto drizzare la schiena per contemplare, con stupore e soddisfazione, l’incastro dei tasselli che avrebbero preso la forma di un quadro. Ne avrebbe fatto parte? E se non fosse stato possibile, si chiedeva, avrebbe almeno potuto occuparsi della cornice che avrebbe mantenuto tutto in un solo e compatto pezzo di vita e arte?
    Quando Mae si presentò sull’uscio di casa sua, quella sera, Darko pensò che avesse perso qualche altro pezzo del suo puzzle, come se la donna si fosse sfaldata da sola perdendo per strada tutti i progressi compiuti per costruirsi. Avrebbe guardato sul sentiero che collegava la porta di casa al cancelletto esterno per accertarsi che non ne perdesse altri anche solo camminando.
    Si era fatto carico del peso addormentato di Malia, che ad occhi chiusi si lasciò afferrare dalle braccia salde di Darko mentre questo lasciava entrare Mae all’interno dell’abitazione, luci fioche e sul tono d’arancia che illuminavano il lungo e stretto ingresso su cui si affacciavano diverse porte. Sistemò la sua Mumù sul proprio materasso, nella camera da letto, lasciando che la luce di un lume sul comodino non le annebbiasse il sonno, spaventandola nel caso in cui si fosse svegliata ritrovandosi in un luogo a lei sconosciuto, ancora. Era tipico, per Darko, che al calar del sole non illuminasse mai troppo la casa, non amava le luci forti e pungenti, così si accertava che i toni restassero dalle sfumature calde. E fu forse proprio per quel motivo che, a primo impatto, non aveva notato poi davvero qualcosa di insolito nella figura di Maeve: certo, non era esattamente abituato a vederle le gambe avvolte in un paio di leggings neri o i capelli maldestramente fermi nell’esausta stretta di un elastico dello stesso colore, ma la parte visiva che lo aveva colpito di lei veniva lasciata in secondo piano se messa a confronto con il fatto che, in una qualunque tarda serata come un’altra, se l’era ritrovata sull’uscio di casa senza esser stato prima avvisato. Era quasi un rito, tra di loro: dopo l’incontro al Luna Park non vi era mai stato nessun altro casuale incontro, tutto era sempre stato schedato, programmato. Sembrava quasi che il tempo scandisse, nella vita di Mae, solo al suo comando.
    Quando le domandò se ci fosse qualcosa di sbagliato, avvicinandosi a lei con l’offerta di un bicchiere di vino rosso nella mano e una bottiglia di birra nell’altra, Mae accettò di buon grado il bicchiere, afferrandolo e mandando giù in fretta il liquido rossastro che fino a quel momento aveva danzato dolcemente nella conca trasparente che Darko le aveva allungato. «È tutto ok.» aveva proferito parola solo in quel momento, si rese conto Darko e forse Mae stessa che, non appena aveva richiuso le labbra, aveva lasciato che un’espressione di ansia mista a panico le si spalmasse sul viso dalla pelle liscia. «Mi dispiace... » aggiunse dunque, dopo essersi frettolosamente guardata le gambe e, forse, aver notato d’esser uscita di casa con indumenti che di solito indossava solo dentro. La seguì con lo sguardo, Darko, mentre lei riprendeva a muoversi con più energia di quella che le aveva visto addosso fino a poco prima. Restò sul posto, girandosi su sé stesso per seguirla con le iridi azzurre mentre, consapevole ora al cento per cento che ci fosse qualcosa di cui lei sembrava non voler parlare ma che, forse per paura, forse per necessità, l’aveva spinta a chiedergli asilo per qualche istante, forse qualche ora, senza pronunciar parola alcuna. «Mi dispiace moltissimo essere arrivata così senza preavviso, stavamo cenando e no...stavamo facendo un giro e…» prese a raccontare Mae, muovendo appena il capo evitando di guardarlo, chiaramente alla ricerca della cosa giusta da dire o forse solo la più sensata, quella che non avrebbe rischiato la raffica di domande che, invece, temeva potessero arrivare da Darko. Chinò la testa bionda stringendo ancora la bottiglia di birra fra le mani mentre osservava Mae questa volta sotto il fascio di luce del faretto più diretto che, dal soffitto, ora andava ad illuminarla in viso: un’isoletta rosa compariva sulla parte laterale del viso, vicino l’orecchio; appena più in basso, sul collo, Darko intravide due piccoli segni più scuri dalla forma ovale. Serrò immediatamente le labbra, prendendo a camminare nella direzione di Mae e quindi del tavolino che le stava di fianco alle gambe per posare la bottiglia di birra ancora mezza piena, ora come se fosse vuota e non avesse più alcuna funzionalità senza l’alcol al suo interno, poiché ciò che in quel momento passava nella mente di Darko non era assolutamente sedabile, non con qualcosa di così materiale. Per un breve momento, mentre si chinava con la schiena in direzione del tavolino in maniera lentissima, come se la bottiglia di birra gli pesasse non solo fra le dita, ma sulle braccia, sulle spalle, sulla testa e sui piedi, le ginocchia gli avrebbero ceduto se solo si fosse abbassato di più? Quando tornò dritto, ruotò il capo di lato, verso di lei, puntando lo sguardo sulle palpebre basse di Mae che, ancora, non aveva alzato le proprie iridi su di lui più di una volta da quando era entrata e che, ora gli fissava allarmata le gambe e i piedi, come se, a guardare in basso, lo avrebbe fatto anche lui e, forse, non si sarebbe accorto dei segni rossi sul viso. «Non volevo disturbarti a quest'ora, mi dispiace. Ce ne andiamo subito.» continuò Mae, questa volta riuscendo a scollare i piedi dal pavimento per dirigersi al di fuori del grande salone e ritrovarsi quindi nell’ingresso dove Darko aveva appeso le giacche quando erano entrate. Maeve. sussurrò piano, non per timore e non per non abusare del proprio tono di voce in una situazione in cui, lo sapeva, avrebbe dovuto mantenere una calma. Qualcosa, semplicemente, si smosse dentro di lui in maniera tanto lenta quanto scaltra, restando silenziosa. Si voltò per seguirla a passo cadenzato fermandosi sull’uscio della porta che divideva la stanza dal corridoio dove, in piedi mentre gli dava le spalle già coperte dalla giacca pesante, Mae sostava sulla porta della camera da letto di Darko. Maeve. pronunciò di nuovo il suo nome per intero dopo settimane di nomignoli, prese in giro del tutto affettuose forse anche a propria insaputa e, nel farlo, qualcuno avrebbe potuto pensare che i due stessero tornando indietro, verso un tempo successivo al bosco e antecedente al luna park. Restando sulle porte di quel corridoio illuminato dal calore dei faretti, però, Maeve e Darko probabilmente non erano mai davvero stati più vicini. Lasciati guardare. disse, sollevando appena il mento mentre con lo sguardo restava fermamente aggrappato alle spalle di lei, la figura del suo corpo già normalmente minuto ora gli appariva decisamente più piccolo, anche più sottile e fragile di quello di Malia che già diversissime volte aveva avuto l'occasione di stringere fra le proprie braccia. Compì un passo in avanti senza ancora avvicinarsi eccessivamente a lei, lasciandole lo spazio che era fermamente decisa a tenersi stretta addosso dandogli le spalle. Non sapeva d'essere vicinissimo ai propri sentimenti, alle proprie sensazioni che, solo qualche istante dopo, gli si sarebbero riversate tutte addosso senza che lui potesse davvero far qualcosa per reprimerle. Credeva, Darko, che il proprio orgoglio avrebbe combattuto qualsiasi ferita, persino o forse soprattutto quelle non a lui inflitte. Quando raggiunse Maeve sulla soglia della camera da letto che restava ancora nascosta ai loro occhi dalla porta socchiusa, Darko si affiancò alla figura della donna posando il proprio sguardo sul suo viso ombrato, nascosto alla luce dalle ombre che, in piccoli ciuffi, le ricadevano sul viso mentre cercava ancora di nascondersi da lui, forse intrappolata nella tempesta di pensieri che si fortificava dentro di lei mentre cercava la forza di compiere una scelta o anche solo un passo in una qualsiasi direzione avrebbe potuto sbloccarla da un tepore scomodo che ormai conosceva bene.
    Sollevò una mano in direzione della sua spalla minuta, Darko, stando attento a non posar troppa pressione su di lei mentre tentava, lievemente, di farla voltare verso di lui.

    Faccia a faccia, ora Darko la vedeva.

    Si costrinse a serrare le labbra per qualche secondo, le narici si allargarono piano sotto la pressione del suo respiro appesantito; lo sguardo, quello, pronunciò mille parole, immagini, pensieri; quello, s’incollò alla pelle arrossata di Mae e lasciò vagare fibrillazioni di rabbia e sentimenti di ingiustizia lungo ogni vertebra e nervo che avesse in corpo. Il pensiero, poi, volò direttamente a Mumù stesa sul suo letto, appesantita da sonno e, chi poteva saperlo? Da quello che aveva visto? Da quello che aveva subito? Scosse il capo, frettoloso, la mano ancora posata sulla spalla di Mae come se a staccarsene perdesse il filo di pensieri e il ragionamento che, anche se non avesse voluto fosse vero, rendeva tutto reale e non aveva bisogno poi di troppe spiegazioni. Fu quasi istintivo, Darko spinse piano con la mano libero la porta della camera da letto e controllò che Mumù stesse dormendo prima di ritirarsela contro e chiuderla. Dopodiché diede le spalle anche a Maeve e si diresse nuovamente verso la cucina, facendo segno a lei di seguirlo. Una volta all’interno della sala e dopo aver lasciato a Mae lo spazio e il tempo di tornare nella stanza, Darko chiuse anche quella porta, voltandosi a guardarla con espressione seriosa. Ce l’hai in casa, il pezzo di merda? chiese schietto, sollevando il mento per indicare lei e i segni rossi sul viso mentre, intrecciando le braccia al petto, si avvicinava a lei di nuovo. Maeve, alza le mani su Malia? chiese ancora a bruciapelo in un impeto di protezione e rabbia che non avrebbe neanche saputo spiegare a parole ma che provava solo da quando aveva conosciuto loro. Non lo avrebbe mai ammesso consciamente, non in quel momento almeno, che il senso di protezione non si rivolgeva più solo nei confronti di Malia, bensì anche in quelli di Maeve. Ma Darko, che mai in tutta la sua vita aveva avuto cura di qualcosa più che di se stesso, anche se in tutti i modi maldestri che esistessero, si ritrovava in una situazione di totale ignoranza con lei e Malia; ignoranza intesa non come qualcosa di cui non aveva alcuna conoscenza, ma come qualcosa di cui ne ignorava, almeno fino a quel momento, la completa esistenza. Si era chiesto, un paio di volte, se sua madre e suo padre si fossero mai sentiti a quel modo nei suoi confronti, lo stesso modo in cui si sentiva lui quando voleva solamente che a Malia accadessero cose bellissime.
    Non ci tornate a casa stasera, Maeve. Mi hai sentito? affermò senza voler effettivamente avere una risposta ma pretendendo che lei annuisse, che almeno per quella volta lasciasse definire a lui lo scorrere del tempo. Sciolse il nodo di braccia incastrate dinanzi al petto e prese a camminare in direzione della cucina, posando i palmi aperti delle mani sulla superficie liscissima dell’isolotto bianco. Lasciò cadere la nuca verso il basso, chiudendo gli occhi qualche istante mentre cercava una soluzione che, lo sapeva benissimo, anche dopo averla trovata non avrebbe risolto tutto alla velocità della luce. Parlami, Maeve. sussurrò allora quando tornò in superficie col viso e le iridi andarono a cercare il volto scarno di Maeve. Da quanto va avanti? chiese poi, sospirando piano mentre si drizzava nuovamente e lasciava andare l'isolotto con le mani per girarci intorno e, così, tornare al centro del salotto davanti al divano, laddove Maeve sembrava essersi piantata di nuovo. A guardarla, nuovamente così piccola e con quella macchia che ora sembrava ingigantirsi sulla sua guancia, Darko pensò a come, già una volta, avesse perso qualcosa a cui aveva tenuto da pazzi, impedendo a sé stesso anche solo di assimilare quello che fosse accaduto, distaccandosi da un lutto che, alla fine, era rimasto solo un lutto, neanche suo. La perdita di Silje era stata chiusa in una scatola di cartone e posta via insieme a tutti quei giorni spesi a distruggersi, insieme ai sensi di colpa che, altrimenti, lo avrebbero divorato dall'interno per quell'unica ragione: lo sapeva, -lo aveva sempre saputo- avrebbe potuto fare tanto altro affinché, quella mattina di qualche anno prima, Silje si svegliasse ancora una volta per lui. Non avrebbe permesso che accadesse lo stesso a Maeve.

    Per Maeve ci sarebbe stato.
     
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    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [abusi e violenza domestica, violenza sulle donne].
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.
    Le azioni descritte non sono ad ogni modo condonate e sono diretta responsabilità creativa di chi ha realizzato tali contenuti.




    xx
    Chiudi gli occhi, hai espresso un desiderio?
    Stelle, luna, un cane e due gratti, un abbraccio senza testimoni. Nessun volto, solo la netta sensazione che fosse la persona giusta a stringerla. Un sorriso, denti bianchi, dita fra i capelli che tirano indietro e trattengono, non respingono. Chiudi gli occhi, hai espresso un desiderio? La casa perfetta, i cavalli, il giardino con i pomodorini rossi, forse anche dei buoni vicini, sempre quell'abbraccio e la netta sensazione d'essere in un luogo dove far riposare la mente, i nervi, i muscoli del volto atteggiati a quel sorriso stanco d'esserci perpetuamente. Braccia fra le quali potersi lasciare andare. Dieci, tredici, diciassette, ventuno, quelli sparsi con un soffio di cera sulla torta erano desideri che cambiavano di anno in anno tranne la braccia, quelle resistevano al passaggio del tempo come solo le cose inventate sanno fare. Quella stretta Maeve riusciva a sentirla contro la guancia e sulle braccia a furia di desiderarla.
    La luna abbagliava il cielo di bianco latte la prima volta che il suo desiderio era stato esaudito. Lì dentro pensò di non essere mai stata così libera come protetta da quegli avambracci contro i fianchi, una circonferenza più salvagente che gabbia. Con le mani su di lei, Mae aveva creduto che si fosse avverato finalmente, quel folle desiderio cosparso di cera mai dimenticato. Che fossero i suoi quei palmi rassicuranti che tante volte aveva immaginato. Solo che si era sbagliata, il primo grande errore di Mae era stato quello: pensare che fosse Darko il suo destino. La consapevolezza di aver sbagliato bruciava come mare su una ferita aperta, e nell'impeto di quel dolore aveva agito d'impulso, togliendogli qualcosa di importante per ricambiare l'affronto.
    Per un compleanno poi la cera era colata sulla torta e lei aveva smesso di desiderare qualsiasi cosa, concentrando ogni sua energia sulla vita che la riempiva dentro. Sulla sua Malia.

    Quando Rikke l'aveva avvolta per la prima volta Mae era sola, impaurita e stanca, sulle spalle pesavano anni di sogni mai avverati e anzi distrutti da una realtà che non voleva accettare neanche avendola sotto gli occhi, sotto mano, dentro il ventre gonfio di una vita sconosciuta che era già diventata la sua migliore amica. Sarebbe stata una madre sola, di quelle che mangiano da sole al ristorante, sempre scarmigliate, le ragazze madri che provocano compassione. Forse fu per questo che accettò quelle braccia, perché era meglio chiudere gli occhi e convincersi che fossero quelle giuste, quelle sempre sognate; era meglio inspirare dal naso e scacciare la sensazione che fosse tutto sbagliato, che niente era come le altre che durante una notte di luna piena l'avevano trattenuta. Cedere fu facile, incredibilmente facile, e in quella semplicità Mae avrebbe dovuto capire che si celava l'errore più grande mai commesso. Ma non voleva vedere, negare era ormai un'abitudine talmente insita in lei da non notare più quando succedeva. Così per anni si era lasciata stringere da Rikke, e neanche ora che la presa era così forte da essere dolorosa, neanche a quel punto lei riusciva ad ammettere che fosse sbagliato. Di aver sbagliato tutto ancora.

    Chiudi gli occhi, hai espresso un desiderio?

    Con il sotto delle dita posato sulla maniglia, Mae chiuse gli occhi. Il calore dei faretti le scaldava la fronte come stesse in procinto di soffiare delle candeline bollenti, immaginò la cera squagliarsi mentre lei pensava. Hai espresso un desiderio? Che cosa desiderava in quel momento? Di non aver mai conosciuto Rikke. Quel pensiero comparve facendola sentire in colpa come una ladra. Di essere rimasta ancora un minuto più a lungo a quella festa di tanti anni prima, che Malia fosse felice e al sicuro, che Darko continuasse con la solita ostilità latente che tanto la innervosiva ma grazie alla quale la linea fra loro rimaneva netta, come una linea tracciata con uno dei pennarelli a punta spessa con cui Malia si imbrattava le mani. Era un casino pulirle poi, non veniva mai via del tutto e se ne stava sui polpastrelli bianchi per giorni; che non la chiamasse a quel modo, con la voce sommessa riservata a chi fa pena o compassione, o ai bambini piccoli quando cadono e si mettono a piangere. Avrebbe addirittura preferito i nomignoli che da mesi le affibbiava piuttosto che sentirlo pronunciare il suo nome per intero. Non sapeva perché ma feriva in profondità. Forse perché senza il solito distacco le veniva difficile non immaginare una vita se le cose fossero andate diversamente, a girarsi al suono di quel timbro di voce che la chiamava dall'altro lato della cucina, a trovare rifugio fra quelle spalle. Mi dispiace. Avrebbe voluto ripetere questa volta rivolto a lui, al male che gli aveva fatto e al futuro che aveva precluso a entrambi. Chissà, magari sarebbe stato tutto diverso. Chissà. Uno come Darko era in grado di spostare l'aria in un modo tutto suo quando si muoveva nello spazio. L'aveva notato al luna Park e durante gli altri incontri, ma in casa sua era ancora più marcato. Quel luogo gli apparteneva e Mae era un'intrusa. Sussultò quando Darko le sfiorò la spalla, neanche la leggerezza con cui lo fece impedì al corpo di reagire e mettersi in guardia. Vedeva solo il buio dietro le palpebre chiazzato dalla luce tenue dei faretti ma poteva comunque sentire l'uomo al suo fianco. Sulla guancia livida il suo respiro era un soffio che recava dolore e sollievo al tempo stesso e Mae aspettò il momento in cui si sarebbe reso conto. E l'avrebbe odiata ancora di più. Eccolo. La mano scivolò dalla maniglia mentre Darko apriva la porta e la richiudeva, lasciandola sola nel corridoio. L'assenza del palmo sulla sua spalla si faceva sentire come un macigno invisibile ora che non c'era più. Mae inspirò, prese fiato. Si sarebbe potuto pensare che stesse per spegnere della candeline invisibili. Aprì finalmente gli occhi che, sull'orlo delle lacrime, si incollarono brevemente alla porta chiusa prima che si dirigesse lentamente nella sala, seguendo un tacito ordine che le riverberava nelle tempie. Ritrovandoselo di fronte, Mae si sentiva spossata. Aveva il viso bollente e, lì dove era stata colpita, sembrava che la pelle le stesse andando a fuoco. Immediatamente sotto attacco, Mae invece si ritirava stringendosi le braccia al petto mentre una mano si apriva sul collo nel tentativo di nascondere i segni rossi. Malia. Lo ammonì anche se debolmente. Non voleva che si svegliasse e che sentisse quelle cose sul conto di Rikke. Scosse poi con così tanta veemenza la testa che qualche ciocca le cadde dalla crocchia già maldestra che aveva sulla testa, e sentì qualcosa schioccare senza saper dire se si trattasse del collo o del proprio cuore. Impossibile. Non lo farebbe mai, le vuole bene. Disse stringendosi di più la mano alla gola rendendosi conto quanto stupida suonasse quella rassicurazione. Aveva voluto bene anche a lei, tempo prima, no? Io lo impedirei. Lo seguì con lo sguardo fin dove potè, torcendo lievemente la postura ma senza riuscire a muovere i piedi, che sembravano piantati lì come radici nel soggiorno poco illuminato di Darko. Una pianta del sottobosco, in effetti così si descriveva sempre compilando uno di quei stupidi quiz sulle riviste che leggeva durante le attese interminabili che costellavano la sua vita. Una pianta gracile che vive sotto al bosco da cartolina, sopraffatta dal resto, soffocata e con poca luce a disposizione. C'era stato un tempo in cui era la pianta più alta del bosco vero, forse così l'aveva conosciuta Darko. Quel pensiero la mise ancora più a disagio. Lo osservò ancora un po', immobile come paralizzata. Vedeva la rabbia nei suoi gesti, la sentiva ribollire nella sua voce, avrebbe voluto se non altro combaciare quelle emozioni ma più ci provava e mano riusciva a parlare, a dimostrare la stessa energia di Darko. Annuì. Una volta e basta. Okay. Poi però aggiunse con un filo di voce E domani? C'era sempre il domani a cui pensare, sempre dietro l'angolo e totalmente imprevedibile nonostante Mae cercasse di pianificare ogni cosa, pure le reazione improvvise di Rikke. Domani al risveglio Rikke sarebbe stato furioso, questo le era chiaro. Riprese a tremare prima impercettibilmente, silenziosa come aveva imparato ad essere per non farsi vedere da Rikke, dagli altri e sopratutto da Malia, ma con Darko di nuovo di fronte il tremito parve aumentare esponenzialmente. Serrò ancora di più le braccia al petto, la mano libera continuava ad accarezzarsi il collo per coprisi come in segno di pudore.
    Qualche mese...Tre, forse quattro, non lo so. Si morse il labbro forte per evitare alle lacrime di straboccare dagli occhi. Detestava farsi vedere così. L'avrebbe pensata debole, non in grado di occuparsi di Malia. Se prima la odiava chissà ora cosa doveva provare per lei. Compassione? Ribrezzo? All'inizio capitava che mi stringesse un po' troppo forte il braccio, il fianco, qualche spinta, pensavo fosse uno sbaglio. Oggi è... Respirò piano come un piccolo uccellino dolorante. L'ho fatto arrabbiare, non mi ricordo neanche più il perché. L'ho trascinato via per non coinvolgere Malia. Mi ha presa per i capelli, faceva male ma pensavo avrebbe portato a... si bloccò, deglutendo mentre distoglieva per un attimo lo guardo dal suo, in imbarazzo nel trovarsi a discutere dell'intimità sua e del marito con lui. Invece non è successo, mi ha stretto il collo finché quasi non respiravo e poi mi ha colpita. Due dita si posarono tremanti sulla guancia arrossata. Come avrebbe voluto tornare indietro nel tempo e rifare tutto dall'inizio. Con Darko sarebbe stato diverso? Non aveva l'aria di uno che picchia le donne, ma del resto Mae ancora non lo conosceva davvero anche se si ritrovava spesso a fantasticare su di lui come se fosse il contrario. Poi si è scusato e siamo andati tutti a letto. Ho aspettato finché non ho sentito il suo respiro farsi pesante, ho messo Malia in macchina e siamo venute qui. Aveva raccontato tutto come se stesse snocciolando una storia qualunque, la voce rotta ma distante, sembrava elencare gli ingredienti di una nuova ricetta culinaria. Aveva dovuto tenere duro per Malia, resistere abbastanza a lungo per essere in grado di portarla lì in salvo. Ma ora poteva cedere, no? C'era Darko. Darko che aveva coinvolto senza chiedere neanche il permesso, Darko che la fissava con due occhi azzurro grigio che le ricordavano la luna sotto la quale avevano creato Malia anni prima; non riusciva a decifrarli, quegli occhi, non riusciva più a sopportarne il peso. D'improvviso si tramutarono negli occhi infuriati di Rikke che le esplosero contro la retina facendola finalmente indietreggiare. Per fortuna le sue gambe trovarono la sponda del divano, sulla quale si appollaiò talmente in bilico da sembrare sul punto di cadere. E Mae finalmente si accartocciò, un pezzo di carta bruciacchiato ai bordi. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace di tutto. Te lo giuro non lascerei mai che succedesse qualcosa a Malia, lo sai vero? Si prese il viso fra le mani, forse nel tentativo di non far vedere le lacrime. Non possiamo stare qui, se lo venisse a sapere...Non posso coinvolgerti ancora di più. Mi dispiace Darko, di tutto. Dell'averti precluso la più grande gioia che avresti potuto avere, Malia. Dopo qualche minuto il tremito parve rallentare, allora alzò la testa con lentezza senza neanche prendersi la briga di asciugare gli occhi. Gli occhi acquosi cercarono quelli dell'uomo immediatamente. Ne studiò i lineamenti marcati, immaginando la sensazione della barba di qualche giorno sotto i propri polpastrelli. È così difficile amarmi? Aveva una voce talmente sottile da essere quasi inaudibile. Perché non era rimasto con lei? Perché non l'aveva voluta? Si vergognò quasi subito di quella domanda così intima. Cosa ne poteva sapere lui che non l'aveva mai amata davvero. Ma ormai non c'era più niente a tenere ferma la pianta di sottobosco. Tremava vistosamente nonostante portasse la giacca in casa.

    Edited by scarecrow! - 11/7/2023, 18:50
     
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    ***


    E domani?
    Se lo sarebbe chiesto spesso, anche dopo. Si sarebbe posto miliardi di domande senza poi davvero trovare una risposta giusta, precisa, adatta a cancellare quei punti interrogativi che progredivano nell'apparirgli sotto al naso, davanti agli occhi, dentro al cranio. C'era un'invasione di quesiti che non sembravano volergli dare pace, non dopo quella sera, non dopo quelle intuizioni e le affermazioni di Mae, la paura che le leggeva ora nello sguardo, l'impronta d'espressione che, lo seppe immediatamente, non lo avrebbe mai più abbandonato, neanche nel sonno più profondo.
    C'erano uomini, al mondo, che con il loro ego e tossicità guastavano l'aria, la terra, l'acqua. C'erano uomini che credevano d'esser fuoco, tempesta, vetro appuntito. C'erano uomini e basta, al mondo, e quello era un problema. Il problema di Maeve, che non sapeva come e se potesse chiedere aiuto. Il problema di chi quegli uomini li aveva messi al mondo, non volevano vederne la natura tossica. Il problema di chi specchiandosi non ci vedeva proprio nessuna somiglianza con sè stesso, eppure questa esisteva profondamente. E infine il problema di chi minimizzava ogni cosa: che vuoi che sia? Passa, passerà. Indossa solo qualcosa che ti copra di più, saluta di meno, sorridi di meno, esci di meno. Sebbene Darko non ci avesse mai prestato attenzione -un altro dei problemi- ora, dopo aver posato lo sguardo sulla foglia tremante che era Mae, riconosceva ogni sfruttamento, ogni irrispettoso commento, ogni carezza violenta e, più di tutto, detestava il modo in cui lo faceva sentire. Perché dall'impulsività che lo aveva sempre caratterizzato partivano scintille e spinte di un motore che lo avrebbero voluto in direzione della macchina, dentro la macchina, fuori dalla macchina e dentro casa dell'uomo che pensava d'esser fuoco e poter quindi render cenere due occhi gentili e puri come quelli di sua moglie, come quelli della madre di colei che credeva fosse sua figlia. L'impulsività però scemava via ad ogni più piccolo movimento di Mae nel suo salotto, lì in piedi a trattenersi, a cercare di mantenere pezzi messi insieme con la colla, l'avanzo dell'impasto per i biscotti che usava per trascorrere i suoi pomeriggi liberi insieme a Malia, per tenerla distante da quello che credeva non avrebbe visto o vissuto, perché un po' di zucchero e dolcificante le avrebbero dato la parvenza che sarebbe bastato quello nella vita, per essere felici. Ma Darko lo sapeva, Mumù sarebbe cresciuta, Mumù avrebbe imparato a tirare le parole di bocca a Maeve, avrebbe saputo di lei ogni cosa, conosciuto ogni sfumatura, ne avrebbe prima o poi imparato ogni livido così differente da qualsiasi altro. E allora avrebbe iniziato a porsi le stesse domande che trotterellavano ora nella mente di Darko, e che sarebbe accaduto? Forse avrebbe imparato che non l'unico modo per difendersi è nasconderlo, perché la vergogna dentro casa è più sostenibile rispetto all'urlo che raggiunge l'esterno. Meglio il silenzio, meglio il dolore, meglio la paura, purché non si tramuti in vergogna. A domani ci pensiamo domani. fu gentile, fu pacato, le si avvicinò senza toccarla, senza sfiorarla ancora. Restò lì vicino, non un passo di più, non uno di meno. Udì con attenzione tutto quello che Mae sembrava volesse tirar fuori, con la speranza che riversasse tutto su quel pavimento, al sicuro, un guscio di speranza in un mondo di dispersione. A labbra serrate la guardava, ora, cercando di mettere insieme gli ennesimi pezzi di puzzle che di lei trovava, che lei gli permetteva di avere fra le mani. E li maneggiava con cura, Darko, incerto sul da farsi, incerto sullo stato emotivo che si stava dispiegando dentro il petto d'entrambi, da una parte forse una sconosciuta leggerezza, un masso che cascava per terra, e dall'altra un peso che gli finiva sullo stomaco, fra le dita delle mani che, alla ricerca di qualcosa da stringere, si richiudevano su loro stesse per scontrarsi debolmente contro i palmi ruvidi. Invece non è successo, mi ha stretto il collo finché quasi non respiravo e poi mi ha colpita. confessò di nuovo Maeve, e Darko abbassò lo sguardo sul pavimento fra i loro piedi per qualche brevissimo istante, la ricerca di un affanno che altrimenti non voleva rendere sonoro tramite il respiro, per restare esattamente lì dov'era, per assicurare lei che lui stesse ascoltando. E lo stava facendo, vedeva l'uomo afferrarla per la gola, stringere fino a lasciarle i segni delle dita sulla pelle chiara. Quando sollevò lo sguardo, però, Darko era calmo, le labbra chiuse, il capo chino da un lato. Poi si è scusato e siamo andati tutti a letto. Ho aspettato finché non ho sentito il suo respiro farsi pesante, ho messo Malia in macchina e siamo venute qui. aggiunse quindi infine, spiegando il motivo per il quale si era ritrovata a quell'ora sull'uscio di casa sua con la piccola Malia in braccio. Quella rabbia di poco prima continuava a navigargli nelle vene, toccava cuore, testa, piedi, e punta delle dita, smuoveva ogni cosa dentro. Non erano mai stati più vicini di così, non fisicamente, mentalmente, forse emotivamente. Avvertiva il bisogno di farle sapere che era al sicuro, che lì dentro non sarebbe accaduto niente di ciò che aveva imparato a conoscere come quotidianità, che Malia nell'altra stanza era cullata da sogni tranquilli, poteva avvertirlo anche a distanza. Eppure quelle vibrazioni di terrore che da lei lo raggiungevano erano quasi tattili, il tremore che ancora continuava a scuoterla come se ci fosse un filo d'aria tra quelle pareti che nasceva e terminava solo attraversando lei e nessun altro oggetto. Forse una delle folate si scontrò con lei in maniera violenta e senza che Darko potesse avvertirla, perché la vide accartocciarsi su sè stessa e prendere posto sul divano che per tutto quel tempo sembrava aver evitato. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace di tutto. Te lo giuro non lascerei mai che succedesse qualcosa a Malia, lo sai vero? Non possiamo stare qui, se lo venisse a sapere...Non posso coinvolgerti ancora di più. Mi dispiace Darko, di tutto. con il volto fra le mani, Mae sembrò cedere completamente alla disperazione e, per un momento, Darko sospirò, forse sollevato. Non perché la vedesse stare male, anzi, perché comprese che la madre di sua figlia avvertisse d'essere al sicuro, almeno per qualche momento. La vide uscire dalla posizione di difesa e attenzione in cui da troppo tempo si era costretta a restare, sgusciando dalla corazza del finto va tutto bene dietro al quale si era nascosta, anche con lui, sin dal primo momento. Si curvò verso il basso, afferrando un pacco di cleenex dalla mensola più inferiore del tavolino e lo posizionò di fianco a Maeve, sul tessuto scuro del divano, dopodiché si sistemò di fianco a lei posando una delle mani sulla spalla con estrema cautela e lentezza. Maeve... mi dispiace. sussurrò piano Darko nella sua direzione, sincero. Lo sguardo grigio non si staccò neanche per un momento dalla guancia di Mae, cercando con lei un contatto visivo che giungeva ad intermittenza fra le lacrime. Lo so che non permetteresti mai che qualcuno le faccia del male. aggiunse, il tono della voce serio. Se c'era qualcosa che di lei aveva imparato ad amare sin da subito era proprio l'amore per Malia nel quale la vedeva nuotare con maestria, un mare dolciastro di purezza e innocenza, di sacrificio. Era quello che sapeva le aveva rese così speciali sin da subito, entrambe, nonostante il tempo trascorso separati, nonostante l'omissione di quello che Darko avrebbe potuto godere sin da qualche anno prima ma di cui Maeve l'aveva privato. E quello andava bene, con quello avrebbe potuto conviverci, e lo aveva saputo sin da subito, sin dal momento in cui le aveva viste assieme e aveva saputo che, più che mamma e figlia, Maeve e Malia erano come un'anima spaccata in due che continua a vivere scambiandosi ossigeno anche da lontano.
    È così difficile amarmi? chiese poi lei d'un tratto. Sbucò di nuovo col viso dalle mani, lo sguardo arrossato e bagnato da un pianto che forse si portava dietro da giorni, da mesi. Drizzò piano la schiena, Darko, e a labbra chiuse andò ad afferrare un tovagliolo di carta per stringerlo fra le dita. Lo avvicinò al viso di Maeve per asciugare via le lacrime dalle guance, strofinò piano col pollice per cacciare via tracce di mascara da sotto gli occhi. Lo sai che non è colpa tua, vero? chiese allora, piano, chinandosi verso il tavolino per lasciar andare il tovagliolo sulla superficie. Quando tornò a guardarla, Darko continuava ad essere serio. Non c'è niente di sbagliato in te. A parte le orecchie forse, le ha ereditate anche Malia. constatò riferendosi alla situazione e cercando di farle aprire gli occhi, stuzzicando un sorriso nel pianto con il commento sulle loro orecchie. Un pensiero, quello, che si portò un'ondata di calore affettuosa dentro, si sparse nel petto al solo pensiero di qualcosa che le accomunasse e che, nonostante ci scherzasse sopra, avesse imparato ad amare, a trovare significativo, a sorridere ogni qualvolta una delle due, tra madre e figlia, si spostasse una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Un punto esclamativo che lo portava a riconoscerle, anche se gli stavano dando le spalle. Era strano, eppure lo faceva stare bene, lo faceva sentire parte di qualcosa che non aveva mai considerato. Non è ora di prenderti lo spazio che ti meriti? Di vivere la vita che ti meriti? domandò con un tono di voce che pareva più che altro un sussurro. Non devi decidere adesso, possiamo aspettare domani, possiamo decidere tutto domani. aggiunse poi, piano. Sospirò appena prima di drizzare la schiena e allargare le braccia verso la sua direzione, l'afferrò dolcemente fra di esse per tirarla gentilmente verso sè e chiudere quel corpo tremante in un abbraccio, con la speranza che la foglia potesse smettere di dondolare in tutte le direzioni, spinta da un vento che nessun altro avvertiva. E forse, in quella conchiglia di pelle calda e affetto, la pianta sentì d'esser protetta, avrebbe smesso di tremare? Non sei sola, non più. Non lo siete. E' chiaro? aggiunse al suo orecchio prima di lasciare un bacio sui capelli scuri. Sono qui per aiutarti, dimmi solo cosa ti serve. la implorò con tono flebile ma deciso, tanto quanto lo era stato quando le aveva detto che quella sera non sarebbero tornate in quella casa, non finché ci fosse stato lui ad aspettarle. Non avrebbe potuto permetterlo.
    Ammetterlo a parole sarebbe stato complicato, avrebbe suonato forse indecente, eppure era chiaro come il sole, soprattutto in quel momento, che Darko sentisse d'aver trovato una famiglia. Un po' scomposta, un po' improvvisata, un po' caotica, eppure era lì, ce l'aveva fra le braccia o sul materasso dietro una porta chiusa e con un lume acceso per non metterle paura. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per loro, per vederle stare bene, per vederle felici. Almeno in quel momento, al domani ci sarebbe stato tempo per pensarci, almeno qualche ora ancora, almeno qualche ora di pace ancora.
     
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