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Lev x Elizabeth || Festa universitaria

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    Uno, due, sette, tredici, ventiquattro, venticinque. Le teste erano dispari, strinse le dita di Anna più forte anche se avrebbe voluto lasciarle andare, andarsene via, lontano da quel posto e da quella gente. Spostò lo sguardo. I bicchieri. Uno, due, tre, sette. Dispari. Di colpo sentì la gola stringersi, farsi piccolissima tanto da non far passare abbastanza aria. Un litania lontana, poi uno strattone. -Hey?- Gli occhi paludosi di Lev guardarono alla sua sinistra, poi in basso a incrociarne un paio limpidissimi e arrabbiati. Anna, se ne era dimenticato. Anna e i suoi capelli bellissimi, Anna che pretendeva le sue attenzioni ventiquattrore su ventiquattro, Anna che sembrava avercela sempre con lui per una delle tante cose che Lev non faceva; Anna, la popolare Anna, glie la invidiavano tutti gli amici e invece lui a volte faticava a starle accanto. Che problemi aveva? «Hm?» Provò a concentrarsi su un punto qualsiasi della sua faccia, ma quello che vedeva erano solo i ricami del suo vestito che seguivano un pattern non omogeneo, distratto, disordinato. Socchiuse gli occhi per prendere respiro. Quel gesto poteva benissimo essere frainteso, pareva essere infastidito o annoiato dalla sua ragazza. Spesso lo era, non sapeva perché. Dannazione. Respira, dannazione. Respira. Cercò un nuovo numero a cui appigliarsi, tipo gli orecchini di lei. Poteva rimediare. Uno su un lato, tre sull'altro. Quattro. Sì, quattro era un bel numero. L'aria tornò a ossigenare il cervello rendendolo più lucido. Distolse l'attenzione per portarla intorno a lui. Salutò qualcuno, distese le labbra in una serie di sorrisi ben costruiti mentre si trascinava la bionda al fianco sfoggiando quella relazione dalla parte ben fatta, la superficie scintillante a nascondere i buchi nelle fondamenta. Passò velocemente in rassegna gli invitati, e sulla cornea passò rapido un alone arancio autunno che rimase impresso per qualche secondo prima di sparire, registrato ma non trattenuto. Lev era passato oltre, nello specifico sul gruppetto schiamazzante e sulla bottiglia di tequila vuota che girava pericolosamente sul pavimento. Neanche morto. Pensò distogliendo lo sguardo dalla trottola impazzita. Non c'era verso che avrebbe partecipato a quel gioco per bambini. «Prendo altro da bere.» Le sfiorò la fronte con le labbra prima di lasciarle la mano e incamminarsi tra la gente. Si sentiva i suoi occhi puntati tra le scapole. Così pensava di rimediare con lei? Scosse la testa, era proprio un coglione. Lisciò una piega invisibile sulla camicia inamidata mentre si avvicinava a un tavolo. Un recente acquisto, quel capo, che nella sua vita precedente non si sarebbe mai sognato di possedere. Gli stava bene e lo sapeva, vedeva come lo guardavano Anna e tutti gli altri, come fosse uno di loro e quello era importantissimo. Alzati gli occhi dai bottoni, si scontrò con il caos che regnava sul tavolo e il cervello annaspò immediatamente tornando nella solita spirale paranoica fatta di calcoli che parevano tentare di aggiustare una realtà impossibile da ordinare. Non vide nessuna possibile bevanda, solo contenitori arrivati al fondo, cartacce smembrate e involucri spiegazzati di patatine. Doveva uscire di lì prima di impazzire. Si avviò verso la porta cercando di mantenere l'espressione neutra e l'andatura regolare, mentre il pensiero di Anna attraversava la testa ma finiva lasciato indietro, oltre la porta di quell'appartamento soffocante. Se fosse stato solo, si sarebbe messo a correre. Una volta fuori si sentì meglio, nonostante il caldo appiccicoso gli incollasse alla fronte qualche ciuffo di capelli. Erano sempre stati così, ribelli da dare ai nervi sopratutto a sé stesso. Aprì la macchina e il bip bip della serratura rumoreggiò nella notte unendosi al cicaleccio degli insetti come fosse uno di loro. Mentre infilava la metà superiore dell'alta statura nell'abitacolo, Lev rifletteva su cosa inventarsi per il sabato di due settimane dopo, quel giorno importante che invece di rallegrarlo gli induceva una sonnolente ansia. Un anno. Un anno che stavano insieme. Davvero era già passato così tanto? Dov'era finito il tempo? Che cosa ne avevano fatto? Sicuramente lui avrebbe potuto impiegarne un po' di più a conoscerla davvero. Magari a quell'ora non si sarebbe ritrovato alle pendici di quel giorno con la voglia di fuggire in Tailandia. È che era tutto così complicato con Anna, o almeno così la viveva lui. Una costrizione continua intervallata da rari momenti di serenità. Aveva davvero dei seri problemi, lui, doveva darsi una regolata. Ora sarebbe salito su e l'avrebbe guardata davvero, le avrebbe parlato, avrebbero bevuto, riso; le avrebbe chiesto di andare nella sua stanza alla confraternita e poi l'avrebbero fatto. Sì. Riemerse con uno sbuffo caldo e un una cassa di birre nella mano, avviandosi di nuovo verso la casa illuminata a festa mentre si ripeteva il piano nella testa. Gli andava, certo che gli andava. Ma il rischio era alto, le ossessioni ovunque. Chiudi gli occhi e respira. Non guardare. A fondo nei propri pensieri, Lev decise di boicottare le scale per prendere invece l'ascensore, posizionandosi con la faccia a un millimetro dalle porte chiuse dopo aver premuto con l'indice il bottone di chiamata. Non fece caso allo schermo che lo indicava già al piano terra, come se qualcuno lo avesse battuto di pochi secondi e ora Lev gli stesse bloccando la salita. Quando le porte si separarono esattamente nel mezzo, Lev già faceva un passo in avanti evitando per un pelo di finire dritto addosso a una palla di fuoco. Sbatté ripetutamente le palpebre, mettendoci qualche secondo a capire da dove gli fosse venuta quell'idea. I capelli, era colpa loro. Arancio rossi. Sembrava d'essere entrati nell'autunno in una notte estiva così, d'improvviso. «Scusa.» Borbottò distogliendo lo sguardo e infilandosi dalla parte opposta per poggiare la schiena al fondo della parete, il peso su una gamba e il piede accavallato sull'altro. Stava per allungarsi a premere il tasto col numero cinque quando lo vide già illuminato. «Alla festa anche tu?» Pronunciò quelle parole come se la cosa l'avesse stupito, non sapeva perché. Dovette tornare a puntare gli occhi su di lei per capirne il motivo: non sembrava il genere di ragazza che frequentava quei posti. Una, tre, quattro. No. Raddrizzò immediatamente la schiena distogliendo lo sguardo da quel viso piccolo e regolare, rosso di quelle lentiggini che la sua mente aveva già preso a cercare di contare. Piegò leggermente il collo fino a rilassare il retro della nuca contro lo specchio alle sue spalle, gli occhi rivolti adesso verso le luci sul soffitto. In quel momento le porte dell'ascensore li chiusero dentro con un tonfo.
     
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    Guardò gli occhi azzurri della sorella maggiore, accennando un sì con la testa, osservando poi lontano sulla destra, il vestito ripiegato sul letto che aveva lasciato per lei. Si chiese perché avesse acconsentito ad andare a quella festa, o meglio, per quale motivazione si era decisa nella sua risolutezza a cercare ed avere effettivamente voglia di presentarvisi. Le feste della confraternita potevano sembrare divertenti come significare guai, lei di questo ne era ben certa, soprattutto perché lei e Ziggy erano estremamente lontani da qualsiasi cosa potesse essere considerato mondano. Lilibet si era acclimatata dietro quel suo mondo personale, ritagliato in quello che piaceva fare a lei e Ziggy e alla sua famiglia e a poche persone soltanto, dietro racconti di guerrieri, e le avventure epiche, le letture segrete, nelle sue scampagnate notturne a veder le stelle. A lei interessava far proprio tutto, ma non sapeva se sarebbe valsa la pena di partecipare.
    Era stata colpa e merito di Izzie, come sempre. Era stata lei che le aveva passato il volantino della festa della confraternita di cui lei era membro onorario, iper e pluri decorata, lei con i suoi capelli rossi scuri come se fosse uscita fuori da un dipinto di Tiziano, e incarnasse la bellezza di una venere di Botticelli. Le aveva prestato un vestito, e si era ripromessa di acconciare i capelli della sua sorellina più piccola, e così aveva fatto. Le aveva spazzolato i capelli lunghissimi, raccolto le ciocche davanti in una treccia minuscola che veniva passata dietro, e le incorniciava il viso rendendola visibile, lei e tutte le sue lentiggini, con i suoi capelli rosso arancio, come una foglia che cominciava appena a sbiadire perdendo la carica verdissima conferita dalla clorofilla. Così lei si sentiva in un'eterna transizione, bloccata e immobile, immutata nel suo specchio, a metà tra la stasi di grazia della sorella, e l'infanzia che l'aveva preceduta. Sarebbe mai cambiata Lilibet, per come si conosceva?
    Aveva aspettato che la sorella si occupasse del proprio outfit per la serata, prima di dismettere l'abito che le aveva proposto in cerca di qualcosa in cui potesse riconoscersi. Aveva lasciato i capelli come glieli aveva disegnati Izzie, ma aveva scelto di indossare un jeans e una t-shirt scura, nascosta da un cardigan leggero, celeste come i suoi occhi. Non sarebbero di certo andati tutti eleganti alla festa, e conoscendo la banda composta dai ragazzi della sua età, sarebbero stati quasi tutti semi nudi comunque. Scosse via il pensiero sentendo il campanello alla porta, con Ziggy che era venuta a prenderla: sua sorella sarebbe andata con il nuovo ragazzo più tardi, a lei era concesso un coprifuoco strettissimo dovuto al suo essere la più piccola di casa, e le regole stabilite dai suoi genitori. Si guardò allo specchio un'ultima volta, raccogliendo il coraggio di passarsi solo il mascara di Taylor tra le ciglia, facendo bene attenzione a che nessuno potesse vederla e chiederle spiegazioni, e indossò un paio di sneakers bianche, di quelle da collezione, che con la fortuna della sua famiglia poteva facilmente comprare ma erano tra le cose più semplici che si permetteva di possedere ancora, alla sua età. «Sono pronta!» Urlò dalla sua camera al primo piano, affacciandosi dalla finestra con le persiane blu della sua casa, verso il giardino con Ziggy che scalpitava perché si sbrigasse. Fece un sospiro e corse giù per le scale aspettandosi tutto e niente insieme, nell'incoerenza tipica dell'età che abitava.


    --------------


    Si tolse la sciarpa rossa che aveva attorno al collo, posandola all'ingresso di un attaccapanni improvvisato, ripromettendosi di cercarla una volta scattata l'ora del suo coprifuoco. Posò le mani a tastare quello che c'era intorno, spostando un paio di giacche che giacevano abbandonate per posarle sopra di essa, come se potesse così proteggerla dall'incuria generale della festa, che non si sa mai, non poteva sapere cosa le sarebbe capitato. Lei aveva sempre avuto quel punto debole, di indossare sciarpe per quanto leggere necessarie a coprirsi la gola, con la sua capacità tipica di prendersi raffreddori in periodi improbabili, anche se era una sera estiva di una notte di mezza estate qualsiasi.
    Ci aveva messo piede una volta sola in quell'edificio, uno dei palazzi adibiti a sede della confraternita di Izzie, con le camere del campus sparse nei vari piani, e una portineria al piano terra, e grandi spazi adibiti a sala comune, in quel caso era il quinto piano, con i poster giovanili appesi alle pareti e gli arazzi con gli stemmi ideati da loro, verso cui aveva fatto scorrere lo sguardo che era appiccicato sempre su dall'alto al basso, e le piccole teche adibite a raccogliere i premi e i trofei che i ragazzi che erano appartenuti a quella "casata" avevano raccolto. Non sapeva Lilibet chi avesse organizzato esattamente quella festa, era partita come una idea comune, era l'idea di un singolo? Poco importava, perché a parte Izzie, non pensava di conoscere nessuno che vi appartenesse, e quel pensiero bastò a renderla libera da qualsiasi preconcetto nella sua mente velocissima, che impazzava invece quella sera tra le persone che coprivano le pareti disegnate, scorrendo volti mai visti e volti visti qualche volta a Besaid, i capelli che ondeggiavano con lei a qualsiasi movimento destando come spesso accadeva, qualche occhiata incuriosita. Sorrise tra sé e sé, intercettando gli occhi di Ziggy decisamente più in alto di lei. «Caspita, c’è un bel po’ di gente.» La voce del ragazzo le arrivò ovattata, lontana, anche se era a pochi passi da lei. La ricordava bene, nonostante l'avesse vista quella sola volta, la sala comune al quinto piano era ordinata in modo disordinato, perché tenuta a cura degli studenti che vi abitavano, eppure strideva quell'ordine ben assemblato con la confusione che regnava in quel momento sovrana. Contò decine di corpi che si muovevano a ritmo della musica, o un pò a casaccio, o quelli che si abbandonavano stravaccati su un divano vicini a raccontarsi aneddoti qualsiasi, gossip di persone a lei estranee. Lei e Ziggy potevano passare inosservati come brillare come nuovi interessanti stranieri, proprio perché nessuno sapeva nulla di loro. Si sentì meno oppressa dalla sensazione di confusione attorno a lei, improvvisamente per nulla impaurita di essere almeno una spanna più piccola di tutti i ragazzi attorno, come se avesse potuto ondeggiare tra loro senza destare troppo rumore, e fu proprio quello che si ripromise di fare. «Vado a prendere qualcosa da bere!» Glielo disse nel chiasso della musica che era stata alzata di volume e poi riabbassata, movimentata da un dj improvvisato che non aveva ancora adocchiato tra la folla. A Lilibet piaceva tantissimo bere, ma non è che fosse una cosa che poteva fare liberamente a casa, sia mai, o che potesse dire ad alta voce ed essere adocchiata come ubriacona di turno. «Tu però non andare in giro, rimani qui altrimenti non ti ritrovo più in mezzo a tutte queste persone.» Si era resa conto di aver detto qualcosa di impossibile per Ziggy, lo sapeva, in fondo, da qualche parte dentro di lei, che non l'avrebbe ascoltata come aveva chiesto. Ci provò, perché spostarsi insieme sarebbe stato difficile, dovendo fare lo slalom umano tra la gente, e muoversi in spazi difficili era un suo superpotere, non del ragazzo, perché sapeva disincastrarsi negli angoli più angusti, e muoversi senza paura nei corridoi con i soffitti più bassi della sua testa. Si ritrovò a passare, su e giù, un pò sul fianco e un pò piegando le gambe, senza toccare nessuno, un guizzo di arancio nella folla distratta, in una danza stranissima che la condusse al tavolo delle vivande, rimanendo sorpresa. «Hanno finito tutto?» Lo disse mormorando tra sé e sé, rendendosi conto solo dopo di averlo pronunciato ad alta voce, intercettando una figura che si era allontanata proprio accanto a lei con disappunto, probabilmente per lo stesso motivo, una camicia bianca che sgusciò dalla folla verso l'ingresso. Poi si voltò e si trovò davanti a sé un paio di occhi scuri che la scrutavano come se avesse detto qualcosa di interessante. «Hanno portato tutto al gioco della bottiglia. Vuoi giocare?» La sorprese di essere stata notata, puntata, proprio lei, e forse era stata colpa sua per aver parlato ad alta voce. Il gioco della bottiglia non rientrava tra le cose che voleva spuntare di aver fatto nella decade dei venti anni, perciò cercò di ringraziare e di passare oltre, ma fu strattonata senza sentire repliche proprio a cinque passi dal tavolo, lì con una decina di ragazzi seduti per terra e una bottiglia di tequila a girare, testa, coda, collo, fondo, l'etichetta sminuzzata poco più in là, come una cosa sfruttata oramei e non più utile al suo scopo. Guardò con lo sguardo pensoso la bottiglia fermarsi a due ragazzi da lei, e rigirare impazzita sospinta da qualcuno fino a puntare a tre ragazze più in là. Nel momento del bacio tra due fortunati come premio del gioco si alzò lentissimamente e come in un sogno sgusciò via, che nella confusione generale e gli ormoni sedati dall'alcool, nessuno aveva più guardato lei. Come diavolo ci era finita lì? Forse poteva reclamare la sua sconfitta, non faceva per lei il chiasso senza ordine, la confusione senza significato, il caos le piaceva ma aveva regole diverse, aveva le dinamiche dello studio di una supernova in esplosione, della provetta che miscela le formule scritte di suo pugno, del rumore del subwoofer nella stanza quando ballava da sola, con gli occhi chiusi e si immaginava lontana agli estremi della loro galassia in implosione. Lilibet arrivò fino in fondo all'edificio al piano terra, sul portone di ingresso, si appoggiò allo stipite con l'uscio aperto spalancato verso la razionalità, e un monito le si accense nella mente, rendendosi conto di non poter andare via. Ziggy. Dove era finito? Allora si diede della stupida per averlo lasciato solo e ritornò dentro, sgusciando di nuovo tra le poche persone che fumavano all'esterno per fermarsi di fronte all'ascensore, per salire più in fretta, premendo il pulsante di chiamata.
    Avvertì le scuse, prima del resto. Sollevò lo sguardo, a un ragazzo decisamente più alto di lei, non si era accorta di averlo scontrato, nell'agitazione di ritrovare l'amico e di averlo quasi mollato da solo. Lo riconobbe per il ragazzo che aveva visto scappare dal tavolo degli alcolici finiti. «Tranquillo, tutto bene.» Lo diceva sempre come intercalare Lilibet, qualche volta faceva saltare la pazienza ai santi. Tranquillo, si raccomandava con gli altri, quando lei era la prima ad essere sempre in tensione, con il cervello sempre perso dietro qualche idea da sviluppare. Si accomodò all'interno e così fece lui. L'ascensore li chiuse dentro, lasciandoli nel silenzio ovattato degli eco che provenivano dall'esterno. Elizabeth pigiò il bottone per salire su al quinto.
    Le parlò di nuovo. Strano. Di solito lei si divertiva a fissare in silenzio le persone che circondavano i suoi spazi, qualche volta chiedeva informazioni per conversare, ma non sempre, qualcosa doveva risaltare nella sua mente per portarle impeto di curiosità. Allora si voltò rimanendo con la schiena all'ascensore chiuso, che cominciò a salire. Erano solo cinque piani d'altronde, ci avrebbero messo pochi secondi. «Si, ero alla festa. » Lo disse stupita, un pò perplessa, era una domanda di cortesia o si era ritrovato a chiedersi cosa facesse una come lei alla festa? Si guardò nello specchio di fronte a lei, e lui, pensando che se la curiosità fosse dovuta alla seconda opzione forse aveva ragione. Ma poi ricacciò il pensiero pensando che lei poteva fare tutto quello che voleva e come lo voleva senza pensare ad altre conseguenze. Scosse la testa, e lo guardò dritto negli occhi. Lo scruta, non lo guarda. Lo scrutò con interesse, con lo sguardo corrucciato a guardare qualcosa che non si comprende, con uno sguardo che non era sfida, era uno sguardo dovuto al perché lui fosse esattamente il ragazzo che poteva immaginare popolare una festa del genere. Fissò il suo viso, e la statura imponente, i capelli bagnati dal sudore provocato dal pressarsi di tutta quella carne ed ossa raccolte al quinto piano. Come se quel viso gli ricordasse qualcosa, qualcosa si accese nella sua immaginazione, distendendo lo sguardo sugli occhi verdi del ragazzo senza nome. Ah, è così che immaginava Oberon, affascinante e capriccioso, discutere con Titania, in una notte qualsiasi in cui succedono cose inspiegabili. «Io sono Elizabeth.» Si presentò, come se fosse a quel punto convinta che Oberon era un mistero che poteva spiegare, non uno sconosciuto senza nome, quasi perdonandogli automaticamente la motivazione che doveva avergli fatto pensare che potesse essere legittimato a chiedere spiegazioni di lei. Si presentò così, a nudo, il suo nome intero, senza sapere come chiamarsi invece, dimenticando i suoi diminutivi tutto d'un tratto.
    Un rumore insolito cominciò a scricchiolare, venir fuori dalle pareti, l'ascensore invece che aprirsi al piano desiderato si fermò lentamente, per poi sobbalzare e far ricadere Elizabeth per terra, ginocchia in giù, sui jeans inamidati dalla sua tata quella mattina. Si girò verso le porte dell'ascensore, senza rialzarsi, con un sospetto sinistro nella mente, le mani sulle dita della fessura dei pannelli, e la testa lì a spiare dentro quel buco: il nero del muro dove non arrivava la luce. «Ho una brutta notizia.» Disse, stavolta consapevolmente ad alta voce, girandosi verso il re delle fate, non sapendo bene come stemperare l'improvvisa, incredula svolta che aveva preso la sua serata. L'ascensore si era bloccato a metà tra un piano e l'altro non ben identificato, e loro erano lì, fermi, chiusi come topi in trappola.

    Edited by wanderer. - 11/9/2022, 17:11
     
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    Tranquillo. L'aveva detto davvero? Non se ne accertò, non la guardò più, consapevole che farlo avrebbe scatenato mille reazioni e non poteva lasciare che accadesse. Sollevò invece il telefono lanciando uno sguardo all'ora. Le dieci lampeggiavano insieme all'anteprima di un messaggio in cu Anna chiedeva dove fosse finito. Ributtò il braccio verso il basso, ignorandolo senza sapere il perché. Si sentiva stanco come avesse sulle spalle il peso di cent'anni invece che poco più di un paio di decadi. Perché stava così? Cosa voleva di più? Gli venne di nuovo in mente quella parola, tranquillo. La ragazza l'aveva detta con tanta naturalezza da far pensare la usasse spesso come intercalare. Tranquillo, faceva ridere che l'avesse detto proprio a lui. All'apparenza lo era sempre, Lev, anche quando dentro lo sconquassava un disordine infinito di file numeriche. Trovava divertente che avesse deciso di intimargli proprio quel sentimento, tra i tanti forse l'unico che non riusciva mai a mantenere a lungo. Per una frazione di secondo aveva pensato di essere stato scoperto, che la sconosciuta sapesse tutti i suoi segreti e fosse sul punto di smascherare tutte le sue bugie. Aspettò di provare la famigliare morsa che arrivava sempre ogni volta che pensava all'eventualità che si venisse a sapere di lui, delle sue origini, della sua famiglia, del fratello e delle manie che a stento riusciva a gestire. Nel silenzio che seguì, attese la morsa della paura che non arrivò mai, surclassata invece dal caldo torpore del sollievo. Forse non sarebbe stato così male, in fondo, presentarsi per chi era veramente iniziando col proprio nome, quello che non dava mai a nessuno perché legato a tutti gli strati di sé che non poteva condividere: Dimitri. Quel nome rappresentava la parte più vera di lui, la stessa da cui voleva scindersi nella vita di tutti i giorni e da cui in effetti si separava ogni volta che la sua particolarità si attivava. Allora dimenticava chi era e chi era stato, cosa volesse, ogni obbiettivo e ogni desiderio. Non c'era più niente se non il turbinio scombinato e informe di uno sciame di falene che non avevano ragione d'esistere se non quella di andare avanti e, nel farlo, distruggere ogni cosa incluso ciò che lo rendeva sé. Tranquillo. «Magari» ci riuscissi, avrebbe voluto dire. Ma disse solo quell'insensato magari abbozzando un sorriso, appena un accenno, per sottolineare un'ironia che lei non avrebbe capito. Si sentiva quel paio di occhi addosso che lui si rifiutava di guardare, puntando i propri sulla luce in alto fino a sentirne bruciare gli angoli. Avrebbe potuto smettere di essere qualcun altro, il peso sul petto si sarebbe affievolito come un palloncino che si sgonfia rapidamente dall'aria, afflosciandosi. Sarebbe stato bello, pensò immaginandosi aprire la bocca per dirle ogni cosa partendo proprio dall'inizio, senza tralasciare nulla. Preda di quel sogno ad occhi aperti, Lev schiuse le labbra, arricciò la lingua come per parlare ma la voce lo anticipò, e nel dichiarare il suo nome lei gli ricordò chi fosse, chi doveva essere. L'incantesimo si infranse. Abbassò le palpebre con una lentezza tale da apparire sofferente, il buio calò ma l'impronta della luce rimase a danzare sul retro della palpebre, arancione come i capelli di Elizabeth. Lo sapeva, lei, quanto vicino era stato dal mostrarle sé stesso senza sapere il perché, tra tutti, avrebbe confessato tutto proprio a lei. «Lev.» C'era andando vicino ma non abbastanza, e come per tutti gli altri sarebbe stato Lev e basta anche per quella sconosciuta. Quando l'ascensore si bloccò bruscamente il ragazzo quasi perse l'equilibrio, le bottiglie tintinnarono nelle sue braccia ma riuscì ad afferrare il corrimano un istante prima di cadere anche lui. Ora, con gli occhi aperti sgranati dalla sorpresa, Lev finalmente guardava Elizabeth sbirciare dalla fessura delle porte focalizzandosi sull'unica parte a lui visibile, il retro della sua nuca e le sue sfumature di aranci e rossi prima che i pensieri prendessero a vorticare troppo velocemente. Gli bastò poco per capire che non era scoppiata nessuna bomba e che erano semplicemente bloccati. L'aria si serrò nei polmoni e Lev si sentì quasi istantaneamente mancare l'aria. «Cosa? No.». Si sporse verso i tasti illuminati e li pigiò tutti con dita febbrili. «Nonononono.» Tutti tranne quello che invece voleva, quello con la campanella gialla disegnata sopra. Non riusciva più a concentrarsi, non riusciva neanche più a muoversi se è per questo. Respirò ripetutamente dal naso, la mente cominciava a tuffarsi a caduta libera senza paracadute mentre Lev tentava disperatamente di aggrapparsi a qualsiasi altro pensiero che non fosse la mancanza d'ossigeno. Scivolò con la schiena contro la parete accompagnato dal fracasso della bottiglie che nella scatola si scontravano fra loro. Una volta seduto, le abbandonò in mezzo alle gambe allargandosi il collo della camicia con un paio di dita che mal celavano il panico. Gli sembrava di avere i polmoni ripieni d'acqua, di star per morire come il fratello, nel freddo mare del nord. Si passò una mano sulla fronte, le dita tremavano mentre il respiro peggiorava. Sentiva il mondo piegarsi, le pareti, il soffitto il pavimento piombavano su di lui come a volerlo guardare da più vicino, come fosse una bestia in una gabbia. Il tallone prese a picchiettare per terra, cercava di liberare il panico e quell'energia distruttiva senza cedervi del tutto.
    Poggiò i gomiti sulle ginocchia piegate, gli occhi fissi sulle proprie dita nel tentativo di trattenerle, imprigionare i respiri e la pura, nascondersi dalla ragazza che l'avrebbe preso per matto. Cercò disperatamente di focalizzarsi sul respiro per rallentarlo, di pensare e mettere in pratica tutti gli stratagemmi che gli erano stati insegnati perché, quello, non era la prima volta che accadeva. Però non gli capitava da tempo, almeno un anno, e sebbene razionalmente l'avesse riconosciuto come un attacco di panico il fisico gli urlava di star per morire. Presto non sarebbe riuscito più a respirare e il cuore, che batteva troppo velocemente, sarebbe andato in arresto e lui sarebbe morto. Piegò il collo nascondendo più che poteva il viso, ancora convinto di poter dissimulare ciò che stava accadendo. Si vergognava di cosa Elizabeth potesse pensare di lui, del fatto che avrebbe potuto benissimo dire a tutti quello che era successo una volta usciti di lì e, il giorno, dopo l'avrebbero deriso. Perché sarebbe usciti di lì anche se la mente e il corpo gli dicevano il contrario. Vide il viso di Anna, l'espressione delusa, il labbro leggermente arricciato mentre gli diceva che non si sarebbe mai messa con lui se avesse saputo che fosse così patetico. Pensò pensò e pensò senza riuscire a soffermarsi su niente e tornando sempre al dolore al petto che provava in quel momento. Frugò nella mente alla ricerca di qualcosa, di Maya, del nuoto, restandovi solo una manciata di secondi prima che la mente formulasse l'altro pensiero, le pieghe dei pantaloni erano dispari come le macchie grigie sul pavimento. Si chiese cosa fossero senza darsi il tempo di rispondersi ora che i pensieri intrusivi, la spirale fulminea di parole nella testa creavano un terreno fecondo per il panico crescente. «Non--» la voce era talmente bassa che forse non l'avrebbe neanche udito. «Non respiro.» Aveva ceduto. Non ce l'avrebbe fatta da solo. Poi un pensiero gli piombò da capo e collo e allora Lev alzò la testa, e nel guardarla il terrore riempì i suoi occhi verdastri rendendoli più scuri. « Non venire più vicino.» Suonava quasi una supplica, che faceva ridere visto lo spazio ristretto in cui si trovavano. Ma nella mente era apparsa una scena raccapricciante: lui ormai perso in uno sciame di insetti orribili che la avvolgevano corrodendole la pelle bianca, le ciglia folte e si nutrendosi dei suoi capelli, scambiandoli forse per foglie gialle cadute in Autunno.
     
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    Magari. Avvampò Elizabeth nel sentirsi pronunciare una parola che non aveva immaginato di sentire. La prima immediata sensazione che avvertì e di cui si dispiacque davvero, come sempre, nello stesso momento, fu quella di disagio. Quando si esprimeva, e si lasciava andare, utilizzando le sue parole, quelle che pensava in quel momento, sentiva di non riuscire ad arrivare dritta al punto e raccontarsi come avrebbe voluto, spesso faceva dei giri difficili di parole che immaginava e metteva in fila una dopo l'altra sapendo di parlar bene eppure di non utilizzare le espressioni giuste per farsi davvero comprendere. Si sentiva lontana e distante da molte cose, e nonostante la sua preparazione fosse sempre impeccabile, con gli altri qualcosa andava storto, con quasi tutti, ad eccezione delle sue persone fisse, i suoi riferimenti cardinali che l'avevano accompagnata in quei venti anni di vita. Si sentì sciocca, nuda, incoerente, di fronte a quegli occhi un pò annoiati, preoccupati da qualcosa che chiaramente non avevano a che fare con lei. Cosa avrebbe dato in quel momento per sapere cosa affollava la mente di Oberon, e quali preoccupazioni un ragazzo giusto, perfetto, come sembrava essere lui potesse avere. Così quel momento lunghissimo durò ancora, e Lilibet si permise perché rimasta incantata del continuare ad osservarlo, senza nessuna altra possibilità, nessun punto di riferimento intorno a cui ancorarsi. Era svanita qualsiasi cosa conosciuta nel mettere piede in quell'ascensore, perché nulla evocava qualcosa a cui lei legasse un ricordo. Però lo vide, lo riconobbe, nel sorriso che le pronunciò come se non stesse dando conto alla sciocchezza che aveva pronunciato, come se l'avesse perdonata e capita, guardandola di sbieco senza più incrociare le sue iridi, il suo sguardo salì su alla luce dei faretti dell'ascensore, e lì si fermò per quei pochi secondi. Fissò il suo sorriso, la bocca storta, la giugulare, lì una delle cose che sembravano squisitamente virili per una ragazza che come lei di virilità e seduzione non ne sapeva oltre della definizione semantica, il pomo di adamo si abbassò e si sollevò per parlare, e lei si appiccicò alla parete sentendosi piccola piccola. Quante cose non sapeva Elizabeth alla fine dei conti.
    Il ragazzo si presentò, semplicemente, rispondendo a lei, graziandola della conoscenza di quel nome importantissimo. Non lo aveva riconosciuto, non l'aveva capito, ma il nome lei lo conosceva. Lev era stato sulla bocca di tutti, ed era a tutti gli effetti uno degli organizzatori della serata, della festa a cui si era inconsciamente detta pronta di potervi partecipare. Lev apparteneva ad una cerchia ben propria e precisa di persone che erano molto diversi da lei. Lev era un nuotatore, un ragazzo che passava le ore e i pomeriggi della sua vita a dividersi tra le gare in piscina, e l'altra metà del tempo a frequentare persone interessanti, le persone di punta della sua piccola società universitaria, ovvero le persone che di nome e di fatto erano sulla bocca di chiunque. Lo aveva visto tantissime volte, alla fine, se ne rese conto scioccamente, camminare tra le aule universitarie, nei corridoi, in mensa, al tavolo della confraternita, tra quelli che contavano spiccava tra quelli del suo anno. Ma mai l'aveva visto così, mai aveva alzato gli occhi a vederlo davvero, e se avesse realizzato in passato quanto potesse essere adeguato Lev, non si era accorta di quanto fosse stranamente inadeguato in quel posto, in quell'ascensore, così stranamente solo, con quel sorriso che aveva mostrato solo per lei. Avrebbe voluto dire qualcosa ma non disse nulla. Mostrò un sorriso, in risposta, che voleva dire tante cose e nulla, forse solo accennare un grazie, perché non avesse detto niente, sdrammatizzarci su. Ecco, adesso a presentazioni fatte avrebbero semplicemente continuato le loro vite come se niente fosse, e lei avrebbe potuto pensare il suo nome qualche volta, e il suono della sua voce ogni tanto, qualche notte, per accompagnarsi al sonno, ricordando dell'occasione in cui si erano incontrati, incrociati, e quando si era vergognata davvero, nonostante Elizabeth fosse un cuor di leone coraggioso, mica una sprovveduta che sorrideva alle moine di un bel ragazzo. Ma il quinto piano non arrivò mai, non come avevano entrambi previsto, per proseguire nelle loro vite. La frattura avvenne così, un rumore sinistro, un tonfo, lei caduta per la scossa, un attimo di buio e le luci tornarono a folgorarli: l'ascensore si era fermato a porte chiuse.
    Non aveva paura degli spazi piccoli, chiusi, claustrofobici per definizione, non lei. Non aveva paura di un mucchio di cose Lilibet, di certo non avrebbe avuto paura di rimanere momentaneamente bloccata in un ascensore. Ok, forse aggiungere la condizione accompagnata da uno sconosciuto in quell'ascensore in cui resti bloccato poteva essere problematica e preoccupante, ma tutto sembrava indicare quella sera che non avrebbe potuto sbagliarsi altrimenti. Lanciò un'occhiata al soffitto, l'ascensore aveva pareti metalliche e l'unica componente di materiale diversa era costituita dai bottoni luminosi della pulsantiera da digitare, lucidi e digitali su uno sfondo apparentemente più caldo, di un legno color noce, e lo specchio con la superficie riflettente di fronte a lei. Aveva sbuffato, conscia che il tempo che avrebbe impiegato a salire le scale sarebbe stato sicuramente speso bene se solo avesse potuto prevedere l'esito della sua avventura, ma non aveva il potere di prevedere le cose, sfortunatamente, aveva un potere stupido e capriccioso da poter usare, e il più delle volte, inutile. Si rialzò piano, sollevandosi e controllando che le gambe fossero ancora a posto, che i jeans non fossero né sporchi né strappati, e a quel punto continuò a guardare la fessura delle porte sperando di scorgere un luccichio o una voce che comunicasse loro qualcosa. Nulla sembrava giugere a loro se non le voci lontane e distorte assieme alla musica della festa della confraternita, lontana da loro come se fossero collocati in un altro palazzo, e si rese conto, facendo una considerazione sciocca, che il lavoro di insonorizzazione che era stato fatto doveva essere addirittura impeccabile. «Che sfortuna.» Sussurrò. Non era brava ad empatizzare in queste situazioni, ed era questa una delle paure che più assillavano Elizabeth nel corso delle sue giornate. Rimanere da sola. Non essere ascoltata da nessuno. Rimanere con altre persone ma assolutamente incompresa. Si potevano riassumere a quei tre concetti lanciati a memoria e ripetuti ogni tanto nelle litanie dei suoi pensieri. Era assolutamente terrorizzata dall'essere costretta ad essere giudicata, o esposta, ma molte cose che dovevano spaventare le persone della sua età erano per lei totalmente estranee. Si voltò, dopo aver pronunciato quelle parole, convinta di poter guardare il misterioso Oberon, o meglio, come si era veramente presentato lui, Lev, che la guardasse e potesse dirle qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse farla sentire a suo agio. Si sentì arrossire, gli zigomi incandescenti, insicura, nel guardare il suo viso e specchiarsi in lineamenti bellissimi ed adeguati, soprattutto, e sentirsi sciocca. Cosa avrebbe potuto dire? Fare conversazione di un argomento qualsiasi sarebbe andato bene, tutto pur di non rimanere in silenzio e ferma e con nessuna parola da pronunciare che avesse un briciolo di senso non recondito. Chi l'aveva invitata alla festa per esempio? Poteva parlare di sua sorella, poteva sussurrare il suo cognome e sentirsi scusata dall'essersi invitata a casaccio, perché era stata chiamata da lei, e tanto andava bene, tutti portavano qualcuno alle feste universitarie della confraternita. Poteva parlare della cricca della maggiore, delle persone che la conoscevano, del tempo, freddo, caldo, violento, statico, che era un argomento che comunque e dovunque si cacciasse, quando parlava tra adulti, si poteva improvvisare. Ma non avrebbe potuto immaginare cosa sarebbe successo in un attimo, e le frasi che aveva in mente per empatizzare con Lev si dissolsero, perché guardò il ragazzo muoversi immediatamente ed andare incontro alla pulsantiera, per schiacciare i numeri dei piani a casaccio e inveire contro l'ascensore. E quello fu del tutto inatteso. Si accasciò, Lev, scivolando contro la parete, e respirando fortissimo, le bottiglie che aveva in mano cozzarono insieme, le appoggiò a terra, la busta e il loro contenuto, e cominciò a diventare pallido e colorato assieme, le mani che corsero a sbottonare la camicia. Ci volle qualche altro secondo per Elizabeth perché scalciassero fuori le nozioni che sapeva bene, quelle che il suo corso di laurea insegnava e quelle che i suoi genitori le ripetevano a menadito. Si avvicinò piano, due passi appena, con le mani alzate a mezz'aria e respirando con lui. «Lev. Non avere paura.» Sussurrò, a bassa voce ma con voce ferma, pronunciando per la prima volta il suo nome, insieme a un comando perentorio che doveva dire pronunciandolo davvero per renderlo credibile. Ci volle un altro pò, dimenticò l'imbarazzo, e il dispiacere, e il sentirsi ridicola, alla chiarissima evidenza di una manifestazione di un attacco di panico. «Può capitare, ogni tanto, ma è un edificio nuovo, un guasto momentaneo, non può succedere nulla.» Farfugliò, rendendo chiaro il messaggio di errore dell'ascensore, perché oramai negli anni che abitavano era chiaramente impossibile che un ascensore precipitasse o cadesse nel vuoto. Lo vide sedersi e respirare come se sapesse cosa stesse facendo, conscio del come ricominciare a respirare, ma nascose il viso a lei tra le sue mani. Lilibet allora si volse di fronte alle porte chiuse, battè la mano aperta sopra di esse, prima con poca forza per tastare il suono che passava attraverso, e poi più forte, e lo ripeté ancora, battendo la mano violentemente, sentendola poi dolere con quello strano modo che avevano gli arti di dolere espandendosi in pulsazioni ravvicinate. «Ehi! Ci sentite? Siamo nell'ascensore, è bloccato!» Gridò, parlando nella fessura, l'aria fredda del vuoto arrivava a lei e la voce sembrava aver viaggiato sola, su un altro pianeta, e mai arrivata a destinazione. Biascicò tra i denti una imprecazione, volgendo di nuovo tutta la sua attenzione verso Lev e svolgendo velocemente gli insegnamenti che aveva imparato nella sua mente per ripeterli ed eseguirli con lui. Si sedette di nuovo così come si era rialzata e si avvicinò a lui, spingendosi a gambe allargate ad incrociare le sue. «Respira con me.» Scosse la testa come per dirgli che ce la poteva fare, convincente e sicura, quando lui gettò gli occhi in lei, tutto in lui gridava aiuto, eppure le sue labbra le avevano detto che non doveva avvicinarsi a lui. Certo che poteva, doveva farlo. Vinse l'imbarazzo Elizabeth, squarciò la tela della vergogna che provava per i ragazzi che erano più come sua sorella che come lei, e e gli prese le mani che si stava torturando da solo, intrecciando le dita alle sue, enormi e nodose in confronto a quelle piccole di Elizabeth, bagnate dal sudore della paura. Fece dei respiri grossissimi, e quando lui schivò il suo sguardo, perché era troppo vicino e farfugliò qualcos'altro che sembrava intimasse, la implorasse, di lasciarlo andare, lasciò andare davvero una delle sue mani e gliela mise sul viso, sulla guancia, il pollice sotto al mento per farglielo alzare e puntarlo dritto verso di lei. Ad un primo tentativo di scansarsi lei posò anche l'altra mano sul viso, troppo velocemente, così tanto che sembrò uno schiaffo sulla pelle bianca di Lev. «Guardami.» Disse. E con quella parola voleva infondere tutta la sua calma, che aveva tutto da prendere dal fatto che fossero in un ascensore sospeso e bloccato e meno dal fatto che fosse sola con lui. Respirarono assieme, piano, un respirone dopo l'altro, le gambe strette tra quelle di Lev, il viso a una spanna dal suo, le mani addosso. E si guardarono davvero, per un bel pò. Lilibet sentì il formicolio sulle sue mani, l'imbarazzo che faceva capolino anche tra le sue dita, il viso una maschera serena e distaccata, tranne che per gli zigomi in fiamme, rossissimi, lo poteva sentire sulla sua pelle. Si chiese per due minuti interminabili di respiri se sarebbe bastato a calmare Lev dalla sua paura, e qualcosa si smosse, e venne tutto fuori negli occhi chiusi di lui e nel battito che rallentava piano piano accostandosi al suo, mentre anche Lev cercava le mani di Lilibet, risalendo dai gomiti, ai polsi, fino alle mani, ed intrecciava le mani alle sue a palpebre abbassate. Lilibet sentì che il peggio di quell'attacco di panico era passato, e mentre la calma del ragazzo affiorava lei prendeva consapevolezza di quegli spazi invasi e della ricerca del suo corpo da parte dell'altro come àncora, appiglio di salvataggio in un momento di debolezza che si invertiva, e la calma di Elizabeth passò a lui.
    Quando lui riaprì gli occhi rimase a guardarlo senza sapere cosa dire, perché l'ultima richiesta fermissima di Lilibet era stata di guardarla, per davvero, e adesso era quello che stava accadendo.


    🌈 Io chiaramente nel mio momento teen.


    Edited by wanderer. - 17/10/2022, 14:35
     
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    Sapere cosa stava succedendo non lo aiutò a fermare l'ondata di quel malessere con cui da sempre faceva i conti Lev, mai rinchiuso nella sua testa come in quel momento. Intrappolato in un'ascensore, in un rettangolo di latta sospeso sei piani più in alto, sei diviso due, due come loro, fa tre, tre è dispari e non va bene, panico, si ricomincia per trovare la soluzione; non solo rinchiuso in una lattina d'acciaio ma anche nella sua testa, forse la prigione più terribile di tutte, quella dalla quale era impossibile uscire. A meno che qualcuno non gli tendesse la mano. Da quando era iniziato ad adesso, l'attacco di panico l'aveva tirato giù senza che quasi se ne rendesse conto, Lev, di come fosse davvero finito con le ginocchia al mento a torturarsi le mani, perché alla paura non interessava chi aveva di fronte: se arrivava non lo lasciava finché non aveva fatto il suo corso, finché non l'aveva ridotto all'osso e spinto a reagire come voleva lei, cedendo a quel potere che distruggeva tutto. Sarebbe successo, lo sapeva e ne era terrorizzato, le orecchie presero a fischiare come piene del ronzio di mille insetti che sbattevano le ali all'unisono e Lev non sentiva più niente, non vedeva più nulla se non il buio di spire nere soffocanti. Si sentiva sparire, mancava tanto così che loro avessero il sopravvento e lo ingoiassero in quello sciame senza lasciargli più spazio. L'avrebbero masticato e ci sarebbe voluto relativamente poco tempo per farlo, per annientare la sua coscienza fino a fargli dimenticare tutto, persino il suo nome. E poi sarebbe toccato a lei, riusciva quasi a vedere le piccole antenne impigliarsi fra i rossi fili dei suoi capelli, entrare nella bocca fino a quando di quegli occhi azzurri non sarebbe rimasto più niente. «Non posso...» Lo sentiva, Elizabeth, il pericolo sfiorarle la faccia ad ogni respiro di Lev?
    Cercò di ritrarsi vedendola d'improvviso vicino come se sbattendo le palpebre avesse perso un lasso di tempo più lungo de normale. L'aveva lasciata in piedi vicino alle porte, come ci era finita in ginocchio davanti a lui? Trattenere il fiato era una delle cose da non fare durante un'attacco di panico ma la paura del potere era più grande di qualsiasi altra cosa, non voleva detonarsi lì dentro e non lasciarle nessuna via di fuga. All'inizio appiattì la schiena contro il muro nella folle speranza di poterlo trapassare e ritrovarsi al di là, l'istinto gli diceva che Elizabeth l'avesse sfiorato cose orribili sarebbero accadute. Era sempre stato così con il contatto umano e non c'entrava niente lei. Era qualcosa di profondo legato al rapporto dissestato che aveva avuto con la propria madre, o almeno era quello ad essere venuto fuori dal suo percorso terapeutico. Da qualche parte a un certo punto della sua storia qualcosa era successo e Lev si era sentito tradito da colei che avrebbe dovuto proteggerlo, riusciva a pensare cosa potesse essere? La voce della terapista gli rimbombò nelle tempie come se gli stesse sussurrando forte nell'orecchio la domanda alla quale lui non aveva mai risposto nonostante ricordasse ogni secondo.
    Ricordava, sì, e dimenticare era tutto quello che desiderava. Era deciso a non farsi toccare, il panico negli occhi a ogni centimetro di Elizabeth più vicino, e quando la piccola mano si strinse alla sua Lev era sicuro che il corpo avrebbe reagito come faceva sempre, allontanandosi. Ormai non doveva neanche più pensarci, bastava un niente e la repulsione prendeva il sopravvento su qualsiasi raziocino e sentimento. Poteva anche volerlo nella testa, ma finché il corpo fosse stato in modalità combattimento Lev non sarebbe mai riuscito a vivere niente normalmente, figurarsi una relazione. Allora, quando le dita di Elizabeth si strinsero intorno alle sue il ragazzo era pronto al peggio, si aspettava qualcosa di brutto, di tragico, di così irreparabile e imbarazzante da voler sprofondare ancora di più. Si irrigidì immediatamente, il magro corpo teso come una corda di violino in attesa di essere pizzicata forte e invece inizialmente non successe proprio nulla. Nessuno scatto del potere, non sentì neanche la voglia di ritrarsi. Dalle loro mani unite gli occhi di Lev non sembravano volersi staccare, tanto incredulo da sentirsi ancora più smarrito, e dal non sentire niente una calma lenta prese a irradiarsi dentro di lui, epicentro lì dove i loro palmi si toccavano. Assecondò il movimento che l'altra mano di Elizabeth lo spingeva a compiere per farsi guardare e finalmente distolse lo sguardo da quel piccolo miracolo portandolo negli occhi limpidi di lei. Se nei suoi umidi c'era paura e confusione, non riuscì a decifrare completamente cosa albergasse in quelli di Elizabeth, chiari come due specchi d'acqua immobile.
    Ci mise qualche secondo a rendersene conto, ma le mente di Lev si era fatta per una volta più silenziosa. Non erano scomparsi del tutto, ma i rumori dei suoi pensieri e delle sue paure si erano acquietati e ora anche lo sbattere delle falene sembrava lontano. Bisognoso di quell'effetto, Lev strinse inconsciamente di più la mano come a volercisi aggrappare per far ammutolire tutto e alla ricerca di quel sollievo che non provava da tanto tempo. Obbedì, troppo sconvolto per rendersi davvero conto di quello che stava facendo, e per un tempo che sembrò interminabile i due respirarono l'uno sull'altro, all'unisono, senza mai smettere di guardarsi. Mentre la calma passava lentamente da lei a lui, gli sembrò di cadere in quegli occhi spalancati vedendoci chissà cosa, un passato di cui Lev non aveva idea, forse un futuro diverso che non aveva ragione d'esistere. Nello stato in cui era non si preoccupò più di cosa potesse scorgere lei nell'ombra delle sue iridi, e mentre recuperava il fiato Lev pensò fugacemente che sarebbe stato davvero bello poter vivere così, senza numeri, senza ossessioni, senza paure, senza rumori nella testa. Era così che ci si sentiva ad essere normali? Non si rese conto di aver avvicinato il viso finché non avvertì distrattamente il naso sfiorare la punta del suo. Era una necessità selvaggia e impellente, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di tenere in vita quel silenzio ancora per un minuto, uno appena, poi l'avrebbe lasciato andare. Ma uno strattone li fece tremare insieme alle bottiglie abbandonate sul pavimento come fossero anche loro pezzi di vetri sul punto di infrangersi così come quel momento assurdo, che esplose non appena la voce gracchiante nell'interfono prese a dire che ci stavano lavorando, sarebbero ripartiti presto. Sbatté le palpebre più volte, Lev, come se si stesse risvegliando da un sonno sudato e il resto entrò nel loro piccolo mondo. «Ehm» l'istinto di staccarsi da lei tornò a galla d'abitudine e Lev lasciò la presa sulla mano minuscola nella sua che probabilmente aveva stretto troppo e riportò le vertebre appiccicate alla parte, lì dove sarebbero dovute restare. La scansò quasi di getto come se fosse in qualche modo colpa sua. Prima l'attacco di panico, poi quello, si sentiva il corpo e il viso in fiamme e non era possibile nascondere l'imbarazzo. Si schiarì la voce, alzandosi insieme a lei mentre si passava rapidamente una mano sul viso nella speranza di catturare gli ultimi residui di fragilità, proseguendo poi a scompigliarsi i capelli appena sudati mentre vagava con lo sguardo cercando altri segni di movimento dell'ascensore. «È la prima volta che mi capita, io non...» si interruppe, mentendo spudoratamente. Sentiva la necessità di giustificare quella situazione, forse voleva scusarsi dell'essere stato così fragile. «non ci capivo più niente. » Era visibilmente a disagio, ma si rese conto che la mente era ancora molto più tranquilla di quando era entrato lì dentro, molto più silenziosa dei mesi precedenti. Azzardò uno sguardo a Elizabeth sperando di trovare una ragione per cui quella ragazza minuta fosse riuscita a fargli quell'effetto, la soluzione di quel problema matematico che gli era piombato nella vita tramite una scatola di latta. Era davvero sul punto di baciarla? Scosse piano la testa, non era in sé, ovviamente non l'avrebbe mai fatto. «Ovviamente non---ho una ragazza.» Si morse l'interno della guancia, pentendosi di come quella frase fosse uscita mentre infilava le mani dentro le tasche della giacca come se avesse paura di poter voler di nuovo afferrare quelle di Elizabeth. Si sentiva patetico. Tamburellò con il piede per terra, una parte di lui voleva andarsene e l'altra quasi sperava di non uscire più. Un minuto ancora di silenzio nella testa, pensò con un'intensità disperata chiudendo brevemente gli occhi. L'ascensore riprese a muoversi con un lieve scossone che gli irrigidì i muscoli. Sollevando le palpebre, abbassò le iridi verdastre su di lei, ogni traccia di pianto era scomparsa. «Può restare fra noi?» Accennò con il mento a qualcosa come se quello che era successo fosse fisico e ancora nell'aria intorno a loro. Si dimenticò di ringraziarla, preso com'era dall'ansia che qualcuno potesse sapere. Non sarebbe riuscito a sostenere che il mondo sapesse, tanto quanto non sarebbe riuscito a mantenere nella vita di fuori la pace trovata fra le mani di Elizabeth. Uno spiraglio sottile di luce prese a far breccia tra le porte metalliche: sarebbero presto stati liberi e avrebbero dovuti lasciare l'accaduta lì dentro, lasciarsi indietro, intrappolati nella scatola di latta.
     
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    Era stata proprio la sua Izzie a soffrire di attacchi di panico quando l'incidente era accaduto, anni e anni prima, ma lei che era ancora più piccola di quanto lo era la maggiore al tempo non ricordava bene e di certo non aveva potuto imparare nulla per come fare a contrastare quel qualcosa che le stava accadendo, così come accadeva in quel momento a Lev davanti ai suoi occhi. Non aveva mai sentito la sensazione di sprofondare nel suo stesso respiro, ma se avesse potuto descrivere quello che accadeva a Lev o era successo a Izzie, le sembrava di vedere e leggere quello stesso istante disperato di non sapere dove poter piazzare il suo impegno per aiutare lui davvero. E l'incertezza in quei momenti poteva occupare poco spazio, proprio come nell'abitacolo dell'ascensore Elizabeth poteva solo occupare il suo posto da passeggera senza prendere e pretendere lo spazio necessario a Lev per poter respirare.
    Lo sapeva bene cosa poteva fare per aiutare, lo aveva imparato anni dopo, per curiosità personale, e poi per i corsi appena iniziati e poi scansati di volontariato civile, e poi di nuovo anni dopo, quando aveva iniziato l'università e seguito il corso opzionale scelto per quella specifica branca. Il modus operandi suggeriva di avere qualcosa per facilitare e forzare la respirazione al soggetto in difficoltà, e ovviamente non aveva alcun sacchetto di carta con sé che potesse aiutarlo a riprendere il ritmo giusto della respirazione proprio in quel frangente. Se l'avesse avuto sarebbe stata più reattiva, e sarebbe corsa con le mani al sacchetto sulle labbra di Lev. Respira, uno, due, tre volte, riempi i polmoni e svuotali ritmicamente. Prendi lo spazio per riprendere il tuo, senza esitazioni, senza pensarci. Era stato il momento in cui si era detta che non poteva e doveva esitare che l'aveva colta in quello spazio pronta per poter raggiungerlo, come se avesse potuto impiegare in quel modo, il modo per aiutarlo a sopravvivere. L'aveva raggiunto con le ginocchia sul pavimento di lamiera dell'ascensore, e le pareti di metallo la guardavano mute, lo specchio di fronte a lei rimandava la sua immagine convinta di poter fare la differenza come poche volte aveva avuto la stessa decisione, nello sguardo dalle iridi celesti fermissime, limpide eppure mai trasparenti, lo sguardo opaco di Lilibet con cui guardava gli altri chiedendosi dove rincorressero i loro pensieri e come spendessero il proprio tempo.
    Aveva detto che non poteva, sue parole, ma lei l'aveva ignorato, non aveva neanche ben capito a cosa si stesse riferendo il giovane, Lev e non Oberon, dovette ripetersi, non una fantasia della sua mente ma una vera persona, fatta di carne e ossa e respiri mancati, che stava lì di fronte a lei e non chiedeva nessuna mano, non le chiedeva di occupare alcun posto se non di lasciarlo stare. Ma Lilibet era lì, e non avrebbe potuto far finta di niente, girarsi di spalle, e aspettare che la crisi scomparisse da sola, come non avrebbe potuto girare sui tacchi ed andare via, tanto che oramai era bloccata lì con lui, non poteva in ogni caso lasciarlo solo.
    Perciò non lo ascoltò, e agì imperterrita di testa sua. L'eco delle sue parole la raggiunse molto dopo, per cui si sarebbe vergognata nei giorni a venire, ma ancora erano lontane da arrivare in alcun modo. Aveva visto lo sguardo di Lev aggrottarsi e poi rilassarsi sulle loro mani, sulla stretta che aveva ricambiato ed esercitato dopo che lei lo aveva incoraggiato. Qualcosa aveva fortificato la loro presa, una sensazione di sentirsi al posto giusto al momento giusto, di non sentirsi inutile per lei, e non sentirsi solo per lui. Qualcosa aveva fatto funzionare di nuovo Lev e il suo respiro. Non parlò più Elizabeth. Respirarono insieme, lui e lei, in quel momento sospeso nell'ascensore bloccato, in perfetto stato di grazia che aveva reso possibile l'impossibile. Due sconosciuti che avevano scoperto di trovare un angolo condiviso in cui sentirsi improvvisamente funzionali. Anche lei se ne accorse, Lilibet lo comprese, che qualcosa aveva fatto funzionare lui e lei, e che lei pur sapendosi bene nella sua funzione, nel suo credo, nel suo modo di fare, mai si era saputa come allora riconoscere così.
    In quel momento veloce come un battito di ali di farfalla, che a Lil tanto piacevano assieme a tutti gli esserini dotati di antenne e zampette minuscole, così allora nel respirare piano piano, ginocchia contro ginocchia, e mani impellenti, si vide negli occhi di Oberon e si riconobbe proprio come Titania. Lilibet strinse forte i palmi delle mani di Lev e non si chiese neanche per un attimo cosa stesse facendo, era esattamente dove doveva essere. Gli occhi del giovane vicinissimi ai suoi riemersero ed incastrarono le pupille su di lei, si chiusero attorno alla sua immagine e nel farlo respirarono un'ultima volta, finché si sfiorarono naso contro naso e lì vi rimasero.
    Le porte metalliche dell'ascensore stridettero, lì dove si erano bloccate, il piano si mosse portandoli più sù, nella gravità che sembrava cambiare e riportarli diversamente. Una voce dall'interfono cominciò a comunicare che fosse tutto a posto, e che stava tutto tornando alla normalità. Gli occhi di entrambi fremettero di nuovo, rendendosi conto di essersi avvicinati troppo. Così lei come lui arrossirono violentemente, ma Elizabeth non notò nulla di strano in lui come invece si era sentita lei terribilmente a disagio quando aveva lasciato per primo lui la presa e la spinse via per recuperare lo spazio di cui si era appropriata. Si alzarono insieme, mentre l'ascensore sembrava tornare a muoversi per una velocità ancora molto lenta da essere consona eppure pian piano recuperò un rumore che sembrava meno sinistro e molto più vicino al normale.
    Si stropicciò le mani tra di loro portandosele attorno al maglioncino celeste, un gesto che le venne spontaneo come se si stesse abbracciando, ma era per non rimanere davvero con le mani in mano mentre pensava e inseguiva la soluzione di come risolvere quel nuovo improvviso, gigantesco problema. «Mi dispiace.» Si sentì dire, in difetto, come se dovesse scusarsi di qualcosa di serio, eppure non dovesse dirlo troppo forte. Aveva il viso in fiamme e lo sapeva, perché possedeva una velocità inaudita a cambiare colore, una sfumatura dopo un'altra, come il colore dei suoi capelli, per poi tornare con il viso e la pelle candida come la neve, macchiata di qualche chiazza qua e là del colore delle foglie già cadute dell'autunno. Ma lui non aveva ancora detto nulla.
    Fu dopo che arrivò la macchia, il senso di colpa di sentire una giustificazione che non le piacque. Lei aveva reagito come solo lei sapeva fare, a suo modo, violentemente, forzando l'unica soluzione che poteva essere possibile per aiutarlo. Eppure quella aveva l'impressione di non essere la prima volta in cui il giovane viveva un attacco di panico. Annuì, semplicemente, due volte con il capo, senza proferire parola. Sviò il suo sguardo, con le braccia sul petto, fece di tutto per non guardarlo e sperare che quel momento di inadeguatezza andasse via e volasse lontano, e la lasciasse sola ed integra come si sentiva fino a prima di entrare nell'ascensore. E poi tutto precipitò, in quel momento senza senso che si era verificato tra loro. Aveva una ragazza, aveva detto. E più o meno Lilibet lo sapeva, non era qualcosa di nuovo per lei, tutti avevano qualcuno, in un senso molto lato del termine, tutti prima o poi trovavano un qualcuno, che già esistesse nella vita di Lev non era un qualcosa di straordinario. In qualche modo doveva anche averlo saputo lei, dalle voci che le arrivavano distrattamente sui pettegolezzi dei ragazzi all'università. Ma quella frase detta così come se dovesse giustificare un momento di cedimento la ferì come uno schiaffo in viso a mano aperta, le cinque dita stampate sulla sua pelle delicatissima. Lo guardò a quel punto, con gli occhi fissi e fieri di chi si sente dire una scemenza. Lo desiderò fortemente, che rimpiangesse di aver detto quella frase come se dovesse giustificare lui e lei di qualcosa che non era mai successo. Eppure lo sapevano entrambi. Che non era successo nulla ed era successo tutto insieme. Non c'era altro modo per esprimersi a riguardo ed ammettere a parole quello che era impossibile descrivere con termini concreti.
    Lui non piangeva più, e gli occhi la guardavano come se la vedessero in una maniera diversa. Non c'era più nessuna poesia. Erano tornati alla festa, alla serata che dovevano continuare, a raggiungere le loro persone. Si guardarono. Lev parlò e lei stavolta gli rispose, forte di qualcosa che sentiva nella sua pelle, non voleva rimanere in silenzio prima che andasse via. «Nessuno saprà nulla.» E fu come una battuta di cattivo gusto che aveva usato per replicare a qualcosa di altrettanto meschino pronunciato da lui.
    Lo guardò andare via, scivolando dall'ascensore una volta che le porte si aprirono definitivamente al piano giusto. Lilibet seppe che non si era mai sentita come allora in tutto l'arco dei suoi venti anni e qualcosa che aveva vissuto.
    Uscì dal vano ascensore, andò dritta verso l'attaccapanni all'ingresso del piano, e senza pensarci due volte, cercò nella pila di indumenti lasciati lì la sua giacca di tweed, si incamminò veloce via dalla festa e dagli occhi indiscreti, a piedi, a passi lunghi sulle scale in corsa, verso casa.
    Dimenticò la sciarpa rossa dietro di sé, a rimaner da sola, nella sala della confraternita universitaria che non le apparteneva.
    Qualche volta le cose cambiano. Qualche volta le cose restano identiche, e qualche volta i cambiamenti portano via parti di te che nemmeno sapevi di avere mai avuto.
     
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