It is very simple: one sees well only with the heart

Raph & Willow

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    Confusione, era quello che regnava nella sua testa da due giorni a quella parte. Un nuovo frammento del suo passato gli era apparso come una visione e ora non riusciva più a toglierselo alla testa. Si era chiesto per diversi mesi che cosa lo avesse portato lontano da quella città e ora che la soluzione gli sembrava così lampante, faceva invece fatica a crederci. Era stato lui a decidere di andare via, convinto che fosse la scelta migliore per riparare a un danno di cui non ricordava assolutamente nulla. Era quello che aveva detto a Rem, l’uomo che aveva incontrato a una manifestazione e che per lui, ormai, non era altro che un estraneo. Curioso come gli unici due istanti che avesse ricordato avessero comunque come protagonista quella figura. Quanto era stato importante per lui in passato? Le sensazioni che aveva provato, durante quell’addio e che ora bruciavano ancora sulla pelle, come se fossero state fresche, erano quelle che avrebbe provato qualcuno se avesse dovuto salutare un caro amico, forse persino un fratello. E il fatto che Rem sembrasse ancora arrabbiato con lui, nonostante fossero passati diversi anni, non faceva che accrescere quel pensiero in lui. Che cosa aveva fatto di così grave e imperdonabile? Aveva per caso ucciso qualcuno? No, impossibile, non credeva che il lui più giovane sarebbe stato capace di una cosa simile. E poi c’era quella lei a cui aveva accennato, qualcuno a cui si era avvicinato forse per sbaglio e che doveva averlo portato sulla cattiva strada. Chi era quella donna? E che cosa aveva fatto?
    Sì sedette sul letto per un momento, le mani annegate all’interno dei capelli biondo cenere e la testa rivolta verso il pavimento. Un verso di stizza lasciò le sue labbra mentre si rimetteva in piedi, ancora una volta, iniziando a camminare avanti e indietro per la stanza. Che cosa gli sfuggiva ancora? Che cosa mancava? Sferrò un pugno contro il muro sbucciandosi appena le nocche della mano sinistra, ancora sofferente per l’ustione di pochi mesi prima, poi si fermò. Il dolore gli ricordò dell’operazione, di Willow e del frammento di ricordo che li vedeva insieme, molto più giovani, a parlare di Rem e dei Dogs. Forse lei sapeva qualcosa? Forse lei sapeva chi era la donna per cui aveva lasciato Besaid? La sua vecchia conoscenza con la collega della Divisione Governativa gli risultava ancora sfuocata e difficile da inquadrare. Erano amici? Compagni di scuola? Gli sarebbe piaciuto limitarsi a quel pensiero, eppure qualcosa gli suggeriva che, no, il loro rapporto non era così semplice e non si poteva etichettare con una sola parola. Aveva salutato anche lei prima di andare via? Le aveva detto addio o se ne era andato senza salutare e per questo lei non aveva cercato di ricordagli che un tempo si conoscevano? Altre domande si sommarono a quelle che già gli frullavano per la testa. Aveva pensato molto a quella donna negli ultimi mesi, prima che Rem focalizzasse tutta l’attenzione negli ultimi due giorni. Lei si era comportata come se non si conoscessero affatto, in un primo momento, eppure, analizzando quella giornata con mente più lucida e distaccata, dopo che il peggio era passato, poteva dire di aver notato atteggiamenti un po’ strani per un perfetto sconosciuto. Forse lei aveva semplicemente preferito evitare, accettando la sua scelta di andare via e tagliare i ponti con tutti. O forse era anche lei arrabbiata e delusa e semplicemente dimostrava in maniera differente i suoi sentimenti.
    Sbuffò, lasciando andare le braccia lungo i fianchi e cercando di trovare un po’ di pace in mezzo a tutta quella confusione. Guardò l’orologio che segnava le undici del mattino. Era il suo giorno libero, eppure avrebbe tanto desiderato di vedere squillare il suo telefono e di sentire qualcuno dei suoi colleghi richiamarlo a lavoro per un’emergenza. Il lavoro era sempre stato l’unica cosa in grado di distrarlo da tutto il resto, qualcosa in cui buttarsi a capofitto e a cui dedicare tutta la sua attenzione. Scrutò quindi il display, leggendovi soltanto un messaggio di qualche amico che gli mandava degli aggiornamenti sulla sua giornata, ma niente che richiedesse attenzione immediata. Sbuffò, buttandosi di nuovo sul letto, questa volta con tutta la schiena. Fissò il soffitto bianco per qualche momento, alla ricerca di un’intuizione. Non poteva continuare così. Tutti quei pensieri lo avrebbero fatto impazzire, se non avesse trovato un modo per venirne a capo. Aveva trascorso gli ultimi giorni a fare delle ricerche. Era stato in ospedale e aveva cercato il suo certificato di nascita, trovando che la data corrispondeva a quella della sua carta d’identità e individuando anche il nome dei suoi genitori. Aveva osservato le loro foto, senza che queste scatenassero alcunchè nella sua memoria. Non aveva trovato certificati di morte, segno che dovevano essere ancora vivi, anche se non avevano mai provato a cercarlo. Poi aveva cercato i dati di Willow. Anche lei era nata in quella cittadina e, con alcuni escamotages, aveva trovato anche la sua residenza. Se l’era segnata su un post-it che aveva inserito all’interno della sua agenda ed era rimasto a fissarlo per diversi momenti. Più volte era stato tentato di andare a cercarla e porle tutte quelle domande che avrebbe voluto farle il giorno della missione. Poi il foglietto era finito sul suo comodino e aveva cercato di dimenticarlo. Il giorno precedente, spinto dalla foga delle ultime notizie, aveva cercato anche dei documenti su Rem. Lui risultava deceduto, o forse disperso, non lo ricordava con chiarezza. Eppure lo aveva visto con i suoi occhi e sembrava vivo e vegeto. Com’era possibile? Che cosa era accaduto davvero in quegli anni? Oltretutto, lui, risultava sposato, con Sibylla, la collega della Divisione che non gli era mai andata troppo a genio. Forse lei sapeva che loro due avevano un legame e per questo mal lo sopportava?
    Con uno scatto si tirò su di nuovo dal letto, andando a recuperare il foglietto che conteneva l’indirizzo di Willow. Non sapeva neppure se fosse a casa sua, non aveva il suo numero e non avrebbe potuto darle un preavviso, ma sentiva che valeva la pena provare o sarebbe rimasto con quel tarlo ancora per chissà quanto tempo. Si vestì velocemente, indossando un paio di semplici pantaloni scuri e un maglioncino grigio e si diresse verso l’indirizzo indicato. Era un palazzo che si trovava in una zona piuttosto centrale, piuttosto gradevole alla vista dall’esterno. Si guardò attorno con aria un po’ preoccupata, incrociando gli sguardi di alcuni passanti. Qualcuno lo salutò con la mano, altri invece cercarono di allontanarsi il più velocemente possibile, forse spaventati dal suo cipiglio un po’ arrabbiato. Si avvicinò ai citofoni e premette il bottone corrispondente all’interno in cui doveva vivere Willow. Attese qualche istante prima che la voce della donna lo raggiungesse dall’altro lato. Per un momento rimase in silenzio, frastornato e confuso. Iniziava a pensare che non fosse la cosa giusta, ma oramai era lì e non poteva tirarsi indietro. -Ciao, sono Rapahel. - disse, attendendo qualche istante prima di proseguire. Aveva abbandonato i formalismi visto che oramai era sicuro che lei lo conoscesse e sapesse esattamente chi era. -Ho bisogno di parlarti. - aggiunse, velocemente, prima che lei potesse dire qualcosa o magari mostrare sorpresa per quell’incontro così strano. -Posso salire?
     
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    Erano stati due mesi tristi per Willow. Aveva passato tutto il tempo libero che aveva avuto a disposizione rimanendo per lo più a casa, leggendo, con una tazza di té o tisana tra le mani. Aveva guardato tutte le volte il vapore venir fuori dalle innumerevoli tazze che possedeva, e lì con lo sguardo perso nel vuoto si perdeva anche lei a pensare cosa le era rimasto di quel bagaglio di ricordi che aveva vissuto se non aveva ancora deciso cosa farsene. Era come se avesse una valigia, una valigia che aveva preparato con cura, sapientemente, tenendo conto di tutto quello che dovesse portare, del maglione in più per le serati fredde, la giacca a vento per proteggersi dalle intemperie, gli occhiali scuri per il sole accecante, o calzini di tutte le misure. E poi era lì con la valigia sulla porta indecisa se partire o rimanere e disfare tutto definitivamente, lasciare andare il passato una volta per tutte, o prendere la valigia e spalancare l'uscio per uscire da casa, pronta per intraprendere il viaggio. Dell'esistenza di Raphael, ma soprattutto, dell'impatto che aveva avuto sulla sua vita, lo sapevano in pochi. Aveva provato negli anni a raccontare a sua madre cosa ne era stato di lui, cosa aveva vissuto, ciò che aveva perso. Ma non era stata sincera con lei nel volerla affliggere con qualcosa di troppo greve, Willow non ci riusciva, non con lei, che rappresentava da sempre tutto il suo mondo, e verso cui nonostante conservasse un bellissimo rapporto sapeva di non potersi esporre tanto da dirle quanto davvero aveva sofferto. Anni dopo era stata Lexi a farle aprire il suo cuore. La ragazza era piombata nella sua vita e nel suo appartamento, diventando prima coinquilina e poi amica. Willow aveva scoperto di essere in grado di confidare cosa passava nella sua mente ad una persona, e di volere un bene smisurato a quella ragazza tanto simile a lei, proveniente da oltre mare. Una bella persona, dentro e fuori, che aveva saputo insinuarsi senza mai dar fastidio, condividere tutto quello che aveva attorno diventando perfettamente in grado di acclimatarsi alla vita di Willow e alle sue strambe abitudini. Era diventata una persona su cui faceva affidamento e che era diventata una parte di sé. Grazie a lei aveva compreso una cosa mai vissuta, cosa significasse avere un'anima gemella nel senso di spirito affine, una cosa che l'aveva perdutamente conquistata quando aveva letto "Anne of Green Gables" tanti anni prima, e che l'aveva lasciata vuota quando aveva capito e compreso cosa significasse avere una persona del genere nella vita. A Lexi finalmente aveva potuto dire cosa significava Raphael per lei e cosa aveva fatto lei per non dimenticarlo, e la sua storia era rimasta così ad aleggiare su di loro nella loro casa come una bella leggenda, una storia vissuta, forte da strappare il cuore dal petto. Lexi era rimasta colpita dalla sua storia, e aveva detto a Willow un giorno, pensandoci mentre preparava la macchina fotografica per il lavoro. «Però è molto meglio aver amato e perso che non aver amato affatto.» E Willow aveva pensato che fosse proprio vero, ma era comunque molto triste di questo.
    Perciò, rivedere Raphael aveva suscitato emozioni complesse. Strutturate, eppure banalissime, Raphael si era insinuato nella sua mente e la conversazione e l'avventura che avevano vissuto l'aveva fatta sognare e svegliare tutte le notti gridando il suo nome. Era convinta che avrebbe potuto superare tutto quello che avevano passato, invece era rimasta lì ferma ad aspettare per tutto quel tempo, e adesso che l'aveva ritrovato, non riusciva a far capire al suo corpo e alla sua psiche come ritrovare la calma, come riuscire a non impazzire.
    Quel giorno era uno di quei giorni passati sul divano, seduta a gambe incrociate, così tanto tempo da rimanere incantata tra le pagine del libro che leggeva, per un pò dimenticando qualsiasi cosa che non fosse la narrazione. Stava leggendo l'ultimo romanzo di Isabel Allende, "Violeta", che per quanto avesse una penna infallibile le risultava molto diversa dalla scrittrice del passato che aveva conosciuto ed amato quando aveva cominciato a leggerla nel suo capolavoro di esordio, "La casa degli spiriti". L'idea che le persone nel tempo potessero cambiare l'aveva sempre disturbata, e lei stessa che era sempre stata convinta che sarebbe potuta rimanere per sempre come immaginava si sbagliava, perché anche lei aveva compiuto qualche piccolo cambiamento in sé tale da sentirsi diversa, e sentire la differenza l'aveva fatta sentire immensamente in errore. Chiuse il libro con un tonfo - aveva comprato l'edizione con la copertina rigida ed era molto arrabbiata per questo, amava le edizioni con la copertina morbida che poteva portare in borsa sempre con sé, senza sentirsi disturbata o senza rovinare con gli spigoli del libro ogni borsetta che le serviva per andare in giro - e si rese conto che la giornata non avrebbe aspettato lei. Si alzò dal divano lasciando libro e tisana vicino a sé, sul tavolino in vetro e metallo che sostava sereno tra i due divanetti in tessuto, e scansò via la coperta. Quel giorno Lexi era già bella che uscita da casa, probabilmente a lavoro su qualcosa di importante. Lei non aveva appuntamenti particolari con la casa editrice e non doveva presenziare a nessun incontro, poteva rimanere a casa e mettersi al lavoro sulla traduzione del prossimo libro in imminente uscita nazionale. Si lavò e preparò frettolosamente, indossando non un completo per restare a casa, ma un jeans semplice e una maglietta bianca a mezze maniche, il caldo nel suo appartamento riscaldato e centralizzato era sempre stato anche troppo caldo per i suoi gusti, o forse era lei che era abituata al freddo da una vita e si copriva effettivamente in maniera intelligente a strati ogni volta che usciva da casa, uno strato per volta, indossando cardigan, giaccone e cappotto se davvero fosse necessario man mano che abbandonava gli edifici e si ritrovava fuori nello spazio aperto. Il tempo in quel mese regalava anche a loro un timido accenno verso la stagione calda, ma le temperature non erano comunque miti da andare in giro come se abitasse ai caraibi. Doveva fare una sola commissione e poi sarebbe stata pronta a riprendere il suo lavoro, si disse tra sé e sé, prendendo il portafoglio e la borsa di tessuto per comprare qualcosa di fresco per pranzare e cenare nella giornata. Doveva avere solo pazienza, si disse, e nonostante la sua tendenza serena non era particolarmente paziente sulle cose che le capitavano o che aspettava accadessero a lei, mai stata. La sua testa continuava a tornare lì, al loro incontro, alla loro conversazione, a quello che era successo, e lei non sapeva come smuoversi dall'impasse, l'unica cosa che aveva preso a fare era andare avanti come aveva sempre fatto, e forse in maniera più lenta e svogliata del solito.
    Il suono del citofono la riscosse dai suoi pensieri: Willow lasciò vicino al tavolo all'ingresso la borsa e il portafoglio, e aprì il citofono per un gesto istintivo e sbagliato, immaginando fosse sua madre che avesse deciso di passare da lei, magari risparmiandole la commissione al mercato per comprare qualcosa per sé. Ma la voce dell'uomo che conosceva bene e infestava i suoi pensieri giorno e notte la riscosse e le fece mancare un paio di battiti. Prese aria Willow, un respiro profondissimo e tremendamente sbagliato, respirando dalla bocca a pieni polmoni e sentendo dolere qualcosa nel petto. Come l'aveva trovata? Willow ci arrivò subito a quel pensiero, in una considerazione lucida, strana per la sensazione che sentiva: non aveva ancora comprato quella casa quando Raphael era ancora a Besaid. Perciò tutto poteva significare meno che ricordasse qualcosa del suo passato. Eppure, il fatto che la stesse cercando, poteva significare che stesse ricordando? Si riscosse, sentendosi in dovere di rispondergli. Certo che doveva farlo salire. «Ciao, certo, ehmm sali pure. Sono al primo piano.» Si fermò, dopo aver lasciato andare il citofono ed aver tentennato con il terminale in mano, sentendosi mancare. Schizzò velocissima a guardare la casa, a guardarsi allo specchio all'ingresso. Non aveva programmato di truccarsi, aveva il suo faccino di sempre, e nel suo riflesso si vide diversa, eppure giovanissima, ricordando la se stessa di tanti anni prima che non aveva mai usato niente che la facesse sembrare insolita, preoccupata di vedersi come se fosse qualcun altra. Aprì la porta, sentendo i passi di Raphael che saliva le scale. Gli appartamenti in centro sembravano tutti palazzine uniche, ma alcuni di questi avevano un complesso di un paio di appartamenti, piano terra e primo piano, e lei aveva preso di quell'edificio quello al piano superiore, con una sola rampa di scale a separarla dall'esterno, e in quel momento da lui. Lo vide spuntare sulle scale, con i capelli biondi scarmigliati che aveva amato, e lasciò andare la sua figura per qualche attimo, per paura, prima di tornare agli occhi azzurri che ricordava. Non sapeva cosa dire. «Raphael. Ciao.» Disse, telegrafica, proruppendo in un passo affrettato per fargli spazio come se gli avesse detto prego. Si fece piccola piccola sulla porta per farlo passare, e nell'ingresso minuscolo che in quel momento le sembrò perfino angusto sentì l'odore che era sempre stato di Raphael, come se non fosse mai cambiato. Si spostò dalla porta e la richiuse dietro di loro. «...Non aspettavo visite, scusa.» Non sapeva se scusarsi per lo stato dell'appartamento o per lei che non era preparata alla sua visita, letto non molto tra le righe. In realtà l'appartamento era pulito, aveva solo qualcosa lasciata a caso in giro, come la tazza della sua tisana sul tavolino e la coperta sul divano, un maglione ripiegato che aveva stirato lei qualche ora prima e poi abbandonato sul bracciolo dell'altro divano, e quattro libri posti alla rinfusa sopra il tavolo principale della sala. Era lei che si sentiva inadeguata. Quella era la prima volta che Raphael entrava nella sua casa, e in quel momento registravano entrambi quel ricordo nella memoria, forse entrambi consci di cosa significava, non ignari spettatori di quell'istante. «Vuoi accomodarti?» Non sapeva fare gli onori di casa, non era abituata a ricevere molti ospiti. Aveva conosciuto affascinanti amici di Lexi, o persone che lavoravano nel suo mondo, ed era rimasta coscienziosamente al suo posto, era stata Lexi a destreggiarsi tra loro e a rompere il ghiaccio nella conversazione. Una volta che erano tutti seduti e sistemati anche lei poteva parlare tranquilla, ma in quel momento vederlo in piedi nell'ingresso della sala la rendeva inquieta. Per quanto fosse stato lui a dirle che doveva parlare, quello che tormentava lei in quel momento era la consapevolezza che fosse lei che dovesse dire qualcosa, che dovesse addirittura dirgli quello che non gli aveva detto. «Cosa vuoi... dirmi?» O meglio, cosa dovrei dirti, voleva chiedergli, sapendo che non poteva darle una risposta, che era tutto quello che si chiedeva da quando era rimasta sola a Besaid, cosa avrebbe dovuto fare se si fossero rincontrati? Perché nessuno aveva saputo dirle cosa sarebbe stato meglio per il corso della storia, e lei di certo non aveva mai parlato dell'argomento ponendo la possibilità che sarebbe tornato. Ma lei in cuor suo l'aveva sempre saputo. Perciò, in quel momento, la vera domanda che le aleggiava in mente era solo quella che poneva a se stessa: aveva sbagliato tutto, vero?

    Edited by wanderer. - 9/11/2022, 15:39
     
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    Rapahel voltò lo sguardo in direzione delle sue mani che, muovendosi in maniera irrequieta, indicavano l'agitazione del momento. Si era sempre considerato un uomo d'azione, sebbene la via del poliziotto o del militare puro e semplice non lo avesse mai ispirato. Aveva trovato il suo modo di fare la sua parte e di mantenersi sempre in movimento anche con il suo lavoro di medico, sempre pronto ad agire più che a pensare. Eppure, in quel momento, con tutti quei pensieri che si accavallavano nella sua mente divenendo dubbi, si sentiva incredibilmente statico, come se fosse bloccato in qualcosa da cui era impossibile uscire fuori da solo. Si era sentito così in quelle ultime ore, quando nuovi piccoli tasselli avevano iniziato a riempire un puzzle molto più grande e ricco di aree completamente bianche che non gli permettevano di avere un’idea del quadro completo. All'inizio era stato semplice vivere in città, riscoprire ogni angolo senza il peso dei ricordi o delle persone che conosceva, era andato avanti senza pensare, convinto che forse il passato non avrebbe mai bussato alla sua porta, ma si era dovuto ricredere. L'incontro quasi casuale con Rem aveva acceso in lui sensazioni e sprazzi di memoria che gli avevano dato una nuova vita, una spinta che lo aveva mandato in avanti, ormai incapace di mettere tutto da parte e tornare indietro. Perché a quanto pare c'era stato un motivo preciso che lo aveva spinto a lasciare la città, qualcosa che aveva voluto assolutamente dimenticare, rimuovere consapevolmente dalla sua mente per "tornare a essere quello di prima". Le parole che aveva detto a un vecchio amico di una vita passata lo avevano costretto a fermarsi e riflettere. Che cosa era accaduto? Che persona doveva tornare a essere? Chi era quella lei che non si era messa in mezzo scombinando tutte le carte, tanto da convincerlo ad abbandonare tutto?
    Era curioso anche il fatto che il lui del passato fosse convinto che, prima o poi, sarebbe tornato in quella cittadina e che qualcuno lo avrebbe aiutato a rimettere insieme i pezzi. Evidentemente Rem non doveva essere la persona adatta e la rabbia per il suo addio era ancora così bruciante per lui da spingerlo quasi ad aggredirlo. Non poteva quindi tornare da lui, doveva trovare un altro modo, o meglio, un'altra persona. Era molto probabile che non avesse affidato tutti i suoi ricordi a una sola persona e che ci fossero degli altri quaderni sparsi per la città, altre persone che sarebbero state più disposte ad aiutarlo. Il pensiero era quindi volato subito a Willow e a quel frammento di passato che aveva condiviso con lei. Era chiaro che si fossero conosciuti in passato, che ci fosse una certa intesa tra di loro, sebbene lei non avesse accennato a nulla di simile, fingendo di non averlo mai incontrato prima. Forse anche lei come Rem era arrabbiata? Conosceva la ragazza che lo aveva convinto ad andarsene? Era accaduto qualcosa tra di loro che l’aveva convinta a cancellarlo dalla sua vita come lui aveva fatto con lei? Forse avrebbe dovuto pensarci meglio prima di prendere la decisione di presentarsi a casa sua senza nessun preavviso, ma la razionalità non era mai stata il suo forte, non quando si trattava di questioni personali. Così, con un post-it tra le mani e l’aria di chi era appena sopravvissuto a un uragano, aveva suonato al citofono della sua abitazione, sperando di trovarla lì. Suonò velocemente, senza badare alla testa che ora iniziava a dirgli che quella era una pessima idea, che agendo d’istinto probabilmente non avrebbe ottenuto nulla, se non spaventare la donna che lo aveva aiutato in una missione complicata. Ma ormai il danno era fatto e la voce allegra di Willow lo aveva raggiunto dall’altro capo del citofono.
    Si presentò e sentì la voce di lei tentennare, probabilmente spaventata dal pensiero che lui l’avesse trovata senza che lei gli avesse dato indicazioni. Per un istante iniziò a pensare a qualche sciocca scusa plausibile da rifilarle mentre iniziava a salire le poche scale che lo separavano dal primo piano. Avrebbe potuto dirle che l’aveva mandato la Divisione, che gli avevano fornito loro l’indirizzo e che presto avrebbero dovuto collaborare a qualcosa di nuovo e molto importante, ma lei non se la sarebbe bevuta. Aveva l’aria troppo intelligente per poter credere che la Divisione mandasse i suoi agenti così, senza preavviso, senza convocarli nella giusta maniera. No, il pensiero di mentire scemò velocemente. Era lì per un motivo personale, per farle delle domande, era molto meglio essere sinceri e sperare che lei fosse disposta ad aiutarlo. Il pensiero però di trovarsi su un campo minato e di dover agire con estrema attenzione non lo aveva abbandonato. Le rivolse quindi un’espressione seria e un po’ dura mentre nella sua mente gli sembrava di essere tornato in guerra, davanti a un nemico che non sapeva come affrontare e che non sapeva che vittime avrebbe potuto mietere. Deglutì, chiudendo gli occhi per un momento e cercando di ricacciare indietro il soldato e di riportare a galla il civile. A volte gli capitava ancora di soffrire del disturbo post traumatico che portava con sé flashback e reazioni spiacevoli. Avrebbe dovuto partecipare agli incontri con gli altri veterani più spesso e anche sentire di nuovo il suo psicologo, ma si raccontava sempre la scusa che il lavoro lo teneva troppo impegnato, che non aveva tempo per pensare a se stesso e a quelle cicatrici.
    Fu la voce di lei a riportarlo al presente. Era così distratto che non badò al tono della voce questa volta, la vide semplicemente arretrare di un passo per fargli spazi e invitarlo quindi ad entrare. -Ciao. - disse quindi, con la testa ancora altrove per qualche momento, cercando di sfoderare un sorriso che venne fuori molto più serio e incerto di quanto avrebbe desiderato. Non era bravo a nascondere quello che provava e neppure a fingere che tutto andasse bene quando non era affatto così. Si mosse verso l’interno, guardandosi leggermente attorno, senza tuttavia osservare nulla di preciso. Lei si scusò per l’accoglienza o forse per il fatto che non fosse tutto perfettamente dove doveva essere. Lui scosse appena il capo, continuando a guardare di lato, evitando lo sguardo di lei per qualche altro secondo. -Avrei dovuto chiamare, ma non avevo il tuo numero. - disse, senza pensarci troppo. Era uno strano modo di scusarsi di quella visita improvvisa e per niente calcolata che ora li vedeva fermi davanti all’ingresso, come due sconosciuti che non sanno da dove iniziare nello scambiarsi le prime parole. Rimase in silenzio quando le gli chiese se voleva accomodarsi. Si sentiva un ospite decisamente indesiderato che avrebbe fatto meglio a togliere il disturbo quanto prima e non voleva neppure rubarle troppo tempo. Chissà che piani aveva per quel giorno, chissà che cosa aveva interrotto. -No, forse è meglio di no. - disse quindi, muovendo un altro passo in avanti giusto per allontanarsi di qualche altro centimetro dall’ingresso, senza tuttavia spostarsi in una stanza diversa. -Non voglio disturbare più del dovuto. - aggiunse, voltandosi solo allora nella sua direzione e guardandola dritta negli occhi per la prima volta da quando era arrivato. Aveva accuratamente evitato il suo sguardo, forse preoccupato al pensiero che altri ricordi potessero risvegliarsi, rendendo tutto ancora più difficile. Fu sollevato quindi quando nessuno strano flash gli invase la mente e fu solo la figura esile e preoccupata di Willow a occupare ogni suo pensiero. Era molto bella. Non ci avevo fatto caso nelle altre occasioni in cui si erano incrociati, o meglio, non con la dovuta attenzione. Indossava abiti semplici ma raffinati e la cura per i piccoli dettagli la rendeva ancora più affascinante vista da così vicino. Un piccolo ciuffo di capelli sfuggì agli altri quando mosse di nuovo il capo per rivolgergli la domanda successiva. Strinse un pugno lungo il fianco per evitare di allungare la mano per rimetterlo al suo posto, sfiorando appena la guancia di lei. Si sentì un idiota nel formulare un pensiero come quello e immaginare di farlo davvero. Che cosa c’era stato tra di loro? Perché quel genere di pensieri faceva capolino solo quando si trovava in sua presenza?
    Messo davanti al fatto compiuto, a un’affermazione fatta sul ciglio della strada, con ancora tutto il trasporto con cui era uscito di casa, fu costretto a restare ancora un momento in silenzio, indeciso su cosa dire. A casa gli era sembrato molto più semplice raggiungerla e farle tutte le domande del caso, ma ora che era lì non sapeva bene come cominciare. La guardò per un altro lungo istante, per poi prendere un veloce respiro. -Noi ci siamo già conosciuti, non è vero? - domandò, andando direttamente al punto della questione, dato che girarci attorno non avrebbe aiutato nessuno dei due. -Non dico a Oslo, prima di trovarci a Besaid. Intendo prima della Divisione, prima di trasferirmi altrove. - aggiunse e l’ultima parte della frase venne fuori con un tono di voce leggermente più basso perché quello era una degli elementi del puzzle che gli mancavano. Sapeva di essersi trasferito a Oslo in un preciso momento della sua vita, ma non sapeva perché. Ra difficile proseguire, dare una direzione al flusso di conoscenza che si muoveva veloce dentro la sua mente. -Ho avuto un breve ricordo di una te più giovane con un me altrettanto giovane. - spiegò, per evitare che lei potesse mentire e dirgli di non averlo conosciuto. Anche se, ora che ci pensava, poteva anche esserci un’altra spiegazione. Forse anche lei era andata via? Neppure lei ricordava? Quel pensiero gli sembrò molto plausibile e cercò di aggrapparsi a quello mentre andava avanti. Pensare di dovere delle scuse ad altre persone, oltre che a Rem, era difficile da sopportare e non credeva di essere nella condizione migliore per cercare di dire parole come quelle. -Ho avuto un altro breve ricordo ieri, a cui non so dare una spiegazione. - aggiunse, senza lasciarle troppo tempo per parlare, continuando a elaborare domande su domande che esprimeva una dopo l'altra ad alta voce. -Tu mi conoscevi bene? Sai perché sono andato via? - domandò allora, fermandosi solo in quel momento per lasciarle un po’ di spazio. Forse alcune premesse avrebbero aiutato entrambi, ma lui non era bravo con le parole. Leggeva molto, gli piaceva perdersi nelle parole di altre persone, in particolare quanto queste raccontavano grandi avventure, ma quando toccava a lui dire o scrivere qualcosa tutto diveniva molto più difficile. La guardò di nuovo, lasciando andare l’agitazione e la rabbia che aveva provato fino a quel momento, abbassando le difese giusto per un istante, il tempo di guardarle dritta negli occhi. Aiutami, avrebbe voluto chiederle, se soltanto non fosse stato così orgoglioso. Invece rimase a guardarla, senza aggiungere altro, preoccupato di quello che lei avrebbe potuto dirgli.
     
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    Ce ne erano due di lei in quel momento. Willow si sentiva sdoppiata in un'immagine particolare, la lei del passato e la lei del presente che si allontanavano inesorabilmente dietro ad un velo, una scissione che non poteva essere più ricongiunta, ricomposta assieme. C'era stata una parte di lei che aveva pensato, voluto, sognato il ritorno di Raphael per implorarlo di tornare a come erano stati in passato. E c'era stata una parte di lei quando lui era tornato nella sua vita che aveva pensato, proprio come diceva la sua Lexi, come le aveva ripetuto qualche giorno prima, che era stato meglio aver amato e perso che non aver amato affatto. Sarebbe stato tanto meglio che le cose fossero andate come dovevano andare, e le linee del loro destino si fossero allontanate come due rette parallele destinate a non incontrarsi più, e i ricordi vissuti li avrebbe conservati lei sola, così come il percorso tra loro sembrava aver sancito oramai nella definizione di quel momento. Lui aveva già deciso per lei in passato, quello che era stato scritto sarebbe stato indissolubile. Non era colpa sua se le cose erano andate a terminare proprio quando dovevano iniziare. Una nuova vita, una vita assieme, una casa, un lavoro stabile, un figlio, e poi chissà... tutti i pensieri che aveva provato a formulare Willow erano finiti, e lei adesso non sentiva più la volontà di fare proprio nulla se non di continuare a vivere nella sua bolla, navigando a vista, continuando a rimanere nella sua piccola vita circoscritta di cose semplici, senza manie di grandezza particolari. Le avventure e le emozioni che aveva portato Raphael tornando, non solo con l'imposizione della sua presenza, ma anche a seguito di quello che era successo tra loro al B6D l'aveva scossa facendole provare cose assopite da tantissimo tempo, per dir la verità, dieci lunghi anni, in cui aveva vissuto di piccole emozioni che voleva che restassero con lei senza farla, di nuovo, soffrire.
    L'aveva guardata, serissimo, e aveva cercato di guardare dovunque senza trovare un appiglio su dove posare lo sguardo irrequieto, lei lo sapeva perché oramai lo conosceva come le sue tasche, e quel comportamento le ricordava moltissimo il Raphael ragazzo che aveva scoperto nella sua giovinezza, l'impazienza che aveva conosciuto tanto tempo prima. Lei era sempre stata così diversa da lui, nella sua pazienza misurata e nei suoi piccoli gesti scaramantici, nelle ripetizioni di cui si circondava, gli appigli saldi di un mondo calmo che doveva girare serenamente.
    «No, è vero, non hai il mio numero.» Mormorò, per cercare di capire cosa dirgli e per provare a rassicurarlo, riuscendo ovviamente malissimo ad esprimere quello che potesse dire con quelle parole, quale fosse il loro vero significato. Per un momento si guardarono negli occhi, lui parve proprio cercare di vederla, Willow si sentì come se Raphael stesse provando a capire qualcosa che non comprendeva. Non si era mai chiesta se fosse stata lei a perdere i ricordi con che tipo di sensazione avrebbe cercato di guardare Raphael quando l'avesse rincontrato, e quale pensiero la sua mente avrebbe realizzato a quel punto. Chissà come funzionava la mente di Raphael allora.
    Non disse nulla quando il ragazzo cominciò ad avanzare l'ipotesi che sarebbe stato di disturbo, facendo intendere che sarebbe andato via di lì a poco, giusto il tempo di chiederle qualcosa e poi andar via. Non poteva dire niente se non annuire allora, visto che aveva fatto gli onori di casa e non avevano portato a molto. E poi ecco che il tutto cambiò, e dovette stringersi le mani dietro la schiena, mentre con la sua domanda e la sua affermazione riuscì a farla sentire piccola, minuscola, indifesa e inerme.
    Willow si sentì infinitamente triste. Non era così che aveva pensato che avrebbero potuto affrontare quel discorso. Non era così che se lo era mai immaginato, ma era così che effettivamente prima o poi sarebbero stati portati a viverla. Sarebbe stata solo questione di tempo.
    Fu così che guardandolo con sguardo greve, annuì. Annuì e basta, guardandolo con gli occhi gonfi della consapevolezza di un terrore terribile, quello che lui non avrebbe però mai potuto comprendere. La sensazione di poter essere rifiutata nuovamente, come era già successo in passato, la accolse e la avvolse come una vecchia amica da cui si sa non si ha molto modo poi di scappare sapendo che non si vuole davvero andar via, come se nonostante tutte le brutture accadute si abbia sempre spazio per trovare conforto in lei, superando divergenze vissute. Ricadere nei vecchi comportamenti per non trovare scampo nella follia, abbandonandosi a qualcosa di conosciuto.
    «Aspetta qui.» Disse. E basta. Era molto difficile per lei affrontare quella conversazione, perciò sapeva che aveva bisogno di tutta la calma necessaria per capire come mettere ordine nei pensieri e scegliere con cura le frasi da rivolgergli. Lei era la maga dei racconti, la paroliera per eccellenza, eppure doveva capire come fare per tradurre in parole tutti i pensieri e le sensazioni che provava. Le parole di Raphael confermavano ciò che aspettava da tempo, e tutte le idee e le informazioni che aveva scoperto sulle particolarità di Besaid e sul fatto che tutti loro potevano tornare a ricordare frammenti dei propri pensieri se posti nelle situazioni più assurde, di fronte ad impatti emotivi particolarmente forti. Cosa gli era successo tale da fargli ricordare qualcosa di più su di loro, o su di lui, del passato perduto? Non poteva pretendere che lui glielo raccontasse a quel punto. Perciò aspettò che finisse di parlare, di rivolgere le sue domande, prima di cominciare a spiegarsi lei, la sua versione.
    Mosse due passi verso il corridoio, in direzione della sua camera, poi sembrò ripensarci, e lo guardò, sentendosi infinitamente triste. Indicò nuovamente, a quel punto, il divano e il tavolo che aveva indicato proprio prima, per invitarlo stavolta a sedersi davvero, per cercare di raccontare con ordine. «Abbiamo molto di cui parlare. Siediti.» Sussurrò, dolcemente, eppure non ammettendo una replica diversa. Non ebbe nemmeno paura che rigettasse verso di lei rabbia, un insulto, un'imprecazione trattenuta a malapena, perché sentiva che a quel punto le linee si erano intersecate, le stelle allineate. Non avevano modo di correre in un'altra direzione adesso che si erano scontrati, e poi in fondo al suo cuore sapeva che se si fossero incontrati e lui glielo avesse chiesto, non gli avrebbe mai potuto mentire spudoratamente, negando tutto quello che avevano vissuto.
    Si allontanò da lui, lasciando andare il suo sguardo, la sua figura, e cominciò a camminare verso la propria stanza, tornando indietro con la mente, verso il tempo che avevano vissuto. Andò nella sua camera, che delle tre stanze da letto del suo appartamento restava in realtà la più piccola, ma quella che aveva il letto più grande, perché aveva voluto mantenere per sé la rete e il materasso più grande per passarci le ore che poi spendeva a leggere libri, seduta tutta storta, avvolta in coperte caldissime. Aprì il cassetto del comodino sulla destra, quello che dava accanto alla finestra, dove conservava l'edizione del diario più recente che aggiornava tutti i giorni prima di andare a dormire, assieme al libro che le aveva lasciato Raphael quando si erano salutati per l'ultima volta. Quando tornò da lui lo trovò seduto sulla sedia, appoggiato al tavolo della sala, con lo sguardo preoccupato, da cui cercò di sviare subito, per poi ritornare con gli occhi su di lui e rispondergli pensando attentamente a cosa dovesse dire. «La risposta al perché sei andato via è contenuta in questa lettera.» Gli disse, porgendogli il libro che aveva tra le mani con la lettera all'interno, quella che lui aveva scritto tanto tempo addietro. Per quanto avesse cercato di custodirla gelosamente, il tempo passato e le volte che aveva aperto e richiuso le pieghe del foglio avevano spiegazzato e ingiallito l'aspetto della carta rispetto a quello che aveva avuto tempo prima. Si sedette alla sedia di fronte alla sua, sul tavolo ovale della casa che amava, le mani su di esso, le unghia corte della sua mano sulla superficie del legno sembravano fragili e delicate, pronte ad incrinarsi. «Io e te ci conoscevamo molto bene, Raph.» Sussurrò, guardando la superficie del tavolo, le mani aperte a concentrarsi sulla sensazione che provava a toccarlo, nulla di più. Doveva a se stessa, molto più che a Raphael, di poter raccontare la verità su quanto era accaduto con dignità e compostezza. Lo aveva chiamato Raph, a lei piaceva il diminutivo, all'uomo non era mai piaciuto, però al tempo le permetteva di utilizzarlo. Proprio perché era lei.
    «Le ultime parole che mi hai detto sono state queste: non ci vedremo più.» Mormorò ancora, cominciando a spiegargli. Gli occhi scorsero sulla copertina del libro, il Piccolo principe, che lui aveva dato a lei, e dall'interno cominciarono a fare capolino, man mano che andava a sfogliare le pagine e sondarne il contenuto, i disegni che Raph aveva fatto di lei, e le foto che avevano scattato insieme di loro due più giovani nelle loro piccole straordinarie avventure di tutti i giorni. «Hai deciso di partire per quello che è successo, e io, per quanto ci abbia provato, non sono riuscita a fermarti.» Si lasciò scappare, mentre lui prendeva in mano la lettera ed elaborava le sue parole. Ricordava a memoria il contenuto di quella lettera, e il pensiero di averla letta tante volte in passato per darsi pace e dirsi che andava bene così, perché era stata solo una seccatura per lui, l'aveva fatta nauseare tantissime volte. L'incidente che era successo alla Reservoir infestava ancora molti dei suoi incubi, d'altronde.
    Una foto sbucò fuori dai ritagli che erano contenuti tra le pagine del libro, mentre Raphael li esaminava, e lei scorse il profilo dell'immagine dei ragazzi con il suo dito, una lacrima velocissima fece capolino dal suo occhio sinistro, bagnando la porzione di foto. Si affrettò a tamponare l'occhio con le dita, e asciugò con la manica la foto del viso di Raphael sbarbato con gli occhi vispi che si faceva una foto a testa in giù, con lei accanto stesa in obliquo sul prato fiorito del parco di Besaid. «Hai deciso tu per entrambi.» Disse, sicura del fatto che lui stesse scorrendo freneticamente la lettera alla ricerca del perché, della spiegazione dell'incidente, recuperando nella sua memoria attuale dei ricordi che non avrebbe potuto mai più riavere indietro.
    Aveva detto al tempo che doveva svegliarsi da un sogno, e che per farlo doveva lasciarla indietro. Lei non aveva mai avuto alcuna voce in capitolo.
     
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    Era piombato a casa sua senza alcun preavviso. Aveva lasciato che l’istinto, la voglia di sapere se il suo sesto aveva ragione, lo guidassero, senza dare retta alla testa che cercava invece di fargli capire quanto quella fosse una pessima idea. Che diritto aveva di andare lì e chiederle aiuto? Non erano amici, non erano quasi neppure colleghi viste le poche volte in cui gli era capitato di incontrarsi al Dipartimento. Erano due sconosciuti che avevano condiviso del tempo insieme, diversi anni prima, e che ora sembravano non avere più nulla in comune. Eppure, il fatto che lei lo avesse conosciuto in quell’altra vita e che sapesse chi era, era bastato per convincerlo che cercarla e porle qualche domanda l’avrebbe aiutato a stare meglio, a chiarirsi le idee. Il pensiero che la verità sarebbe stata più difficile da sopportare del vuoto non lo sfiorò neppure per un momento. Agire, muoversi, stare sempre in prima linea, erano quelli i verbi che lo avevano sempre mosso da che lui ricordasse. Stare fermo ad aspettare non era da lui, lasciare che il mondo decidesse per lui senza opporsi ancora meno. Era da troppi mesi ormai che quei dubbi lo tenevano sveglio e che gli facevano perdere lucidità. Era giunto il momento di dare una svolta radicale alla sua vita a Besaid, e quello era il giorno giusto, se lo sentiva, voleva convincersi che fosse così.
    Lo sguardo sfuggente di Willow instaurò un leggero dubbio in lui, un piccolo tarlo che iniziò a battere contro le sue certezze, anche se lui finse di non notarlo. Si rendeva conto di averla colta di sorpresa, di aver stravolto la routine che lei aveva programmato per quel giorno, ma ora che era arrivato lì non voleva accettare di fermarsi e rinunciare. La prima cosa che disse fu confermare che lui non possedeva il suo numero. Sollevò appena le sopracciglia Rapahel, confuso, ma rimase in silenzio, ancora fermo nelle sue idee. Era già stato troppo brusco nel piombare lì, era meglio tenere almeno a freno la lingua, i gesti e le espressioni. Quindi, facendo appello a tutto ciò che gli avevano insegnato nell'esercito, prese un profondo respiro, buttando fuori tutti i dubbi e lasciando solo un'espressione ferma. Avrebbe avuto l'occasione di recuperare il suo numero quel giorno? Sarebbero riusciti a instaurare di nuovo parte del loro legame di amicizia? O troppo tempo e troppe cose erano passate sotto quel ponte ormai? Non aveva intenzione di trattenersi a lungo però, aveva programmato di farle giusto qualche domanda e poi andare via, tenendo per qualche altro giorno la possibilità di conoscersi di nuovo e magari trascorrere di nuovo del tempo insieme. Continuò a parlare, iniziando a esprimere i suoi dubbi e lo sguardo di lei cambiò ancora, facendosi più serio mentre annuiva e lo invitava ad aspettarla lì, in soggiorno.
    La osservò muoversi appena verso il corridoio prima di fermarsi e guardarlo di nuovo, indicandogli il divano e invitandolo a sedersi, facendogli presagire che quella che li aspettava era una lunga conversazione. La vide quindi sparire verso il corridoio. Guardò il divano per un momento, ma non accolse la sua richiesta. Rimase invece immobile nel punto in cui lei lo aveva lasciato. Si guardò attorno, notando i piccoli dettagli, le foto, il modo in cui aveva arredato quella stanza e cercando in tutte quelle cose qualcosa che suonasse familiare. Era davvero possibile perdere la propria intera vita solo per una scelta? Mosse alcuni passi, impaziente. Il pensiero di stare seduto ad attendere lo avrebbe fatto impazzire, per quello era rimasto in piedi. Gli sembrava così di mantenere il controllo. La libertà di muoversi e cercare un punto sicuro lo faceva stare meglio. Si sforzò di non pensare al suo sguardo serio, di non aspettarsi nulla. Non voleva immaginare scenari possibili, né positivi, né negativi. La verità sarebbe arrivata presto, doveva solo attendere qualche minuto. Guardò verso il corridoio ancora vuoto e sospirò. Perché ci stava mettendo così tanto? Ma soprattutto, che cosa stava cercando? Non potevano parlare e basta? Era solo un modo per prendere tempo? L’attesa lo faceva impazzire. Mosse qualche altro passo poi finalmente si arrese. Prese una delle sedie di legno più vicine al tavolo e si sedette. Forse la cosa migliore che poteva fare in quel momento era darle ascolto, lasciare che fosse lei a guidare la conversazione.
    Willow tornò con in mano un libro che gli porse invitandolo a cercare e leggere la lettera al suo interno. Lo prese, rigirandoselo tra le mani e osservandone il titolo con aria incuriosita mentre lei si sedeva di fronte a lui. Era un libro che aveva letto tante volte e che gli era sempre piaciuto molto, curioso quindi che lei avesse messo quella lettera proprio al suo interno. Si conoscevano bene un tempo, o almeno questa fu la premessa che lei fece mentre lui apriva il libro e iniziava a scorrerne le pagine in cerca della lettera. Alcuni disegni si sfilarono dal libro, accompagnati da foto di due ragazzini che riconobbe come le versioni più giovani di loro che aveva visto nei suoi flashback. Sfilò la lettera, parzialmente ingiallita dal tempo e un po’ stropicciata, chissà quante volte lei doveva averla letta. Spiegò la pagina senza dire neanche una parola, iniziando a leggere con aria vorace mentre lei continuava a parlare e gli spiegava che era stato molto chiaro prima di andare via nel dirle che non si sarebbero più rivisti. Quelle parole gli arrivarono come un primo pugno nello stomaco, ma lo incassò continuando a mantenere il silenzio. Quanto bene si erano conosciuti? Forse solo quella lettera avrebbe potuto spiegarglielo ormai. Riconobbe la sua calligrafia veloce e un po’ disordinata, il modo in cui scriveva le lettere leggermente inclinate verso destra. Si concentrò sulle parole, cercando di trovare un senso a quelle scuse e a tutti quei discorsi, spalancando gli occhi quando arrivò all’ultima parte della lettera, a quella dichiarazione d’amore accompagnata da un addio. Solo quando poggiò la lettera sul tavolo lei riprese a parlare, rivelando ciò che ormai aveva capito anche da solo. Si erano conosciuti un tempo, si conoscevano bene, così bene da aver provato qualcosa di profondo e doloroso. Non la guardò negli occhi, preferendo evitare il suo sguardo serio. Continuò a fissare quell’ultima parte della pagina, mentre le parole di Willow scandivano il tempo intorno a loro. Lui non sapeva cosa dire. Tra tutte le cose che si era aspettato di sentire in quei giorni, quella non era stata neppure nella sua lista. Se solo lo avesse immaginato si sarebbe tenuto ben lontano da lei e invece eccolo lì, dalla persona più sbagliata di tutte, a chiederle di aiutarlo anche se lei avrebbe avuto tutte le ragioni per rifiutare dato che, con tono quasi accusatorio, gli aveva detto che era stato lui a decidere di partire e che lei non aveva potuto fare nulla per fermarlo e farlo tornare sui suoi passi.
    Serrò la mascella, non sapendo bene cosa dire. Ancora una volta la sua determinazione nel voler sempre agire lo aveva fatto finire in un pasticcio. Come aveva fatto a non capirlo? A mettersi quanto meno il dubbio che le cose fossero andate in quel modo? Willow prese tra le mani una foto mentre lui si ostinava a fissare la lettera in silenzio, come se questo bastasse a farlo sparire. Avrebbe voluto fuggire lontano, mettere quanta più distanza possibile tra di loro, rimandare il momento delle spiegazioni e delle scuse. Ma non era più un bambino e non poteva sempre fuggire dai problemi. -Beh, spero che tu mi abbia dimenticato in fretta. - disse, troppo velocemente per poter formulare un pensiero opportuno. Come ho fatto io, avrebbe aggiunto, se solo non si fosse morse la lingua in tempo. Il solo suono di quelle parole gli fece comprendere di aver appena detto qualcosa di sbagliato, di non aver iniziato nel migliore dei modi, ancora una volta. Anche quello era sempre stato tipico di lui, ma forse questo Willow già lo sapeva. Sospirò, lasciando andare la lettera e decidendosi a guardarla in volto, scorgendo l’ombra di una lacrima che gli fece capire che, forse, lei non lo aveva mai dimenticato davvero. -Mi dispiace di averti ferita. - disse, con voce calma e sincera. Era davvero dispiaciuto. Non poteva dire di conoscere la donna che aveva davanti ma per quel poco che aveva visto sembrava una persona gentile, una persona buona, che non meritava certo quello che doveva aver passato. -Vorrei poterti dare delle spiegazioni, ma non le ho. - continuò, con un sospiro. Più andava avanti e più si rendeva conto di quanto fosse stato stupido a non pensarci e piombare lì, senza neppure chiedere il permesso. Un lato di lui sperava che ci fosse qualcun altro nella sua vita adesso, qualcuno che la rendesse felice, un altro invece, quello che ancora si ripeteva nella testa quelle parole e rivedeva il suo volto solcato da quella lacrima, si diceva che non poteva essere così. -Non sarei dovuto venire. Ma purtroppo raramente penso prima di agire. - disse, inarcando appena le labbra in un’espressione a metà tra il nervoso e il dispiaciuto. Iniziava a rendersi conto della posizione scomoda in cui l’aveva messa e non sapeva come uscirne. Voleva che andasse via? No, probabilmente no, o lo avrebbe cacciato prima ancora di farlo entrare e non gli avrebbe chiesto di sedersi. Ma allora perché era ancora lì? -C’è qualcosa che vuoi chiedermi? Qualcosa che vuoi dirmi? - continuò, senza sapere bene neppure lui che cosa dire. Avrebbe forse dovuto farle le sue scuse, ma avrebbe avuto senso pronunciare parole che non avevano alle spalle il giusto fondamento? Gli dispiaceva davvero di vederla così triste, ma non poteva dire di comprendere a pieno quella che era stata la sua scelta e di essere quindi in grado di giustificarsi. Voleva urlargli contro? Dirgli quanto lo detestasse? O forse voleva sapere che cosa gli fosse successo, che vita avesse vissuto lontano da lì e perché fosse tornato. Non provò ad anticipare le sue mosse, a metterle in bocca parole che ancora non aveva pronunciato. Aveva ragione, anni prima era stato lui a decidere per entrambi, ora era il caso che fosse invece lei a farlo.
     
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