What strangе claws are these, scratching at my skin

Rebecca x Elias

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. Eris`
        +2   +1   -1
     
    .

    User deleted


    But a woman is a changeling, always shifting shape
    Just when you think you have it figured out
    Something new begins to take
    What strangе claws are these, scratching at my skin
    I nеver knew my killer would be coming from within
    I am no mother, I am no bride, I am King


    Non c'era stato un singolo giorno in cui Rebecca non fosse stata assalita dai rimorsi e dai sensi di colpa di quel che era stato della sua vita, a partire dal suo pessimo comportamento, quel suo pessimo tempismo e poco tatto nel capire le cose (specie se si trattava di se stessa), sminuendole come se fossero situazioni da niente o che avrebbe potuto semplicemente affrontare da sola; e di tutti i silenzi che l'avevano attraversata mentre il suo animo gridava disperatamente aiuto e lei tentava di soffocare la sua bambina interiore e comportarsi come credeva che si addicesse meglio all'adulta che era divenuta, quell'adulta che era stata costretta a crescere in fretta, a dimenticare le bambole, ad affrontare il diabete e cercare di essere e di emulare quell'adulto, quel riferimento che avrebbe voluto vedere nei suoi genitori.
    Dalla depressione nata in gravidanza e da quella post-partum, c'era stata una lieve ripresa, ma dal rapimento del suo bambino, lei non c'aveva visto più. Le erano crollati tutti i castelli di sabbia, e per quanto si forzasse a costruirne altri perfetti e identici come il primo, non raffiguravano mai bene quella prima opera che ai suoi occhi era la sua certezza, il picco massimo della sua inventiva; ma ogni volta il vento le portava via qualcosa, perché non si può permettere né tantomeno pretendere che qualcosa di instabile duri per sempre.
    Aveva odiato suo figlio e non l'aveva mai ammesso, ancora oggi faceva fatica ad accettare ciò che la depressione aveva violentemente usurpato: lì dove doveva esserci un giardino fiorito, c'era stato un terreno arido, inospitale e una figura losca che bruciava e distruggeva tutto ciò che veniva portato, tutto ciò che tentava di nascere dalle ceneri.
    Quel mostro le aveva corroso la mente, lo spirito e l'animo gentile per molto tempo. C'era stata una perpetua tempesta dentro di lei, una lotta da cui non aveva ancora deposto le armi e di cui stava affrontando la resa con il suo psicoterapeuta, che le insegnava ad andare avanti e ad accettare quello che era stato, a perdonarsi e a ricominciare.
    Lei che da sola aveva creduto di uscirne illesa e pulita, perché infondo quel sentimento nasceva da lei e chi mai poteva provare una cosa così orribile verso qualcosa che aveva desiderato con tutte le sue forze? lei si vergognava profondamente di aver provato tanto odio, tanta agonia e sofferenza. Si era sempre forzata a mostrarsi ottimista, perché era quello che era certo che tutti volessero da lei. Se l'avessero vista in quelle condizioni, l'avrebbero capita? Perché lei proprio non si capiva, più provava a risolvere quello che aveva dentro, più la sua testa generava caos, annullando i buoni propositi e covando sempre più quelle emozioni che la società etichettava come "tossiche".
    Si ruppe davvero qualcosa dentro di lei quando suo figlio venne rapito, un giorno al parco, mentre doveva essere sotto sua vigile custodia. Quell'equilibrio che si era forzata a mantenere, d'improvviso era sparito. Non riusciva a credere come la sua mente avesse potuto mostrarle una realtà inesistente. Lei credeva di averlo guardato, di averlo tenuto d'occhio...dove si erano posati davvero i suoi occhi? Possibile che la sua realtà si fosse distorta realmente?
    La realtà, ecco.
    La verità è che quella situazione aveva mietuto più innocenti di quanto aveva creduto, la malattia l'aveva tratta in inganno, le aveva fatto pensare che avesse davvero potuto avere le capacità per uscirne salva e senza conseguenze; invece, la vita le aveva rovinato i sogni, l'aveva presa e l'aveva accartocciata, Rebecca era ripiegata su stessa, strisciava come un verme, sopravviveva e non viveva più. Lei non era più stata la stessa Rebecca dopo quell'episodio e si era forzata affinché le cose andassero peggio, fino alla sua "rinascita", o meglio dire il suo "risveglio".
    Lei, che era stata vittima dei suoi mali che faceva sempre più fatica ad accettare, come fossero parassiti, ed una seconda pelle che avrebbe volutamente strappato se solo fosse stata più impavida e l'avesse realmente condotta alla soluzione delle sue agonie; al divorzio alla droga; riversando attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, odio verso se stessa. Lei che aveva finalmente accettato aiuto, che aveva capito quanto realmente si fosse aggrappata alla vita per tutto questo tempo. C'era voluto il calore della sua famiglia e l'assenza di un'altra persona che era caduta nella solitudine, in uno stato di abbandono che l'aveva forse ucciso più di quanto non avesse fatto la droga.
    Non aspettava un futuro poi così brillante a coloro che abbracciavano questa via. Aveva dovuto mettersi nei panni di altri, rendersi irriconoscibile e sfiorare per davvero la morte per comprendere quanto non volesse realmente quella fine. Quanto nessuno si meritasse di vivere in quel modo.
    In quegli anni di assenza, aveva fatto molti cambiamenti. Non tanto estetici, anche se pochi mesi prima si era tagliata i capelli, ma il suo spirito aveva subito una vera e propria evoluzione, uno stravolgimento più che necessario. Ora emanava una luce nuova, lo si percepiva dal modo in cui si esprimeva, o dal modo in cui muoveva i suoi occhi. Il suo sguardo emanava le sue emozioni ed era come se parlasse per lei. Era come se non avesse mai vissuto tutta quella sofferenza...si sentivano delle forti vibrazioni in sua presenza, ed era di nuovo un piacere averla accanto.
    In più adesso c'era Sally, il suo cane di supporto emotivo, addestrato anche a fornire aiuto nel caso in cui Rebecca si fosse sentita male. Era un golden retriever energico, dolce e socievole. Le aveva fatto tornare la voglia di normalità e di piccole cose. E quel giorno se l'era portata con sé. A dire il vero, non andava da nessuna parte senza di lei. Se quel cane le fosse morto, si sarebbe sentita di nuovo persa. Le dava un amore, un affetto che non credeva fossero così indispensabili. Aveva imparato grazie al suo supporto dei lati di sé che non conosceva affatto e che ora imparava a gestire e ad accettare.
    Era un lungo percorso, sapeva di avere ancora tanta strada da fare, ma lei era pronta a guarire e soprattutto a vivere. Le erano mancate così tante cose in quegli anni...ed ora finalmente aveva la forza e la prontezza per parlare ad Elias e al loro bambino.
    Era in tuta, aveva camminato per poco più di mezz'ora per raggiungere la loro vecchia casa. Le piaceva fare jogging, ci si era abituata ed ora le sembrava un'attività indispensabile. Il suo cane era senza guinzaglio, ma non si perdeva un suo passo. Camminava in sincronia con Rebecca e la teneva d'occhio ogni secondo. Probabilmente, sentiva che nonostante tutto, Rebecca fosse un po' nervosa. E andava bene così. Era normale esserlo. Ed era quello che si era detta lungo il percorso.
    Citofonò. Non fu un gesto immediato, le tremavano gambe e mani. Come in passato, le veniva quell'irrefrenabile voglia di scappare, ma lei doveva affrontare i suoi demoni e il suo passato. Vivevano nella stessa città, prima o poi si sarebbero di nuovo rivisti. Glielo doveva.
    E lo doveva anche a sé stessa.
    «Elias...sono Reb...so che hai mille motivi per chiudere questo citofono, ma ti prego. Ti scongiuro. Dobbiamo parlare. IO ti devo parlare.»
    Aveva la voce flebile, tanti nodi alla gola e il battito irregolare. Si chinò a terra, poggiando il corpo al muro, accarezzò il cane e attese una risposta o la sua comparsa. Aveva passato i giorni a scrivere cosa dire e a ripetere a memoria quel discorso che nella sua testa suonava bene, ma aveva paura che l'emozione avrebbe giocato un brutto scherzo e che alla fine non sarebbe riuscita ad esprimersi come avrebbe voluto.
    Essere lì dopo tanto tempo le faceva rivivere momenti belli, ma anche quelli assai brutti. Non riuscì a trattenere delle lacrime, a mostrare la sua vulnerabilità.
    Sarebbe stato troppo pretendere che quel "rientro" provvisorio, non le avrebbe fatto rivivere emozioni così forti...
     
    .
  2.     +1   +1   -1
     
    .
    Avatar

    ♎︎

    Group
    Cittadini
    Posts
    10,247
    Reputation
    +1,808
    Location
    woods.

    Status
    Anonymes!
    «Ti prometto che se fai il bravo domani andiamo a cenare da Mae e Mumù.» disse a Ben, rimboccandogli le coperte. «Ma solo se fai il bravo, altrimenti a letto senza cena!» Elias non si sarebbe mai sognato di fare una cosa del genere: il suo tono di voce, fintamente profondo ed autoritario, era di per sé abbastanza eloquente. Il bambino infatti non riuscì a prenderlo sul serio: conosceva così bene suo padre da sapere che tipo di persona fosse e di cosa realmente non fosse capace. Rise, annuendo: «Giuro!» ma non c'era davvero bisogno di giurare. Elias, allo stesso modo, conosceva suo figlio meglio di qualunque altra persona al mondo e sapeva che i capricci per lui non fossero che un'utopia. Trovava quasi assurdo quanto forte si fosse dimostrato sino a quel momento: era solo un bambino, eppure era riuscito a sostenere il peso della malattia come se si trattasse di un nonnulla. Se non fosse stato così, probabilmente lui stesso sarebbe stato il primo a cedere, privandolo del sostegno che meritava di avere. «Buonanotte, Ben.» gli disse con un sorriso dolce ed una carezza sulla testa. «'notte, papà.» rispose a sua volta, rigirandosi appena nelle coperte. Elias si allontanò, lasciando la porta della sua stanza socchiusa, come faceva sempre: voleva poter sentire la sua voce qualora avesse avuto bisogno di qualcosa durante la notte. Era raro accadesse ormai, le medicine lo aiutavano a star meglio e stava conducendo una vita relativamente normale, a dispetto di tutto, ma c'erano stati periodi davvero neri ed ormai non poteva far a meno di agire in quel modo. Si diresse in cucina, dove c'erano ancora tutti i piatti della cena: quella sera avevano guardato un cartone animato insieme, uno dei preferiti di Ben, Aladdin. Tra i suggeriti di Disney Plus era apparso "Come d'Incanto", dato che di lì a poco sarebbe uscito il tanto agognato sequel: il bambino non l'aveva mai visto ed Elias, dalla sua, aveva sempre cercato di dissuaderlo dal farlo. I soggetti erano un padre ed una figlia, una piccola famiglia come la loro, senza una madre o una moglie. Sarebbe stato un po' troppo doloroso per entrambi vedere un lieto fine che nella loro quotidianità non c'era.
    Col passare degli anni, Elias aveva iniziato a pensare ad una nuova compagna, ma non si era mai impegnato per trovarne una: probabilmente era troppo concentrato sulla sua vita e sui suoi problemi per permettere a qualcun altro di farne parte. C'era stato 'qualcosa' con Liv, la sorella di Lars, ma si era rivelato un nulla di fatto. Per quanto lei potesse avergli fatto presente che dalla sua, con ogni probabilità, c'era qualcosa di più di una semplice amicizia, Elias non si era sentito di poter ricambiare a pieno quel sentimento. Per lui era meglio che le cose rimanessero com'erano, tranquille, stabili. Non poteva portare altra confusione nella loro vita, ce n'era fin troppa e sarebbe stato un gesto di mero egoismo nei confronti di tutti, diretti e indiretti interessati. Qualche altra donna c'era stata, ma non erano mai andati oltre un caffé o una cena: la sua era una vita complicata, quasi monastica alla fin fine. C'erano hobby che amava coltivare, ma non essendo la priorità poteva accantonarli da un momento all'altro. Probabilmente, si disse, se ci fosse stato qualcun altro a reggere il peso di tutto quello che era accaduto insieme a lui, le cose sarebbero state diverse.
    Infilò piatti, bicchieri e posate all'interno della lavastoviglie, lavò a mano le pentole e poi si avviò verso la veranda, dove, molto tempo prima, lui e Rebecca avevano messo un tavolino con delle sedie: l'idea era stata passare tempo all'aria fresca, con un eventuale figlio (nemmeno in programma all'epoca) ed un cane. Ben stava spesso lì, ma non troppo, soprattutto nella stagione fredda: era pericoloso per lui prender freddo, avrebbe rischiato di sviluppare sintomi più severi rispetto agli altri bambini. Quella veranda era dunque diventata il suo piccolo rifiugio: si ritagliava qualche minuto per sé, sul tardi, quando nessuna chiamata poteva disturbarlo, e si fumava una sigaretta. Talvolta provava a leggere, altre volte se ne stava semplicemente lì, col vento gelido che gli faceva accapponare la pelle e la condensa che si univa al fumo scuro della sua American Espirit. Phil, il suo meticcio, gli teneva spesso compagnia: appariva sull'uscio, inclinava un po' la testa e lo guardava, senza emettere un suono. Dopo qualche minuto, gli si avvicinava, poggiava la testa sulle sue gambe e si appisolava lì, sotto le dolci carezze di uno dei suoi due esseri umani preferiti: l'altro, nemmeno a dirlo, era Ben. Era curioso come quell'animale percepisse le emozioni e gli stati d'animo: sapeva sempre quanta pressione fare, quanto giocare, quanto esser paziente, quanta attenzione chiedere e soprattutto quanta darne. Quella sera, come tutte le altre, fece capolino in veranda, ma se ne rimase lì per un tempo più lungo, senza avvicinarsi: «Che c'è, Phil?» chiese Elias, poggiando la sigaretta sul posacenere ad abbassandosi appena, facendo cenno all'animale di venire più vicino. Niente, nessun cenno da parte sua, non un singolo movimento. «Phil...» insisté, protendendo la mano. Ma ancora niente. Era strano, come mai quel comportamento? Che non si sentisse bene?
    Prima ancora di alzarsi in piedi per controllare, il citofono di casa sua suonò: era tardi per le visite e soprattutto lui non ne aspettava. Tirò fuori il cellulare, controllando se magari era squillato e non l'aveav sentito perché in silenzioso, ma non c'erano chiamate perse. Si alzò in piedi, dando un'ulteriore carezza al suo cane e passando per la camera di Ben: dormiva come un sasso, il citofono non l'aveva disturbato, per fortuna.
    «Chi è?» chiese. Si aspettava un'emergenza, un amico, un vicino di casa: qualunque cosa, ma non di udire la voce che ormai non sentiva più da troppi anni. Capì di chi si trattasse sin dalla prima sillaba, da quel "Elias" che era stato detto un numero incalcolabile di volte nel corso degli anni passati insieme. Perché era venuta? Perché voleva vederlo? Perché ora? Un turbine di emozioni lo stava attraversando e non accennava a calmarsi, anzi, diventava sempre più agitato parola dopo parola. Una parte di lui, come lei stessa gli aveva detto, desiderava solo riaggianciare e fingere che lei non fosse lì. Il cuore gli batteva all'impazzata, in un misto fra rabbia e desiderio di risposte: da lei, in tutti quegli anni, non ne aveva mai avute. Era stato così tanto arrabbiato, così tanto ferito da quel suo modo di agire... Non gli era mai importato del loro amore, non in quel momento, gli era importato solo di suo figlio, del loro figlio, che sembrava avere ormai un solo genitore visto il comportamento da lei assunto. Senza rispondere, Elias premette il tasto per aprire il cancelletto elettronico di fronte la loro abitazione: un tacito sì, che le dava il permesso di entrare. Andò ancora una volta a controllare che Ben dormisse e poi, delicatamente, chiuse la porta della sua stanza. Se c'era una cosa che voleva, era non permettergli di esser ferito ancora, e vedere sua madre avrebbe significato proprio questo in quel momento. Quanto tempo era che non aveva sue notizie? Quanti compleanni aveva passato da solo, chiedendo di lei come qualunque altro bambino? Doveva proteggerlo, qualunque cosa Rebecca volesse da lui.
    Andò verso la porta d'ingresso, seguito da Phil, che probabilmente si era comportato in modo strano a causa di odori o chissà di quali altri sentori che solo lui poteva percepire: Hai predetto un bell'evento, complimenti. pensò, guardandolo col cuore in gola. Elias, d'altro canto, per quanto si sforzasse di pensare solo ed esclusivamente a suo figlio, non era pronto a rivederla. Si era sforzato di andare avanti, di far combaciare tutti i pezzi della loro vita: in tanti avevano giocato un ruolo in quello ed in tanti l'avevano aiutato. Eppure eccolo lì, quasi a tremare come un ragazzino di fronte alla sua ex moglie, che nemmeno gli si era - ancora - palesata dinanzi.
    Aprì la porta senza aspettare che suonasse: trovandosela dinanzi, coi capelli scuri, come li aveva ai tempi della scuola, Elias sentì davvero un tonfo al cuore. Non c'era la Rebecca che aveva lasciato, quella dallo sguardo vacuo, la pelle spenta e l'espressione priva di sentimenti, davanti a lui. Quella donna era una Rebecca molto diversa, ben più simile a quella di cui si era innamorato, tanto tempo prima. «Andiamo a parlare in veranda.» disse soltanto, senza chiederle nulla, senza lasciar trasparire - o almeno non volontariamente - quanto l'aveva percorso in quel momento. C'erano tante domande nei suoi occhi, tante emozioni che non potvano esser celate e che probabilmente lei, che l'aveva sempre capito da una sola occhiata, aveva colto. Phil guardò il cane di lei un po' stranito, studiandolo ma senza allontanarsi da Elias, che si era incamminato verso la veranda a passo delicato, per non fare rumore. Si chiusero la porta alle spalle e prim'ancora di prender posto su una delle sue sedie, le mani di lui si allungarono a raggiungere il pacchetto di sigarette, afferrandone una e portandosela frettolosamente alla bocca per accenderla. Ci aveva messo tempo, quand'era più piccolo, ad abbandonare quel vizio, ma era stato così facile riprenderlo nei momenti di stress che oramai non poteva nemmeno più pensare di privarsene: era il suo guilty pleasure, ne aveva bisogno, come dell'aria.
    Si sedette, facendo cenno a Rebecca di fare lo stesso mentre i reciproci cani continuavano a scrutarsi, senza emettere un suono: entrambi, a quanto pareva, avevano ricevuto un'ottima educazione. Non poteva aspettarsi altro da lei, dopotutto. «Di cosa vuoi parlare?» le chiese, con un tono piatto, privo di tutte le emozioni che stava invece provando: era così lui, più si sentiva attraversato da qualcosa, meno voleva darlo a vedere. Suo figlio, ormai, per quanto piccolo, aveva compreso quel tratto del padre e stava cercando, in un modo tenero ed innocente come solo un bambino poteva fare, di aiutarlo, di distrarlo, di farlo ridere. Nella sua mente, suo padre era un eroe, come Batman, e lui era il suo piccolo aiutante: il suo compito era farlo star bene. «Ben sta dormendo e non voglio che possa esser sconvolto ulteriormente da questa tua apparizione, per cui per il momento lo terrei fuori dalla conversazione, se sei d'accordo.» In realtà che lo fosse o meno non aveva molta importanza: su quel bambino, per sua scelta, non aveva più alcun potere. L'aveva lasciato alle cure inesperte di un uomo che stava imparando a fare il genitore e che si era trovato a fronteggiare qualcosa di molto più grande di lui: non soltanto una malattia, quanto il senso di colpa per esser stato parte integrante di quell'orribile sviluppo. Aveva pregato sua sorella di cancellargli i ricordi, di farlo tornare il bambino che era sempre stato, e cosa ne aveva avuto indietro? Per anni aveva incolpato Maeve, quando in fondo la colpa, la vera colpa, era stata solo e soltanto sua. Se Rebecca fosse stata con lui, se l'avesse fatto ragionare, forse le cose sarebbero andate diversamente. Al tempo c'era stata, fisicamente almeno, ma la Rebecca che conosceva, quella che somigliava tanto alla donna che sedeva di fronte a lui in quel momento, la sua Rebecca, di lei non c'era stata più traccia per molto tempo. Almeno, fino a quella sera.
     
    .
  3. Eris`
        +2   +1   -1
     
    .

    User deleted


    Nel rispetto di tutti i lettori si avvisa che da questo punto in poi sono presenti tematiche di: [eventi/momenti storici drammatici e traumatici (depressione e malattia)]
    Ricordiamo che si tratta di un'opera immaginaria, frutto della fantasia di chi scrive e che non mira a danneggiare nessuno nello specifico.
    Le azioni descritte non sono ad ogni modo condonate e sono diretta responsabilità creativa di chi ha realizzato tali contenuti.


    Sentì il suono del cancello aprirsi, non una singola parola arrivò dal citofono dove un attimo prima aveva pregato Elias di riceverla e parlare. Il battito del suo cuore era già intenso, ma in quell'occasione aveva il sentore di essere andata in tachicardia, con frequenze che aumentavano ogni secondo di più.
    Tum Tum , era l'unico rumore che avvertiva in quel momento.
    La testa si fece sempre più pesante, ebbe l'impressione di avvertire una grande confusione. Era come se le sue emozioni si stessero tenendo per mano, formando un cerchio attorno alla sua persona, erano figure incolore, ma ognuno di loro emetteva un forte brusio, lei li guardava con confusione e non poteva capire, ma voleva solo chiedere loro di tacere e di parlare uno alla volta.
    Cosa c'è tristezza? E tu rabbia, cosa vuoi dirmi?
    Fece dei respiri profondi, il suo maestro di meditazione le aveva insegnato a riportare i battiti alla normalità, oltre un modo efficace per riassestare i pensieri: era un gesto estremamente semplice e che il più delle volte funzionava e alleggeriva il suo animo, la nuova Rebecca sarebbe perduta senza certe pratiche. Chiuse gli occhi e si focalizzò dunque su quelle tecniche, ritrovandosi a visualizzare le sue paure nella sé bambina, che nascondeva il volto tra le gambe chiuse, mentre sedeva in un fitto buio e singhiozzava.
    Ti prometto che farò il possibile, piccola Rebecca, per sistemare tutto.
    Era quella la promessa che si era fatta, lo doveva al suo io interiore, a quel figlio che aveva rigettato, al suo ex marito e a tutte le persone che le avevano voluto bene...ma in primis, lo doveva a se stessa, a quella bambina ferita e sola che si era persa lungo la strada della vita.
    Quella possibilità, quel momento era tutto ciò che aveva di recuperare se stessa e tutto ciò a cui più teneva.
    La pratica, non durò molto. Prese coscienza grazie a pensieri positivi che risanarono il suo equilibrio interiore.
    Quando ebbe finito, effettivamente poté tornare in uno stato di calma.
    E visto che nessuno uscì, alla fine aprì il cancello, probabilmente non era uscito perché la stava invitando ad entrare, ma non poteva neppure escludere che l'avesse aperta un'altra persona e quella possibilità la metteva in guardia: poteva trattarsi del loro bambino, di suo figlio! O persino di una nuova donna, ma escludeva i suoi genitori o quelli di lui.
    Lo trovò alla porta d'ingresso con il suo cane, poté tirare un sospiro di sollievo, fu come una liberazione sapere che ci fosse lui e non qualcun altro, se ci fosse stato solo suo figlio forse avrebbe provato un cocktail letale di emozioni.
    Comunque, aveva già provveduto ad asciugare le proprie lacrime, quelle che aveva versato dopo aver preso coraggio, corrotta dai pensieri negativi, che cercavano spesso di fare la loro comparsa nella sua testa.
    Vedere Elias lì, dopo tutto quel tempo...non poté nascondere un certo stupore. Ora portava i capelli corti, non erano più lunghi e sbarazzini come quando stavano insieme e sapeva che fosse un dettaglio alquanto superficiale quello su cui si era soffermata, ma era la prima cosa che le era saltata alla mente.
    A giudicare da come la stava guardando, Rebecca capì che si stesse chiedendo il motivo del suo ritorno e che come lei, stesse vivendo un turbinio di sentimenti. Erano passati troppi anni per quanto la riguardava, e si vergognava come una ladra per aver affrontato le cose in quel modo così assurdo.
    Inoltre gli sembrò di vedere d'innanzi a sé un'altra persona, e non solo per la nuova capigliatura...ma non ebbe il tempo per fare considerazioni profonde, annuì con il capo quando la invitò a parlare nella veranda.
    Prima che chiudesse la porta alle loro spalle, lo guardò negli occhi, cercando di cogliere qualcosa in più. Avrebbe voluto esordire già con qualcosa, ma rispettò il suo volere e nel tragitto verso la veranda, poté notare come alcune cose fossero rimaste immutate in quella casa.
    Ogni oggetto, anche quello più insulso, sembrava volesse sussurrarle all'orecchio qualcosa...rimandarla a quel passato che aveva abbandonato di getto. Alla vecchia Rebecca era sembrato che non avrebbe fatto ritorno, e invece, eccola lì, seduta di fronte a lui, mentre lui era intento ad accendersi una sigaretta e fumare. I loro due cani interagivano guardandosi con curiosità, ma nessuno di loro si avvicinava all'altro, ma una leggera annusatina c'era stata in quel piccolo istante in cui Reb ed Elias erano stati a loro volta tanto vicini, durante il suo ingresso in casa.
    Quando parlò di Ben, sentì un nodo in gola e deglutì con molta fatica mentre faceva si con il capo e lo guardava con gli occhi lucidi.
    «Sono d'accordo, non voglio coinvolgerlo in questi discorsi...» disse con un filo di voce, ma non specificò che non volesse coinvolgerlo in quei discorsi, ma nella sua vita, in futuro chissà...lo aveva fatto sicuramente apposta a parlare ben poco dell'argomento Ben, ma ne avrebbe parlato. La sua comparsa riguardava anche lui.
    «Io voglio parlare di un mucchio di cose, purtroppo però non sarà un argomento piacevole Elias»
    Un lato di sé si stava già maledicendo mentre perfidamente diceva: "eh certo, la tua comparsa non poteva mica essere un bene per quel poveraccio. Sei come l'uccello del malaugurio tu, doveva lasciarti fuori agonizzante."
    Si portò una mano sulla fronte e abbassò lo sguardo. Lo aveva avvisato, forse Elias iniziava ad aspettarsi il peggio dalla sua bocca, a temere davvero qualcosa che non potesse tollerare. Rebecca era pronta a tutto, aveva pensato alle tante reazioni che potesse avere. In qualunque modo fosse andata, lei non poteva controllare Elias. Ora stava tutto a entrambi vedere cosa ne sarebbe stato di loro dopo quella sua apparizione improvvisa.
    «Sono qui per dirti che mi dispiace per quello che vi ho fatto» alzò gli occhi verso di lui per studiare la sua espressione, mostrandosi terribilmente dispiaciuta, come già detto, i suoi occhi erano molto espressivi, specie nell'ultimo periodo. Fissò le sue mani con una certa inquietudine e consapevolezza «ma le scuse non renderebbero se prima non ti spiegassi.»
    Fece una pausa per riflettere sul come ponderare bene le parole.
    «Non so come dirtelo, ma non avrei mai voluto questo per noi e so che ho causato tutto io...ma non ero più in me Elias. Ho...ho...» portò le mani d'avanti agli occhi, per coprirsi, ma fu inutile, le sue lacrime toccarono i pantaloni e iniziarono a rigarle il viso. Si asciugò le lacrime con un gesto abbastanza freddo.
    «Ho passato l'inferno da quando ho desiderato nostro figlio» era riuscita a dire singhiozzando tra una parola e un'altra. Questa volta lo guardò, anche se aveva così dannatamente paura di affrontare il suo ex marito e quelle emozioni che per anni erano state il suo tormento, si fece coraggio e si mostrò vulnerabile di fronte a lui.
    «La mia malattia» quanto odiava nominarla, le sembrava di far vittimismo o peggio, che gli altri potessero additarla come una patetica auto commiseratrice, ma se conosceva Elias, se c'era ancora uno straccio dell'uomo che aveva amato...era sicuro che non lo avrebbe pensato. «La gravidanza, che doveva essere il momento più bello della mia vita, invece mi ha portato solo un mucchio consistente di problemi. Ogni singolo giorno, ho avuto paura di perdere Ben, di generare un figlio non sano o di non riuscire a portare avanti la gestazione a causa di un aborto...faceva un male cane, mentalmente e fisicamente, non c'era nulla che mi allietasse. E non ne parlavo perché non volevo sentirne di dover dare ragione a mia madre, ai medici e chiunque non abbia creduto in me dopo aver capito quanto fosse difficile per una persona come me, vivere serenamente uno dei momenti più attesi della vita come chiunque altro non porti addosso questa merda. Mi sono sentita egoista, volevo così tanto un figlio; eppure, conoscevo i rischi che implica la mia malattia. Speravo di cavarmela...mi dicevo che sarebbe andata bene ma le cose si complicavano, diventava sempre più difficile e insopportabile. Tu non c'eri quasi mai, ho pensato che con tutto quello che stavo vivendo, fosse meglio così, ma mi sbagliavo.»
    Aveva parlato con una certa fretta per non essere interrotta. Non c'era alcun segno di perfezione in quel suo discorso, anche se lo aveva immaginato tante volte nella sua testa, la rabbia e la tristezza prendevano il sopravvento e non poté sperare in alcun modo di poterlo tirare fuori senza sentirne il dolore.
    E andava bene, quanto ne aveva già provato nella sua vita? Quanto ne avrebbe dovuto provare ancora? TANTO. Non ci si preparava mai abbastanza d'innanzi alle difficoltà che ti lanciava la vita. No.
    Aveva capito che l'esistenza fosse un condimento di sapori: aspri, amari, zuccherini e così via. E okay cazzo, lei aveva il diabete e le cose dolci non le tollerava, ma non si aspettava che persino la sua realtà dovesse essere afflitta da questa misera condanna a morte con cui coesisteva da quando era nata.
    Non c'era mai tregua, perché poi le cose si accallavano tutte in una volta...sembrava che Dio giocasse con le persone già sfortunate. E lei non si era mai ritenuta tale prima che le accadesse tutto ciò.
    «Poi nacque Ben e io ero così felice...nell'attimo in cui lo presi in braccio per la prima volta, gli perdonai tutto, perché pensai che ce l'avevamo fatta, che niente potesse andare peggio ora che il mio bambino era vivo, sano e bellissimo. Lo guardavo e vedevo fieramente un pezzo perfetto di noi due. » sorrise persino nel rammentare quel ricordo, anche se era sofferto perché ciò che ne conseguiva poi non era più così lieto. C'era stato un momento nella sua vita in cui aveva amato Ben più di ogni altra cosa al mondo, un amore persino più grande di quello che aveva provato per Elias, suo marito.
    Aveva sempre fantasticato sulla nascita del figlio e si era sempre immaginata nel viziarlo moderatamente, nel crescerlo e vedere il suo amore ricambiato...aveva persino immaginato quei momenti in cui Ben si sarebbe sicuramente intrufolato nel loro letto per ricevere le coccole della madre e toglierle a quelle di suo padre.
    Momenti di cui lei e Elias avrebbero riso insieme...forse pensò che quel tipo di attenzioni l'avrebbero aiutata nei momenti in cui suo marito era assente da casa: aveva sempre accettato quella sua vita e non gli aveva mai messo freni. Condivideva le sue esigenze lavorative e quando tornava, ribadiva la sua presenza riempiendolo di affetto.

    «Poi, però, la depressione tornò e sfociò più forte di prima, ma io non me ne rendevo conto, ma sapevo una cosa: non mi sentivo una buona madre. Ricordo che lui piangeva e di come io cercavo in tutti i modi di farlo smettere, ma lui non si calmava. Lo vedevo tranquillo solamente tra le tue braccia, tra quelle dei miei genitori e dei tuoi...perché, mi chiedevo? Cos'ho fatto? Cos'ho che non va? Perché mi odia dopo tutto quello che abbiamo passato?» non era facile parlare di quella parte della sua vita, ma lo aveva avvisato che il discorso non sarebbe stato felice. Lei non era mai stata una persona brava ad esternare quel tipo di emozioni, aveva sempre cercato di tenersi dentro cose così grandi...non aveva mai voluto far preoccupare qualcuno, voleva sempre risolvere tutto da sola e spesso ci riusciva anche.
    « E allora cercavo di fare di meglio, andavo in apprensione per qualsiasi cosa, ti ricordi? ma ogni volta era sempre peggio, quel sentore aumentava ed io non potevo fare nulla per placarlo. Ero impotente d'innanzi a lui, come se mio figlio, la persona che avevo desiderato così tanto, mi odiasse, più di quanto odiavo me stessa nel pensarlo. Ed io non lo accettavo Elias, perché meritavo di sentirmi felice e non lo ero...non lo accettavo, pensavo che potessi lavorare su quell'aspetto e che quei pensieri se ne sarebbero andati con il tempo, come può una mamma pensare questo di suoi figlio? I miei ricordi hanno iniziato ad offuscarsi dopo ciò, avevo le allucinazioni e me ne resi conto tardi...io non ero più in grado di ascoltarlo, di comprendere i suoi bisogni. Non ero capace di niente e quando hanno preso Ben, credevo davvero di starlo guardando mentre giocava con degli altri bambini. Quando ho realizzato di aver perso di vista mio figlio...è precipitato tutto. Cosa diamine ho guardato? Perché ero così convinta di avercelo d'avanti quando invece non era così? E dopo quello che gli è successo, lui non era più felice ed io sapevo che era solamente colpa mia.»
    Prese una pausa di riflessione, ma non smise di guardare Elias. Era da un po' che aveva smesso di singhiozzare, ma una lacrima ogni tanto la versava comunque. Non era fredda nel fare quel discorso, tutt'altro.
    Le tremavano le gambe e Sally poteva avvertire quanto la padrona stesse male. Le leccava la mano e cerca in tutti i modi di distoglierla da quel dolore, di farsi guardare ma Rebecca non abbassò più lo sguardo, né verso la dolce cagnetta, né verso il vuoto.
    Doveva guardarlo mentre ponderava le parole, mentre gli raccontava come la sua vita fosse andata a rotoli e fosse completamente fuori controllo.
    «La sua malattia è stata la ciliegina sulla torta, Elias. Avrei dato qualunque cosa per ricevere il suo dolore. Non potevo sopportare che un bambino dovesse sopportare tutto ciò. Mi sentivo l'artefice del suo male...quindi sono scappata perché non riuscivo più a tollerare me stessa, il tuo sguardo o il suo.»
    Non aveva ancora finito di raccontarsi, di parlargli di ciò che l'aveva afflitta per così tanti anni.
    «Non so se ci sia davvero qualcosa che tu possa perdonarmi, ma se può valere qualcosa...sappi che non ho mai voluto farti del male. Io non ero in me.»
    Rebecca si sentiva piccola piccola, un disgustoso vermetto, forse quello sarebbe il modo più opportuno per indicare il tipo di vergogna che provava.

    Edited by Eris` - 18/12/2022, 23:36
     
    .
2 replies since 14/11/2022, 18:32   96 views
  Share  
.
Top
Top